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UN MONDO DI GRAZIA – LETTURE DAL MIDRASH SUI SALMI MIDRASH TEHILLIM

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UN MONDO DI GRAZIA – LETTURE DAL MIDRASH SUI SALMI MIDRASH TEHILLIM

1. Un mondo di grazia

Il Salterio è stato giustamente definito un « microcosmo »: letterario, teologico, poetico, liturgico, simbolico, e altro ancora (1). Ma la definizione più esatta, più pregnante, dovrebbe essere: un « microcosmo di grazia ». « Grazia », in ebraico chesed, è infatti la parola-chiave del libro dei Salmi. Delle 245 attestazioni complessive del termine, nella Bibbia ebraica, più della metà (127) si registrano nel Salterio. Se ci volgiamo poi al derivato chasid (« grazioso », « benevolo », ma io traduco anche « santo ») le ricorrenze salmiche sono addirittura 25 su 32. Perciò, per tentare di delineare una teologia dei Salmi, sarebbe sufficiente mettere a fuoco questo concetto basilare, perché è quello che meglio di ogni altro esprime e riassume il rapporto uomo-Dio nel Salterio.
Questo rapporto si fonda appunto sulla « grazia » o benevolenza divina nei confronti degli uomini. Come altri importanti termini ebraici a forte connota zio ne teologica, neppure chesed è di facile traduzione. lo rimango ancorato all’equivalenza tradizionale (il latino gratia), benché i moderni preferiscano magari altre soluzioni, e il Dizionario Teologico dell’Antico Testamento curato da Jenni e Westermann proponga, ad esempio, « bontà ». Più importante che stabilire equivalenze, tutte più o meno inadeguate, è cercare di afferrare il concetto, quale emerge dall’uso del termine nei vari contesti.
Kathleen Sakenfeld, una studiosa americana che ha dedicato a questo termine un’intera monografia (2), arriva grosso modo alle seguenti conclusioni (che riassumo): la chesed è un atto a favore di qualcuno da parte di un altro che ha un’ autorità superiore, il quale può avere una responsabilità morale per compiere tale atto, ma non una responsabilità legale, sicché rimane pur sempre libero di non compierlo.
Va sottolineata la clausola « non una responsabilità legale », perché la Sakenfeld dimostra che il termine chesed non si applica esclusivamente a rapporti giuridici, comportanti diritti e doveri reciproci, come quelli tra marito e moglie, genitori e figli, sovrano e sudditi: è chesed qualunque gesto di benevolenza da parte di chi è in grado di fare un favore a un altro che si trova nel bisogno.
È chesed, per esempio, la benevolenza reciproca, sigillata da un patto, che si usano Gionata e David: dapprima Gionata usa clemenza verso David, aiutandolo a sfuggire la morte, e poi David promette » grazia » alla casa di Gionata, una volta che avrà conseguito il regno (cf. 1Sam 20,8-16). La benevolenza è usata, reciprocamente e alternativamente, da chi si trova in situazione di forza: perciò è un « patto », ma un patto amichevole, non un vincolo necessario, un legame di tipo giuridico. Vi è dunque responsabilità morale, e non legale: proprio questo tipo di responsabilità morale è la chesed. Altrove, David dice: « Voglio usare (lett.: ‘fare’) benevolenza a Chanun figlio di Nachash, come suo padre ha usato (lett.: ‘fatto’) benevolenza con me » (2Sam 10,2). Vuol dire che gli restituisce un favore, a cui però non è obbligato: in termini strettamente giuridici, egli potrebbe benissimo esimersi dal farlo.
Avendo già citato per due volte David, è il caso di aggiungere che, all’infuori del Salterio, il luogo in cui ricorre più spesso il termine chesed è precisamente la sua storia, narrata nei due libri di Samuele. Si direbbe che la chesed sia proprio l’invenzione di David, e che egli si possa definire un genio della grazia. Nel corso della sua vicenda umana, vissuta a lungo in condizioni di inferiorità, egli l’ha anzitutto sperimentata dagli altri e da Dio. Divenuto re, l’ha usata verso gli altri con la stessa divina prodigalità.
Questa divina prodigalità, questa graziosa generosità, si riflette in tutto il Salterio davidico. Ogni volta che David si rivolge a Dio fa sempre appello, implicitamente, ma spesso anche esplicitamente, alla sua grazia: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua grazia » (Sal 51,3). Il midrash fa l’esempio di un malato che va’ dal medico senza avere i soldi per pagargli la prestazione: può solo fare appello alla sua benevolenza, alla sua « responsabilità morale » (nr. 18).
Un altro salmo afferma: « Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: a Dio appartiene la forza e tua, Signore, è la grazia » (Sal 62, 12). Il midrash che riporto su questo versetto si sofferma soprattutto nel dire che il Santo, sia benedetto, non usa il metro degli uomini per giudicare (nr. 20). Ma un altro midrash sullo stesso passo, ancora più noto e importante (sfortunatamente assente però dalla raccolta cui mi sono rigorosamente attenuto, cioè il Midrash Tehillim) sostiene che « forza » e « grazia » sono una sola cosa in Dio: diventano due solamente per noi, cioè secondo il nostro metro umano, le nostre scale di valori che esaltano la forza e deprimono la grazia.
La grazia, o « gratuità », come atteggiamento esistenziale, viene chiamata, con parola post-biblica, chasidut: è il modo di essere dei chasidim. Ho già dichiarato la mia preferenza per « santo », quando devo tradurre chasid, perché trovo insoddisfacenti le rese correnti con « pio » o « devoto », ma talora uso anche « benevolo », nel senso attivo di « caritatevole », cioè qualcuno che usa grazia, che fa misericordia (nr. 29). Così è colui che ha cura del debole, secondo le parole del Sal 41 (nr. 15). E il midrash sul Sal 118,20 (« Questa è la porta del Signore: per essa entrino i giusti ») ricorda singolarmente la scena del giudizio finale descritta da Matteo: nel regno sono ammessi solamente coloro che avranno fatto grazia agli affamati, agli assetati, agli ignudi (nr. 41).
Si edifica così, attraverso le pagine dei Salmi, con materiale prezioso, perla dopo perla, quello che possiamo veramente definire un « mondo di grazia ». L’espressione deriva alla lettera dal Sal 89,3 secondo il testo masoretico, che su questo punto si discosta sensibilmente da qualsiasi versione, antica o moderna. E molto probabile, a dire il vero, che il testo ebraico di questo salmo sia in cattivo stato: per il solo v. 3, l’edizione stuttgartense propone non meno di sei correzioni. Resta, comunque, che il testo ebraico è leggibile anche così com’è, e soprattutto dà un senso estremamente suggestivo: « Giacché ho detto: un mondo di grazia sarà edificato » .
Solitamente si interpreta qualcosa come: « la mia grazia sarà edificata per sempre », ma ciò suppone tutta una serie di correzioni, e soprattutto l’inversione chesed ‘olam, « grazia per sempre », in luogo di ‘olam chesed, « mondo di grazia ». Va notato, infatti, che il termine ‘olam ha sia il valore temporale di « eternità », sia quello spaziale di « mondo » (comunissimo in ebraico rabbinico, ma forse reperibile anche in quello biblico), e il midrash gioca costantemente su questa ambivalenza semantica. Un’espressione tipica del Salterio: hodu la-Adonaj ki tov ki le-’olam chasdo, può essere interpretata: « Rendete grazie al Signore perché è buono, perchéeterna è la sua misericordia »; ma anche: « perché la sua grazia è per il mondo » (da vari esempi, alcuni dei quali inclusi nella presente antologia, mi sembra che sia proprio quest’ultimo il sensus locutionis nel Midrash Tehillim).
Si tratta davvero, dunque, di edificare un « mondo di grazia », vale a dire un mondo edificato sulla grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione nella grazia: tale almeno è il progetto divino (ki amarti: « Giacché ho detto » oppure « ho pensato »). Secondo il comune insegnamento rabbinico, il primo mondo è stato creato attraverso una miscela di giustizia e di misericordia, avendo Dio capito fin dal principio che, se avesse impiegato solo la giustizia, avrebbe dovuto distruggerlo subito dopo. Ma il nuovo mondo sarà un mondo di grazia. Che cosa significa? Il salmo prosegue dicendo: « Nei cieli hai stabilito la tua fedeltà ». E a tutti noi suona familiare (non fosse altro che dal prologo di Giovanni) 1′endiadi biblica « grazia e fedeltà » (chesed wa-emet), ovverosia « grazia fedele ». La prima creazione era fondata su « giustizia e misericordia », la nuova creazione su « grazia e fedeltà », cioè sulla grazia fedele di Dio, come fedeli sono state le grazie che egli ha accordato a David (Is 55,3). Accanto a questa, si può fare anche un’ altra osservazione: essendovi una cosi precisa corrispondenza tra grazia e fedeltà, ed essendo quest’ultima stabilita nei cieli (cioè una prerogativa divina), vuol dire che un « mondo di grazia » sarà appunto conforme alla « grazia fedele » che ha luogo nei cieli.
Con la grazia tutta rabbinica di dire cose grandi in parole povere, il midrash paragona il trono della gloria (stabilito, secondo Is 16,5, sulla grazia e sulla fedeltà) a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino! Tale è la grazia: sassolino, realtà infinitesima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Sassolino dopo sassolino, ogni chasid apportando il suo, si costruirà finalmente un mondo fondato sulla grazia.
Ma non si deve parlare soltanto di un ‘olam chesed, si può, anzi si deve parlare anche di una chesed ‘olam, di una grazia che rimane « per sempre ». Se è vero che la chesed divina è gratuita, non motivata giuridicamente, ma frutto di un atto puramente benevolo, è altrettanto vero che essa è « fedele », cioè duratura. Non è « da sempre », poiché essa trova inizio in un gesto, in un dono gratuito, in una libera chiamata; ma una volta compiuto quest’atto iniziale, essa rimane « per sempre » e non è più cancellabile neppure dal peccato, neppure dalle sue contraddizioni umane. E proprio questo il senso da dare alle « grazie fedeli » di David, che sono tali da estendersi anche ai suoi figli dopo di lui (vedi 2Sam 7, vedi Sal 89), mentre in Saul, che pure aveva ricevuto l’unzione come David, la grazia del regno non è stata « fedele », non è stata cioè permanente.
« Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la sua grazia è per sempre » è il ritornello forse più comune di tutto il Salterio. Il midrash non fa che esplicitare, molto semplicemente, la portata di questo versetto: « Che cosa significa che ‘la sua grazia è per sempre’? Che il Santo, benedetto sia, non fa grazia a Israele per un anno o due, ma per sempre ». Estensione nel senso della durata, ma anche in senso quantitativo: le grazie che il Signore ha riservato a Israele sono infatti senza limite (nr. 40).
Come afferma, tra gli altri, il Sal 106,2, le grazie del Signore sono inenarrabili o innumerevoli (qui c’è un gioco di parole sul verbo le-sapper, che può significare entrambe le cose). Innumerevoli non in senso piattamente aritmetico, come se noi fossimo solo incapaci di tenerne il conto. Ma innumerevoli soprattutto perché noi non siamo neppure capaci di individuarle, di realizzare che esse si stanno producendo in nostro favore, di rendercene conto. Il versetto 4 del grande hallel (Sal 136): « A colui che opera grandi prodigi da solo, perché la sua grazia è per sempre », viene perciò ricondotto a questo senso: « lui solo sa » quanti sono i prodigi che opera per noi. Noi il più delle volte semplicemente li ignoriamo (nr. 37).
Grazia di Dio per sempre, e grazia di Dio per tutti. Certo il Signore è buono anzitutto « verso Israele », ciò che midrashicamente però vuole dire « verso i puri di cuore » (nr. 26). La sua grazia non è ingiusta, rimane fedele alle sue scelte. Cionondimeno, essa si riversa su tutti gli uomini che si prestano a riceverla, anche – come afferma il Sal 68,19 – « sui ribelli ». Questo difficile versetto è traducibile, grosso modo, cosi:

