TACERE IL NOME. TRE STUDI SULLA TRADIZIONE EBRAICA CIRCA IL DIVIETO DI NOMINARE IL NOME DI DIO
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TACERE IL NOME. TRE STUDI SULLA TRADIZIONE EBRAICA CIRCA IL DIVIETO DI NOMINARE IL NOME DI DIO
di Andrea Ciucci (28 febbraio 2013)
Da sempre la riflessione ebraica mette a tema la questione del Nome di Dio. A commento dei diversi riferimenti biblici si è infatti sviluppato un vero e proprio capitolo su questo tema all’interno della tradizione talmudica, sfociato poi in quello che potrebbe essere definita l’epoca d’oro del Nome di Dio: la Qabbalah.
Tale filone di pensiero è stato ripreso dalla riflessione ebraica contemporanea e posto in dialogo con le istanze filosofiche coeve, mostrando una sorprendente fecondità. In questo studio se ne vedranno tre esempi dalle opere di Levinas, Scholem e Di Cesare.
La questione del Nome di Dio è estremamente complessa, non solo per la lunga storia che la connota, ma ancor prima per la definizione stessa dell’oggetto. La Torah contiene infatti molti nomi divini, alcuni evidenti e altri nascosti, alcuni comuni e altri propri; ci sono i Nomi mistici e quelli impronunciabili, infine c’è il Tetragramma, normalmente definito il Nome proprio di Dio, la «radice di tutti gli altri Nomi».1 Il pensiero cabbalistico va però oltre e definisce l’intera «Torah come Nome omnicomprensivo di Dio»2. Su questo articolato sfondo si innesta la ricchissima riflessione sul significato dei diversi Nomi, «che sono più che idee [...] e che si celano dietro le parole»;3 nomi da meditare, da calcolare, da scrivere con una minuziosa ritualità; nomi in cui sprofondare per riconoscere l’origine di tutte le lingue, il punto focale del linguaggio, e così evitare la tentazione della magia. Dentro questo complesso costrutto concettuale un posto di particolare rilievo occupa il divieto di pronunciare il Nome di Dio. Tacere il Nome diventa uno degli atti più carichi di senso dell’esperienza ebraica, molto lontana da una certa interpretazione moralistica di matrice cattolica che ha ridotto il divieto di pronunciare il Nome di Dio a una rigorosa norma anti-bestemmia.
1. Un silenzio carico di responsabilità. Le lezioni talmudiche di Emmanuel Levinas
Emmauel Levinas ha affrontato la questione del Nome di Dio in diversi studi dedicati al Talmud e riuniti nella seconda parte della raccolta di saggi ‘Al di là del versetto’, intitolata ‘Teologie’.
A partire dall’articolata e complessa comprensione del tema del Nome di Dio è possibile raccogliere le riflessioni svolte da Levinas in quei saggi intorno al tema del silenzio che gli è dovuto intorno a tre forme con cui questo ‘non dire’ si attua nella prassi talmudica: questo Nome è impronunciabile, impensabile, cancellabile.
1.1. Un Nome impronunciabile
Il Nome di Dio anzitutto non può essere pronunciato. Non può mai essere pronunciato il Tetragramma (tranne che dal sommo sacerdote il giorno del Grande perdono nel santo dei Santi del tempio, e quindi mai nel giudaismo talmudico) e non deve essere ‘pronunciato invano’ (Dt 5, 11) il nome con cui viene chiamato il Tetragramma: Adonai.
Il divieto a pronunciare il Nome è però accompagnato da due comandi che sembrano andare in direzione contraria:
· Ogni benedizione deve contenere un invocazione a Dio nella seconda persona a cui deve seguire il Tetragramma. «Nessuna benedizione senza invocazione del Tetragramma, come Signore (trattato Berakhot 12a) ».4 Il Nome di Dio non può essere pronunciato se non in forma mediata e comunque assai raramente, ma non può non essere presente e invocato in alcuni momenti significativi della vita del popolo e delle persone .
· Il trattato Shebuot (35 a) dedicato ai nomi di Dio, insegna anzitutto che «copiando i nomi di Dio non si deve mai, con nessun pretesto, cancellarli».5 Non solo non si può non scrivere questo Nome ma guai a cancellarlo, anche solo per errore, o a lasciarlo incompleto.
In questo duplice comando emerge tutta la condizione paradossale della realtà del Nome di Dio secondo Israele: esso è impronunciabile perché Dio è totalmente santo e assolutamente unico (e per questo assolutamente diverso da ogni altra realtà umana a tal punto da non poter essere espresso mediante un sostantivo generico) insieme però è presenza sempre attuale e incancellabile. Il Nome si rivela in alcune lettere, in una forma grafica quasi necessaria, che non può però essere letta come è scritta.
