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LA SOFFERENZA – COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?
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LA SOFFERENZA – COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?
L’obiezione di Ivan Karamazov, nel celebre romanzo di Dostoievski, resta per molti il più grande ostacolo alla fede in un Dio d’amore: ci si può fidare di Dio in un mondo dove dei bambini sono torturati? Se Dio è buono, come può permettere la sofferenza degli innocenti?
Testimone della ricerca spirituale dell’uomo lungo i secoli, la Bibbia stessa è alle prese con questa domanda. I salmi ci presentano lo smarrimento dei fedeli di fronte alla felicità dei malvagi e all’infelicità dei giusti: «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina… Ma io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. Perché, Signore, mi respingi, perché mi nascondi il tuo volto?» (Salmo 73,13-14; 88,14-15). Chiaramente, la vecchia spiegazione che fa della pena una conseguenza del peccato non funziona sempre, esistono innumerevoli casi in cui la sofferenza non è la conseguenza di un’esistenza lontana da Dio.
Nelle Scritture ebraiche, la figura di Giobbe è l’esempio tipico che suscita questo interrogativo. Uomo giusto e pio attraversa molte prove, ma rifiuta di abbandonare sia l’affermazione della sua innocenza sia la sua relazione con il Signore. Restando unito sino alla fine a questi due poli, Giobbe vede la sua lotta con il Signore sfociare in una nuova scoperta. Non si tratta di una spiegazione intellettuale, come di una giustificazione della sofferenza, cosa mostruosa che Dio non può mai dare, ma è piuttosto la rivelazione di un contesto dove tutto cambia di prospettiva. Giobbe comprende che il tentativo di gettare su Dio la responsabilità della sofferenza porta a un vicolo cieco, all’errore più grande. Scartata questa falsa pista, il campo è ormai libero per una comprensione più vera.
Infatti questa visione è presente sin dall’inizio della rivelazione biblica. Il primo innocente che incontriamo nelle pagine della Bibbia è Abele, ingiustamente ucciso da suo fratello Caino. A questo proposito l’autore della Genesi scrive delle parole stupefacenti: «Il Signore disse a Caino: Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,10). Nella Bibbia il sangue è la vita (vedi Levitico 17,11.14), e questa vita annientata dalla malvagità umana ritrova paradossalmente una voce. Lungi dall’essere soffocato dalla violenza degli uomini, il desiderio di vita che abita il cuore della vittima è liberato attraverso la sua innocenza ferita. Il suo grido giunge fino a Dio e provoca il suo intervento.
Questa stessa dinamica è presente nella storia della salvezza, nel racconto dell’Esodo. Quel che fa scendere Dio sulla terra non è qualche atto di prodezza o di dedizione da parte degli esseri umani, ma piuttosto il grido che nasce dalla loro oppressione. I lamenti degli schiavi mettono in moto un vasto processo di liberazione nel quale Dio si fa presente ( vedi Esodo 2,23-25).
Con i profeti d’Israele, si fa un ulteriore passo in avanti. Essi sperimentano fin nella loro carne che Dio, l’Innocente per eccellenza, è rifiutato da un popolo che si crede autosufficiente. Come Osea costretto a sopportare con pazienza il tradimento della sua amata, immagine della fedeltà di Dio con il suo popolo infedele. Come Geremia esposto all’esclusione e alla persecuzione, «uomo di litigio e di contrasto per tutto il paese», condannato a rimanere solo con una «piaga incurabile» (Geremia 15,10.17-18). Occorrerebbe del tempo per comprendere che quegli uomini ci danno, in effetti, un’idea del cuore stesso di Dio, quando soffrono per non essere ascoltati né capiti.
Se la vita dei profeti rivela che la sofferenza degli innocenti non solo spinge Dio all’azione per ristabilire la giustizia ma è anche il luogo privilegiato in cui gli esseri umani possono entrare nel suo mistero, una figura misteriosa che troviamo in Isaia 40-55 esprime questa verità molto chiaramente. Si tratta di un essere umano, descritto come l’ultimo degli ultimi, «oggetto di disprezzo», che ama e così prende su di sé tutta la malvagità degli altri trasformandola in sofferenza (vedi Isaia 53). Ed ecco che quest’uomo apparentemente respinto è effettivamente il Servo di Dio, cioè qualcuno che realizza sulla terra la volontà divina di salvezza. Se «al Signore è piaciuto prostrarlo con la sofferenza» (Isaia 53,10), è per esaltarlo davanti a tutti, affinché tutti vedano in lui l’attività di Dio stesso: Dio riconcilia a sé coloro che lo rifiutano, prendendo su di sé le conseguenze della loro infedeltà.
La vita di Gesù ci dice qualcosa di più?
Non è un caso che i primi cristiani si siano soffermati su questi capitoli d’Isaia, quando cercavano nelle Scritture delle luci per comprendere la sorte del loro maestro, Gesù. Le guarigioni che egli compie testimoniano già la sua volontà di prendere su di sé per amore le sofferenze degli altri (vedi Matteo 8,16.17). Però è soprattutto il suo modo d’affrontare una morte atroce che rompe il cerchio infernale del male. La condanna di un giusto che risponde con il perdono (vedi Luca 23,17.34) permette l’adempimento del disegno di Dio che è quello di rendere giuste le moltitudini (vedi Isaia 53,10-11). In altre parole, la sofferenza di un innocente vissuta fino in fondo dona a tutti gli esseri umani la leggerezza di un’innocenza ritrovata. Il sangue di Gesù è «più eloquente di quello di Abele» (Ebrei 12,24) perché suscita la venuta di Dio sulla terra come sorgente inesauribile di una nuova vita.
L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse di san Giovanni, presenta questo processo al capitolo 6, attraverso la sua visione sullo svolgimento della storia umana. Si tratta di un libro chiuso da sette sigilli. I primi quattro descrivono l’umanità abbandonata a se stessa, come una curva inesorabile che discende verso la morte. Con il quinto sigillo entriamo nel movimento inverso, l’attività salvatrice di Dio. E questa comincia giustamente con il grido delle «anime che furono immolate…» (Apocalisse 6,9-11), in cui bisogna vedere non solo i martiri cristiani, ma «tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue dell’innocente Abele» (Matteo 23,35; vedi Apocalisse 18,24). In Dio, il sangue degli innocenti diviene portatore di un dinamismo che contrasta gli effetti distruttori della violenza. La loro apparente sconfitta inaugura un movimento di liberazione che culmina nella croce di Cristo.
È ciò che è manifestato dall’apertura del sesto sigillo, dove si parla del «grande giorno dell’ira dell’Agnello» (Apocalisse 6,17). L’«ira di Dio» è la parola caratteristica utilizzata nella Bibbia per esprimere la sua risposta al peccato, risposta che tende a ristabilire la giustizia disprezzata. Qui, si riferisce all’atto con il quale Gesù prende su di sé tutto il male umano, subendone le conseguenze fino all’estremo, nel suo stesso corpo (vedi 1 Pietro 2,21-24).
Donando la sua vita fino in fondo, Gesù condivide la sorte di tutte le vittime innocenti e così assicura che la loro pena non è stata vana. Porta le loro sofferenze all’interno della propria relazione con colui che chiama Abbà, Padre, e poiché il Padre lo ascolta sempre (vedi Giovanni 11,42), noi abbiamo la certezza che questa sofferenza non va perduta. Essa conduce alla scomparsa dell’antico ordine mondiale segnato dall’ingiustizia, e all’apparizione «di nuovi cieli e di una nuova terra, dove la giustizia abiterà» (2 Pietro 3,13). Ecco la risposta definitiva, frutto di una vita vissuta, data a Ivan Karamazov e a Giobbe. Lungi dal tollerare anche solo per un istante la sofferenza degli innocenti, nel suo Figlio unigenito Dio beve con loro quel calice amarissimo e, così facendo, la trasforma in una coppa di benedizione per tutti.
Lettera da Taizé: 2003/6
PACE NELLA LETTERATURA CRISTIANA ANTICA.
http://www.rivistazetesis.it/Pace_file/Cristiana.htm
PACE NELLA LETTERATURA CRISTIANA ANTICA.