Salito in alto hai catturato prigionieri,
hai preso doni per gli uomini e anche per i ribelli
perché in essi dimori il Signore Dio.

Il midrash lo applica al dono della Torà, a Mosè che sale sul monte, che prende doni – appunto il dono della Torà – destinati agli uomini. Ma non solo agli uomini pii e giusti: « anche per i ribelli ». Anche i ribelli possono essere resi giusti, se accolgono il dono di Dio, il quale è fatto proprio per questo: « perché in essi dimori il Signore Dio » (nr. 24).
Parafrasando un noto theologumenon rabbinico, richiamato in questa stessa raccolta (nr. 31), potremmo forse concludere dicendo che « la grazia è il luogo del mondo, e non il mondo il luogo della grazia ». Entrambe le affermazioni, di per se stesse, sono vere, ma la seconda viene paradossalmente negata solo per far risaltare la prima come ancora più vera, come una verità ancora più profonda. E vero che il mondo nel quale viviamo è dimora, ricettacolo della grazia divina. Ma è ancora più vero che questa stessa grazia divina è il luogo dove consiste, dove si fonda, dove riposa il nostro mondo. Se noi affermassimo soltanto che « il mondo è il luogo della grazia », noi metteremmo ancora al centro il mondo, cioè in fondo noi stessi, con le nostre capacità di accoglienza del dono della grazia. Conviene dire, piuttosto, che « la grazia è il luogo del mondo »: la grazia di Dio è ciò che ci fa sussistere, ciò che ci previene sempre, ciò che, in definitiva, suscita in noi la stessa capacità di accoglierla e di aderirvi cordialmente, liberamente. Non è il mondo che pone in atto la grazia, ma è la grazia che pone in atto il mondo: perciò possiamo parlare di un « mondo di grazia ».

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: STUDI |on 23 avril, 2019 |Pas de commentaires »

GUERRA E PACE NELL’ EBRAISMO

http://www.reteblu.org/spiritualit%C3%A0/dossier%20Dio%20e%20la%20guerra.html#Superare la teologia della guerra giusta

GUERRA E PACE NELL’ EBRAISMO

R. Della Rocca

rabbino capo di Venezia

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.
Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.
lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.
In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la « terra è stata in pace per quarant’anni » (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.
Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.
Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera « Mishnè Torah » nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.
Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): « Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace ».
Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto « non distruggere alcun albero » (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.
Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).
Queste norme, che vanno sotto il nome di « bal tashchìt », vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.
Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: « … Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode? »
Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. « Non gioire quando il tuo nemico cade » (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.
Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.
Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: « … Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue… » (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.
La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.
In ebraico si dice « shalom ». La parola si rifà alla radice « shalem » che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.
Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: « …Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace… ».
Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.
Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogno sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: « … Concedi una pace buona su di noi… ». La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.
Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola « shalom » pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: « … Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona…  » (Trattato di Avòt, 4:15).

Tratto dal sito Morashà

MISTERO DEL NOME DI DIO

http://www.nostreradici.it/nome.htm

MISTERO DEL NOME DI DIO

Nell’ebraismo, chiamare qualcuno per nome significa conoscere la realtà del suo essere più profondo, la sua vocazione, la sua missione, il suo destino. È come tenere la sua anima nella propria mano, avere potere su di lui. Per questa ragione, il Nome di Dio, che indica la sua essenza stessa, è considerato impronunciabile dagli ebrei. Solo il Sommo sacerdote, nel Tempio di Gerusalemme, poteva pronunciarlo nel giorno di Kippur (espiazione), quando faceva la triplice confessione dei peccati per sé, per i sacerdoti e per la comunità. A questo riguardo il Talmud dice: « Quando i sacerdoti e il popolo che stavano nell’atrio, udivano il nome glorioso e venerato pronunciato liberamente dalla bocca del Sommo Sacerdote in santità e purezza, piegavano le ginocchia e si prostravano e cadevano sulla loro faccia ed esclamavano: Benedetto il suo Nome glorioso e sovrano per sempre in eterno » (Jomà, VI,2).

Nella Bibbia ebraica il Nome è espresso con quattro consonanti: MISTERO DEL NOME DI DIO dans ebraismo tetragraz1- JHWH, dette « Tetragramma sacro », citato ben 6.828 volte. Ma la sua esatta vocalizzazione è oggi sconosciuta. E’ bene ricordare che nell’alfabeto ebraico le vocali furono aggiunte in epoca molto tarda (VI-VIII sec. d. C.).

Quando nella Bibbia l’ebreo di allora e di oggi trova quelle famose quattro lettere che cosa legge? La risposta ce la offrono quei rabbini noti come Masoreti (« i tradizionali »), ai quali dobbiamo la vocalizzazione del testo consonantico della Bibbia durante l’alto Medioevo. Essi posero sotto le quattro consonanti JHWH le vocali della parola Adonai, « Signore », che essi pronunciano al posto del tetragramma sacro.

Le vocali sono: e – o – a, e servivano a ricordare al lettore che, giunto a tetragraz1 dans EBRAISMO: STUDI , doveva dire Adonai. Nel tardo Medioevo i cristiani non essendo più a conoscenza di questo meccanismo di sostituzione lessero le quattro lettere JHWH con le vocali e – o – a, creando così quello sgorbio che è Jehowah o Geova che è durato fino ai nostri giorni » (Mons. Gianfranco Ravasi « Jesus »6/1990).

Ancor più diffuso tutt’oggi tra i cristiani è purtroppo l’uso di « Jahwè » che non solo è offensivo per gli ebrei, ma è anche del tutto arbitrario, visto che non se ne conosce la pronuncia.

Il Catechismo degli Adulti della Conferenza Episcopale Italiana: « La Verità vi farà liberi » così si esprime circa il Nome di Dio: « La tradizione ebraica considera questo nome impronunciabile e suggerisce di dire in suo luogo « Adonai », cioè « Signore » o di pronunciare un altro titolo divino. Per rispetto ai nostri fratelli ebrei questo catechismo invita a fare altrettanto e in ogni caso riduce all’indispensabile l’uso del tetragramma sacro » (48,6).

Se questo invito della CEI venisse accolto nelle nostre comunità cristiane, anche certi canti che ripetono all’infinito il Nome di Dio, verrebbero rivisti e corretti. Purtroppo, però, il tetragramma sacro viene ancora troppo spesso vocalizzato da certi sacerdoti, catechisti e da una parte della stampa religiosa.

v.s.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: STUDI |on 13 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

Shabbat : Il significato del riposo dal lavoro come liberazione dalle catene del tempo.

http://www.shalom.it/J/index.php?option=com_content&task=view&id=1463&Itemid=163&ed=79

C’È UN TEMPO PER IL SACRO E UNO PER IL PROFANO

WRITTEN BY JONATAN DELLA ROCCA

Friday, 21 November 2014

Il significato del riposo dal lavoro come liberazione dalle catene del tempo.

