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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA (RAV LUCIANO CARO)

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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA

(RAV LUCIANO CARO)

Voglio fare un approccio al testo biblico, come messaggio di origine divina indirizzato a tutti gli uomini che credono, ebrei o non ebrei. Vediamo cosa insegna questo messaggio all’uomo. Tutta la prima parte del libro della Genesi appartiene a quelle parti del testo biblico che sono le più pericolose; io li chiamo capitoli trappola. Dico questo nel senso che sono talmente interessanti e semplici nella loro esposizione, che possono portarci fuori strada; sembrano solo delle belle storielle (la creazione del mondo, il paradiso terrestre, l’arca di Noè, ecc.), che noi leggiamo con un certo sorriso di compiacimento, credendoci molto più avanti. Secondo me, invece, dietro questa esposizione così semplice, c’è un bagaglio di significati che molto spesso non riusciamo a vedere. Quando il testo ci dice che Dio creò il mondo in sei giorni, o che creò il cielo e la terra, non è vero, perché le cose non sono andate così, ma nessuno sa come sono andate in realtà. Dietro questo modo così elementare, apparentemente puerile della descrizione, ci sia una provocazione rivolta ad ognuno di noi, perché cerchiamo di approfondire e di capire il messaggio divino insito in quelle pagine.
Volevo anche sottolineare che la Genesi non è stata prodotta in un ambiente completamente vergine; cioè non è che Mosè un bel giorno ha detto: « Adesso scrivo la creazione, il diluvio, i patriarchi, ecc. », ma il testo è stato prodotto in un ambiente già saturo di miti, storie, leggende che circolavano. Di questi miti di ambiente mesopotamico, egiziano, numerico, ecc. lascia alcune cose così come si trovano, mentre altre le manipola, per cercare di presentarci un racconto dal quale noi possiamo cercare di ricavare un insegnamento, così come si fa con i bambini. Se voglio parlare di Dio a un bambino piccolo, non posso adoperare un linguaggio teologico, che non sarebbe in condizione di capire, ma devo utilizzare dei raccontini, che gli permettano di ricavare lui il significato. Così tutto quello che il testo biblico ci dice della creazione, è ripreso da miti più antichi, ma sono raccontati in modo tale da togliere dalla mente della gente determinati elementi negativi, per fare cogliere loro degli elementi positivi. Il racconto sulla creazione, ad es., a mio avviso vuole insegnarci che tutte quelle forze della natura, che anticamente erano divinizzate, non sono altro che il prodotto di una volontà superiore. Il mare, dunque, non è più il dio del mare, ma un qualcosa creato da qualcuno che è al di sopra; lo stesso per le piante e così via. Viene così insinuato in noi il concetto che tutto è nato da una volontà superiore imperscrutabile. La Torah non vuole insegnarci il come e il perché Dio abbia creato il mondo, ma vuole solo dirci che c’è un creatore che ha creato le forze della natura.
La cosa ha particolare significato per quanto attiene ai passi che dovremo considerare oggi. Il testo ci racconta che Dio, tra le cose che ha fatto, ha piantato un giardino in una località chiamata Eden; un giardino a oriente dell’Eden, nel quale ha collocato l’uomo, dandogli l’ordine di non mangiare un certo frutto. Si parla della mela, perché tutti i pittori di tutti i tempi hanno rappresentato Adamo ed Eva nel giardino sempre con la mela; doveva essere un frutto, ma nell’immaginario collettivo il frutto è un qualche cosa di rotondo e quindi questa cosa tonda, per noi, è la mela. Il testo, però, dice solo « il frutto dell’albero », che era bello da vedersi e appetibile da mangiarsi. I nostri maestri si sono sbizzarriti nel trovare tutte le risposte a questo riguardo. Qual è il frutto bello da vedersi e appetibile? Ognuno ha i suoi gusti. Fate attenzione, perché molto spesso le traduzioni ci portano fuori strada.
Dobbiamo abituarci, in queste parti narrative del testo sacro, a cercare di vedere qual è il significato interno; buttare via (è un’espressione usata dai nostri maestri) la buccia, cioè il contorno e guardare qual è l’interno. Da una lettura dei primi capitoli della Genesi, si ricava che Dio ha creato il mondo tov, buono ed è stata la presenza dell’uomo a sottrarre, in un certa misura, questa bontà all’universo, con il suo comportamento.
Nel nostro racconto si parla dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma facciamo attenzione, perché il testo biblico a volte ci prende in giro, ci stimola. Noi traduciamo tov e ra’, con buono e cattivo, bene e male. Non so se vuol dire bene nel senso nostro; quando leggiamo che Dio vide che una cosa era buona, cosa vuol dire? Che è una cosa bella, o utile, o buona dal punto di vista morale ed etico?
Leggendo il testo così con semplicità, ci vengono delle perplessità sulla figura di Dio, il quale crea e, dopo aver creato, vede che è una cosa buona. Prima non lo sapeva? Possiamo farci un’idea sbagliata di Dio. Il succo è che cosa vuol dire buono. Tutto il libro della genesi è focalizzato su questa parola. Dio crea la donna, perché dice: lo tov, cioè non è bene che l’uomo sia solo. Non è cosa buona dal punto di vista morale, etico, oppure non è comodo, cioè l’uomo senza la donna non sta bene? A un certo punto del testo si dice che vennero i figli di Dio (chi sono non lo sa nessuno) e videro le figlie dell’uomo che erano tovòt, buone e si sono prese delle donne, da cui nacquero i giganti. Cosa vuol dire? Che erano belle più delle donne che ci sono tra gli angeli? Buone alla romana, nel senso di formose? E’ evidente che le cose non stanno in questi termini. Analogamente in termine di provocazione, quando si narra della nascita di Mosè, è detto che la mamma non l’ha buttato via, perché era buono; se era cattivo lo buttava, forse? E qual è quella madre che nei confronti del bambino appena nato, trova qualcosa che non funziona?
Lo stesso vale per l’albero della conoscenza del tov e del ra’. Il ra’ è il contrario del tov, ma cos’è?
C’è un altro elemento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione; sembra che vada fuori tema, ma soltanto parzialmente. Nel racconto del giardino dell’Eden, compaiono degli altri personaggi. C’è il giardino, le piante, Adamo ed Eva, il serpente e alla fine ci sono i cherubini. Cosa sono? Non lo sappiamo di preciso. Un qualche cosa che sono degli esseri posti da Dio a guardia del giardino per fare in modo che l’uomo, cacciato dal giardino, non ci ritorni. L’immagine che abbiamo noi dei cherubini è quella di angioletti paffuti, dalla forma pseudo umana. Ma è proprio così o vuol dire un’altra cosa? Sembra che questa parola cherubìm fosse chiarissima ai tempi in cui fu scritto il testo. Ritroviamo questo termine nel racconto dell’Esodo, dove si narra della tenda del convegno, in cui vi era una cassetta, che conteneva le tavole della Legge e che aveva sopra un coperchio e su di esso due cherubini, che si guardano. Rimaniamo sbigottiti. Proprio nel momento culminante, in cui si sottolinea il divieto di farsi alcuna immagine per adorarla, compaiono due forme umane. Io credo che nell’antichità, quando la Torah fu emanata, avessero delle idee più chiare delle nostre su cosa fossero questi cherubini.
Un’altra cosa che vorrei suggerire alla vostra attenzione, sempre come provocazione, perché cerchiate di approfondire, è che del giardino dell’Eden se ne parla, in forma piuttosto oscura, in fonti mesopotamiche e anche in altre fonti ebraiche bibliche, in particolare nel libro di Ezechiele, ai capitoli 28 e 31, dove è riproposto in chiave diversa. Non sappiamo nemmeno cosa vuol dirci Ezechiele. Lui ci parla di un cherubino, cherùv, che forse è la personificazione del re di Tiro. Lui sta rivolgendo una petizione al re di Tiro e in modo sarcastico gli dice: « Ma cosa ti credi di essere ancora il cherubino del giardino dell’Eden? ». Inoltre in quella circostanza si fa riferimento al fatto che questo giardino, nella visione di Ezechiele, era in un monte sacro, mentre, viceversa, nel testo della Genesi, di monte non se ne parla per niente. E cosa vuol dire Eden? Nell’ebraico moderno è una radice che vuole dire soavità, dolcezza, delicatezza, ma sembra che in una radice araba più antica abbia il significato o di un nome di luogo oppure sembra che abbia delle attinenze con pianura, quindi il giardino dell’Eden è il giardino della pianura. Ezechiele lo pone, invece, su una montagna. Probabilmente c’erano vari miti che circolavano. La Genesi ce lo propone anche con dei fiumi e delle pietre preziose, mentre Ezechiele ci parla di alberi che invece di frutti, producevano pietre preziose. La stessa cosa troviamo in miti numerici precedenti, dove si parla del giardino collocato in un posto pieno di miniere di pietre preziose.
Se leggete quei capitoli di Ezechiele, troverete che il giardino è chiamato il giardino di Dio, facendoci immaginare che fosse una specie di residenza divina. Sembra che Dio l’avesse preso per abitarci, ma poi ci ha messo l’uomo. Ma cos’è questa storia? Quindi siamo veramente provocati a cercare di capire cosa ci vuole insegnare il testo.