Nell’impronunciabilità del Nome di Dio è possibile, secondo Levinas, riarticolare la questione che il trattato Nefesh Ha’Chaim esprime nel rapporto tra ‘Dio dal lato nostro’ e ‘Dio dal lato suo’.
Il Nome di Dio è scritto in lettere umane (‘dal lato nostro’) insieme però, proprio in quanto indicibile, «il Tetragramma significa quel che l’uomo non può né definire né porre, né pensare né finanche nominare»6: ‘Dio dal lato suo’.
La questione, sottolinea Levinas, non è da collocare nell’ambito di una speculazione filosofica fondata da un onto-teologia, bensì sempre entro l’orizzonte dell’esperienza religiosa di Israele: Dio è sempre enunciato come Dio del popolo; è associato a un mondo e insieme gli è totalmente estraneo perché assolutamente uno. Nella dialettica posta da un nome scritto che non può essere pronunciato si dispiega la possibilità di un «pensare l’Assoluto che non attinge l’Assoluto».7
La pratica religiosa (la preghiera e lo studio della Torah anzitutto) diventano così «precisamente il luogo originario»8 di questa esperienza.
Una sintesi significativa di questa dialettica si mostra, secondo Levinas, nel gesto della benedizione:
«La formula «il Santo sia benedetto» con la quale dio è pienamente designato riunisce l’idea della separazione inclusa nel termine ‘Santo’ e quella dell’unione ai mondi impliciti nella nozione di benedizione.»9
L’indicazione di tale luogo peculiare (una benedizione) induce Levinas a pensare che non ci si trovi davanti a un caso alquanto raffinato di teologia negativa, ma a qualcosa di diverso, illuminato dalle altre due modalità in cui il silenzio sul Nome di Dio può e deve realizzarsi.
1.2. Un nome impensabile
Levinas nota che il trattato Nefesh Ha’Chaim, nel tentativo di rendere ragione di ‘Dio dal lato suo’, afferma che neanche la forma assolutamente impronunciabile del Tetragramma è comunque adeguata perché infedele, «Nome impronunciabile ma nome».10
L’autore del trattato introduce a questo punto al nozione di ‘Es-Sof’: un nome che in realtà non è un nome, da tradursi con ‘senza-fine’.
«L’essenza dell’En-Sof è dissimulata più di ogni altro segreto e non deve essere nominata con nessun nome, neanche con quello del Tetragramma, neanche con il pezzo della più piccola lettera».11
Il silenzio che deve segnare il Nome di Dio raggiunge qui il massimo grado: non solo non può essere pronunciato ma neanche pensato. Riferendosi alla realtà dell’En-Sof, Levinas infatti così si interroga: «La parola pensare è qui al suo posto? »12
L’En-Sof costituisce per Levinas il vertice e l’abisso dell’esperienza religiosa, un silenzio che Dio stesso si impone circondandosi dell’oscurità dell’impensabilità, fino all’idea limite dello Zimzum. Con questa parola la Qabbalah definisce la contrazione che Dio opera
«prima della creazione per far posto, a fianco a sé, all’altro da sé. [...] L’infinito si circonda di oscurità. Proibisce di scrutarlo, al fine di lasciare un posto alla verità dell’associazione dell’Infinito e dei mondi».13
Dio tace e impone il silenzio su di sé affinché l’uomo sia e possa entrare in relazione con Lui.
1.3. Un Nome cancellabile
La terza ed ultima modalità con cui si realizza il silenzio sul Nome di Dio è quello della cancellazione.
Levinas nota che anche il divieto di cancellare il Nome ha delle eccezioni, anzi talvolta esso è scritto per essere cancellato. Nei trattati Sotà e Sukkah sono previsti infatti due casi in cui, in contesti celebrativi, il Nome di Dio viene cancellato nell’acqua. In entrambi i casi si tratta di due eventi di riconciliazione e di pace: il primo fa riferimento alla pacificazione fra moglie e marito, il secondo allarga il caso a una riconciliazione cosmica.