di Jonatan Della Rocca

Shabbat rappresenta il paradigma del tempo sacro. È il giorno destinato alla famiglia, al riposo e alla spiritualità, lontano dalla quotidianità professionale dei restanti sei giorni. Una delle parole più eminenti « Kadosh » – scrive Abraham Joshua Heschel, viene usata per la prima volta nella Genesi, alla fine della storia della Creazione: « D-o benedisse il settimo giorno e lo santificò ». Nel racconto della creazione a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il concetto di santità, solo al concetto di tempo sabbatico. Tanto inchiostro è stato dedicato dalla tradizione rabbinica a ciò. Mentre gli studi scientifici, a cominciare dalla sociologia applicata al concetto di tempo, hanno approfondito le teorie scientifiche sulla distinzione tra tempo sacro e tempo profano: da Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia, passando per Norbert Elias, fino ad arrivare, tanto per citarne alcuni tra i più importanti, agli studi di Mircea Eliade, Erich Fromm ed Eviatar Zerubavel. Nei loro studi hanno messo in rilievo il concetto di tempo non visto solo come una entità omogenea quantitativa, ma come abilità socioculturale di distinzione tra diverse qualità di periodi di tempo.
Lo stesso Durkheim, nella sua analisi dell’organizzazione sociale della vita religiosa, ha sottolineato la fondamentale divisione bipartita del tempo in due parti distinte, reciprocamente esclusive, essendo l’una dedicata all’attività profana di ogni giorno, e l’altra consacrata al culto. Così scrive Durkheim nella sua opera fondamentale « Le forme elementari della vita religiosa »: « …l’aspetto caratteristico del fenomeno religioso è il fatto che esso presuppone sempre una divisione dell’universo conosciuto e conoscibile in due generi che comprendono tutto ciò che esiste, ma che si escludono radicalmente. Le cose sacre sono quelle protette e isolate dalle interdizioni; le cose profane sono invece quelle a cui si riferiscono queste interdizioni, e che debbono restare a distanza dalle prime. Non esiste nella storia del pensiero umano un altro esempio di due categorie di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l’una all’altra.
L’opposizione tradizionale tra il bene e il male non è nulla al confronto… Il sacro e il profano sono stati sempre e ovunque concepiti dallo spirito umano come generi separati, cioè come due mondi tra cui non c’è nulla in comune… ». Il calendario ebraico è denso di questa contrapposizione tra tempo sacro e profano: i sei giorni della settimana in rapporto al settimo giorno, il tempo specifico per l’esercizio del sacerdozio e lo stesso tempo consacrato al lavoro distinto dal tempo vano, profanazione del dono vitale divino. Lo Shabbat è il collegamento con la creazione del mondo, dove D-o dopo i sei giorni della Genesi, si è astenuto nel giorno successivo dal compiere qualsiasi opera.
Scrive Erich Fromm: « La Bibbia nella sua concezione del Sabato fa un tentativo completamente nuovo di risolvere il problema: arrestando ogni intervento nella natura per un giorno il tempo è eliminato; dove non c’è mutamento, né lavoro, né intromissione umana, non esiste tempo. Invece di un Sabato in cui l’uomo si inginocchia davanti al Signore del tempo. Il Sabato biblico è il simbolo della vittoria umana sul tempo… Il Sabato è il simbolo di uno stato d’unità fra l’uomo e la natura e fra uomo e uomo. Non lavorando – cioè non partecipando al processo del cambiamento naturale e sociale – l’uomo è libero dalle catene del tempo, anche per un solo giorno alla settimana ». In questa osservanza dettata nella Torah, gli ebrei hanno mantenuto ininterrottamente nel corso della storia questo filo che parte dalla Creazione per legarsi al tempo messianico, di cui, come afferma il Talmud, il settimo giorno è il suo anticipatore spirituale. Come nota il sociologo Zerubavel, nello Shabbat non vi è mai interruzione del tempo della Creazione, infatti la tradizione rabbinica definisce il settimo giorno nel suo arrivo « Moavé Sciabbat » – l’arrivo del Sabato e la partenza con « Mozzé Shabbat » – l’uscita del Sabato, non usando erroneamente i termini inizio e fine. Perché il vero inizio per l’ebraismo è stato il primo Shabbat della Creazione del mondo. 

Publié dans:Ebraismo Shabbat, EBRAISMO: STUDI |on 15 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

EBRAISMO E CONCEZIONE SPAZIO-TEMPORALE DELL’ARTE

http://www.ucei.it/giornatadellacultura2003/arte/zevi.htm

EBRAISMO E CONCEZIONE SPAZIO-TEMPORALE DELL’ARTE

di BRUNO ZEVI

(Dal discorso inaugurale tenuto inoccasione del IX Congresso delle Comunità Israelitiche Italiane – 9 Giugno 1974)

[...] Si è detto che l’ebraismo è una concezione del tempo; che, mentre la divinità di altri popoli erano associate a luoghi e cose, il Dio d’Israele è il Dio degli eventi; che la vita ebraica, scandita sul Libro, è permeata di storia, cioè di una coscienza temporalizzata dei compiti umani.
[...] In realtà, il pensiero ebraico, dialogando nel corso dei secoli con gli indirizzi filosofici emergenti in molteplici e contraddittori contesti socio-culturali, ha respinto qualsiasi dogma e feticcio, compreso quello del tempo.
[...] Le nostre solennità sono segnate, in larga misura, dalle stagioni e dai ricordi. Nel sabato i religiosi individuano la santificazione del tempo, di Dio, dell’esistenza. « I sabati sono le nostre grandi cattedrali », afferma Heschel, e spiega: « Il rituale ebraico può essere qualificato come l’arte delle forme significate nel tempo, come « architettura del tempo »… L’essenza del sabato è assolutamente fuori dello spazio. Per sei giorni della settimana noi viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio, il sabato ci mette in sintonia con la santità del tempo ». « Dal mondo della creazione » passiamo « alla creazione del mondo ». Traducendo in termini di costume laico, noi privilegiamo la crescita e di divenire sull’essere, la formazione rispetto alla forma come entità conclusa.
[...] E’ logico che questa concezione del tempo, così sperimentata nel tempo contrassegna l’eresia. Gli ebrei sono ebrei in quanto respingono la staticità delle cose e delle idee, e credono nel mutamento e nel riscatto.
In arte, nel mondo antico, l’atteggiamento iconoclasta è un fatto eretico: non dipende soltanto dalla volontà di non immiserire un principio irrappresentabile nel suo contenuto, ma anche dal giudizio sull’inadeguatezza della forma rappresentativa. Le immagini del mondo antico, specie quelle egizie, sono statiche. L’ideale greco raffigura l’essere in senso assoluto, sovrastorico, atemporale, – non l’uomo nella dinamica del quotidiano, ma il tipo, anzi il prototipo umano. Quest’arte non era utilizzabile per comunicare il messaggio ebraico.
La tesi che sottopongo al vostro esame può essere riassunta in poche parole. L’ebraismo, in arte, si oppone a tre concezioni: a) al classicismo, b) all’illuminismo, c) al cubismo analitico.
No al classicismo, perché punta sull’ordine a priori.
No all’illuminismo, perché propugna idee universali, assolute e assolutistiche.
No al cubismo, perché astrae dalla materia, scompone sovrappone ed incastra le forme con un processo solo in apparenza dinamico, poiché non riguarda l’autofarsi della forma, ma il montaggio di forme.
L’ebraismo in arte punta invece sull’anticlassico, sulla destrutturazione espressionista della forma; rigetta i feticci ideologici della proporzione aurea, e celebra la relatività; smentisce le leggi autoritario del bello, ed opta per l’illegalità e la sregolatezza del vero.
[...] Ne consegue che, per l’ebraismo, l’arte non è catartica nel senso mitico ed evasivo. Anzi, come la scienza, avversa i miti di qualsiasi natura, trascendenti o immanenti. A livelli diversi, Einstein e Freud sono dissacratori di miti. Ma Schönberg non è da meno: dissacra l’ottava, formula la dodecafonia e poi relativizza anche questa. Nel campo letterario, Kafka; in quello visuale, Soutine o Mendelsohn – sostanzialmente, uno stesso impegno dissacratore e laico, antimitico, antidolatrico. L’idolo è il vitello d’oro, l’immane, interminabile, continuamente rinnovatesi serie di vitelli d’oro, di dogmi, di assiomi, di verità rivelate, di eroi marmorei e retorici, di fronte alla quale la storia ebraica è un plebiscito di NO reiterati con leggendario rigore, con incredibile tenacia critica e soprattutto autocritica: un sacerdozio del tempo e dello sviluppo, del comportamento, quotidiano, prosaico. « L’insegnamento dell’ebraismo », dice Heschel in un passo veramente memorabile, « consiste nella teologia dell’azione comune. La Bibbia sottolinea che l’interesse di Dio è per il vivere di ogni giorno, per le consuetudini della vita. La sfida non sta nell’organizzare grandi sistemi dimostrativi, ma nel mondo con cui gestiamo il luogo comune ». Per questo, il nostro santuario può essere una tenda sotto la volta celeste, un’arca « mobile » che segue il nostro itinerario: è un tempio che si chiama scuola perché vi si insegna la storia, e può essere la scuola peripatetica del nostro errare, in quanto la storia è nel Libro che è in noi.
Naturalmente, tra religione ed arte si avverte un distacco. Per un rabbi come Alexandre Safran, « il tempo ebraico è un tempo sabbatico » e l’ebreo « non deve contarlo come gli altri uomini. Lo computa in modo diverso, per non cadere, in conseguenza di un facile calcolo o di una mancanza di calcolo, nello sfrenato desiderio di vivere, o nell’angoscia della morte, o nella disinvoltura verso la quale spinge l’apatia dell’esistenza ». Per l’artista è un’altra cosa. La sua eresia è gremita di affanni esistenziali, il tempo è una condizione sfuggente e struggente, talora un appartenere al passato e al futuro senza riuscire ad ancorarsi nel presente. Il tempo, per l’artista, non è il tempo sabbatico, ma quello dell’angoscia, se non della morte, certo della vita. Per rabbi Simeone, « l’eternità era conquistata da coloro che barattano lo spazio con il tempo » e, « anziché riempire lo spazio con costruzioni, ponti e strade », capiscono che « la soluzione del problema più che nella geometria e nell’ingegneria », sta « nello studio e nella preghiera ». Per l’artista, è completamente diverso: non baratta lo spazio con il tempo, ma temporalizza lo spazio. Sotto questo profilo, l’artista è più ebreo del rabbi: somiglia a Dio che, dividendo il tempo della creazione in sette giorni, l’ha posta in « intimo rapporto con lo spazio ». Il vitello d’ora è ovunque: anche nel tempo in astratto. Ma l’artista, incerandolo nella esperienza spaziale, lo rende concreto ed umano.
[...] In Kafka, di cui cade quest’anno il cinquantenario della morte, esplode il contrasto tra il condizionamento spaziale dell’uomo e il tempo della sua anima alienata. La barriera è incolmabile, porta al mostruoso, all’assurdo, ad una negatività tanto più desolata in quanto l’ebreo non ne ha il gusto e il compiacimento romantico, non può rassegnarsi, antropologicamente ed intellettualmente, ad accettarla. Molti racconti di Kafka, come ricorderete, cominciano con un risveglio. Un risveglio da sogni inquieti, che non è presa di contatto con la realtà ma, all’inverso, incontro spaventosamente glaciale con l’irrealtà della condizione umana. Appena si sveglia, l’uomo è già sotto accusa, processato non si sa per quali colpe, in attesa di una condanna emessa non si sa da quali giudici, in un palazzo non si sa quale e di quale giustizia. Un agguato totale, un mondo incomprensibile, folle ma efferatamente organizzato secondo ingranaggi efficienti, di fronte ai quali siamo inermi e disumanati, camminiamo come automi appena redenti da un’ansia indescrivibile, allucinante. Se ci adeguiamo, se quest’ansia ci abbandona, è la metamorfosi, lo spazio vince sul tempo, l’uomo parassita si muta davvero in un insetto repellente ed immondo; il processo si scioglie solo perché l’accusato è annientato.
Risveglio quindi doloroso e infecondo, perché nello spazio e nelle cose non riusciamo a riconoscerci. Kafka visita, ad esempio, il ghetto risanato, lo guarda senza percepirlo, poiché sulla nuova configurazione spaziale sovrappone il tempo della memoria: « Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti, dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati ».
Il mondo di Chagall è solo in apparenza antitetico a quello di Kafka. In effetti, è lo stesso mondo, dove però l’assurdo si tramuta in fiaba. Anche per Chagall l’uomo vive tra due sogni parimenti intollerabili: quello dello spazio, del villaggio ebraico di baracche, dei pogroms, dell’isolamento e dell’odio; e quello del tempo, dei cieli stravolti e disastrati. L’uomo non può vivere né in terra né in cielo, ma con la fantasia degli chassidim può provvisoriamente occupare una zona intermedia, subito sopra le tristi catapecchie, subito sotto il cielo tempestoso. In questa zona immaginaria e neutra, si vince la gravità della terra e il peso del cielo: tutto è armonia perché vis i realizza l’assurdo, gli asini e i violini, gli orologi a pendolo e gli sposi si librano trascinati dal vento, larve estranee ormai alla vita e alla morte. Se questa zona mediatrice in cui s’incastrano gli opposti sogni viene a mancare, se cioè ci si risveglia, allora abbiamo il quadro « Le porte del cimitero » dove lo squasso del cielo fonde con quello della terra. Se manca la trasposizione in fiaba, l’intervallo di Chagall diviene quello kafkiano tra l’imputazione e la sentenza o tra la condanna e la esecuzione.
[...] Heschel riconosceva che « vivere rettamente è come un’opera d’arte, il prodotto di una visione e di una lotta con situazione concrete ». L’arte non è che la vita in estrema tensione, e Max Brod diceva che « vivere si può soltanto in grazia di una tensione quasi sovrumana ». L’ebraismo depura questa tensione da ogni connotato idolatrico e falso-eroico, la piega al quotidiano. Ma il quotidiano esige una vigilanza continua, e un continuo rinnovamento, insomma una coscienza temporalizzata della storia e dei costumi. « La conoscenza della verità da sola non basta… », scrive Einstein, « E’ come una statua di marmo che si erge nel deserto ed è sotto la continua minaccia di venire seppellita dalla sabbia. Gli operai di servizio debbono essere sempre al lavoro perché la statua possa durevolmente risplendere al sole ». E’ strano che uno scienziato ebreo assimili la verità ad una statua, anziché ad un libro. Ma tant’è. Anche il Libro è sotto la continua minaccia di venir seppellito dalla sabbia idolatria. Per questo voi, noi siamo gli operai di servizio.