Spero di non deludervi, ma devo dire ancora una cosa. Per cercare di capire bene qual è il significato di questi passi, dobbiamo tenere conto anche della terminologia antica usata nel testo. Ad es. per indicare il nome di Dio, che compare sotto forme diverse. All’inizio della Genesi compare il nome Elohìm, un termine molto generico: divinità. Chiunque sia, qualunque cosa sia. Poi, andando avanti nel testo, si usa il termine tetragrammato, cioè con le quattro lettere sacre, impronunciabile. Come mai l’autore usa questo e quello? In altri passi viene chiamato in tutti e due i modi: il Tetragramma seguito da Elohìm. Una delle interpretazioni che va per la maggiore, è quella che dice che quando si usa Elohìm si vuole indicare Dio dal punto di vista della giustizia, mentre quando si parla di Dio dal punto di vista della bontà e della misericordia, si usa il tetragramma. Ma c’è chi dice esattamente il contrario.
Qualcuno dice che il termine Elohìm viene usato per indicare il Dio in qualche modo trascendente, il Creatore, che non si sa bene cos’è; mentre l’altro termine indica un Dio più personale, che parla con l’uomo in un rapporto più diretto. Sarà vero? Non lo so.
Quello che non riusciamo a capire è cosa sia questa faccenda di Dio che crea il giardino e vi mette dentro l’uomo. Un passo dice che l’ha messo lì « per lavorarlo e per custodirlo ». E noi ci inalberiamo subito. Intanto perché dal punto di vista grammaticale le cose non funzionano, perché se lavorarlo si riferisce al giardino, la parola giardino, in ebraico, è maschile, mentre viene adoperato un suffisso femminile, come se dicessimo in italiano: « Dio creò un giardino e vi mise l’uomo per lavorarla e custodirla »; ma lavorarla e custodirla che cosa? Mosè non sapeva la grammatica? Prima adopera un maschile e poi ci mette un suffisso femminile? Tra l’altro non è nemmeno chiaro se sia un suffisso femminile o no. Qualcuno dice che Mosè volesse intendere la terra e non il giardino, da lavorare. Ma poi non funziona dal punto di vista del significato, perché Dio ha decretato il lavoro dopo che l’uomo aveva peccato. Sembra, da una lettura sommaria, che l’uomo, quand’era nel giardino, passasse il tempo a fare i complimenti a sua moglie, forse, oppure a mangiare i frutti che gli capitavano. Cosa vuol dire custodire il giardino? Custodirlo, proteggerlo da che cosa? Non lo sappiamo. I nostri maestri, adoperando il meccanismo di andare a cercare tutti i significati dei vari termini, sostengono che lavorarlo e custodirlo ha un significato più cultuale, perché la parola avodà vuol dire lavoro, ma anche culto e la parola custodire vuol dire anche osservare. Già nel momento in cui l’uomo è stato collocato lì dentro, Dio aveva lo scopo che l’uomo prestasse una specie di servizio di Dio, osservando quello che Dio gli aveva detto di osservare. Come un segno di riconoscimento che tutte le cose di cui l’uomo stava godendo, venivano da Dio. Ovviamente l’uomo non ha fatto né l’una, né l’altra cosa.
Poi troviamo l’albero della conoscenza del bene e del male collocato proprio nel mezzo del giardino, quasi come una provocazione; qualunque strada l’uomo facesse, si trovava davanti questo albero. Inoltre c’era anche l’albero della vita; però Dio non gliel’ha detto. Lo scopo sembra che sia quello di fare in modo che, prima o poi, l’uomo mangi anche di quell’albero e perciò divenga immortale. Dio dice solo che se mangiano di quell’albero, moriranno; ma cosa vuol dire morire? Fino a quel momento non era ancora morto nessuno e perciò che idea potevano avere Adamo ed Eva della morte? Dio è scorretto! Una delle forme interpretative è quella di considerare l’uomo, in quel momento, come l’uomo bambino. Dio si rivolge a lui come ci si rivolge a un bambino, perché non aveva nessuna esperienza. La provocazione consisterebbe in questo: l’albero della conoscenza del bene e del male è l’albero delle esperienze. L’uomo ha due possibilità davanti a sé: o obbedire a Dio e non mangiare dell’albero della conoscenza e continuare, così, a vivere come un bambino, senza l’esperienza di quello che è buono e cattivo, ma non in senso morale, ma nel senso di quello che è positivo e quello che è negativo nella vita: malattie, dispiaceri, vecchiaia, ecc. Se l’uomo fosse stato lì dentro come un bambino, ubbidendo a Dio, avrebbe continuato a vivere una vita felice inconsapevole, senza particolari problemi. Invece l’uomo ha voluto prescindere da questo avvertimento, scegliendo di conoscere, anche se questa conoscenza è legata alla sofferenza. L’albero della conoscenza del bene e del male diventerebbe l’albero dell’esperienza di quello che la vita può dare, allorché diventiamo consapevoli. L’avere ottenuto questa esperienza, disubbidendo a Dio, ha sottratto all’uomo la possibilità di diventare immortale. Questa disubbidienza dell’uomo era in qualche modo pilotata da Dio, perché gli ha detto quello che era vero in modo che non poteva capire. Gli pone davanti due possibilità: o vivere illimitatamente in modo inconsapevole, oppure vivere limitatamente nel tempo, ma consapevolmente, con tutto quello che la consapevolezza comporta: sofferenza, guai, ecc. ma, in qualche modo, Dio l’avrebbe spinto in quella direzione, perché gli ha messo accanto la donna, che gli ha dato il consiglio, poi gli ha dato il serpente, che ha consigliato la moglie e poi ha collocato questo albero nel punto più strategico, inoltre gli avrebbe detto le cose in modo incomprensibile. Gli dice: « Morirai, se fai questo », ma per Adàm quella parola era incomprensibile, perché è come se voi diceste a un bambino: « Non metterti il dito in bocca, quando hai toccato per terra, perché se non ti ammali! ». E’ vero che gliel’avete detto, ma io ho dei dubbi se lui ha capito. Quand’è che comincia a capirlo? Appena gli hai dato la sberla. Come noi: cerchiamo di lasciare i nostri figli liberi di scegliere, ma un po’ li pilotiamo.
Fermiamoci un attimo su una questione semantica, che riguarda il significato delle parole. In varie parti del testo biblico, la conoscenza del bene e del male è un attributo di Dio. Cosa significa, però, che Dio conosce il bene e il male? Che sa distinguere? Mangiando quel frutto proibito, l’uomo può acquisire quella caratteristica di Dio. Anche la vita eterna è una caratteristica divina, ma ad essa Dio non vuole che l’uomo attinga.
Di nuovo. Bene e male è quello che è utile, non dannoso, o in senso morale? Adoperando lo stesso verbo conoscere, il testo dice che, quando ebbero mangiato il frutto, conobbero che erano nudi. Il fatto di essere nudi era una cosa negativa? E’ questo il male? Dio provvede in prima persona a fare loro i vestiti; è il primo sarto dell’universo. Determinati filoni di interpretazione, soprattutto in campo cristiano, hanno portato a pensare il bene e il male in termini sessuali. Quasi a sottolineare che l’uomo e la donna abbiano cominciato a praticare il sesso, dopo aver mangiato il frutto proibito. Io ho molte perplessità che voglia dire questo. Non so bene cosa vuol dire questa nudità. Forse conoscenza vuol dire esperienza; dopo aver mangiato il frutto, si rendono conto di certo aspetti della realtà, ai quali prima non facevano caso. Come i bambini, che crescono piano piano e acquisiscono una conoscenza oggettiva delle cose.
Qualcuno interpreta che tutta questa storia è stata deliberata; in origine sembra che Dio avesse previsto che l’uomo stesse nel giardino e Dio si sarebbe comportato nei suoi confronti come un padre che pensa a tutto. Fa’ quello che ti dico io, e starai bene. L’uomo si sarebbe ribellato: « No, papà! Io voglio uscire dalla tutela paterna. Sbaglierò, non sbaglierò, ma voglio affrontare la vita come desidero io ».
Dio dice che non voleva che l’uomo diventasse immortale, infatti pone i cherubini a guardia del giardino perché l’uomo non potesse mangiare dell’albero della vita. Ma allora perché ha inventato questo albero e l’ha messo nel giardino?
Il passo biblico è provocatorio, incomprensibile. Sta di fatto che il regista di tutto è Dio: è Lui che ha creato, determina e giudica l’operato dell’uomo. Maimonide dice che c’è qualcosa che non funziona; si chiede: « Come fa Dio a dare degli ordini a chi non è in condizione di sapere che disubbidire è male? ».
Quando Adamo si nasconde nell’albero, dopo il peccato, Dio si rivolge a lui dicendogli: « Dove sei? ». Frase bellissima, con un significato molto preciso e cioè il significato più ampio, come se Dio chiedesse a noi tutti i giorni: « Dove sei? Dove stai andando? Dove sei collocato nell’universo? Ti rendi conto? ». C’è un altro elemento più terra terra ed è che noi da qui impariamo il comportamento di Dio, che non ha accusato direttamente l’uomo, assalendo col rimprovero, ma gli ha posto questa domanda per dargli il tempo di formulare una risposta. Viceversa Dio si rivolge all’uomo, dandogli il tempo di prepararsi una difesa, quasi a prepararlo alla seconda domanda, che sarebbe arrivata subito dopo. Quando dobbiamo accusare qualcuno, dovremmo anche dargli la possibilità di prepararsi una giustificazione. Dobbiamo leggere questi racconti, imparando come Dio si comporta, per imitarlo.
Non lasciamoci trascinare dal fascino che esercitano questi racconti o dalle tradizioni stereotipate che ci portano fuori strada. Le traduzioni fanno molta fatica a rendere ciò che il testo vuole dire, perciò dobbiamo sempre stare attenti, tenendo conto anche che certi termini sembrano molto semplici a tradurli e invece non capiamo bene cosa veramente significano. Per es., cosa significa santificare,

