UN MONDO DI GRAZIA – LETTURE DAL MIDRASH SUI SALMI MIDRASH TEHILLIM
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UN MONDO DI GRAZIA – LETTURE DAL MIDRASH SUI SALMI MIDRASH TEHILLIM
1. Un mondo di grazia
Il Salterio è stato giustamente definito un « microcosmo »: letterario, teologico, poetico, liturgico, simbolico, e altro ancora (1). Ma la definizione più esatta, più pregnante, dovrebbe essere: un « microcosmo di grazia ». « Grazia », in ebraico chesed, è infatti la parola-chiave del libro dei Salmi. Delle 245 attestazioni complessive del termine, nella Bibbia ebraica, più della metà (127) si registrano nel Salterio. Se ci volgiamo poi al derivato chasid (« grazioso », « benevolo », ma io traduco anche « santo ») le ricorrenze salmiche sono addirittura 25 su 32. Perciò, per tentare di delineare una teologia dei Salmi, sarebbe sufficiente mettere a fuoco questo concetto basilare, perché è quello che meglio di ogni altro esprime e riassume il rapporto uomo-Dio nel Salterio.
Questo rapporto si fonda appunto sulla « grazia » o benevolenza divina nei confronti degli uomini. Come altri importanti termini ebraici a forte connota zio ne teologica, neppure chesed è di facile traduzione. lo rimango ancorato all’equivalenza tradizionale (il latino gratia), benché i moderni preferiscano magari altre soluzioni, e il Dizionario Teologico dell’Antico Testamento curato da Jenni e Westermann proponga, ad esempio, « bontà ». Più importante che stabilire equivalenze, tutte più o meno inadeguate, è cercare di afferrare il concetto, quale emerge dall’uso del termine nei vari contesti.
Kathleen Sakenfeld, una studiosa americana che ha dedicato a questo termine un’intera monografia (2), arriva grosso modo alle seguenti conclusioni (che riassumo): la chesed è un atto a favore di qualcuno da parte di un altro che ha un’ autorità superiore, il quale può avere una responsabilità morale per compiere tale atto, ma non una responsabilità legale, sicché rimane pur sempre libero di non compierlo.
Va sottolineata la clausola « non una responsabilità legale », perché la Sakenfeld dimostra che il termine chesed non si applica esclusivamente a rapporti giuridici, comportanti diritti e doveri reciproci, come quelli tra marito e moglie, genitori e figli, sovrano e sudditi: è chesed qualunque gesto di benevolenza da parte di chi è in grado di fare un favore a un altro che si trova nel bisogno.
È chesed, per esempio, la benevolenza reciproca, sigillata da un patto, che si usano Gionata e David: dapprima Gionata usa clemenza verso David, aiutandolo a sfuggire la morte, e poi David promette » grazia » alla casa di Gionata, una volta che avrà conseguito il regno (cf. 1Sam 20,8-16). La benevolenza è usata, reciprocamente e alternativamente, da chi si trova in situazione di forza: perciò è un « patto », ma un patto amichevole, non un vincolo necessario, un legame di tipo giuridico. Vi è dunque responsabilità morale, e non legale: proprio questo tipo di responsabilità morale è la chesed. Altrove, David dice: « Voglio usare (lett.: ‘fare’) benevolenza a Chanun figlio di Nachash, come suo padre ha usato (lett.: ‘fatto’) benevolenza con me » (2Sam 10,2). Vuol dire che gli restituisce un favore, a cui però non è obbligato: in termini strettamente giuridici, egli potrebbe benissimo esimersi dal farlo.
Avendo già citato per due volte David, è il caso di aggiungere che, all’infuori del Salterio, il luogo in cui ricorre più spesso il termine chesed è precisamente la sua storia, narrata nei due libri di Samuele. Si direbbe che la chesed sia proprio l’invenzione di David, e che egli si possa definire un genio della grazia. Nel corso della sua vicenda umana, vissuta a lungo in condizioni di inferiorità, egli l’ha anzitutto sperimentata dagli altri e da Dio. Divenuto re, l’ha usata verso gli altri con la stessa divina prodigalità.
Questa divina prodigalità, questa graziosa generosità, si riflette in tutto il Salterio davidico. Ogni volta che David si rivolge a Dio fa sempre appello, implicitamente, ma spesso anche esplicitamente, alla sua grazia: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua grazia » (Sal 51,3). Il midrash fa l’esempio di un malato che va’ dal medico senza avere i soldi per pagargli la prestazione: può solo fare appello alla sua benevolenza, alla sua « responsabilità morale » (nr. 18).