Il silenzio sul Nome di Dio, l’affermazione assoluta dell’alterità e della santità di Dio è per la riconciliazione:
«La sua Santità e la santità che essa suggerisce stanno precisamente a significare la costituzione di una società umana in stato di obbligazione. [...] L’elezione [di Israele] significa un surplus di doveri, conformemente alla formula di Amos (3, 2): ‘Voi soli io ho distinto tra tutte le famiglie della terra, per questo vi chiedo conto di tutte le vostre colpe’»14
Anche qui la «riflessione rabbinica su Dio non si separa mai dalla riflessione sulla pratica».15
Il silenzio è per l’etica: «la cancellazione di Dio equivale positivamente all’obbligo di realizzare la pace del mondo».16
Il volto umano e l’appello che esso porta con sé diventa lo spazio della più vera e piena rivelazione di Dio. Il linguaggio si pone al servizio della relazione e diventa pieno di responsabilità.
2. Un silenzio tra scrittura e oralità. Le indagini cabbalistiche di Gershom Scholem
All’interno della complessa analisi del tema del Nome di Dio nella Qabbalah svolte da Gershom Scholem nella sua opera «Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio» (1970) e nelle sue «Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah» (1938), più volte emerge la questione del divieto di pronunciare il Nome di Dio. Le ragioni di questo silenzio possono essere espresse intorno a cinque punti fondamentali.
2.1. Un silenzio per evitare la tentazione della magia
Sulla scorta della riflessione di Benno Jacob, Scholem inizia a rilevare che, a differenza della pratica religiosa coeva all’esperienza di Israele dove la parola assume un ruolo quasi sacramentale, nella religione israelitica «il silenzio è così assoluto che può essere interpretato solo come intenzionale».17 Tale intenzione non delimitata al solo Nome di Dio ma diffusa in ogni atto sacerdotale ebraico esprime la precisa volontà di evitare ogni rischio di pratica magica connessa all’uso della parola. La Bibbia ebraica «non ha un concetto magico del Nome di Dio»18 e il divieto di pronunciarlo si pone a tutela di questo possibile rischio, condannato in tutta la Scrittura e nel giudaismo successivo, fino ad Abulafia che «respinge con assoluta fermezza ogni forma di magia e teurgia pratiche»19.
2.2. Un silenzio che si fonda sul tacere stesso di Dio
Scholem nota che, sempre secondo la riflessione del cabalista Abulafia, la pratica del silenzio in chiave antimagica non si riduce ad una semplice questione etica, bensì si fonda su un atto stesso di Dio. Neanche il Tetragramma sarebbe infatti il vero Nome originario di Dio, ma solo un espediente che lo nasconde poiché la Torah «aveva esitato a renderlo manifesto per non svelare alla massa, impreparata alle profonde verità della mistica, un segreto di cui poteva forse abusarne».20
Fondata sulla peculiarità delle lettere che compongono il Tetragramma (mater lectionis che in qualche modo rimandano ad altre lettere), tale teoria cabbalistica, giudicata per altro dallo stesso Scholem «oltremodo radicale»,21 arriva ad affermare che Dio stesso tace il suo Nome vero, non lo pronuncia e così facendo non si rivela pienamente per quello che è, affinché il suo popolo non cada nella tentazione idolatrica di un Nome da usare quale potente amuleto.
2.3. Un silenzio che impedisce l’oggettivazione della conoscenza prima
Di un rivelazione ‘opaca’ offerta dalla Torah, Scholem parla anche nelle «Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah» poste in appendice al saggio sul nome di Dio nella Qabbalah.
Nella tesi 3, Scholem spiega tale opacità facendo riferimento alla dialettica tra rivelazione scritta (pura e splendente) e quella orale. L’impossibilità a pronunciare tutto il testo della Torah mostra l’impossibilità più radicale a uscire dalla Torah stessa, che risulta il medium insopprimibile di ogni rivelazione. Come recita la brevissima e fondamentale tesi 9:
«L’intero può essere tramandato solo in maniera occulta. Il Nome di Dio può essere richiamato ma non pronunciato. Poiché solo ciò che vi è in essa di frammentario fa sì che la lingua possa essere parlata. Non si può parlare la ‘vera’ lingua, così come non si può compiere un atto assolutamente concreto. »22
L’impronunciabilità del Nome di Dio riafferma, mediante un divieto pratico, «il carattere non oggettuale della conoscenza suprema».23 La Torah non può essere tutta pronunciata e così la rivelazione che essa offre nel testo scritto non può essere del tutto detta, posseduta. «Dio stesso è la Torah e la conoscenza non può uscirne».24
2.4. Un silenzio per preservare la totalità del senso
Nella dialettica tra testo scritto e uso orale, fondata sull’intuizione che «la scrittura precede il discorso, così che il linguaggio nasce dal farsi suono della scrittura»,25 si pone, secondo Scholem, anche la riflessione di un altro cabalista riscoperto solo recentemente: Giqatilla. Egli infatti afferma che il fatto che il testo sinagogale della Torah sia scritto solo con le consonanti e non riporti invece i segni vocalici che ne permettono la pronuncia non è motivato da una semplice tradizione. Gli infiniti strati di senso che la Rivelazione contiene
«verrebbero limitati da una scrittura vocalizzata [...] . La parola di Dio è gravida di infiniti sensi ma non ne possiede uno preciso. Priva in sé di significato, essa è l’assolutamente interpretabile. [...] Nel testo della Torah sono contenute tutte queste infinite possibilità di comprensione».26
Riprendendo il pensiero di Abulafia, Scholem conclude che i Nomi mistici di Dio presenti nella Torah non sono altro che gli elementi di senso ancora inespressi, che fanno del testo biblico un vero e proprio corpus mysticum.