CATTOLICI E LUTERANI: PERDONO PER IL MALE PASSATO, SPERANZA PER IL FUTURO

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CATTOLICI E LUTERANI: PERDONO PER IL MALE PASSATO, SPERANZA PER IL FUTURO

Papa Francesco incontra la Federazione Luterana Mondiale e i membri della Commissione Luterano-Cattolica per l’Unità, ed esorta a portare avanti il cammino di dialogo e di comunione

Citta’ del Vaticano, 21 Ottobre 2013 (Zenit.org) Redazione

“Cattolici e luterani possono chiedere perdono per il male arrecato gli uni agli altri e per le colpe commesse davanti a Dio, e insieme gioire per la nostalgia di unità che il Signore ha risvegliato nei nostri cuori, e che ci fa guardare avanti con uno sguardo di speranza”. È solo uno dei forti passaggi del breve, ma intenso discorso che Papa Francesco ha rivolto alla delegazione della Federazione Luterana Mondiale e ai membri della Commissione Luterano-Cattolica per l’Unità, ricevuti stamane in Udienza.
Il Santo Padre ha rivolto lo sguardo al passato, ricordando con “profonda gratitudine” i numerosi passi delle relazioni tra luterani e cattolici compiuti negli ultimi decenni. “Non solo – ha detto – attraverso il dialogo teologico, ma anche mediante la collaborazione fraterna in molteplici ambiti pastorali e, soprattutto, nell’impegno a progredire nell’ecumenismo spirituale”.
Proprio quest’ultimo punto costituisce, secondo il Pontefice, è “l’anima del nostro cammino verso la piena comunione”, e “ci permette di pregustarne già da ora qualche frutto, anche se imperfetto”. “Nella misura in cui ci avviciniamo con umiltà di spirito al Signore Nostro Gesù Cristo – ha sottolineato il Papa – siamo sicuri di avvicinarci anche tra di noi e nella misura in cui invocheremo dal Signore il dono dell’unità, stiamo certi che Lui ci prenderà per mano e Lui sarà la nostra guida”.
Bergoglio ha poi indicato due ricorrenze: i 50 anni del dialogo teologico e il quinto centenario della Riforma, nel 2017. Due importanti avvenimenti il cui frutto è la recente pubblicazione del testo della Commissione per l’Unità luterano-cattolica, dal “significativo” titolo: “Dal conflitto alla comunione. L’interpretazione luterano-cattolica della Riforma nel 2017”. “Mi sembra davvero importante per tutti lo sforzo di confrontarsi in dialogo sulla realtà storica della Riforma, sulle sue conseguenze e sulle risposte che ad essa vennero date” ha affermato il Santo Padre.
“Alla luce del cammino di questi decenni, e dei tanti esempi di comunione fraterna tra luterani e cattolici di cui siamo testimoni – ha quindi soggiunto – sono certo che sapremo portare avanti il nostro cammino di dialogo e di comunione”. Questo, affrontando sia “le questioni fondamentali”, che le “divergenze” in campo “antropologico ed etico”.
Il Papa è comunque realista: “Le difficoltà non mancano e non mancheranno, richiederanno ancora pazienza, dialogo, comprensione reciproca”. Tuttavia, l’invito è a non aver paura: “Non ci spaventiamo!” ha detto, ricordando le parole di Benedetto XVI: “L’unità non è primariamente frutto del nostro sforzo, ma dell’azione dello Spirito Santo al quale occorre aprire i nostri cuori con fiducia perché ci conduca sulle vie della riconciliazione e della comunione”.
L’auspicio finale del Pontefice è, quindi, che “la preghiera fedele e costante nelle nostre comunità possa sostenere il dialogo teologico, il rinnovamento della vita e la conversione dei cuori, affinché, con l’aiuto del Dio Uno e Trino, possiamo camminare verso il compimento del desiderio del Figlio, Gesù Cristo, che tutti siano uno”.