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IL DILEMMA DEI RABBI: UNO SGUARDO AD ISAIA 53 DI RACHMIEL FRYDLAND

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IL DILEMMA DEI RABBI: UNO SGUARDO AD ISAIA 53

DI RACHMIEL FRYDLAND

Questo argomento non è mai stato discusso nella mia scuola ebraica negli anni antecedenti alla guerra, in Polonia. Nell’educazione rabbinica che ho ricevuto, il capitolo 53 di Isaia è stato evitato continuamente in favore di altri argomenti più « importanti » da imparare. Eppure, quando lo lessi, la mia mente si riempì di domande.
Di chi parla questo capitolo? Le parole sono chiare – parla di un Servo del Signore il cui aspetto è sfigurato, ed è afflitto e ferito. Egli non ha meritato dolori o ferite, ma fu ferito per le nostre trasgressioni e colpito per le nostre iniquità, ed attraverso le sue ferite noi siamo stati guariti. Il testo presenta il Servo sofferente del Signore che muore come un korban, una ricompensa per la colpa. Egli è quindi sepolto con il ricco e malvagio, ma risorge gloriosamente alla vita. Dio permette che Egli sia percosso e, alla fine, esalta il Servo che ha patito tale sofferenza per cancellare i peccati di molti.
Ma chi è il Servo? I nostri antichi commentatori d’accordo ritenevano che il testo si riferisse all’Unto del Signore, il Messia. La traduzione Aramaica di questo capitolo, ascritta a Rabbi Jonathan Ben Uzziel, un allievo di Hillel del secondo secolo C.E. riporta questo, e c’è la stessa interpretazione nel Talmud babilonese (Sanhedrin 98b). Allo stesso modo accade nel Midrash Rabbah, in una spiegazione di Ruth 2:14, e nel Midrash Tanhuma, parashà Toldot, fine della sezione. Queste sono solo alcune delle antiche interpretazioni che attribuiscono questo capitolo al Messia.
Rashi (Rabbi Shlomo Itzchaki, 1040-1105) e alcuni dei rabbini seguenti, però, interpretano il capitolo come riferentesi ad Israele. Loro sapevano che le antiche interpretazioni lo riferivano al Messia. Ma Rashi viveva in un tempo in cui era praticata una distorsione medievale del cristianesimo. Egli voleva preservare il popolo ebraico dall’accettare tale fede e, anche se le sue intenzioni erano sincere, altri rabbini e leaders ebrei si resero conto dell’inconsistenza della sua interpretazione. Essi presentano una obiezione basata su tre punti. Primo: le antiche interpretazioni. Secondo: fanno notare che il testo è al singolare. Terzo, notano il versetto 8. Questo versetto presenta una difficoltà insormontabile per quelli che riferiscono Isaia 53 ad Israele (leggere il versetto). E’ forse il popolo ebreo tagliato fuori dalla terra dei viventi? No! In Geremia 31:35-37, Dio promette che noi esisteremo per sempre. Siamo orgogliosi del fatto che Am Yisrael Chai « il popolo di Israele è molto vivo e vitale ». Ed è impossibile dire che Israele soffrì per le trasgressioni del « mio popolo », che chiaramente intende il popolo di Isaia. Il popolo di Isaia non sono i gentili, ma gli ebrei.
Moshe Kohen, un Rabbino spagnolo del 15° sec., spiega questo paragrafo:
« Questo capitolo, spiegano i commentatori, parla della cattività di Israele, nonostante venga usato il singolare. Altri hanno supposto che parli del mondo attuale, in cui siamo tormentati e oppressi…ma altri, alterando il numero dal singolare al plurale, cambiano il senso naturale dei versetti. E ciò che mi sembra, è che abbiano dimenticato la conoscenza dei Savi, e interpretato secondo la durezza dei loro cuori…io sono felice di interpretarlo, in accordo con l’insegnamento dei nostri rabbini, come referentesi al re Messia. »
Per lo stesso motivo il Rabbino Moshe Alsheikh, Rabbino di safed, 16° sec., dice: io sottolineo che i nostri rabbini unanimemente affermano che il profeta stia parlando del Re Messia.
Herz Homberg (1749-1841) dice: secondo l’opinione di Rashi e Ibn Ezra, questo capitolo si riferisce ad Israele alla fine della cattività. Ma se è così, qual’è il significato del versetto « fu ferito per le nostre trasgressioni »? Chi fu ferito? Chi sono i trasgressori? Chi ha portato il dolore e la malattia? Il fatto è che questo capitolo si riferisce al re Messia.
Eliezer HaKalir ha messo in rima il capitolo nel 9° sec., e viene recitato allo Yom Kippur, nella preghiera di Kether.
Le parole del profeta Isaia sono parole di speranza. Abbiamo un glorioso futuro ed un abbondante presente se ci appropriamo della salvezza reas possibile dall’Uno che fu ferito per le nostre trasgressioni e colpito per le nostre iniquità.
In conclusione, io chiedo: ma dove nella Scrittura ebraica è detto che ogni generazione ha il suo Messia? E poi, cos’è un Messia? Un Messia è un Salvatore. Ma da cosa? Dai nemici politici? Davvero un buon governo cambierebbe le cose sulla terra? Le cose cambiano solo se cambia il cuore dell’uomo, e questo solo un Messia spirituale può farlo.
Il punto è se si pensa di dover essere salvati da qualcosa, a livello spirituale. Il discorso è puramente accademico, se si pensa di non avere bisogno di un Salvatore. Se si crede che la propria giustizia sia sufficiente per stare davanti al Santo, non c’è bisogno, ovviamente, di un Salvatore.