Un altro salmo afferma: « Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: a Dio appartiene la forza e tua, Signore, è la grazia » (Sal 62, 12). Il midrash che riporto su questo versetto si sofferma soprattutto nel dire che il Santo, sia benedetto, non usa il metro degli uomini per giudicare (nr. 20). Ma un altro midrash sullo stesso passo, ancora più noto e importante (sfortunatamente assente però dalla raccolta cui mi sono rigorosamente attenuto, cioè il Midrash Tehillim) sostiene che « forza » e « grazia » sono una sola cosa in Dio: diventano due solamente per noi, cioè secondo il nostro metro umano, le nostre scale di valori che esaltano la forza e deprimono la grazia.
La grazia, o « gratuità », come atteggiamento esistenziale, viene chiamata, con parola post-biblica, chasidut: è il modo di essere dei chasidim. Ho già dichiarato la mia preferenza per « santo », quando devo tradurre chasid, perché trovo insoddisfacenti le rese correnti con « pio » o « devoto », ma talora uso anche « benevolo », nel senso attivo di « caritatevole », cioè qualcuno che usa grazia, che fa misericordia (nr. 29). Così è colui che ha cura del debole, secondo le parole del Sal 41 (nr. 15). E il midrash sul Sal 118,20 (« Questa è la porta del Signore: per essa entrino i giusti ») ricorda singolarmente la scena del giudizio finale descritta da Matteo: nel regno sono ammessi solamente coloro che avranno fatto grazia agli affamati, agli assetati, agli ignudi (nr. 41).
Si edifica così, attraverso le pagine dei Salmi, con materiale prezioso, perla dopo perla, quello che possiamo veramente definire un « mondo di grazia ». L’espressione deriva alla lettera dal Sal 89,3 secondo il testo masoretico, che su questo punto si discosta sensibilmente da qualsiasi versione, antica o moderna. E molto probabile, a dire il vero, che il testo ebraico di questo salmo sia in cattivo stato: per il solo v. 3, l’edizione stuttgartense propone non meno di sei correzioni. Resta, comunque, che il testo ebraico è leggibile anche così com’è, e soprattutto dà un senso estremamente suggestivo: « Giacché ho detto: un mondo di grazia sarà edificato » .
Solitamente si interpreta qualcosa come: « la mia grazia sarà edificata per sempre », ma ciò suppone tutta una serie di correzioni, e soprattutto l’inversione chesed ‘olam, « grazia per sempre », in luogo di ‘olam chesed, « mondo di grazia ». Va notato, infatti, che il termine ‘olam ha sia il valore temporale di « eternità », sia quello spaziale di « mondo » (comunissimo in ebraico rabbinico, ma forse reperibile anche in quello biblico), e il midrash gioca costantemente su questa ambivalenza semantica. Un’espressione tipica del Salterio: hodu la-Adonaj ki tov ki le-’olam chasdo, può essere interpretata: « Rendete grazie al Signore perché è buono, perchéeterna è la sua misericordia »; ma anche: « perché la sua grazia è per il mondo » (da vari esempi, alcuni dei quali inclusi nella presente antologia, mi sembra che sia proprio quest’ultimo il sensus locutionis nel Midrash Tehillim).
Si tratta davvero, dunque, di edificare un « mondo di grazia », vale a dire un mondo edificato sulla grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione nella grazia: tale almeno è il progetto divino (ki amarti: « Giacché ho detto » oppure « ho pensato »). Secondo il comune insegnamento rabbinico, il primo mondo è stato creato attraverso una miscela di giustizia e di misericordia, avendo Dio capito fin dal principio che, se avesse impiegato solo la giustizia, avrebbe dovuto distruggerlo subito dopo. Ma il nuovo mondo sarà un mondo di grazia. Che cosa significa? Il salmo prosegue dicendo: « Nei cieli hai stabilito la tua fedeltà ». E a tutti noi suona familiare (non fosse altro che dal prologo di Giovanni) 1′endiadi biblica « grazia e fedeltà » (chesed wa-emet), ovverosia « grazia fedele ». La prima creazione era fondata su « giustizia e misericordia », la nuova creazione su « grazia e fedeltà », cioè sulla grazia fedele di Dio, come fedeli sono state le grazie che egli ha accordato a David (Is 55,3). Accanto a questa, si può fare anche un’ altra osservazione: essendovi una cosi precisa corrispondenza tra grazia e fedeltà, ed essendo quest’ultima stabilita nei cieli (cioè una prerogativa divina), vuol dire che un « mondo di grazia » sarà appunto conforme alla « grazia fedele » che ha luogo nei cieli.