2.5. Un silenzio che dischiude i tempi messianici
L’esperienza del linguaggio, intesa esattamente come il dar voce alla rivelazione del Nome di Dio che è la Torah, appare così chiaramente come un’esperienza storica, a tal punto che i cabbalisti ipotizzano una modalità angelica di leggere il testo sacro completamente diversa da quella umana.
Preservato dal rischio deturpante della magia, il Nome di Dio, impronunciabile nella storia umana, diventa però «la parola mirabile della speranza messianica».27
Sulla scorta delle riflessioni di Hermann Cohen, Scholem vede proprio nell’impronunciabilità del Nome di Dio, che può essere richiamato ma non proferito, il rivelarsi della promessa di un tempo in cui Dio convertirà «tutti i popoli a una lingua più pura, così che tutti insieme essi invocheranno il Nome di Dio».28
Il divieto di nominare il Nome di Dio non è eterno; il comando è posto per ricordare al popolo santo di Israele che ci sarà il tempo della ‘lingua pura’, della pienezza della rivelazione, della comunione tra tutti i popoli.
3. Un silenizio solo per questo tempo. La grammatica messianica di Donatella Di Cesare
Nel suo recentissimo testo intitolato ‘Grammatica dei tempi messianici’, Donatella Di Cesare utilizza la questione del Nome di Dio nella tradizione ebraica quale chiave interpretativa di una filosofia della storia che va dall’evento protologico della torre di Babele allo schiudersi della speranza messianica.
3.1. Due giustificazioni del silenzio sul nome di Dio
In una più ampia riflessione sul tema del Nome di Dio che si ispira in più punti ai testi di Levinas e di Sholem sopra considerati, la Di Cesare ricorda anzitutto la duplice motivazione classica posta a sostegno del divieto di pronunciare tale Nome.
Evitare il rischio dell’idolatria. La vicenda di Babele mostra l’uomo desideroso di darsi un nome da sostituire al Nome di Dio. Un nome per dire un’identità e quindi una possibilità, una potenza da esercitare.
«Il nome sembra costituire il culmine, l’idolo alla sommità della torre. Il nome è la forma estrema dell’idolatria, è l’idolatria come tale [...] . Vogliono un nome perché vogliono farsi un nome. Il nome serve per assicurarsi fama eterna, eternità.»29
L’impossibilità di pronunciare il Nome di Dio è anzitutto proibizione a trasformare Dio in un idolo, in una potenza da usare a proprio uso e consumo. Nessuno può collocare Dio sulla propria torre, sul proprio altare.
Evitare il rischio dell’oggettivazione. Alla radice dell’idolatria sta un rischio ancor più grande che consiste nel ridurre Dio a un oggetto. Per questo motivo:
«il divieto di leggere il Tetragramma come è scritto, e più in generale di pronunciarlo, indica l’impossibilità di afferrare, possedere, oggettivare il Nome di Dio. Altrimenti detto: vocalizzare il Tetragramma sarebbe come abbassare dio a semplice oggetto, un ente tra gli altri, seppur supremo. Proprio questo è vietato: dire e dunque pensare che Dio sia un ente determinabile, definibile, nominabile. »30
3.2. Impronunciabilità radicale
Il Nome di Dio, nota la Di Cesare, non è però impronunciabile solo per un divieto morale. Esso è impronunciabile radicalmente anzitutto in quanto il Tetragramma è l’unica parola della Torah a non essere stata vocalizzata: «il Tetragramma non ha vocali e dunque non è possibile pronunciarlo. Di più: non è permesso neppure tentare. È anzi assolutamente proibito».31
Questa radicale impossibilità è testimoniata, secondo la Di Cesare, anche dalla peculiarità delle lettere che compongono il Tetragramma32 e dall’«irriducibilità del Tetragramma a ogni traduzione»,33 connessa alla problematica trasposizione in altre lingue del significato del Nome espresso in Es 3, tentata da molti autori.