I testi della letteratura cristiana primitiva confermano e sviluppano ulteriormente questo insegnamento. Nei padri apostolici i Cristiani sono chiamati « figli dell’amore e della pace » (ep. Barn. 21, 9) e la pace è indicata come scopo della vita cristiana nella prima lettera che Clemente, terzo papa di Roma, indirizza alla Chiesa di Corinto (I Clem. 19, 2):
essendo dunque partecipi di numerosi fatti grandi e gloriosi, affrettiamoci allo scopo che ci è stato trasmesso fin dall’inizio, quello della pace, e volgiamo lo sguardo verso il Padre e Creatore di tutto quanto l’universo e abbracciamo i doni eccelsi e sovrabbondanti di Lui e i benefici della pace.
Lo stesso autore in altro passo ci dice che la pace è conseguenza dell’operare bene (II Clem. 10, 2). Anche la correzione fraterna, secondo quanto ammonisce la Didaché (15, 3), deve essere operata nella pace:
biasimatevi reciprocamente non con ira, ma in pace, come avete nel Vangelo
La distinzione fra la pace umana (cioè l’eirene nel senso greco-ellenistico) e la pace divina (cioè l’eirene nel senso biblico e soprattutto cristiano) è netta, e viene esplicitamente sottolineata per esempio nel seguente passo di Giovanni Crisostomo (hom. in Col. 8, 3, PG 62, 354)
Dio è pace, in quanto ci ha messi in pace … non la pace umana: infatti la pace umana discende dal difendersi, dal non subire niente di male: ma io non considero questa, bensì quella che lui stesso (Cristo) ci ha trasmesso.
Che la vera pace sia solo quella che viene da Dio è detto dallo stesso Crisostomo in altri passi (hom. 1, 1 in I Cor., PG 10, 5) e da numerosi altri autori: a questa pace dunque, e soltanto a questa, occorre tenere fissi gli occhi, come insegna Basilio (hom. in Ps. 28, PG 29, 305 A):
in alto infatti è la pace vera … cerca dunque la pace, rottura delle confusioni di questo mondo … per conquistare la pace di Dioxxx
Come diretta conseguenza di tutto ciò, una pace che sia tale solamente in apparenza, in quanto è in realtà il semplice non emergere all’esterno di contraddizioni latenti, non è più un valore: e questo vale anche per la pace all’interno della Chiesa: così si esprime Gregorio di Nazianzo (or. 6, 20, PG 35, 748 B):
Nessuno pensi che io dica che qualunque pace deve essere amata: so infatti che come un certo tipo di dissenso è ottimo, così vi è anche una concordia dannosissima
Una concordia apparente dunque, che non consente all’errore di manifestarsi in tutta la sua portata, non può essere definita pace. La pace come virtù umana è in stretta correlazione con altre virtù, come la giustizia, che viene definita sorella di essa da Severiano di Gabala nel seguente passo (hom. de pace 4, 20, 30 – 21, 2):
(la pace) reca con sé la sua sorella, la giustizia
Sempre Severiano si pone il problema della duplice terminologia usata da Gesù nel donare la pace, e conclude che il primo dei due verbi (dídwmi « do ») è usato secondo la carne, il secondo (Þfíhmi « lascio ») secondo la divinità.
Infine, poste tutte queste premesse, la pace può risiedere solamente nella Chiesa: su quest’affermazione insiste, fra gli altri, Origene (hom. 9, 2 in Jer., PG 13, 349 D):
in essa (nella Chiesa) si compie e si contempla la pace che Egli ci ha dato, se veramente siamo figli della pace
Tanto eirene nel mondo greco quanto pax nel mondo romano vengono usati per indicare semplicemente la comunità cristiana (cfr. p.es. Origene, Contra Cels. V 33; Tertulliano, de cor. 11, 2). In Agostino la pace vera è identificata con la vita eterna: cfr. civ. Dei XIX 20, 648 Quam ob rem summum bonum civitas Dei cum sit aeterna pax atque perfecta, non per quam mortales transeant nascendo atque moriendo, sed in qua immortales maneant nihil adversi omnino patiendo; quis est qui illam vitam vel beatissimam neget, vel in eius comparatione istam, quae hic agitur, quantislibet animi et corporis externarumque rerum bonis plena sit, non miserrimam iudicet? … Res vero ista sine spe illa, beatitudo falsa et magna miseria est: non enim veris animi bonis utitur. Può esservi pace anche fra i non cristiani, ma non per virtù di questi, bensì come semplice dono che Dio fa agli uomini al di là dei loro meriti, al pari del sole o della pioggia (ibid. III 9, 84): Modo autem quia de beneficiis eorum quaestio est, magnum beneficum est pax: sed Dei veri beneficium est, plerumque etiam sicut sol, sicut pluvia vitaeque alia subsidia, super ingratos et nequam
Questo tipo di dottrina viene ulteriormente accentuata in alcuni autori, fino a definire la pace tra i non cristiani come vera e propria congregazione vòlta verso il male: nasce così la contrapposizione fra una pace buona (quella della Chiesa) e una pace perniciosa e nociva (quella dei non credenti): così leggiamo per esempio nel vescovo ginevrino Salonio, autore di un commento al Vangelo di Matteo (ed. Curti, 142 ss.):
RESP. Videntur quidem haec exempla (scil. Mt. 10, 34 et Ioh. 14, 27) esse contraria, sed nulla est contrarietas quia est pax mala et noxia, est et bona et salutaris. De bona pace dicit dominus: Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis, de mala vero pace mox subiungit: Non qualem mundus dat ego do vobis Ostendit enim quia mundus, id est mundi amatores et carnales homines habent pacem suam. INT. Quae est pax mundi? RESP. Societas et concordia malorum hominum; de hac pace dicit dominus: Non veni pacem mittere in terram, hoc est non veni dare malis concordiam et societatem ut in malo perseverent, sed veni mittere gladium qui eos separet.
FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO – (2012)
CELEBRAZIONE DEI VESPRI A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Mercoledì, 25 gennaio 2012
Cari fratelli e sorelle!
È con grande gioia che rivolgo il mio caloroso saluto a tutti voi che vi siete radunati in questa Basilica nella Festa liturgica della Conversione di San Paolo, per concludere la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, in quest’anno nel quale celebreremo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, che il beato Giovanni XXIII annunciò proprio in questa Basilica il 25 gennaio 1959. Il tema offerto alla nostra meditazione nella Settimana di preghiera che oggi concludiamo, è: “Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo nostro Signore” (cfr 1 Cor 15,51-58).
Il significato di questa misteriosa trasformazione, di cui ci parla la seconda lettura breve di questa sera, è mirabilmente mostrato nella vicenda personale di san Paolo. In seguito all’evento straordinario accaduto lungo la via di Damasco, Saulo, che si distingueva per lo zelo con cui perseguitava la Chiesa nascente, fu trasformato in un infaticabile apostolo del Vangelo di Gesù Cristo. Nella vicenda di questo straordinario evangelizzatore appare chiaro che tale trasformazione non è il risultato di una lunga riflessione interiore e nemmeno il frutto di uno sforzo personale. Essa è innanzitutto opera della grazia di Dio che ha agito secondo le sue imperscrutabili vie. È per questo che Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto alcuni anni dopo la sua conversione, afferma, come abbiamo ascoltato nel primo brano di questi Vespri: “Per grazia di Dio … sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15,10). Inoltre, considerando con attenzione la vicenda di san Paolo, si comprende come la trasformazione che egli ha sperimentato nella sua esistenza non si limita al piano etico – come conversione dalla immoralità alla moralità –, né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà –, ma si tratta piuttosto di un radicale rinnovamento del proprio essere, simile per molti aspetti ad una rinascita. Una tale trasformazione trova il suo fondamento nella partecipazione al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, e si delinea come un graduale cammino di conformazione a Lui. Alla luce di questa consapevolezza, san Paolo, quando in seguito sarà chiamato a difendere la legittimità della sua vocazione apostolica e del Vangelo da lui annunziato, dirà: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
L’esperienza personale vissuta da san Paolo gli permette di attendere con fondata speranza il compimento di questo mistero di trasformazione, che riguarderà tutti coloro che hanno creduto in Gesù Cristo ed anche tutta l’umanità ed il creato intero. Nella seconda lettura breve che è stata proclamata questa sera, san Paolo, dopo avere sviluppato una lunga argomentazione destinata a rafforzare nei fedeli la speranza della risurrezione, utilizzando le immagini tradizionali della letteratura apocalittica a lui contemporanea, descrive in poche righe il grande giorno del giudizio finale, in cui si compie il destino dell’umanità: “In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba … i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1 Cor 15,52). In quel giorno, tutti i credenti saranno resi conformi a Cristo e tutto ciò che è corruttibile sarà trasformato dalla sua gloria: “È necessario infatti – dice san Paolo – che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (v. 15,53). Allora il trionfo di Cristo sarà finalmente completo, perché, ci dice ancora san Paolo mostrando come le antiche profezie delle Scritture si realizzano, la morte sarà vinta definitivamente e, con essa, il peccato che l’ha fatta entrare nel mondo e la Legge che fissa il peccato senza dare la forza di vincerlo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. / Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? / Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge” (vv. 54-56). San Paolo ci dice, dunque, che ogni uomo, mediante il battesimo nella morte e risurrezione di Cristo, partecipa alla vittoria di Colui che per primo ha sconfitto la morte, cominciando un cammino di trasformazione che si manifesta sin da ora in una novità di vita e che raggiungerà la sua pienezza alla fine dei tempi.