SOFIA CAVALLETTI. BANCHETTO PASQUALE E ULTIMA CENA – PASQUA E ULTIMA CENA

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SOFIA CAVALLETTI. BANCHETTO PASQUALE E ULTIMA CENA

SOFIA CAVALLETTI, EBRAISMO E SPIRITUALITÀ CRISTIANA

PASQUA E ULTIMA CENA

Le discussioni intorno al carattere dell’Ultima Cena si sono accese fin dai tempi più antichi, e già presso i Padri si trovano dissensi al riguardo; mentre Girolamo e Ambrogio pensano a una coincidenza tra Ultima Cena e pasqua ebraica, Ireneo ritiene che Gesù sia morto nel giorno della pasqua, e quindi l’Ultima Cena sarebbe avvenuta durante la vigilia della festa.
La cosa non risulta chiara già nei Vangeli: secondo i sinottici sembra che Gesù abbia celebrato il banchetto il primo giorno degli azzimi; invece, secondo Giovanni, sembra che la crocefissione sia avvenuta nel primo giorno degli azzimi cioè nello stesso giorno e, più o meno, nella stessa ora in cui nel Tempio si immolavano gli agnelli, che sarebbero stati consumati durante la cena pasquale.
La questione si complica ancor più se si tiene presente quello che è stato messo recentemente in evidenza, e cioè che, al tempo di Gesù, gli ebrei avevano due calendari, uno ufficiale e un altro che conosciamo dai testi di Qumran, e che poteva essere usato anche al di fuori della stretta cerchia di quella comunità. Le discussioni al riguardo sono ben lungi dall’essere esaurite, anche se si può dire che la tendenza generale è quella di vedere nell’Ultima Cena un vero e proprio banchetto pasquale.
La sobrietà dei racconti evangelici al riguardo può essere considerata una riprova di questa asserzione; essi infatti ci dicono soltanto quello che di nuovo avvenne in quella occasione, sorvolando su tutti gli altri particolari, perché, trattandosi di un vero e proprio banchetto rituale, che si celebrava ogni anno, hanno ritenuto superfluo descriverlo in dettaglio.
Comunque si siano svolte realmente le cose, è certo che l’Ultima Cena si svolge su uno sfondo pasquale. Siamo nel mese di nisan (marzo-aprile), il mese in cui – secondo la tradizione ebraica più corrente – il mondo è stato creato, il mese cioè della primavera astronomica e della primavera del mondo. Ma il pensiero ebraico, l’abbiamo già detto, non si volge mai al passato in un atteggiamento nostalgico; se lo fa, è per animare la speranza che spinge a guardare al futuro. Nel mese di nisan infatti, quando la natura si rinnova, il Messia verrà, portando agli uomini e alle cose quel rinnovamento di cui hanno parlato i profeti. I monti si abbasseranno e le valli si innalzeranno per appianare e facilitare la strada al Messia; i cieli e la terra si rinnoveranno, e gli uomini stessi saranno trasformati: non ci sarà più violenza, la pace regnerà fra gli uomini egli animali; i ciechi potranno leggere le parole dei libri egli zoppi salteranno come cervi. Si ritornerà a quello stato paradisiaco che ha preceduto il peccato, e il ristabilimento dell’ordine morale nell’uomo si rifletterà sulla natura, che entrerà in una nuova fase, simile a una nuova ed eterna primavera. Sarà una creazione nuova, che si contrapporrà a quella primigenia e la completerà. li fatto che – secondo la tradizione – i due avvenimenti coincidano anche nella stagione dell’anno rende la relazione fra di essi più evidente.
Il rinnovamento primaverile della natura e l’atteggiamento pasquale degli animi, atteggiamento fatto di attesa e di speranza, fanno da sfondo all’atto centrale della vita di Gesù, quell’atto con cui egli rilancia il mondo in una nuova creazIone.
Gli elementi di quella natura, che il primo Adamo aveva contaminato con il suo peccato, tanto da attirare su di essa la maledizione di Dio, diventano ora strumenti di quella creazione nuova, che si opera nella persona del nuovo Adamo e che darà vita a una umanità nuova. Pane e vino diventano da allora i mezzi con cui gli uomini potranno, in terra, sotto il velo dei segni, anticipare e realizzare nel tempo l’unione con Dio. Gli elementi della natura, affrancati dalla maledizione, sono messi a servizio della nuova opera creativa. È la vera primavera del creato, una primavera in cui la natura si risveglia non solo dal letargo invernale, ma da quello stato di morte in cui il peccato l’aveva gettata, e ritorna a nuova vita, trasformata al punto da divenire strumento di redenzione. La vera primavera non è quella che gonfia di linfa i germogli sugli alberi, ma quella che rende il pane e il vino capaci di dare la vita eterna.
Come nella tradizione ebraica, anche per i cristiani la nuova primavera corrisponde a quella primigenia, perché nello stesso giorno in cui il mondo fu creato, Cristo fu concepito e soffrì la passione (1). Come l’antico Adamo, padre dell’umanità peccatrice, domina il campo della creazione primigenia, così Cristo sta al centro della creazione rinnovata.
Si è parlato anche di una relazione tra l’elemento che Gesù consacra a salvezza del genere umano e l’albero che fu occasione dd peccato di Adamo: Origene stesso dice che l’albero della conoscenza del bene e del male era la vite, altri pensano al grano, e si spiega che questo avvenne per- che il debito si sciogliesse con lo stesso mezzo con cui era stato contratto. Anche la più antica tradizione ebraica vede un rapporto tra il pane e il vino – i due più importanti elementi della liturgia pasquale – e l’albero della conoscenza del bene e del male: quella pianta era la vite, dice R. Meir; era il grano dice R. Jehudah (2). Il peccato di Adamo fu un peccato di ubriachezza, affermano altri (3). Ma quello che era stato per l’umanità pietra d’inciampo sarebbe diventato nel futuro causa di gioia (4), perché, nel quadro del rinnovamento primaverile escatologico, anche il vino si sarebbe rinnovato, sarebbe diventato « mosto » cioè « vino nuovo » (5). Fra il vino bevuto da Adamo alle origini del mondo, a rovina del genere umano, e quello che si attende « rinnovato » a compenso della rovina passata, si pone il vino pasquale, che ogni ebreo consuma durante il rito domestico insieme con il pane azzimo.
All’ultima Cena il vino è così « rinnovato » che diventa velo della presenza salvifica di Cristo.
Il banchetto pasquale ebraico
La sobrietà dei racconti evangelici riguardo all’Ultima Cena delude un poco il lettore moderno che, così lontano dal tempo in cui Gesù ha vissuto la sua vita terrena, desidererebbe tuttavia poterne ricostruire l’ambiente e la storia nel modo più preciso possibile. Davanti al silenzio degli evangelisti ci volgeremo quindi a interrogare quei testi che, facendoci conoscere la vita religiosa degli ebrei intorno sorgere dell’era cristiana, illuminano per riflesso la stessa figura di Gesù. Testi contemporanei di Gesù non ne abbi; mo, ma il carpus di regole religiose e civili, che si chian Mishnah – in particolare il trattato sulla pasqua (Pesahim) – le aggiunte ad esso (Tasefta), e un testo interpretativo (Sifrè) (6), nei quali troviamo lo schema del banchetto pl squale o alcuni elementi di esso, redatti entro i primi due secoli dell’era cristiana, ci danno sufficiente garanzia di rispecchiare gli usi pasquali, che Gesù stesso e i suoi aposto avranno seguito. È ad essi dunque che dovremo rivolgerci se vogliamo inquadrare nel loro contesto vitale le notizie date dagli evangelisti.