Nota aggiunta: Quali rabbini sostengono che Isaia 53 è un capitolo messianico e ha connessioni con Gesù? Daniel Zion, ex rabbino capo della città di Jaffa escluso dal ruolo dopo aver creduto in Yeshua, dà il seguente elenco: Mosheh El Sheikh, Yepheth Ben Ali, Don Ytzchak Abarbanel, lo Zohar, Rabbi Shimon Ben Yohai, Moshe Kohen Ibn Crispin, Rabbi Shlomoh Astric, Sa’adiyah Ibn Donan, Yoseph Albo, Meir Ben Shimon, Rabbi Samuel Lanyado, Midrash Konen, Asereth Memroth, Yakov Yoseph Mordecai Chaim Passami, Ytzchak Troki, Rabbi Naphtali Ben Asher Altshuler, Levi Ben Gershom, Rabbi Liwa di Praga.

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TACERE IL NOME. TRE STUDI SULLA TRADIZIONE EBRAICA CIRCA IL DIVIETO DI NOMINARE IL NOME DI DIO

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TACERE IL NOME. TRE STUDI SULLA TRADIZIONE EBRAICA CIRCA IL DIVIETO DI NOMINARE IL NOME DI DIO

di Andrea Ciucci (28 febbraio 2013)

Da sempre la riflessione ebraica mette a tema la questione del Nome di Dio. A commento dei diversi riferimenti biblici si è infatti sviluppato un vero e proprio capitolo su questo tema all’interno della tradizione talmudica, sfociato poi in quello che potrebbe essere definita l’epoca d’oro del Nome di Dio: la Qabbalah.
Tale filone di pensiero è stato ripreso dalla riflessione ebraica contemporanea e posto in dialogo con le istanze filosofiche coeve, mostrando una sorprendente fecondità. In questo studio se ne vedranno tre esempi dalle opere di Levinas, Scholem e Di Cesare.
La questione del Nome di Dio è estremamente complessa, non solo per la lunga storia che la connota, ma ancor prima per la definizione stessa dell’oggetto. La Torah contiene infatti molti nomi divini, alcuni evidenti e altri nascosti, alcuni comuni e altri propri; ci sono i Nomi mistici e quelli impronunciabili, infine c’è il Tetragramma, normalmente definito il Nome proprio di Dio, la «radice di tutti gli altri Nomi».1 Il pensiero cabbalistico va però oltre e definisce l’intera «Torah come Nome omnicomprensivo di Dio»2. Su questo articolato sfondo si innesta la ricchissima riflessione sul significato dei diversi Nomi, «che sono più che idee [...] e che si celano dietro le parole»;3 nomi da meditare, da calcolare, da scrivere con una minuziosa ritualità; nomi in cui sprofondare per riconoscere l’origine di tutte le lingue, il punto focale del linguaggio, e così evitare la tentazione della magia. Dentro questo complesso costrutto concettuale un posto di particolare rilievo occupa il divieto di pronunciare il Nome di Dio. Tacere il Nome diventa uno degli atti più carichi di senso dell’esperienza ebraica, molto lontana da una certa interpretazione moralistica di matrice cattolica che ha ridotto il divieto di pronunciare il Nome di Dio a una rigorosa norma anti-bestemmia.

1. Un silenzio carico di responsabilità. Le lezioni talmudiche di Emmanuel Levinas
Emmauel Levinas ha affrontato la questione del Nome di Dio in diversi studi dedicati al Talmud e riuniti nella seconda parte della raccolta di saggi ‘Al di là del versetto’, intitolata ‘Teologie’.
A partire dall’articolata e complessa comprensione del tema del Nome di Dio è possibile raccogliere le riflessioni svolte da Levinas in quei saggi intorno al tema del silenzio che gli è dovuto intorno a tre forme con cui questo ‘non dire’ si attua nella prassi talmudica: questo Nome è impronunciabile, impensabile, cancellabile.
1.1. Un Nome impronunciabile
Il Nome di Dio anzitutto non può essere pronunciato. Non può mai essere pronunciato il Tetragramma (tranne che dal sommo sacerdote il giorno del Grande perdono nel santo dei Santi del tempio, e quindi mai nel giudaismo talmudico) e non deve essere ‘pronunciato invano’ (Dt 5, 11) il nome con cui viene chiamato il Tetragramma: Adonai.
Il divieto a pronunciare il Nome è però accompagnato da due comandi che sembrano andare in direzione contraria:
· Ogni benedizione deve contenere un invocazione a Dio nella seconda persona a cui deve seguire il Tetragramma. «Nessuna benedizione senza invocazione del Tetragramma, come Signore (trattato Berakhot 12a) ».4 Il Nome di Dio non può essere pronunciato se non in forma mediata e comunque assai raramente, ma non può non essere presente e invocato in alcuni momenti significativi della vita del popolo e delle persone .
· Il trattato Shebuot (35 a) dedicato ai nomi di Dio, insegna anzitutto che «copiando i nomi di Dio non si deve mai, con nessun pretesto, cancellarli».5 Non solo non si può non scrivere questo Nome ma guai a cancellarlo, anche solo per errore, o a lasciarlo incompleto.
In questo duplice comando emerge tutta la condizione paradossale della realtà del Nome di Dio secondo Israele: esso è impronunciabile perché Dio è totalmente santo e assolutamente unico (e per questo assolutamente diverso da ogni altra realtà umana a tal punto da non poter essere espresso mediante un sostantivo generico) insieme però è presenza sempre attuale e incancellabile. Il Nome si rivela in alcune lettere, in una forma grafica quasi necessaria, che non può però essere letta come è scritta.
Nell’impronunciabilità del Nome di Dio è possibile, secondo Levinas, riarticolare la questione che il trattato Nefesh Ha’Chaim esprime nel rapporto tra ‘Dio dal lato nostro’ e ‘Dio dal lato suo’.
Il Nome di Dio è scritto in lettere umane (‘dal lato nostro’) insieme però, proprio in quanto indicibile, «il Tetragramma significa quel che l’uomo non può né definire né porre, né pensare né finanche nominare»6: ‘Dio dal lato suo’.
La questione, sottolinea Levinas, non è da collocare nell’ambito di una speculazione filosofica fondata da un onto-teologia, bensì sempre entro l’orizzonte dell’esperienza religiosa di Israele: Dio è sempre enunciato come Dio del popolo; è associato a un mondo e insieme gli è totalmente estraneo perché assolutamente uno. Nella dialettica posta da un nome scritto che non può essere pronunciato si dispiega la possibilità di un «pensare l’Assoluto che non attinge l’Assoluto».7
La pratica religiosa (la preghiera e lo studio della Torah anzitutto) diventano così «precisamente il luogo originario»8 di questa esperienza.
Una sintesi significativa di questa dialettica si mostra, secondo Levinas, nel gesto della benedizione:
«La formula «il Santo sia benedetto» con la quale dio è pienamente designato riunisce l’idea della separazione inclusa nel termine ‘Santo’ e quella dell’unione ai mondi impliciti nella nozione di benedizione.»9
L’indicazione di tale luogo peculiare (una benedizione) induce Levinas a pensare che non ci si trovi davanti a un caso alquanto raffinato di teologia negativa, ma a qualcosa di diverso, illuminato dalle altre due modalità in cui il silenzio sul Nome di Dio può e deve realizzarsi.
1.2. Un nome impensabile
Levinas nota che il trattato Nefesh Ha’Chaim, nel tentativo di rendere ragione di ‘Dio dal lato suo’, afferma che neanche la forma assolutamente impronunciabile del Tetragramma è comunque adeguata perché infedele, «Nome impronunciabile ma nome».10
L’autore del trattato introduce a questo punto al nozione di ‘Es-Sof’: un nome che in realtà non è un nome, da tradursi con ‘senza-fine’.
«L’essenza dell’En-Sof è dissimulata più di ogni altro segreto e non deve essere nominata con nessun nome, neanche con quello del Tetragramma, neanche con il pezzo della più piccola lettera».11
Il silenzio che deve segnare il Nome di Dio raggiunge qui il massimo grado: non solo non può essere pronunciato ma neanche pensato. Riferendosi alla realtà dell’En-Sof, Levinas infatti così si interroga: «La parola pensare è qui al suo posto? »12
L’En-Sof costituisce per Levinas il vertice e l’abisso dell’esperienza religiosa, un silenzio che Dio stesso si impone circondandosi dell’oscurità dell’impensabilità, fino all’idea limite dello Zimzum. Con questa parola la Qabbalah definisce la contrazione che Dio opera
«prima della creazione per far posto, a fianco a sé, all’altro da sé. [...] L’infinito si circonda di oscurità. Proibisce di scrutarlo, al fine di lasciare un posto alla verità dell’associazione dell’Infinito e dei mondi».13
Dio tace e impone il silenzio su di sé affinché l’uomo sia e possa entrare in relazione con Lui.
1.3. Un Nome cancellabile
La terza ed ultima modalità con cui si realizza il silenzio sul Nome di Dio è quello della cancellazione.
Levinas nota che anche il divieto di cancellare il Nome ha delle eccezioni, anzi talvolta esso è scritto per essere cancellato. Nei trattati Sotà e Sukkah sono previsti infatti due casi in cui, in contesti celebrativi, il Nome di Dio viene cancellato nell’acqua. In entrambi i casi si tratta di due eventi di riconciliazione e di pace: il primo fa riferimento alla pacificazione fra moglie e marito, il secondo allarga il caso a una riconciliazione cosmica.
Il silenzio sul Nome di Dio, l’affermazione assoluta dell’alterità e della santità di Dio è per la riconciliazione:
«La sua Santità e la santità che essa suggerisce stanno precisamente a significare la costituzione di una società umana in stato di obbligazione. [...] L’elezione [di Israele] significa un surplus di doveri, conformemente alla formula di Amos (3, 2): ‘Voi soli io ho distinto tra tutte le famiglie della terra, per questo vi chiedo conto di tutte le vostre colpe’»14
Anche qui la «riflessione rabbinica su Dio non si separa mai dalla riflessione sulla pratica».15
Il silenzio è per l’etica: «la cancellazione di Dio equivale positivamente all’obbligo di realizzare la pace del mondo».16
Il volto umano e l’appello che esso porta con sé diventa lo spazio della più vera e piena rivelazione di Dio. Il linguaggio si pone al servizio della relazione e diventa pieno di responsabilità.