È molto significativo che il brano si concluda con un ringraziamento: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (v. 57). Il canto di vittoria sulla morte si tramuta in canto di gratitudine innalzato al Vincitore. Anche noi questa sera, celebrando le lodi serali di Dio, vogliamo unire le nostre voci, le nostre menti e i nostri cuori a questo inno di ringraziamento per ciò che la grazia divina ha operato nell’Apostolo delle genti e per il mirabile disegno salvifico che Dio Padre compie in noi per mezzo del Signore Gesù Cristo. Mentre eleviamo la nostra preghiera, siamo fiduciosi di essere trasformati anche noi e conformati ad immagine di Cristo. Questo è particolarmente vero nella preghiera per l’unità dei cristiani. Quando infatti imploriamo il dono dell’unità dei discepoli di Cristo, facciamo nostro il desiderio espresso da Gesù Cristo alla vigilia della sua passione e morte nella preghiera rivolta al Padre: “perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). Per questo motivo, la preghiera per l’unità dei cristiani non è altro che partecipazione alla realizzazione del progetto divino per la Chiesa, e l’impegno operoso per il ristabilimento dell’unità è un dovere e una grande responsabilità per tutti.
Pur sperimentando ai nostri giorni la situazione dolorosa della divisione, noi cristiani possiamo e dobbiamo guardare al futuro con speranza, in quanto la vittoria di Cristo significa il superamento di tutto ciò che ci trattiene dal condividere la pienezza di vita con Lui e con gli altri. La risurrezione di Gesù Cristo conferma che la bontà di Dio vince il male, l’amore supera la morte. Egli ci accompagna nella lotta contro la forza distruttiva del peccato che danneggia l’umanità e l’intera creazione di Dio. La presenza di Cristo risorto chiama tutti noi cristiani ad agire insieme nella causa del bene. Uniti in Cristo, siamo chiamati a condividere la sua missione, che è quella di portare la speranza là dove dominano l’ingiustizia, l’odio e la disperazione. Le nostre divisioni rendono meno luminosa la nostra testimonianza a Cristo. Il traguardo della piena unità, che attendiamo in operosa speranza e per la quale con fiducia preghiamo, è una vittoria non secondaria, ma importante per il bene della famiglia umana.
Nella cultura oggi dominante, l’idea di vittoria è spesso associata ad un successo immediato. Nell’ottica cristiana, invece, la vittoria è un lungo e, agli occhi di noi uomini, non sempre lineare processo di trasformazione e di crescita nel bene. Essa avviene secondo i tempi di Dio, non i nostri, e richiede da noi profonda fede e paziente perseveranza. Sebbene il Regno di Dio irrompa definitivamente nella storia con la risurrezione di Gesù, esso non è ancora pienamente realizzato. La vittoria finale avverrà solo con la seconda venuta del Signore, che noi attendiamo con paziente speranza. Anche la nostra attesa per l’unità visibile della Chiesa deve essere paziente e fiduciosa. Solo in tale disposizione trovano il loro pieno significato la nostra preghiera ed il nostro impegno quotidiani per l’unità dei cristiani. L’atteggiamento di attesa paziente non significa passività o rassegnazione, ma risposta pronta e attenta ad ogni possibilità di comunione e fratellanza, che il Signore ci dona.
In questo clima spirituale, vorrei rivolgere alcuni saluti particolari, in primo luogo al Cardinale Monterisi, Arciprete di questa Basilica, all’Abate e alla Comunità dei monaci benedettini che ci ospitano. Saluto il Cardinale Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e tutti i collaboratori di questo Dicastero. Rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, ed al Reverendo Canonico Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Inoltre, mi è particolarmente gradito salutare alcuni membri del Gruppo di lavoro composto da esponenti di diverse Chiese e Comunità ecclesiali presenti in Polonia, che hanno preparato i sussidi per la Settimana di Preghiera di quest’anno, ai quali vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio augurio di proseguire sulla via della riconciliazione e della fruttuosa collaborazione, come pure i membri del Global Christian Forum che in questi giorni sono a Roma per riflettere sull’allargamento della partecipazione al movimento ecumenico di nuovi soggetti. E saluto anche il gruppo di studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
All’intercessione di san Paolo desidero affidare tutti coloro che, con la loro preghiera e il loro impegno, si adoperano per la causa dell’unità dei cristiani. Anche se a volte si può avere l’impressione che la strada verso il pieno ristabilimento della comunione sia ancora molto lunga e piena di ostacoli, invito tutti a rinnovare la propria determinazione a perseguire, con coraggio e generosità, l’unità che è volontà di Dio, seguendo l’esempio di san Paolo, il quale di fronte a difficoltà di ogni tipo ha conservato sempre ferma la fiducia in Dio che porta a compimento la sua opera. Del resto, in questo cammino, non mancano i segni positivi di una ritrovata fraternità e di un condiviso senso di responsabilità di fronte alle grandi problematiche che affliggono il nostro mondo. Tutto ciò è motivo di gioia e di grande speranza e deve incoraggiarci a proseguire il nostro impegno per giungere tutti insieme al traguardo finale, sapendo che la nostra fatica non è vana nel Signore (cfr 1 Cor 15,58). Amen.
ETICA E CRISTIANESIMO NEL PENSIERO DI DOSTOEVSKIJ
ETICA E CRISTIANESIMO NEL PENSIERO DI DOSTOEVSKIJ
di Anna Mola
N. Berdjaev, uno tra i più importanti, nonché influenti, interpreti di Dostoevskij sosteneva che le vere protagoniste dei romanzi dell’autore russo erano le idee [1]. In generale, è possibile affermare che Dostoevskij appartiene a quel tipo di scrittori che narrano e scoprono se stessi nelle loro opere. Se è vero, inoltre, che non è possibile parlare propriamente di questo scrittore come di un teologo, è altrettanto vero che i suoi romanzi, in particolare i cosiddetti “grandi romanzi”, sono spesso definiti “teologici”, perché il tema di fondo costante è il rapporto tra uomo e Dio. Parlare degli aspetti religiosi dell’opera dostoevskiana equivale ad analizzare l’intero mondo di questo scrittore. Questi due aspetti, uniti a una riflessione profondissima sull’etica, trovano massima espressione in due fondamentali romanzi dell’autore: Delitto e castigo e I fratelli Karamazov. Vediamo, innanzitutto, in particolare per la prima opera, come la maggior parte della narrazione non consti di azioni, ma di pensieri, pensieri orgogliosi, utopici, grandiosi e poi infinitamente pieni di angoscia e di disperazione; pensieri sempre e comunque umani, su cui ciascuno è invitato a riflettere. In secondo luogo, notiamo che, in entrambi i romanzi, il rapporto tra i personaggi e Dio è costantemente analizzato e, in alcuni casi, costituisce il punto di svolta delle vicende.