Secondo questi testi, il banchetto pasquale ( che gli ebrei chiamano seder, cioè ordo ), si svolgeva all’inizio dell’era cristiana sostanzialmente come adesso, ad eccezione di alcune aggiunte, prive di importanza, fatte nel corso de secoli. Eccone in breve la descrizione: dopo la benedizionI del giorno, recitata sulla prima coppa di vino, si portano davanti al capo del banchetto tutti i cibi particolari richiesti dall’occasione, fra cui naturalmente il pane non lievitato (masah). Secondo un uso che troviamo documentato in epoca tarda, si presentavano al capo della mensa tre azzime; egli ne spezzava una, coprendone una parte con un tovagliolo, e lasciando l’altra parte con le azzime intere. Sulle azzime si recitava la formula consueta per la benedizione del pane: « Benedetto Tu, Signore Iddio nostro, che fai uscire il pane dalla terra » nota, già in periodo molto antico (7); ma l’azzima spezzata sembra avere importanza particolare, perché su di essa si pronuncia subito dopo un’altra benedizione: « Benedetto Tu, Signore, Dio nostro, che ci hai santificato con i Tuoi precetti e ci hai comandato di mangiare l’azzima »; dopo di questo il capo della mensa mangia l’azzima e ne dà a tutti i commensali (8). Quella parte di azzima che era stata riposta sotto il tovagliolo, veniva ripresa solo dopo il pasto e si consumava senza altre benedizioni particolari, introducendo con tale atto la benedizione finale sul cibo. Questi particolari ci sono noti solo da un testo relativamente tardo; ma, data la scarsità di documenti liturgici precedenti, non possiamo escludere che essi non rispecchino una prassi assai più antica.
Dopo tutto ciò, il figlio più giovane deve interrogare il padre riguardo al carattere particolare della notte di pasqua, durante la quale – a differenza delle altre sere – si mangia solo pane azzimo, erbe amare ad esclusione di altre erbe, carne arrostita e non anche bollita. La domanda del ragazzo serve per dare lo spunto al padre di famiglia per spiegare il significato della festività, ed egli deve farlo – prescrive la Mishnah – « cominciando dalla disgrazia e concludendo con l’esaltazione »; egli deve spiegare cioè o il brano del Deuteronomio (26, 5ss.) (9): « Un arameo errante era nostro padre… scese in Egitto divenne lì un popolo grande, forte e numeroso. Ci angariarono gli Egiziani… E ci fece uscire il Signore dall’Egitto con mano forte e braccio teso »… oppure di Giosuè (24, 2ss.) (10). « Di là dal Fiume (Eufrate) abitavano i vostri padri… E io presi vostro padre Abramo di là dal Fiume e lo feci andare nella terra di Canaan… E mandai Mosè ed Aronne… e vi feci uscire dall’Egitto… e vi detti una terra sulla quale non vi eravate affaticati, case che non avevate costruito e vi abitaste; e voi mangiaste i frutti di vigne e di oliveti che non avevate piantato ».
Sono le due più antiche redazioni della storia della salvezza d’Israele (11), che prendono in considerazione i due punti principali di essa: la vocazione dei padri, tratti dal Signore da una terra idolatra, perché prendessero possesso della terra promessa al popolo di Dio; la liberazione dalla schiavitù egiziana, momento in cui Israele diventa veramente il libero popolo di Dio. Già Esodo (13, 14) prevedeva che i figli interrogassero i padri sulla ragione di determinate regole cultuali, ma lì la risposta, determinata dall’obbligo del riscatto dei primogeniti, è limitata al secondo punto della storia della salvezza, la liberazione dall’Egitto, perché fu in quell’occasione che i primogeniti degli ebrei furono prodigiosamente risparmiati dal flagello, che portò alla morte i primogeniti egiziani.
Rievocata cosi brevemente la storia d’Israele, il capo del banchetto avrà modo di spiegare il perché dell’uso di mangiare l’agnello arrostito, il pane azzimo e le erbe amare, collegandosi a quegli antichi avvenimenti: il rito pasquale, di cui quei cibi speciali fanno parte, è il modo con cui ogni ebreo rivive e attualizza la storia passata.
L’agnello pasquale (pesah) ricorda come il Signore abbia « saltato » ( in ebraico pesah) le case degli ebrei al momento della morte dei;primogeniti d’Egitto; il pane azzimo è in relazione al fatto che, all’atto dell’uscita dall’Egitto, non si ebbe tempo di far fermentare il pane; e le erbe amare ricordano le amarezze sofferte durante la schiavitù. Ma quella storia passata non è mai del tutto passata, perché si riattualizza in ogni ebreo che compie il rito di pasqua, in ogni ebreo che – secondo quanto dice la Mishnah – deve « considerare se stesso come uscito dall’Egitto ». La liberazione operata dal Signore al tempo di Mosè è liberazione di ogni singolo israelita, e il rito è il modo di prenderne coscienza e di partecipare ad esso.
Perciò ogni ebreo « ha il dovere di ringraziare, di lodare, di pregare, di glorificare, di esaltare, di magnificare, di benedire e sublimare Colui che ha fatto per i nostri padri e per noi tutti questi prodigi: ci ha fatto uscire dalla schiavitù verso la libertà, dall’angoscia alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla soggezione alla redenzione. Diciamo dunque al Suo cospetto: Allelujah ». Con queste parole si inizia la recita della prima parte dei salmi di lode (chiamati in ebraico hallel) cioè i Salmi 113 e 114, che devono concludersi con la menzione della « redenzione », menzione a cui già Rabbi Aqiba dava un evidente carattere messianico, con le seguenti parole:
« Così, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, facci arrivare in pace alle altre feste e solennità che verranno davanti a noi; rallegraci con la ricostruzione della Tua Città e facci lieti con il Tuo servizio; fa che possiamo mangiare lì i sacrifici e le offerte pasquali… Benedetto Tu che redimi Israele » (12).
La storia passata, rievocata dalle parole del capo del banchetto, si continua in ogni ebreo, che nel tempo presente partecipa al rito, ma si proietta nello stesso tempo verso il tempo avvenire, quando, secondo la parola dei profeti, Gerusalemme sarà ricostruita e in essa si celebrerà un culto che non avrà più fine.