2. Un silenzio tra scrittura e oralità. Le indagini cabbalistiche di Gershom Scholem
All’interno della complessa analisi del tema del Nome di Dio nella Qabbalah svolte da Gershom Scholem nella sua opera «Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio» (1970) e nelle sue «Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah» (1938), più volte emerge la questione del divieto di pronunciare il Nome di Dio. Le ragioni di questo silenzio possono essere espresse intorno a cinque punti fondamentali.
2.1. Un silenzio per evitare la tentazione della magia
Sulla scorta della riflessione di Benno Jacob, Scholem inizia a rilevare che, a differenza della pratica religiosa coeva all’esperienza di Israele dove la parola assume un ruolo quasi sacramentale, nella religione israelitica «il silenzio è così assoluto che può essere interpretato solo come intenzionale».17 Tale intenzione non delimitata al solo Nome di Dio ma diffusa in ogni atto sacerdotale ebraico esprime la precisa volontà di evitare ogni rischio di pratica magica connessa all’uso della parola. La Bibbia ebraica «non ha un concetto magico del Nome di Dio»18 e il divieto di pronunciarlo si pone a tutela di questo possibile rischio, condannato in tutta la Scrittura e nel giudaismo successivo, fino ad Abulafia che «respinge con assoluta fermezza ogni forma di magia e teurgia pratiche»19.
2.2. Un silenzio che si fonda sul tacere stesso di Dio
Scholem nota che, sempre secondo la riflessione del cabalista Abulafia, la pratica del silenzio in chiave antimagica non si riduce ad una semplice questione etica, bensì si fonda su un atto stesso di Dio. Neanche il Tetragramma sarebbe infatti il vero Nome originario di Dio, ma solo un espediente che lo nasconde poiché la Torah «aveva esitato a renderlo manifesto per non svelare alla massa, impreparata alle profonde verità della mistica, un segreto di cui poteva forse abusarne».20
Fondata sulla peculiarità delle lettere che compongono il Tetragramma (mater lectionis che in qualche modo rimandano ad altre lettere), tale teoria cabbalistica, giudicata per altro dallo stesso Scholem «oltremodo radicale»,21 arriva ad affermare che Dio stesso tace il suo Nome vero, non lo pronuncia e così facendo non si rivela pienamente per quello che è, affinché il suo popolo non cada nella tentazione idolatrica di un Nome da usare quale potente amuleto.
2.3. Un silenzio che impedisce l’oggettivazione della conoscenza prima
Di un rivelazione ‘opaca’ offerta dalla Torah, Scholem parla anche nelle «Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah» poste in appendice al saggio sul nome di Dio nella Qabbalah.
Nella tesi 3, Scholem spiega tale opacità facendo riferimento alla dialettica tra rivelazione scritta (pura e splendente) e quella orale. L’impossibilità a pronunciare tutto il testo della Torah mostra l’impossibilità più radicale a uscire dalla Torah stessa, che risulta il medium insopprimibile di ogni rivelazione. Come recita la brevissima e fondamentale tesi 9:
«L’intero può essere tramandato solo in maniera occulta. Il Nome di Dio può essere richiamato ma non pronunciato. Poiché solo ciò che vi è in essa di frammentario fa sì che la lingua possa essere parlata. Non si può parlare la ‘vera’ lingua, così come non si può compiere un atto assolutamente concreto. »22
L’impronunciabilità del Nome di Dio riafferma, mediante un divieto pratico, «il carattere non oggettuale della conoscenza suprema».23 La Torah non può essere tutta pronunciata e così la rivelazione che essa offre nel testo scritto non può essere del tutto detta, posseduta. «Dio stesso è la Torah e la conoscenza non può uscirne».24
2.4. Un silenzio per preservare la totalità del senso
Nella dialettica tra testo scritto e uso orale, fondata sull’intuizione che «la scrittura precede il discorso, così che il linguaggio nasce dal farsi suono della scrittura»,25 si pone, secondo Scholem, anche la riflessione di un altro cabalista riscoperto solo recentemente: Giqatilla. Egli infatti afferma che il fatto che il testo sinagogale della Torah sia scritto solo con le consonanti e non riporti invece i segni vocalici che ne permettono la pronuncia non è motivato da una semplice tradizione. Gli infiniti strati di senso che la Rivelazione contiene
«verrebbero limitati da una scrittura vocalizzata [...] . La parola di Dio è gravida di infiniti sensi ma non ne possiede uno preciso. Priva in sé di significato, essa è l’assolutamente interpretabile. [...] Nel testo della Torah sono contenute tutte queste infinite possibilità di comprensione».26
Riprendendo il pensiero di Abulafia, Scholem conclude che i Nomi mistici di Dio presenti nella Torah non sono altro che gli elementi di senso ancora inespressi, che fanno del testo biblico un vero e proprio corpus mysticum.

2.5. Un silenzio che dischiude i tempi messianici
L’esperienza del linguaggio, intesa esattamente come il dar voce alla rivelazione del Nome di Dio che è la Torah, appare così chiaramente come un’esperienza storica, a tal punto che i cabbalisti ipotizzano una modalità angelica di leggere il testo sacro completamente diversa da quella umana.
Preservato dal rischio deturpante della magia, il Nome di Dio, impronunciabile nella storia umana, diventa però «la parola mirabile della speranza messianica».27
Sulla scorta delle riflessioni di Hermann Cohen, Scholem vede proprio nell’impronunciabilità del Nome di Dio, che può essere richiamato ma non proferito, il rivelarsi della promessa di un tempo in cui Dio convertirà «tutti i popoli a una lingua più pura, così che tutti insieme essi invocheranno il Nome di Dio».28
Il divieto di nominare il Nome di Dio non è eterno; il comando è posto per ricordare al popolo santo di Israele che ci sarà il tempo della ‘lingua pura’, della pienezza della rivelazione, della comunione tra tutti i popoli.

3. Un silenizio solo per questo tempo. La grammatica messianica di Donatella Di Cesare
Nel suo recentissimo testo intitolato ‘Grammatica dei tempi messianici’, Donatella Di Cesare utilizza la questione del Nome di Dio nella tradizione ebraica quale chiave interpretativa di una filosofia della storia che va dall’evento protologico della torre di Babele allo schiudersi della speranza messianica.
3.1. Due giustificazioni del silenzio sul nome di Dio
In una più ampia riflessione sul tema del Nome di Dio che si ispira in più punti ai testi di Levinas e di Sholem sopra considerati, la Di Cesare ricorda anzitutto la duplice motivazione classica posta a sostegno del divieto di pronunciare tale Nome.
Evitare il rischio dell’idolatria. La vicenda di Babele mostra l’uomo desideroso di darsi un nome da sostituire al Nome di Dio. Un nome per dire un’identità e quindi una possibilità, una potenza da esercitare.
«Il nome sembra costituire il culmine, l’idolo alla sommità della torre. Il nome è la forma estrema dell’idolatria, è l’idolatria come tale [...] . Vogliono un nome perché vogliono farsi un nome. Il nome serve per assicurarsi fama eterna, eternità.»29
L’impossibilità di pronunciare il Nome di Dio è anzitutto proibizione a trasformare Dio in un idolo, in una potenza da usare a proprio uso e consumo. Nessuno può collocare Dio sulla propria torre, sul proprio altare.
Evitare il rischio dell’oggettivazione. Alla radice dell’idolatria sta un rischio ancor più grande che consiste nel ridurre Dio a un oggetto. Per questo motivo:
«il divieto di leggere il Tetragramma come è scritto, e più in generale di pronunciarlo, indica l’impossibilità di afferrare, possedere, oggettivare il Nome di Dio. Altrimenti detto: vocalizzare il Tetragramma sarebbe come abbassare dio a semplice oggetto, un ente tra gli altri, seppur supremo. Proprio questo è vietato: dire e dunque pensare che Dio sia un ente determinabile, definibile, nominabile. »30
3.2. Impronunciabilità radicale
Il Nome di Dio, nota la Di Cesare, non è però impronunciabile solo per un divieto morale. Esso è impronunciabile radicalmente anzitutto in quanto il Tetragramma è l’unica parola della Torah a non essere stata vocalizzata: «il Tetragramma non ha vocali e dunque non è possibile pronunciarlo. Di più: non è permesso neppure tentare. È anzi assolutamente proibito».31
Questa radicale impossibilità è testimoniata, secondo la Di Cesare, anche dalla peculiarità delle lettere che compongono il Tetragramma32 e dall’«irriducibilità del Tetragramma a ogni traduzione»,33 connessa alla problematica trasposizione in altre lingue del significato del Nome espresso in Es 3, tentata da molti autori.
Questa impossibilità radicale apre però lo spazio ad altro: la lettura della Torah è costretta ad interrompersi davanti al Nome di Dio, ma mentre «la bocca tace, l’occhio fermandosi si solleva silenzioso verso l’oltre a cui le quattro lettere rinviano».34
Si schiude una dimensione altra, un tempo nuovo, diverso dal presente segnato da un linguaggio disgregato (frutto di Babele) e incapace di creare unità.
3.3. Il silenzio del presente
Lo sguardo orientato a un tempo nuovo è indirizzato dal significato stesso del Nome di Dio rivelato in Es 3 e riletto dalla tradizione rabbinica: un doppio futuro che la Di Cesare rende in italiano con ‘Sarò colui che sarò’.
Il rimando al futuro è dischiuso dalla rivelazione stessa di Dio, indisponibile — impronunciabile — all’uomo ma segno visibile dell’opera di Dio: «Interrogato sul proprio Nome, Dio risponde con un verbo, un futuro incompiuto».35
Il silenzio sul Nome Dio risulta così necessario perché «come è possibile chiamare, nominare, invocare un Dio che non c’è, dal momento che non si definisce per quel che è, bensì per quel che sarà? »36
Così il Tetragramma diventa «la possibilità di oltrepassare il tempo all’interno del tempo, di fare della memoria l’inizio della redenzione».37 Il futuro evocato nel Nome si rivela il tempo dell’agire di Dio, del suo svelarsi per quello che è veramente.
Il contenuto di questo tempo non può non essere allora indicato che da una profezia:
Ma allora muterò/farò alle nazioni un labbro chiaro
perché tutte invochino per Nome Y-H-W-H,
perché lo servano in unico accordo. (Sof 3, 9) 38.
Secondo la Di Cesare l’interpretazione talmudica di questo testo lo connette direttamente al racconto della torre di Babele. Seguendo Radaq, l’opera di Dio non è una semplice purificazione del cuore umano che lo rende abile a un culto messianico, ma la possibilità offerta all’uomo di pronunciare il vero Nome di Dio senza cadere nella tentazione idolatrica che Babele aveva evidenziato. «Labbro chiaro vuol dire che non parleranno di altri dei. »39
Così conclude la Di Cesare:
«La redenzione sarà l’inversione del tempo, la conversione del linguaggio, l’irruzione del Nome nella storia. [...] La fine sarà nel Nome. [...] Ogni creatura conoscerà e confesserà il suo Nome e solo il suo. [...] Soltanto allora, quando, invocato all’unisono, l’Unico Nome sarà il solo, sarà il tutto in-fine unito per divenire Uno. »40
Il silenzio che grava sul Nome di Dio è legato al tempo di Babele e insieme prefigura l’opera rigeneratrice di Dio.
Il Nome di Dio non è fatto per essere taciuto per sempre ma per essere ‘invocato’ all’unisono da ‘labbra chiare’.