La storia di Delitto e castigo è, dal punto di vista dell’intreccio narrativo, piuttosto semplice: in una Pietroburgo enorme e, allo stesso tempo soffocante, vive un giovane studente di legge, Raskol’nikov, estenuato dalla povertà e dai debiti che deve pagare a una vecchia usuraia senza scrupoli. È un ragazzo intelligente e perspicace, non è assolutamente di natura malvagia, anzi, è generoso e sensibile, tuttavia, egli non accetta la condizione umana: non sopporta le ingiustizie di questo mondo, in particolare, non riesce a tollerare il fatto che un individuo avido e spregevole come la vecchia usuraia rovini la sua vita e quella di tanti altri studenti. Oppresso dalle condizioni disagiate e rattristato da una lettera in cui la sorella gli comunica di accettare il matrimonio con Lužin, un ricco uomo d’affari, che non ama, per poterlo aiutare a finire gli studi, Raskol’nikov si decide a un terribile atto: uccide l’usuraria e la deruba delle sue, peraltro misere, ricchezze. Ma egli non ha ucciso per soldi, ed è qui che compare l’idea centrale del romanzo: il suo non è delitto compiuto per necessità, ma per convinzione, come lo definisce Gasparini [2]. L’idea che lo conduce all’atto finale è maturata nella sua testa per un lungo periodo, fino ad ottenere una forma concreta: non tutti sono degni di vivere allo stesso modo, ci sono individui più dannosi che utili per la società, la cui esistenza rende il mondo peggiore; è, dunque, legittimo che vengano eliminati per fare del bene all’intera umanità. Chi avrà il coraggio di compiere quest’atto mostrerà la propria natura superiore rispetto agli altri, a lui sarà concesso ignorare le comuni leggi morali, che impongono di non uccidere, perché il suo fine è superiore e sarà ricordato nella storia come benefattore dell’umanità. Raskol’nikov vuole capire se possiede questo coraggio o se è un uomo comune. Il suo delitto è, quindi, una sorta di “esperimento”; un esperimento che fallisce, in quanto, non appena compiuto l’omicidio, egli viene colto da un senso di colpa paralizzante, l’angoscia cresce in lui fino a diventare disperazione e più cerca di giustificare a se stesso l’atto più viene pervaso da un malessere devastante. Inizia così il vero e proprio delirio del protagonista: soffre di improvvisi e fortissimi attacchi di febbre, crisi di sonnolenza alternate a lunghissime notti insonni. Lo schiacciante senso di colpa lo induce a vivere in isolamento dalla madre e dalla sorella, che lo hanno raggiunto a Pietroburgo, e dagli amici, sconvolti dal suo atteggiamento. Perfino la città sembra trasformarsi e riflettere la sua angoscia, ogni cosa perde la sua oggettività e assume la forma della sua ossessione. La situazione di Raskol’nikov è peggiorata, inoltre, dal fatto che le indagini della polizia si indirizzano vieppiù sulle sue tracce e che l’investigatore che si occupa del caso, Porfirij Petrovi?, è certo della sua colpevolezza e cerca di esasperarlo, negli interrogatori, in modo da indurlo a confessare.
Alla fine, sopraffatto dalla gravità del gesto compiuto, il protagonista decide di confidarsi con Sonja, la figlia di Marmeladov costretta dalla matrigna a prostituirsi per guadagnare qualche soldo e di cui egli si innamora profondamente. La confessione di Raskol’nikov è profonda e totale, egli ammette di non aver ucciso, in realtà, per i soldi o per essere il benefattore dell’umanità, ma per sapere se egli avesse coraggio, se fosse «un pidocchio, come tutti, o un uomo» [3]. Attraverso la figura di Sonja e la lettura, che lei gli propone del brano evangelico della resurrezione di Lazzaro, egli scopre la possibilità della conversione, la via della croce, che conduce alla piena ammissione di colpa e all’umile accettazione della legge comune a tutti gli uomini, che non permette a nessuno di decidere arbitrariamente della vita e della morte di un altro. Il suo non è ancora un pentimento completo, tuttavia sceglie di pagare per il delitto commesso e di aprirsi a una nuova opportunità di vita: l’accettazione della croce regalatagli da Sonja e il prostrarsi a baciare la terra, dopo il colloquio con lei, sono i simboli di tale apertura.
Il romanzo termina con un incubo di Raskol’nikov, che, intanto, è stato condannato in Siberia ai lavori forzati: egli sogna una sorta di apocalissi mostruosa, in cui l’umanità era devastata da una terribile pestilenza, che rendeva gli individui arroganti e presuntuosi. Ognuno si sentiva l’unico in grado di giudicare il bene e il male, cosa che portava a infiniti scontri e induceva gli uomini a distruggersi l’uno con l’altro. Solo una ristretta classe di persone poteva salvarsi, cioè gli eletti, i più puri, destinati a iniziare una nuova stirpe e una nuova era, a rinnovare e a redimere la terra. Il sogno permette a Raskol’nikov di vedere chiaramente, per la prima volta, a cosa avrebbe portato, in prospettiva, la realizzazione del suo ideale. Da poco è trascorsa la Pasqua, le giornate erano serene e miti, egli prende il Vangelo che Sonja gli ha regalato, e, per la prima volta, lo apre e comprende che la via dell’espiazione consiste nel cercare la convivenza con gli altri, nell’offrire al prossimo, come fa Sonja, che lo ha seguito nei lavori forzati, un amore semplice e totale, fatto di silenziosa dedizione.
Questa la storia narrata nel romanzo, a cui molte definizioni sono state attribuite: romanzo giallo, romanzo sociale e romanzo “filosofico”; ma Delitto e castigo è soprattutto la storia del suo protagonista, della sua ribellione a un mondo in cui ci sono troppe ingiustizie e sofferenze, un mondo in cui una ragazzina è costretta a prostituirsi per non morire di fame, in cui una giovane donna decide di sposare un uomo che non ama e non stima per poter assicurare un futuro al fratello, in cui, infine, un’avida usuraia trae soddisfazione dalla sofferenza dei suoi creditori. Raskol’nikov non accetta il mondo in cui si trova a vivere, ma, anziché “restituire il biglietto d’ingresso”, come farà Ivan Karamazov, preferisce tentare di cambiarlo, di renderlo migliore, per questo adotta l’idea “napoleonica”, l’idea, cioè, per cui l’uomo “superiore” (Napoleone ne è il simbolo) sia legittimato nell’infrangere le leggi della comune morale, che impongono il rispetto di ciascuna vita, senza eccezione alcuna.
L’idea “napoleonica” si riduce a questo: l’omicidio è permesso nel caso in cui la vittima sia un individuo inutile, malvagio e se dalla sua eliminazione è possibile derivare azioni buone, oneste e capaci di cancellare il delitto. Certamente non a tutti è consentito realizzare quest’ideale, ma soltanto agli uomini superiori, i dominatori, coloro che hanno il compito di rendere migliore l’umanità. «I legislatori e i fondatori dell’umanità […] Licurghi, Soloni, Maometti» [4] hanno dato nuove leggi all’umanità e distrutto quelle antiche e non l’hanno fatto pacificamente, ma con grandi spargimenti di sangue; i loro delitti, però, sono relativi, in quanto giustificati da un fine superiore. Se Napoleone, per esempio, per edificare il suo impero non avesse dovuto affrontare sanguinose battaglie, ma semplicemente uccidere una sordida vecchia, l’avrebbe fatto con lo stesso rimorso che si potrebbe avere nel tagliare un ramo che ostacola il cammino [5]. Oppure se grandi geni come Keplero o Newton, per rendere note le loro scoperte, non avessero avuto altra scelta, per assurdo, che sacrificare la vita di una, cento, mille persone, avrebbero avuto il diritto, persino l’obbligo di ucciderle, perché le loro invenzioni sono state utili a milioni di persone [6].
Esistono, dunque, due tipi di uomini, secondo Raskol’nikov: quelli inferiori, che servono solo a riprodurre il genere umano, e uomini veri e propri, i soli che siano in grado di portare avanti la storia. I primi amano ubbidire ed è necessario che lo facciano, mentre i secondi sono sovversivi, sconvolgono il sistema sociale in cui vivono. La prima categoria, costituita dalla massa, condanna gli uomini veri, li disprezza, a volte arriva addirittura a giustiziarli, salvo poi, nel corso delle generazioni, rivalutarli come eroi e metterli su un piedistallo.