Si benedice a questo momento una seconda coppa di vino e si inizia il pasto, che è un vero e proprio pasto rituale, preceduto e seguito com’è da letture e da preghiere; è il rito che dà modo all’ebreo di partecipare in ogni tempo alla liberazione operata dal Signore a vantaggio del Suo popolo. Segue la « benedizione sul cibo », cioè il ringraziamento su quanto si è mangiato, accompagnata dalla benedizione su una terza coppa di vino, da una benedizione per la terra e da una che comincia con le parole » Colui che riedifica Gerusalemme » (13); ogni pasto infatti è un partecipare ai beni di Dio, e come tale è un atto di culto; ma il culto per l’ebreo è collegato al Tempio e quindi alla sua ricostruzione nella città santa di Gerusalemme.
Il ringraziamento si completa con la benedizione di una altra coppa di vino, la quarta; è la più solenne, è quella di cui gli ebrei dicevano che solo David sarebbe stato degno di benedirla, attribuendole quindi chiaramente un carattere messianico. Essa viene accompagnata dalla recita degli altri salmi di lode, cioè dal 115 (« Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo Nome dà gloria « ) fino al 118, il salmo cioè che al verso 13 contiene le parole, che ancora oggi il sacerdote ripete durante la Messa: « Che cosa renderò al Signore, per tutti i benefici che Egli mi ha fatto? Innalzerò il calice della salvezza e invocherò il Nome del Signore ».
Segue ancora una preghiera, riguardo alla quale la Mishnah non ci fornisce che il nome: « La benedizione del canto », ma già R. Johanan (III sec.) (14) sapeva trattarsi della preghiera che conchiude, si può dire in ogni rito, i salmi di lode e quindi anche il banchetto pasquale :
« L’anima di ogni vivente benedica il Tuo Nome, signore, Iddio nostro, e lo spirito di ogni creatura magnifichi ed esalti la Tua memoria, o nostro Re, sempre. Dall’eternità e in eterno tu sei Dio, e all’infuori di Te non abbiamo re, né redentore, né salvatore, né liberatore, che ci salvi, ci nutra, e abbia pietà di noi in ogni momento d’angustia e bisogno. Non abbiamo re all’infuori di Te, Dio dei tempi primordiali e dei tempi ultimi. Dio di ogni creatura, Signore di tutte le generazioni, lodato con molte lodi, che conduce il Suo mondo con grazia e le Sue creature con misericordia. Il Signore non sonnecchia, né dorme; Egli sveglia i dormienti, desta i torpidi; fa parlare i sordi, libera i prigionieri, sostiene i cadenti, rialza i curvi.
« Te, Te solo noi ringraziamo. Se le nostre bocche fossero piene di canto come il mare, e le nostre lingue di cantici come la moltitudine delle sue onde, e le nostre labbra di lode come le distese del firmamento; se i nostri occhi fossero lucenti come il sole e la luna e le nostre mani aperte come le ali delle aquile del cielo, e i nostri piedi veloci come quelli delle gazzelle – non saremmo sufficienti a lodarti, Signore nostro Dio, e Dio dei nostri padri, e a benedire il Tuo Nome per una sola delle miriadi e infinite volte che ci hai beneficati, noi e i nostri padri. Tu ci hai redento dall’Egitto, Signore Iddio nostro, dalla casa di schiavitù ci hai liberato; nella fame ci hai nutrito, nell’abbondanza ci hai sostenuto; ci hai salvato dalla spada, ci hai scampato dai flagelli e da gravi malattie; hai dato sollievo a noi fiduciosi. Fino ad ora ci ha aiutato la Tua misericordia, ne ci ha abbandonato la Tua grazia. Non ci respingerai, Signore Dio nostro, in eterno! Perciò ogni membro che ci hai dato, lo spirito e l’anima che hai spirato nelle nostre narici, e la lingua che hai posto nella nostra bocca, ecco: esse confesseranno e benediranno e loderanno e magnificheranno ed esalteranno e celebreranno il Tuo Nome, e proclameranno la Tua santità e la Tua regalità, o nostro re. Infatti ogni bocca Ti confesserà; ogni lingua giurerà a Te, e ogni ginocchio si piegherà davanti a Te; ogni altezza si prostrerà al Tuo cospetto, e ogni cuore Ti temerà. L ‘interno di ogni uomo canterà lodi al Tuo Nome, come sta scritto: ‘Ogni osso dirà: Signore, chi come Te?’. Tu salvi il povero da chi è più forte di lui e il povero e il misero da chi lo depreda. Chi Ti assomiglia o chi Ti pareggia, e chi può essere messo a confronto con Te, Dio grande e forte, venerando, Dio eccelso, che hai creato il cielo e la terra? »
« Noi Ti lodiamo, Ti celebriamo, Ti magnifichiamo, benediciamo il Tuo Nome Santo, come è detto da David: ‘Benedici, anima mia il Signore, e tutto quello che è dentro di me benedica il Nome Suo santo’ ».
Era diffusa nel Medio Evo la leggenda che questa preghiera fosse dovuta a San Pietro; si tratta naturalmente di un fatto non controllabile, ma che comunque ci permette di immaginare che forse Pietro – l’unico a cui il Padre aveva rivelato la vera natura del Messia (Mt. 16, 16ss.) – sia stato quello che in occasione dell’Ultima Cena abbia afferrato più degli altri il significato di quanto era avvenuto, così che non trovando sufficienti le parole dei salmi, per esprimere la sua gratitudine, avrebbe formulato una sua preghiera, nella quale il riconoscimento dell’incapacità dell’uomo di lodare sufficientemente il Signore fosse la migliore espressione della sua riconoscenza.
Un altro testo (Tosephta) specifica invece che a questo momento si deve dire un versetto di un salmo di lode: « Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore », anticipando nell’invocazione e nel desiderio la venuta del Messia e la sua salvezza; tutto poi si conclude con la lode a Dio che redime il Suo popolo.
L’Ultima Cena
Sono stati fatti vari tentativi per riuscire a individuare a quale punto del rito domestico pasquale ebraico Gesù abbia inserito le sue parole, quelle parole che nessuno al mondo aveva mai udito: « Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo » e: « Prendete e bevete, questo è il mio Sangue », quelle parole che all’invocazione della redenzione messianica venivano a rispondere: oggi essa si compie.
Dalle scarne notizie del Vangelo sappiamo che « durante il pasto » Gesù lava i piedi degli apostoli (Gv. 13, 1), consacra il pane a distanza di tempo dal vino, che viene consacrato dopo il pasto (Lc. 22, 20), e che prima di uscire dal Cenacolo recita dei cantici (Mc. 14, 26; Mt. 26, 30). Ci piacerebbe di poter piazzare questi momenti al loro posto nel rituale ebraico, per poter ricostruire più al vivo quel banchetto pasquale unico nella storia del mondo. Ognuna di quelle azioni di Gesù, che gli evangelisti menzionano, trovano riscontro in altrettante azioni abituali del banchetto, azioni alle quali viene, nell’Ultima Cena, conferito un aspetto nuovo. Ci sembra di poter individuare il momento della lavanda dei piedi in quello in cui viene porto al capo della messa un catino perché, all’inizio del pasto, si lavi le mani prima di recitare la benedizione sul pane; Gesù fa un uso particolare di quel catino, ma la sua novità si innesta su un’azione abituale.