4. Conclusione. L’oscuro tacito rivelarsi
In un breve quanto denso saggio di ripresa del pensiero di Heidegger riguardo la possibilità di un discorso su Dio post moderno, Giancarlo Penati definisce il silenzio come successivo e conseguente la Parola, un significante che si esprime nel tacere, «non come nulla, ma come assenza accennante alla presenza».41
La breve analisi condotta sul tema del silenzio nella riflessione ebraica contemporanea sul Nome di Dio mostra, con un’ampia articolazione, esattamente questo: la siepe del silenzio posta a salvaguardia del Nome di Dio non è semplicemente una proibizione dal contenuto negativo.
Il silenzio della tradizione ebraica è pratica positiva (e non una astensione), è la possibilità perché la Parola che esprime il Nome di Dio possa rivelare esattamente il suo contenuto senza tradirlo, possa custodire la sua potenza senza renderla inefficace.
Il silenzio diventa la forma concreta con cui, per utilizzare ancora le parole di Penati che riflette sul tema della verità in Heidegger, si manifesta «non soltanto la differenza ontologica, ma una permanente e ineliminabile distanza fra segni, parole, figure in e attraverso cui la verità dell’Essere (e quindi di Dio) si pre-senta, e l’origine di tale sempre mai totale e quindi sempre parzialmente oscuro-tacito rivelarsi».42
Nella pratica del silenzio, l’uomo può imparare la differenza, può smettere di definire-nominare Dio e disporsi così ad accogliere una rivelazione salvifica che lo libera dalle tentazioni dell’idolatria e della magia e che lo restituisce a una forma nuova di vita comune.
All’uomo è vietato nominare Dio affinché impari ad invocarlo.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: STUDI |on 19 mai, 2015 |Pas de commentaires »

F. ROSENZWEIG, LA STELLA DELLA REDENZIONE – L’essenza del cristianesimo

http://www.jesus1.it/Pages/it_giovanni_filosofi_davanti_a_gesu.aspx?arg=99&rec=424

F. ROSENZWEIG, LA STELLA DELLA REDENZIONE, A C. DI GIANFRANCO BONOLA,

Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 371-377).

FRANZ ROSENZWEIG (1886-1929)