Raskol’nikov vuole far parte della prima classe di uomini, vuol essere, in senso davvero nietzschiano, un “Superuomo”, un individuo a cui tutto è permesso, che si pone “al di là del bene e del male”. Egli sceglie l’omicidio per dimostrare a se stesso la propria libertà illimitata e assoluta, trasgredisce deliberatamente la legge religiosa e morale per provare la sua legittima appartenenza a quel ristrettissimo numero di esseri eccezionali ai quali tutto è permesso. Attraverso questi pensieri, egli diventa orgoglioso e superbo e, pur dicendo di voler fare del bene all’umanità, in realtà, la disprezza [7]. L’uomo del sottosuolo – prima ed essenziale figura nella “svolta filosofica” di Dostoevskij – che rinunciava a un benessere mediocre e sceglieva il dolore e la pazzia per dimostrare il predominio della volontà e dell’arbitrio sulla ragione, si eleva ora a Superuomo e decide non solo di ignorare la morale comune, ma di vivere solo secondo i suoi principi, togliendo all’uomo la posizione di fine e riducendolo a mezzo per raggiungere la felicità. Se la libertà è la più grande forza dell’uomo, la conseguenza più immediata non sta forse nel principio del “tutto è permesso”? Si tratta di una pura e semplice deduzione logica. «Una morte, cento vite in cambio» [8], dice il protagonista, prima di commettere il delitto: è un puro calcolo matematico.
Il peccato di Raskol’nikov, come nota Cantoni, è proprio questo: aver fatto prevalere l’intelletto sulla morale, aver pensato che la ragione, chiusa nel ciclo dei suoi processi, possa risolvere con le sue forze finite tutti i problemi esistenziali. È lo stesso errore che commetterà Ivan Karamazov, è l’etica degli atei, dei nichilisti, dei cospiratori dei Demoni, del Grande Inquisitore. Sia Ivan che Raskol’nikov sono personaggi di animo nobile, dotati di un’intelligenza brillante e profonda, ma la loro filosofia va in una direzione contraria rispetto alle leggi della vita. Essi vorrebbero risolvere l’enigma dell’esistenza nei suoi fondamenti ultimi e modificare l’iniquità e la crudeltà presenti nel mondo per mezzo di una razionalità colpevole, e la colpa non sta nell’irrazionalità constatata, ma nella pretesa di poter sostituire, con il loro intelletto finito, alla forza misteriosa e infinita che governa l’universo [9].
Come ogni grande ribelle e ogni Superuomo, Raskol’nikov è un solitario – non a caso raskol’ in russo, significa “scisma”, “scissione” – le sue idee lo portano a staccarsi dal resto della società dei suoi simili, che giudica inferiori, abbandonandosi alla seduzione delle sue costruzioni mentali. Si può dire, con Malcovati [10], che questo personaggio cede alla tentazione di Lucifero: quella, cioè, di stabilire per sé una legge diversa dalle norme morali che seguono gli altri; quella di agire contro il “gregge”, sentendosi unici e autorizzati alla diversità. Ma la sicurezza che egli ha raggiunto nelle sue fantasticherie non è definitiva, occorre un atto estremo, “titanico” che ne comprovi la veridicità. Per questo Raskol’nikov decide di compiere il delitto; ormai l’aspetto morale, per lui, è diventato secondario, quel che conta è solo riuscire, attuare la decisione presa e passare definitivamente dalla parte dei “Napoleoni”. Così il protagonista, in uno stato di esaltazione, muovendosi come un automa, ruba un’accetta, si reca a casa dell’usuraia e le infligge tre colpi mortali. Egli è alla ricerca di una prova che consacri e legittimi ai suoi occhi l’alta idea che, nella solitudine, egli ha concepito di sé e sceglie l’assassinio perché non esiste qualcosa di più estraneo alla sua indole e che richieda maggiori energie per essere compiuto. Lo sforzo al quale egli si sottopone conferisce un aspetto quasi eroico alla sua impresa; d’altra parte, se fosse stato meno in contraddizione con il suo animo, non gli avrebbe permesso di mettersi alla prova, di capire se era davvero degno di entrare nel novero degli esseri superiori o se era destinato a rimanere tra “i pidocchi”. In quel momento egli non può prevedere le conseguenze del suo atto [11].
Ma l’esperimento di Raskol’nikov fallisce completamente: egli perde la sicurezza, non soltanto nel suo ideale, ma proprio in se stesso: «Me stesso ho ucciso, e non la vecchiuccia!» [12], ammetterà egli stesso, confidandosi con Sonja. Lo stato di profondo sconforto, in cui cade al ritorno dal luogo del delitto, non è sintomo solo della stanchezza nervosa, ma anche della distruzione che egli sente essersi consumata dentro di lui. Egli ha perduto per sempre quel sogno di superiorità e grandezza, senza il quale la vita gli pare abietta [13]. Tuttavia è ancora lontano dal riconoscere la sua colpa e l’errore insito nel suo ideale; non riesce, per ora, ad ammettere che nessuno ha il diritto di raggiungere il proprio fine con il delitto, anche se il fine non fosse la felicità individuale, ma il miglioramento della vita dell’intera umanità. Dal suo punto di vista, Raskol’nikov ha ucciso senza aver acquistato il coraggio di uccidere, senza esser riuscito a valicare quel limite invisibile che separa gli uomini veri da quelli comuni e spregevoli, quelli, cioè, che hanno il diritto di impadronirsi del potere da quelli che, invece, devono soccombere. Il terribile senso di colpa che lo tormenta testimonia, secondo lui, il fatto che non aveva quel diritto; ma che questo diritto, in realtà, non esista è qualcosa che imparerà più tardi, in Siberia. Se avesse sopportato il peso del suo crimine, avrebbe avuto ragione sulla storia dell’umanità, ma egli non ha avuto quella forza d’animo e il sentimento di sconfitta che prova è la punizione più severa che si possa immaginare.
L’espiazione, in Dostoevskij, è una legge di natura; quando questa non agisce convincendo il colpevole del suo errore, produce, tuttavia, delle alterazioni così forti nella sua coscienza, da costringerlo a sottomettersi alla sua osservanza anche contro volontà e contro ragione. È questa legge che isola il protagonista di Delitto e castigo dagli altri individui, che distrugge i suoi affetti familiari e lo costringe a dichiararsi vile pur proclamando l’altezza e la giustizia dell’idea ispiratrice del suo delitto. Egli subisce, di fatto, la legge dell’espiazione, ma non è disposto ad ammetterne la superiorità [14].
Il pentimento autentico di Raskol’nikov avviene per mezzo di Sonja, peccatrice come lui, ma portatrice di una fede semplice, che lo guida nella presa di coscienza del fatto che la legge morale è valida per tutti allo stesso modo e che nessuno ha il diritto di porsi al di sopra di essa. L’ideale del Superuomo si è sgretolato alla sua prima impresa e a lui, che lo incarnava, non rimangono che la solitudine e la vergogna. Una sola via gli rimane, escludendo quella rapida ma vile del suicidio, ed è la via della croce, cioè della piena responsabilità. Questa via è rappresentata proprio da Sonja, figura tanto pura quanto sfortunata e indifesa, che non disprezza il mondo, ma si fa carico, insieme a Raskol’nikov, della sofferenza e della colpa da espiare. La croce che ella gli dona e la lettura del racconto evangelico della resurrezione di Lazzaro sono i simboli del nuovo cammino da intraprendere. Attraverso Sonja, la sua dedizione e il suo conforto, Raskol’nikov comprende che la felicità non è terrena, egoistica, individuale, ma soprannaturale e infinita e che si raggiunge con la sofferenza, il sacrificio di se stessi, l’umile dedizione al prossimo. La forza per sostenere tali sacrifici è data dalla fede in Dio e dall’amore per Lui e per gli uomini.
L’idea “napoleonica” e il dono della croce da parte di Sonja sono, nella loro totale contrapposizione, i due elementi più importanti del romanzo; e il gesto silenzioso di Sonja riesce ad agire sull’ideale di Raskol’nikov, denunciandone la superbia e l’ambizione malvagia che vi si nascondono, e, alla fine, aprendolo alla conversione. In questo modo, Dostoevskij mostra la sconfitta della morale del Superuomo, del titano, del nuovo Prometeo; una morale che dovrebbe essere assolutamente libera e che si rivela, alla fine, come il suo contrario, cioè come arbitrio illimitato, come negazione della libertà stessa e annullamento della volontà.