Con la grazia tutta rabbinica di dire cose grandi in parole povere, il midrash paragona il trono della gloria (stabilito, secondo Is 16,5, sulla grazia e sulla fedeltà) a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino! Tale è la grazia: sassolino, realtà infinitesima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Sassolino dopo sassolino, ogni chasid apportando il suo, si costruirà finalmente un mondo fondato sulla grazia.
Ma non si deve parlare soltanto di un ‘olam chesed, si può, anzi si deve parlare anche di una chesed ‘olam, di una grazia che rimane « per sempre ». Se è vero che la chesed divina è gratuita, non motivata giuridicamente, ma frutto di un atto puramente benevolo, è altrettanto vero che essa è « fedele », cioè duratura. Non è « da sempre », poiché essa trova inizio in un gesto, in un dono gratuito, in una libera chiamata; ma una volta compiuto quest’atto iniziale, essa rimane « per sempre » e non è più cancellabile neppure dal peccato, neppure dalle sue contraddizioni umane. E proprio questo il senso da dare alle « grazie fedeli » di David, che sono tali da estendersi anche ai suoi figli dopo di lui (vedi 2Sam 7, vedi Sal 89), mentre in Saul, che pure aveva ricevuto l’unzione come David, la grazia del regno non è stata « fedele », non è stata cioè permanente.
« Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la sua grazia è per sempre » è il ritornello forse più comune di tutto il Salterio. Il midrash non fa che esplicitare, molto semplicemente, la portata di questo versetto: « Che cosa significa che ‘la sua grazia è per sempre’? Che il Santo, benedetto sia, non fa grazia a Israele per un anno o due, ma per sempre ». Estensione nel senso della durata, ma anche in senso quantitativo: le grazie che il Signore ha riservato a Israele sono infatti senza limite (nr. 40).
Come afferma, tra gli altri, il Sal 106,2, le grazie del Signore sono inenarrabili o innumerevoli (qui c’è un gioco di parole sul verbo le-sapper, che può significare entrambe le cose). Innumerevoli non in senso piattamente aritmetico, come se noi fossimo solo incapaci di tenerne il conto. Ma innumerevoli soprattutto perché noi non siamo neppure capaci di individuarle, di realizzare che esse si stanno producendo in nostro favore, di rendercene conto. Il versetto 4 del grande hallel (Sal 136): « A colui che opera grandi prodigi da solo, perché la sua grazia è per sempre », viene perciò ricondotto a questo senso: « lui solo sa » quanti sono i prodigi che opera per noi. Noi il più delle volte semplicemente li ignoriamo (nr. 37).
Grazia di Dio per sempre, e grazia di Dio per tutti. Certo il Signore è buono anzitutto « verso Israele », ciò che midrashicamente però vuole dire « verso i puri di cuore » (nr. 26). La sua grazia non è ingiusta, rimane fedele alle sue scelte. Cionondimeno, essa si riversa su tutti gli uomini che si prestano a riceverla, anche – come afferma il Sal 68,19 – « sui ribelli ». Questo difficile versetto è traducibile, grosso modo, cosi:
Salito in alto hai catturato prigionieri,
hai preso doni per gli uomini e anche per i ribelli
perché in essi dimori il Signore Dio.
Il midrash lo applica al dono della Torà, a Mosè che sale sul monte, che prende doni – appunto il dono della Torà – destinati agli uomini. Ma non solo agli uomini pii e giusti: « anche per i ribelli ». Anche i ribelli possono essere resi giusti, se accolgono il dono di Dio, il quale è fatto proprio per questo: « perché in essi dimori il Signore Dio » (nr. 24).
Parafrasando un noto theologumenon rabbinico, richiamato in questa stessa raccolta (nr. 31), potremmo forse concludere dicendo che « la grazia è il luogo del mondo, e non il mondo il luogo della grazia ». Entrambe le affermazioni, di per se stesse, sono vere, ma la seconda viene paradossalmente negata solo per far risaltare la prima come ancora più vera, come una verità ancora più profonda. E vero che il mondo nel quale viviamo è dimora, ricettacolo della grazia divina. Ma è ancora più vero che questa stessa grazia divina è il luogo dove consiste, dove si fonda, dove riposa il nostro mondo. Se noi affermassimo soltanto che « il mondo è il luogo della grazia », noi metteremmo ancora al centro il mondo, cioè in fondo noi stessi, con le nostre capacità di accoglienza del dono della grazia. Conviene dire, piuttosto, che « la grazia è il luogo del mondo »: la grazia di Dio è ciò che ci fa sussistere, ciò che ci previene sempre, ciò che, in definitiva, suscita in noi la stessa capacità di accoglierla e di aderirvi cordialmente, liberamente. Non è il mondo che pone in atto la grazia, ma è la grazia che pone in atto il mondo: perciò possiamo parlare di un « mondo di grazia ».