L’essenza del cristianesimo

Espansione verso l’esterno, ma non già soltanto fin dov’è possibile, bensì, che sia possibile o impossibile, espansione verso tutto, assolutamente tutto ciò che è esterno, e che perciò, nel presente di volta in volta attuale, può essere al massimo un ancora-esterno. Se questa espansione è intesa in modo così incondizionato, così illimitato, allora vale evidentemente anche per essa quanto valeva per il radicamento giudaico nel proprio intimo: nulla può più rimanere esterno ad essa come un che di opposto. Anche qui, anzi, tutti gli opposti devono in qualche modo essere fatti rientrare nei propri confini. Ma dei confini, simili a quelli che possedeva il proprio «sé» radicato in se stesso, sono totalmente estranei a questa espansione all’esterno, anzi sono per essa inconcepibili: L’illimitato che fa’sempre esplodere ogni confine, dove mai avrà confini? Certo non può averne lei stessa, l’espansione. Quanto a quell’esterno in cui l’espansione avviene, potrà forse avere confini, i confini del Tutto. Ma questi confini non vengono raggiunti nel presente e neppure in alcun presente futuro; infatti l’eternità può irrompere oggi e domani, ma non posdomani, ed il futuro è sempre soltanto posdomani.
Così anche il modo in cui gli opposti sono viventi, qui, dev’essere diverso che nell’immersione nel sé. Là essi entravano subito in tensione attraverso le interne figure di Dio, mondo, uomo; le tre figure erano vive come in un costante alternarsi di corrente tra quei poli. Qui invece gli opposti devono trovarsi già nel modo dell’espansione; solo in questo caso essi sono operanti ad ogni istante e in modo completo. L’espansione deve sempre avvenire lungo due vie distinte, anzi opposte. Sotto i passi della cristianità nelle tre regioni, Dio, mondo e uomo devono ogni volta fiorire necessariamente due tipi di fiori diversi, anzi questi stessi passi devono portare nel tempo in direzioni divergenti e ogni volta due forme di cristianesimo devono percorrere ciascuna la propria strada attraverso quelle tre regioni, in attesa di ricongiungersi un giorno, ma non nel tempo. Nel tempo esse procedono divise e solo procedendo divise sono certe di coprire in tutta la sua estensione l’intero Tutto e ciò nonostante di non perdersi in esso.
Solo in questo modo il giudaismo aveva potuto essere il popolo unico ed il popolo eterno, solo portando già in se stesso tutte le grandi opposizioni, mentre per i popoli del mondo quelle opposizioni compaiono solo là dove essi si separano l’uno dagli altri. Anche la cristianità, se davvero vuol’essere onninclusiva, deve allo stesso modo custodire in sé quelle opposizioni attraverso le quali altre forme di associazione, già nel loro nome e nel loro scopo, si delimitano ciascuna nei confronti di tutte le altre; soltanto così facendo essa si caratterizza come la forma di associazione che abbraccia tutto e tuttavia rimane unica nel suo genere. Dio, mondo, uomo possono diventare il Dio cristiano, il mondo cristiano, l’uomo cristiano solo secernendo dal proprio interno le opposizioni in cui la vita si muove e percorrendole fino in fondo ciascuno per conto proprio. Altrimenti la cristianità sarebbe soltanto un’associazione tra le altre, giustificata forse per il suo scopo particolare e nel suo ambito particolare ma senza la pretesa di espandersi fino ai confini del mondo. Ed inoltre se cercasse di espandersi al di là di quel. le opposizioni, certo la sua via non dovrebbe necessariamente dividersi ma non sarebbe neppure la via attraverso il mondo, la via lungo il fiu. me del tempo, bensì sarebbe una via nel mare impervio dell’aria, là dove il Tutto è esente da confini e da opposizioni ma è anche privo di contenuto. E non là, ma dentro al Tutto vivo che ci circonda, dentro al Tutto della vita, il Tutto costituito da Dio, uomo, mondo, deve condurre la via della cristianità.
La via della cristianità nella regione Dio si divide dunque in due strade; una dualità che è assolutamente inconcepibile per gli ebrei, ma sulla quale nondimeno si basa la vita cristiana. Per noi essa è inconcepibile, infatti l’opposizione che anche noi conosciamo in Dio è la compresenza in lui di giustizia ed amore, di creazione e rivelazione, proprio nella sua relazione incessante con se stesso. Tra gli attributi di Dio passa una corrente alternata; non si può dire che egli sia l’una o l’altra cosa; egli è Uno proprio nella costante compensazione tra gli «attributi» apparentemente contrapposti.
Per i cristiani al contrario la separazione in «Padre» e «Figlio» significa molto di più che una sem. plice scissione tra la severità divina ed il divino amore. Il Figlio è anche il giudice del mondo, il Padre ha «così amato» il mondo da donare totalmente anche suo Figlio; così severità ed amore non sono propriamente suddivisi tra le due persone della divinità. E neppure vanno divisi, poniamo, secondo creazione e rivelazione. Infatti né il Figlio è inattivo nella creazione, né il Padre lo è nella rivelazione. Peraltro la religiosità cristiana percorre vie diverse a seconda che si rivolga al Padre o al Figlio. Soltanto al Figlio il cristiano si avvicina con quella famigliarità che a noi è così naturale nei riguardi di Dio da farci apparire quasi impensabile che ci siano uomini che non osano condividere questa fiduciosa confidenza. Il cristiano osa comparire davanti al Padre soltanto tenendo la mano del Figlio: solo attraverso il Figlio, egli crede di poter venire al Padre. Se il Figlio non fosse uomo, non sarebbe di alcuna utilità per il cristiano.
Egli non può immaginare che Dio stesso, il Dio santo, possa abbassarsi fino a lui come egli richiede le non diventando uomo a sua volta. Qui affiora la componente pagana presente ineliminabilmente al fondo di ogni cristiano. Il pagano vuol essere attorniato da dèi umani, non gli basta essere lui uomo, anche Dio dev’essere uomo. La vitalità, che anche il vero Dio ha in comune con gli idoli dei pagani, diviene credibile al cristiano solo se diviene carne in un’autonoma persona umano-divina. Ma per mano di questo Dio divenuto uomo egli procede allora attraverso la vita, fiducioso come noi, ma, diversamente da noi, pieno di forza conquistatrice; infatti carne e sangue si lasciano sottomettere soltanto dai suoi pari. da carne e sangue, e proprio quel «paganesimo» del cristiano lo rende capace di convertire i pagani.
Ma al tempo stesso egli percorre anche un’altra via, la via che percorre direttamente con il Padre. Come nel Figlio egli ha direttamente assunto Dio nella prossimità fraterna del proprio «io», così davanti al Padre può spogliarsi nuovamente di tutto ciò che gli è proprio. In prossimità di Dio egli cessa di essere un «io». Qui sa di essere nell’ambito di una verità che si beffa di ogni «io». Il suo bisogno della vicinanza di Dio è soddisfatto nel Figlio; nel Padre egli possiede la verità divina, Qui egli attinge la pura distanza e la fredda oggettività del conoscere e dell’agire che, in apparente contraddizione con la calda intimitàdell’amore, contraddistinguono l’altra via del cristianesimo attraverso il mondo.
Sotto il segno di Dio padre la vita si dispone sia al sapere che all’azione in ordinamenti solidi e stabili. Anche su questa via il cristiano sente lo sguardo di Dio diretto su di sé, e proprio lo sguardo del Padre, non del Figlio. Non è cristiano confondere l’una con l’altra queste due vie a Dio. È una questione di «tatto» tenerle distinte l’una dall’altra e sapere quando è il caso di percorrere l’una e quando l’altra. Quegli inattesi, fulminei spostamenti dalla coscienza dell’amore divino alla coscienza della giustizia divina e viceversa, così essenziali alla vita giudaica, sono sconosciuti al cristiano; il suo procedere verso Dio rimane duplice, e se l’essere costretto a questa duplice via lo dilacera, così gli è però consentito decidere per una delle due e dedicarsi completamente ad essa, piuttosto che oscillare qua e là nella zona di indistinto crepuscolo tra le due. Alla compensazione provvederanno poi il mondo e gli altri cristiani. Infatti, a ciò che qui in Dio si palesa come una separazione tra le persone divine, nel mondo cristiano corrisponde una duplicità di strutture e nell’uomo cristiano una dualità di forme di vita.
L’uomo, che come uomo giudaico vive in tutto l’incomponibile contrasto tra il suo essere amato da Dio e il suo amore di Dio, tra la sua giudaicità e la sua umanità, patriarca e messia, e che però in tutte qu:. ste opposizioni resta un uomo intero e proprio in esse è un uomo vivo, questo uomo nella cristianità si scinde in due figure. Non però due figure che necessariamente si escludano o entrino in contrasto. Ma due figure che percorrono vie separate e sono ancora divise persino quando, come può sempre accadere, si presentano insieme nello stesso uomo.
E di nuovo queste strade separate conducono attraverso tutta la vasta terra dell’umanità, nelle cui contrade forma e libertà sembrano in conflitto incessante. Ed è proprio questa contrapposizione che si può dispiegare interamente dentro la cristianità nelle due figure del prete e del santo. E ancora una volta non è che il prete sia soltanto l’uomo che diviene ricettacolo della rivelazione, mentre il santo sarebbe soltanto colui il cui calore amoroso fa maturare il frutto della redenzione. Il prete non è semplicemente l’uomo nel quale la parola della bocca divina risveglia con un bacio l’anima dormiente, bensì è l’uomo redento così da essere immagine e somiglianza di Dio, e preparatosi a divenire il ricettacolo della rivelazione.
E solo sul fondamento della rivelazione che gli è appena, e sempre appena giunta. e solo nella vicinanza del suo Signore che gli si è fatta sempre nuovamente gustabile e visibile, solo così il santo può, amando, redimere il mondo. Egli non può affatto agire come se non ci fosse un Dio che gli pone direttamente nel cuore ciò che deve fare; proprio come sarebbe impossibile al prete portare l’abito sacerdotale se non gli fosse già concesso di appropriarsi della redenzione nelle forme visibili della chiesa e con ciò, mentre esercita il suo ministero, di appropriarsi della prerogativa di essere ad immagine e somiglianza di Dio. Un elemento di arbitrarietà ereticale si nasconde nella coscienza dell’ispirazione divina Da che il santo nutre dentro di sé, mentre vi è un elemento di autodeificazione da Grande Inquisitore in quell’appropriazione dell’essere ad immagine e somiglianza di Dio che la veste sacerdotale comporta. Solenne autodeificazione sovrapersonale, momentanea arbirarietà personale, l’imperatore di Bisanzio che la pompa fastosissima ella più rigorosa etichetta innalza ben al di sopra di quanto è terreno e casuale, ed il rivoluzionario che scaglia la fiaccola incendiaria della sua pretesa istantanea / di colpo d’occhio [augen-blicklichen] sopra edifici vecchi di millenni, sono i limiti estremi di forma e libertà tra i quali si estende la vasta regione dell’anima; la via bipartita della cristianità l’attraversa totalmente.
Il mondo, che per l’ebreo è pieno di fluidi trapassi da «questo» mondo al mondo «futuro» e viceversa, per il cristiano si articola nel grande duplice ordinamento di stato e chiesa. Del mondo pagano si è detto, non erroneamente, che non conosceva né l’uno né l’altra. Per i suoi cittadini la pólis era stato e chiesa a un tempo, ancora senza alcuna contrapposizione. Nel mondo cristiano stato e chiesa si divisero fin dall’inizio. Nel mantenimento di questa separazione si viene compiendo, da allora, la storia del mondo cristiano. E non che la chiesa soltanto sia cristiana e lo stato non lo sia.
Il «Date a Cesare ciò che è di Cesare» nel corso dei secoli non ha pesato di meno della seconda metà del detto evangelico. Infatti da Cesare proveniva il diritto a cui i a, la creazione. Già l’imperatore, cui si doveva dare ciò che era suo, aveva dominato su un mondo unificato per quanto concerne il diritto. La chiesa stessa ne trasmise il ricordo e la nostalgia di una sua ricostituzione in una età futura. Fu il papa a cingere la fronte di Carlo re dei Franchi con la corona dei Cesari. Essa è rimasta sul capo dei suoi successori per un millennio, in dura lotta con la chiesa stessa, la quale, contro la pretesa universalistica del diritto imperiale, peraltro da lei stessa alim-entata, ergeva e difendeva il suo privilegio ed il suo diritto autonomo. Nella lotta tra i due diritti parimenti universali per il dominio sul mondo crebbero nuove formazioni, «stati», i quali al contrario dell’impero, non pretendevano di conquistarsi il diritto sul mondo, ma di conquistare il proprio diritto.
Questi stati erano sorti dunque come ribelli contro l’unità giuridica, sottoposta alla tutela dell’imperatore, di un mondo creato da un’unica potenza creatrice. E nell’istante stesso in cui essi poterono credere di aver trovato un saldo fondamento nella creazione, nell’istante in cui lo stato ebbe trovato il suo nido nella nazione costituita dalla natura, la corona venne definitivamente strappata dal capo dell’imperatore romano e assunta dall’imperatore nazionale, novello re dei Franchi. A lui seguirono altri, rappresentanti delle proprie nazioni, ma insieme al nome di imperatore parve che anche la volontà di costituire l’impero fosse passata ai popoli; i popoli stessi divennero ora i portatori della volontà sovranazionale indirizzata al mondo intero. E se nei popoli questa volontà d’impero è stata ora ridotta in polvere dalle lotte incrociate, essa verrà presto ad assumere una nuova figura, Infatti nel suo duplice ancorarsi sia al divino creatore del mondo, di cui rispecchia la potenza, sia all’ispirazione del mondo alla redenzione, al cui servizio si trova, essa apre l’unica necessaria via della cristianità in questa parte del Tutto che è il mondo.
L’altra via passa attraverso la chiesa. Anch’essa si trova nel mondo.
Così non può far a meno di venire a conflitto con lo stato. Non può rinunciare a costituirsi in un ordinamento giuridico. Essa è appunto un ordinamento visibile, ma non tale che lo stato la possa tollerare, cose, ad esempio, si limitasse ad un ambito determinato, bensì è un ordinamento che non intende essere meno universale dello stato. Anche il suo diritto, e non solo quello imperiale, viene a toccare prima o poi ogni uomo. Essa si accaparra gli uomini per l’opera della redenzione ed assegna a quest’opera un posto nel mondo creato; pietre devono essere portate giù dai monti ed alberi devono essere abbattuti nei boschi, perché venga eretta la casa in cui l’uomo possa servire Dio. Poiché dunque è nel mondo, visibile e dotata di un proprio diritto universale, la chiesa non è affatto il regno di Dio così come non lo è neppure l’impero. Essa cresce nella sua storia secolare, mondana, attraverso i secoli incontro al regno, frammento di mondo e di vita anch’essa, e resa eterna solo se vivificata dall’atto d’amore dell’uomo. La storia della chiesa non è storia del regno di Dio, come non lo è la storia degli imperatori. Infatti in senso stretto non si dà storia del regno di Dio. L’eterno non ha storia, ma tutt’al più preistoria. I secoli ed i millenni della storia della chiesa sono soltanto la forma terrena, mutevole attraverso i tempi, intorno alla quale solo l’anno liturgico tesse l’aureola dell’eternità.

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