Raskol’nikov ha sperimentato su se stesso l’impossibilità di una vita guidata soltanto dall’intelletto privo di amore, il superamento della sua posizione avviene attraverso una profonda e radicale esperienza interiore, che lo condurrà, alla fine, alla possibilità del ripristino di legami autentici con l’umanità, legami spezzati nel suo tragico gesto di rivolta.
Delitto e castigo pone di fronte a grandi temi etici, primo fra tutti il valore assoluto dell’essere umano in quanto tale, a prescindere dalla su utilità o dannosità all’interno della società. A questo proposito, lo studioso Tugan-Baranovskij, nel suo saggio La visione etica di Dostoevskij [15], rintraccia una possibile comparazione tra l’autore russo e Kant sul tema della morale e sul fondamento di essa, cioè Dio. Senza il principio di un’entità soprannaturale, l’idea del valore supremo della persona umana diventa negativa, perché, non solo non è in grado di costruire la vita, ma, al contrario, conduce alla distruzione della vita stessa, all’omicidio. Ponendosi al di fuori del bene assoluto rappresentato dalla divinità, l’uomo non può acquistare un valore supremo: l’idea di uomo e l’idea di Dio sono, dunque, inscindibilmente legate e l’utopia della persona fine a se stessa è semplicemente un’assurdità.
Tutto ciò che può assumere un valore assoluto, lo acquista solo presupponendo l’esistenza di Dio; così come l’uomo, anche la legge morale, per il solo fatto di esistere, esige il riconoscimento di Dio. In tal modo, Dostoevskij si avvicina molto alle posizioni di Kant, il quale postula Dio come fondamento ultimo della morale. Nella coscienza etica dell’uomo, si riflette un barlume di divinità, che gli conferisce un valore infinito.
Tuttavia, non tutti gli individui possiedono nella stessa misura una coscienza morale e qui sorge un nuovo problema: come conciliare il valore infinito dell’uomo e la sostanziale uguaglianza che ne deriva con le differenze oggettive, sul piano etico, degli individui, che sembra condurre al riconoscimento di una diversità di valore? Questo problema, chiamato da Tugan-Baranovskij “problema dell’umanità”, è pienamente rappresentato da Raskol’nikov. Da un punto di vista utilitaristico, la sua visione etica è inoppugnabile: se la moralità o immoralità di un comportamento è determinata solo dall’utilità o dal danno che ne può derivare, allora, una grande scoperta scientifica, che può salvare la vita a milioni di persone, merita, se necessario, il sacrificio di qualche individuo. È stata proprio questa logica la causa della perdizione di Raskol’nikov. Il suo errore consiste nel fatto di voler motivare logicamente ciò che, per sua natura, non ammette una razionalizzazione. Egli cercava la dimostrazione logica della morale, ma non si rendeva conto che la legge morale non è passibile di dimostrazione, in quanto è, kantianamente, un principio a priori, che, quindi, non riceve una legittimazione dall’esterno, bensì dall’interno di ogni individuo.
Non esiste altra motivazione che imponga all’uomo il rispetto della vita di ogni altro essere, se non un “devi perché devi”, che si fonda sul principio infinito della divinità e non ammette un fondamento logico. La legge morale non può essere oggetto di indagine razionale, così come non può esserlo tutto ciò che esiste per forza propria, indipendentemente dalla nostra volontà. Sta di fatto che la nostra coscienza morale afferma la sacralità della vita, tale è la legge morale. Qualunque sia l’origine di questa legge, essa esiste con tanta realtà quanta ne hanno le leggi di natura. Il protagonista di Delitto e castigo tenta di negarla e per questo cade, ed è, allo stesso modo, destinato a cadere, chiunque, violerà tale legge.
La vera possibilità di riscatto si offrirà a Raskol’nikov, alla fine del romanzo, quando, dopo vari anni di lavori forzati, grazie anche all’appoggio di Sonja, avviene nel suo animo un cambiamento: riconosce il suo delitto e rinasce così a nuova vita. La coscienza morale ha vinto e ciò gli permette di riconciliarsi con se stesso, con gli altri uomini e con l’infinito, che di nuovo sente dentro di sé.
Dilaniato quanto Raskol’nikov, prima della conversione, o forse in maniera ancora più disperata, è Ivan Karamazov, probabilmente il più combattuto tra i personaggi dostoevskiani.
Egli si presenta come un ragazzo dotato di lucida intelligenza, ma dal carattere chiuso, inquieto e scostante; il suo cuore è pieno di disprezzo per un padre violento e cinico, e di rabbia nei confronti di un mondo ingiusto e crudele. La sofferenza delle creature innocenti costituisce la sua motivazione per accusare Dio di malvagità e di mancanza di vero amore per gli uomini. Il tormento di Ivan è il tormento per un interrogativo che si è posto, e continua a porsi, in ogni epoca, l’umanità che cerca di conciliare l’esistenza di un Dio buono e giusto con la realtà innegabile del male in tutti i suoi aspetti. Finché il male è la conseguenza di una colpa si può trovarne una giustificazione, ma quando colpisce immeritatamente creature incapaci di reagire, vulnerabili e innocenti, nasce la ricerca, nell’uomo, di una soddisfacente e comprensibile risposta da parte della ragione umana e, poiché sembra impossibile trovarla, sorge, a questo punto, il dramma, rappresentato dalla figura di Ivan, che si trasforma, nel suo caso, in rivolta.
Se per Raskol’nikov il delitto era un atto individuale, un esperimento simbolico della ribellione personale, sostenuto dalla dottrina del Superuomo, in Ivan Karamazov l’atteggiamento di sdegno per il mondo e di rivolta raggiunge proporzioni metafisiche, in quanto comporta, in ultima analisi, la negazione di Dio e del significato del mondo. Come l’assassino di Delitto e castigo, Ivan ha una grande voglia di vivere, ma si chiude poi in una dimensione costituita solo dai suoi pensieri, in cui si pone problemi filosofici. Il suo interessamento alle vicende esterne è sempre condizionato dalla posizione intellettuale che ha assunto. Come Raskol’nikov, anch’egli è un peccatore, ma il suo peccato è di natura mentale: non ha ucciso nessuno, pur avendo desiderato e permesso la morte del padre, ma ha rinnegato il mondo in quanto non corrisponde a un sistema logico comprensibile per l’uomo. Il rifiuto del mondo terreno da parte di Ivan implica la rottura con l’aldilà, con il mondo della trascendenza. L’intelletto rimane ancorato a ciò che riscontra nell’esperienza e nella storia, che dà prova, secondo Ivan, del fatto che il creato non può essere governato da Dio, poiché in esso regnano il disordine e la contraddizione. La logica terrestre si attiene ai fatti, è la logica della certezza e non della speranza, della razionalità e non del mistero. Per il credente, la fede arriva là dove l’intelletto non può arrivare, mentre per la ragione che ha fiducia solo in se stessa, ciò che è incomprensibile, rimane tale. Se l’idea di mondo si dissocia da quella di Dio e segue un suo corso irrazionale, le nozioni di giusto e ingiusto, fondate sulla credenza nella divinità, attraverso la tradizione religiosa, non hanno più alcun significato. All’uomo che ha distrutto i legami con il trascendente e ha rinnegato la teocrazia, non resta che inventare nuovi valori. Se l’“idea napoleonica” di Raskol’nikov rispecchia l’idea del Superuomo di Nietzsche, nel rifiuto della fede di Ivan possiamo intravedere un riferimento a un altro modello filosofico, quello dell’homo homini deus, di stampo feuerbachiano. La filosofia atea del pensatore tedesco si poneva, infatti, l’obiettivo di liberare l’amore dalla credenza nella divinità, in modo da indirizzarlo completamente all’uomo, privandolo, quindi, della sua connotazione trascendentale. Ma in una dialettica del rovesciamento di soggetto e predicato divini, come, appunto, quella di Feuerbach, l’uomo che si affida esclusivamente alle infinite possibilità dell’intelletto e all’amore che può provare per i suoi simili, rinnegando qualcosa di superiore, finisce per smarrirsi nell’incertezza [16].