Così pure ci domandiamo se le parole della consacrazione del pane – quelle parole che rompono i confini di qualsiasi rituale tradizionale -non siano state dette di seguito alla formula che abbiamo riportato sopra e che ogni ebreo ancor oggi recita, spezzando il pane: « Benedetto Tu, Signore Dio nostro, che fai uscire il pane della terra »; parole che, nel contesto dell’Ultima Cena, quando  » la morte incombeva – e gli apostoli, anche se ignari, dovevano sentirla passare sopra di loro – sembrano quasi assumere il tono e il valore di profezia di risurrezione : l’identità fra quel pane e il Corpo di Cristo era esplicita nelle parole di Gesù (e il fatto sarà poi messo in particolare evidenza da Paolo ), così che si poteva intuire che come il Signore fa uscire dalla terra il pane, così ne avrebbe tratto fuori quel Corpo che solo temporaneamente sarebbe sceso nel suo seno. Anche nell’ebraismo, del resto, la speculazione mistica dirà che il pane e il vino sono Israele e il Messia stesso (15).
Se vogliamo cercare di scendere nei particolari, ci domandiamo se non sia possibile individuare nell’azzima spezzata, che viene benedetta due volte e che quindi riveste già per se stessa un particolare carattere sacro, l’azzima che Gesù ha consacrato, dandola a mangiare ai suoi apostoli. Ci induce a questa supposizione anche il fatto che essa veniva mangiata con l’agnello, anzi col passare del tempo diventerà per gli ebrei il ricordo dell’agnello (16), tanto che le si applicheranno tutte le prescrizioni previste per esso (17). Sarebbe quindi su di essa che l’Agnello di Dio, venuto a perfezionare il sacrificio pasquale ebraico, avrebbe pronunciato le parole consacratorie.
Si tratta sempre solo di congetture, ma dato che Luca dice espressamente che il vino viene consacrato dopo il pasto, ci sembra poter individuare la coppa che Gesù consacra in quella coppa che ogni ebreo benediceva, e benedice tuttora, con particolare solennità, a chiusura del pasto rituale (18). Abbiamo detto che ad essa si attribuiva un particolare carattere messianico, e che si aspettava che David – cioè il prototipo del Messia – venisse lui stesso a benedirla.. I salmi di lode che ne accompagnano la benedizione sembrano particolarmente adatti al momento che i commensali dell’Ultima Cena stanno vivendo, anzi sembra che alcuni di essi non si spieghino che in quel contesto:
…« Mi avvolsero lacci di morte,le angustie degli inferi mi raggiunsero,angustie e preoccupazioni incontrai.Allora invocai il Nome del Signore:’Orsù, Signore, salva l’anima mia’.Ritorna, anima mia, alla tua quiete,perché il Signore ti ha beneficato;infatti Tu hai salvato la mia anima dalla morte,il mio occhio dal pianto, il mio piede da caduta.Camminerò davanti al Signorenella terra dei viventi.Ho detto nella mia trepidazione:’Ogni uomo è mendace’.Che cosa renderò al Signore per tutti i Suoi sacrifici?Prenderò il calice della salvezzae invocherò il Nome del Signore.Preziosa è al cospetto del Signorela morte dei Suoi fedeli »… (Sal. 116, 3ss).
Le angustie della morte si alternano in questo salmo con la sicurezza dell’aiuto del Signore, con una fede che possiamo definire fede nella risurrezione. Forse solo Gesù sapeva tutto il significato di quelle parole, che gli apostoli avranno ascoltato attoniti; in quell’atmosfera di tragedia incombente, forse ancora turbati dall’annuncio del tradimento, saranno essi stati capaci di sentire la speranza e la promessa che esse contenevano?
Con la recita dei «cantici », di cui parlano gli evangelisti e nei quali dobbiamo ravvisare i salmi di lode, che chiudono il banchetto pasquale, l’Ultima Cena ha termine; si conclude cioè quel rito, antico e nuovo nello stesso tempo, quel rito che permette a ogni fedele di partecipare alla nuova e definitiva liberazione, operata dal Signore a vantaggio del Suo popolo. Se l’azzima benedetta e il vino benedetto erano per l’ebreo il modo di riattualizzare in se stesso la redenzione di Israele, anticipando nell’invocazione e nel desiderio il completamento di quella redenzione che il Messia avrebbe portato, le parole nuove, pronunciate da Gesù durante la cena pasquale, il fatto nuovo da Lui operato, rendono presente quel completamento. Quella sera gli apostoli hanno potuto rivolgere a una persona chiaramente individuata quell’invocazione, nella quale ogni ebreo esprimeva il massimo dei suoi desideri:  » Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore!  » .
Ancora una volta Gesù inserisce il fatto nuovo che egli compie nel quadro della liturgia giudaica. Come a Nazareth aveva voluto che il culto sinagogale costituisse lo sfondo, su cui annunciare che la salvezza preannunciata dai profeti era presente nella sua persona, così anche il momento essenziale della sua vita terrena, quel momento in cui egli celebra il suo Sacrificio sotto il velo dei segni, lo vuole inserito nella cornice del culto ebraico, culto che egli vive, assomma in se e perfeziona.
Quella storia della salvezza che il capo della mensa riassumeva brevemente per i suoi commensali, menzionandone l’inizio e il momento determinante dell’esodo, quella storia di cui la predicazione dei profeti faceva intravedere una conclusione al tempo messianico, aveva raggiunto l’epilogo che Israele aveva per secoli invocato. La religione ebraica è essenzialmente messianica, cioè volta all’avvenire, tesa dinamicamente verso il futuro; la storia passata non viene evocata che per rivolgersi verso le cose che avverranno; la storia passata non si riattualizza nel rito che per portarla avanti, verso il momento della sua maturazione. Quella sera, nella « stanza superiore » di una casa di Gerusalemme, quel momento era arrivato; un nuovo periodo della storia della salvezza si era iniziato, punto di maturazione e nello stesso tempo punto di partenza, volto all’attesa del completamento finale, verso il ritorno glorioso di Cristo, la parusia.
Se fino a quel momento Israele aveva cercato, attraverso i molteplici mezzi suggeriti dalla Legge, l’unione con Dio, da allora in poi tutti codesti mezzi si sarebbero riassunti in due elementi soltanto, quelli pasquali del pane e del vino. Tutte le prescrizioni legali (la circoncisione, il sabato, i filatteri, ecc.), eseguite in obbedienza alla volontà esplicita di Dio, avevano avuto fin allora un valore che potremmo chiamare quasi “sacramentale » per Israele, nel senso che si trattava di segni ( othoth ) esteriori che esprimevano l’unione del popolo con il suo Dio. Da allora in poi tutto ciò si sarebbe ricapitolato nella Persona stessa di Cristo, che lega la sua presenza ai veli del Pane e del Vino, in quella Persona in cui l’unione con Dio diviene reale, in quella Persona che è il Verbo stesso di Dio, cioè l’espressione vivente della Sua volontà, Colui che non è venuto ad abolire la Legge, ma a sintetizzarla in se stesso.