Questa impossibilità radicale apre però lo spazio ad altro: la lettura della Torah è costretta ad interrompersi davanti al Nome di Dio, ma mentre «la bocca tace, l’occhio fermandosi si solleva silenzioso verso l’oltre a cui le quattro lettere rinviano».34
Si schiude una dimensione altra, un tempo nuovo, diverso dal presente segnato da un linguaggio disgregato (frutto di Babele) e incapace di creare unità.
3.3. Il silenzio del presente
Lo sguardo orientato a un tempo nuovo è indirizzato dal significato stesso del Nome di Dio rivelato in Es 3 e riletto dalla tradizione rabbinica: un doppio futuro che la Di Cesare rende in italiano con ‘Sarò colui che sarò’.
Il rimando al futuro è dischiuso dalla rivelazione stessa di Dio, indisponibile — impronunciabile — all’uomo ma segno visibile dell’opera di Dio: «Interrogato sul proprio Nome, Dio risponde con un verbo, un futuro incompiuto».35
Il silenzio sul Nome Dio risulta così necessario perché «come è possibile chiamare, nominare, invocare un Dio che non c’è, dal momento che non si definisce per quel che è, bensì per quel che sarà? »36
Così il Tetragramma diventa «la possibilità di oltrepassare il tempo all’interno del tempo, di fare della memoria l’inizio della redenzione».37 Il futuro evocato nel Nome si rivela il tempo dell’agire di Dio, del suo svelarsi per quello che è veramente.
Il contenuto di questo tempo non può non essere allora indicato che da una profezia:
Ma allora muterò/farò alle nazioni un labbro chiaro
perché tutte invochino per Nome Y-H-W-H,
perché lo servano in unico accordo. (Sof 3, 9) 38.
Secondo la Di Cesare l’interpretazione talmudica di questo testo lo connette direttamente al racconto della torre di Babele. Seguendo Radaq, l’opera di Dio non è una semplice purificazione del cuore umano che lo rende abile a un culto messianico, ma la possibilità offerta all’uomo di pronunciare il vero Nome di Dio senza cadere nella tentazione idolatrica che Babele aveva evidenziato. «Labbro chiaro vuol dire che non parleranno di altri dei. »39
Così conclude la Di Cesare:
«La redenzione sarà l’inversione del tempo, la conversione del linguaggio, l’irruzione del Nome nella storia. [...] La fine sarà nel Nome. [...] Ogni creatura conoscerà e confesserà il suo Nome e solo il suo. [...] Soltanto allora, quando, invocato all’unisono, l’Unico Nome sarà il solo, sarà il tutto in-fine unito per divenire Uno. »40
Il silenzio che grava sul Nome di Dio è legato al tempo di Babele e insieme prefigura l’opera rigeneratrice di Dio.
Il Nome di Dio non è fatto per essere taciuto per sempre ma per essere ‘invocato’ all’unisono da ‘labbra chiare’.
4. Conclusione. L’oscuro tacito rivelarsi
In un breve quanto denso saggio di ripresa del pensiero di Heidegger riguardo la possibilità di un discorso su Dio post moderno, Giancarlo Penati definisce il silenzio come successivo e conseguente la Parola, un significante che si esprime nel tacere, «non come nulla, ma come assenza accennante alla presenza».41
La breve analisi condotta sul tema del silenzio nella riflessione ebraica contemporanea sul Nome di Dio mostra, con un’ampia articolazione, esattamente questo: la siepe del silenzio posta a salvaguardia del Nome di Dio non è semplicemente una proibizione dal contenuto negativo.
Il silenzio della tradizione ebraica è pratica positiva (e non una astensione), è la possibilità perché la Parola che esprime il Nome di Dio possa rivelare esattamente il suo contenuto senza tradirlo, possa custodire la sua potenza senza renderla inefficace.
Il silenzio diventa la forma concreta con cui, per utilizzare ancora le parole di Penati che riflette sul tema della verità in Heidegger, si manifesta «non soltanto la differenza ontologica, ma una permanente e ineliminabile distanza fra segni, parole, figure in e attraverso cui la verità dell’Essere (e quindi di Dio) si pre-senta, e l’origine di tale sempre mai totale e quindi sempre parzialmente oscuro-tacito rivelarsi».42
Nella pratica del silenzio, l’uomo può imparare la differenza, può smettere di definire-nominare Dio e disporsi così ad accogliere una rivelazione salvifica che lo libera dalle tentazioni dell’idolatria e della magia e che lo restituisce a una forma nuova di vita comune.
All’uomo è vietato nominare Dio affinché impari ad invocarlo.
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