Ivan è stato più volte definito un “ateo credente”, nel senso che egli non nega l’esistenza di Dio, può accettare l’idea di riconoscerlo come Essere onnipotente e buono, ammette l’inevitabilità del male come conseguenza del peccato originale dei primi genitori; non rifiuta neppure la responsabilità di tutto il genere umano nella colpa e la solidarietà nell’espiazione per giungere all’armonia universale, tuttavia trova scandaloso e inaccettabile il fatto che, per il conseguimento di tale armonia, sia necessario anche il sacrificio dei bambini. Il momento cruciale della ribellione di Ivan inizia con la terribile scissione che sente al proprio interno: da una parte avverte la necessità di Dio e ama il mondo, dall’altra non riesce ad accettare la sua imperfezione macchiata dal sangue degli innocenti.
Tra tutti gli eroi dostoevskiani, Ivan è senz’altro quello la cui coscienza è più divisa tra fede e ateismo, in quanto i suoi dubbi hanno origine nell’ambito della fede. Per Dostoevskij, l’uomo trova la propria verità in Dio, questo è innegabile, ma l’itinerario che conduce alla fede è tutt’altro che semplice e deve passare per la fase dell’incredulità. Ivan giunge allo stadio più crudele del dubbio religioso, ma il suo ateismo assoluto è il «penultimo scalino della fede perfetta, mentre l’indifferente non ha nessuna fede, tranne una cattiva paura» [17]. La fede, dunque, per Dostoevskij, non può diventare completa se non scomparendo nel suo contrario per riapparire fortificata al grado superiore. Nel processo di sviluppo, l’alternativa diventa sempre più penosa, cosicché a una fede perfetta si oppone un ateismo altrettanto completo. Ivan vive con tale passione l’affermazione ateista che sembra essere quasi pronto a convertirsi nel suo opposto. Ma, se, da un lato, l’incredulità dei grandi ribelli, come Raskol’nikov, Stavroghin, Kirillov e Ivan, sembra essere prossima al raggiungimento della fede, attraverso le terribili esperienze del delitto e della follia, dall’altro, l’apertura alla credenza è scossa dalle pretese dell’intelletto di interpretare il mondo secondo i suoi canoni logici. La fede autentica, per Dostoevskij è un fine a cui si arriva tramite un percorso faticoso; un percorso in cui l’affermazione e la negazione si alternano drammaticamente [18].
Il rischio “eterno” dell’uomo, in cui Ivan cade, è quello di ridurre la concezione di Dio alla portata dell’uomo. Su questa via, egli decide di seguire il suo intelletto, piuttosto che ammettere la logica del mistero di Dio e tenta, quindi, di creare una sua teodicea. Accettare il mondo così com’è significherebbe, per lui, dare scacco alla propria intelligenza, ma egli non ha intenzione di farlo; intende proprio questo, quando dichiara al fratello Alëša: «Non è che io non accetti Dio, intendi bene questo punto: è il mondo da lui creato, questo mondo di Dio, che io non accetto e non posso piegarmi ad accettare» [19]. Non è ammissibile, nella sua ottica, il fatto che l’armonia universale si debba ottenere anche con la sofferenza inutile e gratuita. Interpretare questa sofferenza come conseguenza della colpa originaria e come una ferita non sanabile (per lo meno su questa terra) significa affermare l’assurdità dell’esistenza e questo diventa per Ivan motivo di profonda inquietudine. La creazione, che dovrebbe essere la gloria di Dio ed essere prova della sua onnipotenza e bontà, diventa, nel giudizio di Ivan, la negazione di queste ultime, in quanto non è conforme alle condizioni poste dalla “mente euclidea”, che conosce il mondo attraverso le tre dimensioni spaziali della geometria classica.
La constatazione del dolore dei più deboli conduce Ivan a mettere in dubbio l’esistenza di Dio; o meglio, per il suo intelletto, la sofferenza nel mondo e l’esistenza di Dio si elidono a vicenda. Secondo il critico A. Penke, lo sbaglio di Ivan consiste nel concentrarsi sul fatto della sofferenza stessa e non sulla ricerca del suo significato; per lui il male non è l’effetto di una responsabilità personale, quindi di un atto di libertà, ma di un Dio cattivo o impotente, che, in ogni caso, non merita di essere adorato [20]. La protesta innalzata verso Dio da Ivan è originale, come nota Rozanov [21], rispetto alla letteratura universale e, nello stesso tempo, molto pericolosa per la religione. Si tratta, infatti, di una prova di attribuzione di un carattere divino al senso della giustizia presente nell’uomo. Secondo il critico, Ivan è un uomo devoto alla religione e la sua ribellione mette in luce ciò che è divino nell’animo umano, cioè il sentimento di giustizia e il senso della sua dignità. Forse, come osserva Guardini, a questo personaggio manca l’umiltà del cuore, che potrebbe aprirlo all’amore per Dio e risanare la frattura nata in lui [22]. Non potendo essere risanata, questa frattura viene compensata con la rivolta. Ivan sceglie l’esaltazione della legge della ragione, che si pone in contrapposizione all’apertura al mistero divino.
Gli interrogativi che Ivan si pone rimangono, dunque, senza risposta: la sofferenza dei bambini non riesce a trovare un senso. Ma Ivan non può accettare di vivere in un mondo di cui non concepisce il senso, in cui è impossibile la conciliazione tra razionale e irrazionale e preferisce, quindi, “restituire il biglietto d’ingresso”:
Non voglio l’armonia: – confessa ad Alëša – per amore stesso dell’umanità non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato di invendicata sofferenza e d’implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l’armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d’ingresso. Quindi, il mio biglietto d’ingresso, io m’affretto a restituirlo. […] Non è che non accetti Dio, Alëša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto. [23]
Il suo ragionamento lo ha portato ad attribuire la colpa del male a Dio; ma non si può accettare un Dio ingiusto, non resta che negarlo e vivere secondo le leggi della ragione. La libertà “intellettuale” a cui aspira Ivan, conduce, in realtà, per Dostoevskij, al libero arbitrio, che è negazione della libertà autentica, concepita dallo scrittore come un atto di obbedienza e di riconoscimento verso il Creatore. Per questo motivo la sofferenza di Ivan è davvero “inutile”, in quanto non conduce alla redenzione, ma allo smarrimento di sé e alla morte spirituale. Come sostiene Berdjaev, l’arbitrio e la rivolta di Ivan sono ciò in cui culmina il concetto di libertà senza grazia.
L’idea di Ivan Karamazov coincide con quella del vecchio cardinale protagonista del suo piccolo poema, cioè il Grande Inquisitore, e con questo personaggio raggiungerà l’esito più catastrofico: la libertà, trasformatasi in arbitrio, diventerà costrizione. La logica del Grande Inquisitore è il punto di arrivo della “mente euclidea”. Essa cerca di razionalizzare il mondo, liberandolo, per quanto è possibile, dal dolore e dal male. Alla base delle convinzioni del cardinale e di Ivan c’è la sincera volontà di aiutare la debolezza umana; entrambi non sono mossi dalla ricerca di beni personali o solo materiali, ma mirano alla felicità degli uomini. Il loro fine è nobile, ma cerca di realizzarsi al di fuori dell’ottica divina; vogliono sostanzialmente sostituirsi a Dio, per correggere un’opera per loro troppo imperfetta, ma, esercitando una libertà illimitata, finiscono per togliere all’uomo ogni possibilità di scegliere liberamente il proprio destino.Attraverso Ivan Karamazov e il Grande Inquisitore, Dostoevskij simboleggia la tesi per cui, se si ritiene che Dio sia ingiusto o addirittura che non esista, allora non ha più senso distinguere comportamenti morali e immorali, perché l’uomo può sostituirsi a Dio e decidere arbitrariamente del destino degli uomini. La ribellione di Ivan si traduce nella filosofia del “tutto è permesso”: l’eliminazione di Dio dalla vita dell’uomo toglie senso alla vita stessa e permette la legittimazione di ogni delitto, così Raskol’nikov uccide l’avida usuraia, Ivan è il responsabile ideologico della morte del padre e il Grande Inquisitore minaccia Cristo di farlo bruciare vivo. La “mente euclidea”, che non sopportava la sofferenza dei bambini, finisce, così, per tollerare i crimini più efferati. Per Dostoevskij, la filosofia del “tutto è permesso” è in realtà la negazione di ogni principio morale, anzi, è il simbolo della più alta immoralità, è la realizzazione di ciò cui aspira il diavolo, che, infatti, a un certo punto del romanzo, appare in un incontro visionario a Ivan e viene a identificarsi con i suoi pensieri più segreti, costringendolo ad ammettere il fatto che crede in lui.
Ivan possiede una coscienza autonoma, come tutti i personaggi di Dostoevskij, incarna un’idea e ha la possibilità di esprimere ciò che pensa e vive nel suo stato d’animo. La questione che si è posta la critica a questo riguardo è se il Dio di Ivan coincida con quello dello scrittore o se rappresenti la sua opposizione. La disputa è stata inizialmente sollevata da Rozanov, che nell’opera dedicata allo scrittore, sosteneva che l’idea di Ivan e la creazione del Grande Inquisitore coincidessero con i pensieri di Dostoevskij [24]. Un’opinione diametralmente opposta sosteneva, invece, la critica esistenzialista, che ebbe un notevolissimo peso nelle successive interpretazioni dello scrittore nei confronti del tema della fede. In particolar modo, il filosofo russo Berdjaev affermava una corrispondenza tra gli eroi dostoevskiani e le varie fasi della vita dell’autore, fino ad arrivare a una sostanziale divaricazione tra l’idea del Grande Inquisitore e la sua; divaricazione che equivale alla scelta tra l’uomo-Dio e il Dio-uomo.
Secondo S. Frank, nella figura di Ivan, Dostoevskij non intravede soltanto la minaccia del nichilismo, ma avverte un nuovo tipo di credente ateo, che sorgerà in Europa dopo la sua morte. Per lo studioso, la critica dell’autore russo coinvolge, attraverso questo personaggio, tutta la civiltà occidentale. La condanna dello scrittore si rivolgerebbe a tutta la corrente umanistica del XIX secolo – movimento nato nell’Illuminismo – che attraverso la fede dell’uomo in quanto tale, abbandona l’individuo a se stesso, cancellando il concetto cristiano che coglie l’uomo in rapporto con Dio [25].
Questi autori converrebbero nell’affermare che l’unica risposta che Dostoevskij può dare a Ivan Karamazov e ai seguaci della sola intelligenza umana consiste nella riproposizione del modello del Cristo sofferente. In altre parole, per Dostoevskij, l’umanità è liberata dal dolore, da una parte perché esso è sublimato in Dio, dall’altra perché diventa partecipazione alla sofferenza di Cristo, che, nella crocifissione, ha ricondotto a sé tutta la sofferenza del mondo. Nella sua rivolta, quindi, Ivan non nega il mistero di Dio soltanto come creatore, ma anche come redentore; il dolore per l’ingiustizia del mondo, allora, attraverso cui giudica l’operato di Dio, diventa qualcosa di inutile e destinato a non potersi trasformare nel suo opposto attraverso la redenzione. Ciò che Ivan non comprende è che il Figlio di Dio non è venuto sulla terra per spiegare il male, ma per assumere su di sé questo male. Il senso del sacrificio di Cristo è invece compreso da Dmitrij Karamazov, il fratello accusato e condannato ingiustamente per la morte del padre. Egli, pur essendo innocente, non rinnega Dio, ma accetta la sofferenza come solidarietà nell’espiazione per tutte le creature. In forza del vincolo che lega tutta l’umanità, occorre essere solidali anche con i criminali peggiori e mostrare pietà verso i più colpevoli, come fa l’umile Sonja nei confronti di Raskol’nikov [26].
La rigenerazione e il riscatto dell’uomo avvengono, in Dostoevskij, sempre attraverso il dolore, perché esso è l’elemento in cui Dio e uomo possono sentirsi accomunati, unendo i loro sforzi.
A tutte queste interpretazioni fa da contraltare l’ipotesi di Cantoni, forse la più aderente al testo, secondo cui Dostoevskij è prima di tutto un “filosofo della crisi”: della crisi di ideali, della crisi di una società che stava cambiando sempre più velocemente. Lo scrittore non offre soluzioni edificanti, non si trova in lui l’apologia di una fede pacificata, piuttosto quella della libertà di coscienza, che è apertura alla conversione alla fede più pura quanto alla perdizione più diabolica. «L’uomo vivo […] è quello in cui senso e intelletto, con tutta la loro demonicità, non si subordinano come potenze inferiori e colpevoli alla sublimità dell’amore religioso» [27].
NOTE SUL SITO
DAL TRATTATO «L’AMICIZIA SPIRITUALE» DEL BEATO AELREDO, ABATE (LIB. III; PL 195, 692-693)
http://www.maranatha.it/Ore/ord/LetMer/12MERpage.htm
XII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – MERCOLEDÌ – UFFICIO DELLE LETTURE
SECONDA LETTURA
DAL TRATTATO «L’AMICIZIA SPIRITUALE» DEL BEATO AELREDO, ABATE (LIB. III; PL 195, 692-693)
La vera, perfetta ed eterna amicizia Quel nobilissimo fra i giovani, Giònata, non badando al blasone regale, né alla successione del regno, strinse amicizia con Davide e, mettendo sullo stesso piano dell’amore il servo al suo sovrano, preferì a se stesso lui, scacciato dal padre, latitante nel deserto, condannato a morte, destinato ad essere trucidato, a tal punto che, umiliando se stesso ed esaltando l’altro, gli disse: «Tu sarai re ed io sarò secondo dopo di te» (1Sam 23,17). O specchio grande e sublime di vera amicizia! Mirabile cosa! Il re era furibondo contro il servo e gli eccitava contro, come ad un emulo del regno, tutta la nazione. Accusando i sacerdoti di tradimento, li fa ammazzare per un solo sospetto. S’aggira per boschi, si inoltra in vallate, attraversa montagne e dirupi con bande armate. Tutti promettono di farsi vendicatori dell’indignazione del re. Solo Giònata, che unico avrebbe potuto, a maggior diritto, portargli invidia, ritenne di doversi opporre al re, di favorire l’amico, di dargli consiglio tra tante avversità e, preferendo l’amicizia al regno, dice: «Tu sarai re ed io sarò secondo dopo di te». Ed osserva come il padre del giovanetto ne eccitasse la gelosia contro l’amico, insistendo con invettive, spaventandolo con le minacce di spogliarlo del regno, ricordandogli che sarebbe stato privato dell’onore. Avendo infatti quegli pronunziato la sentenza di morte contro Davide, Giònata non abbandonò l’amico. «Perché dovrà morire Davide? Cos’ha commesso, cos’ha fatto? Egli mise a repentaglio la sua vita ed abbatté il Filisteo e tu ne fosti felice. Perché dunque dovrebbe morire?» (1Sam 20,32; 19,3). A queste parole il re, montato in furia, cercò di trafiggere Giònata alla parete con la lancia e, aggiungendo invettive e minacce, gli fece questo oltraggio: Figlio di una donna di malaffare. Io so che tu lo ami per disonore tuo e vergogna della tua madre svergognata (cfr. 1Sam 20,30). Poi vomitò tutto il suo veleno sul volto del giovane, ma non trascurò le parole d’incitamento alla sua ambizione, per fomentarne l’invidia e per suscitarne la gelosia e l’amarezza. Fino a quando vivrà il figlio di Iesse, disse, il tuo regno non avrà sicurezza (cfr. 1Sam 20,31). Chi non sarebbe rimasto scosso a queste parole, chi non si sarebbe acceso di odio? Non avrebbe forse ciò corroso, sminuito e cancellato qualsiasi amore, qualsiasi stima e amicizia? Invece quel giovane affezionatissimo, mantenendo i patti dell’amicizia, forte davanti alle minacce, paziente di fronte alle invettive, spregiando il regno per la fedeltà all’amico, dimentico della gloria, ma memore della stima, disse: «Tu sarai re ed io sarò secondo dopo di te». Questa è la vera, perfetta, salda ed eterna amicizia, che l’invidia non intacca, il sospetto non sminuisce, l’ambizione non riesce a rompere. Messa alla prova non vacillò, bersagliata non cadde, battuta in breccia da tanti insulti rimase inflessibile, provocata da tante ingiurie restò incrollabile. «Va’, dunque, e fa’ anche tu lo stesso» (Lc 10,37).