NOTE

(1) Secondo un calendario mozarabico, v. DAL, I, 2, 2248; cfr. Leone Magno, Sermo L XI, P.L., 54, 314.(2) BeTak., 40 a.(3) Nu. T., 10, 2-9; Lv. T., 12, 1-5; Sanh., 70 a. h. (4) Lv. T., 12, 5.(4) Lv. r., 12, 5.(5) Tanh., Noah 22.(6) Cfr. Appendice.(7) Berak., 39 h; 46 h; 53 h.(8) Mahsor Vitr;, p. 294; v. 96.(9) Pesah., 10, 4.(10) J. Pesah, 10, 4, 37 d.(11) G. von Rad, Théologie de l’A.T., Génève 1963, p.112 ss.(12) La formula di R. Aqiba si è conservata quasi identica attraverso i secoli, cfr. Maimonide, Mishneh Torah, Hilkoth hames u-masah, fine.(13) Berak., 48 a(14) Pesah., 118 a; cfr. RABBENU SCHLOMOH BAR JIZHAQ, in Mahsor Vitr;, 282.(15) GOODENOUGH, Symbols, VI, 182.(16) RASHJ ad Pesah, 119 b.(17) Enciclop. Talmudith, I, 134.5.(18) Alcuni studiosi vorrebbero vedere in Mt. 26, 29 una prova che Gesù non ha benedetto e consacrato tale coppa, attendendo il compimento della redenzione; ma la cosa non appare chiara.Sofia Cavalletti, Ebraismo e spiritualità Cristiana Cap.X, Editrice Studium – Roma, 1966
Pubblicato da Antonello Iapicca Etichette: Giovedì Santo, Pasqua, Pasqua ebraica, Radici nell’ebraismo, S. Cavalletti, Settimana Santa, Triduo Pasquale 

Ebraismo e Cristianesimo : Interpretazione dell’ «Oggi»

http://www.nostreradici.it/oggi.htm

Ebraismo e Cristianesimo

Interpretazione dell’ «Oggi»

Maria Guarini

L’attesa della venuta o del ritorno del Messia orienta e dà significato alla storia umana, sottratta così all’abisso del « non senso », sul cui orlo ci appare vacillare una gran parte del pensiero dei nostri giorni

Mosè riceve le Tavole della legge (Gerusalemme, Jewish National and University Library)
Se io oggi credo e vivo nel Signore è perché egli si è rivelato in molti modi: nei tempi antichi per mezzo dei profeti e, in quella che per i cristiani è la pienezza dei tempi, per mezzo del Figlio, il Signore Gesù: «Dio, nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» [1]
La mia fede e quindi la mia vita hanno la loro Sorgente ed il loro perenne nutrimento in Cristo, nel quale trovano compimento sia la Legge che i Profeti [2]
La mia storia di salvezza, che è personale, ma non separata da quella dell’intera Umanità, ha le sue tappe i suoi momenti fondanti ed il suo dispiegarsi nel tempo – che è contemporaneamente un rivelarsi ed un costruirsi – nella Storia della Salvezza che io conosco e sperimento in quanto vissuta e narrata da Israele, il Popolo dell’Alleanza, che non potrà mai essere revocata perché il Signore è fedele e quindi la sua Alleanza è eterna come la sua misericordia.
Oggi, come in ogni epoca, sono presenti nella percezione delle tappe del cammino spirituale tutte le fasi della scansione dell’Esodo: l’uscita dall’Egitto, la traversata del deserto, la tensione verso… e il raggiungimento della Terra Promessa – che tuttavia non è l’unico orizzonte, perché si intreccia e si confonde con l’era messianica – sulla cui attesa o compimento-attesa ulteriore si situa il discrimine tra ebraismo e cristianesimo.
«Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la Verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» [3]
Colui che ha richiamato alla vita il suo amico Lazzaro, figura della Risurrezione definitiva, chiama anche noi a Vita nuova ogni giorno, nella nuova ed eterna Alleanza perché, dopo essere nato e morto per noi e per la nostra salvezza, è Risorto ed è il Vivente e ci ha promesso: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi» [4]
«…Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre…Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità» [5]

La risurrezione di Lazzaro da un antico Codice
È per questo che possiamo dire ogni momento al Padre: «Eccomi, io vengo, per fare la tua volontà»
Questo rapporto così personale, quest’intreccio così indissolubile tra vita e Vita, tra la mia vita e la mia storia, che è la mia storia-con-Dio, con il Signore della Storia, che si fa presente così come vuol farsi presente, perché questo è il Suo Nome…
Conoscere l’ebraismo significa diventare consapevoli della nostra vera eredità spirituale. Il dialogo con l’universo giudaico ricolloca quello cristiano nella storia dalla quale è scaturito. Possiamo qui ricordare la famosa frase di Pio XI, con largo anticipo su tutte le prese di coscienza ed i documenti della nostra storia più recente: «Noi siamo spiritualmente dei semiti» (6 settembre 1938), e la sua enciclica Mit brennender Sorge (1937), con la quale condannava quel razzismo che tanti lutti e distruzioni, specialmente nei riguardi degli ebrei, avrebbe causato nei cinque anni successivi.

In principio era il Tempo
Ebraismo: «religione del tempo, che mira alla santificazione del tempo» [6]
Essa per la preghiera stabilisce dei tempi, più che dei luoghi, sua vera cattedrale è Il Sabato, che è sospensione del tempo e nello stesso tempo finestra che dall’eternità si apre sul tempo.
Parliamo del tempo biblico, quello che non è ‘da sempre’ – diverso quindi dal tempo ciclico della cultura greca, le cui categorie hanno influenzato la nostra ‘visione del mondo’ – ma ha un inizio, in una linearità aperta all’irruzione dell’Eterno, con orizzonte l’infinito e l’oltre-la-morte ed ha una fine che è un fine, una meta.
È in questo orizzonte, pieno di speranza e di attesa, di promesse di Dio e di risposta dell’uomo, che si dipana la storia umana, che ospita nella sua finitezza la traccia di trascendenza del « Tempo biblico » (Pentateuco) ed è così che il passato vive e si fa presente nella riattualizzazione del racconto e nella potenza salvifica della Legge.
Una radice ed un’ispirazione bibliche che anche il cristianesimo riconosce e valorizza, con la differenza che l’Ebraismo vede la Redenzione fuori della storia con l’irruzione dell’Eterno, nell’avvenire promesso, mentre il Cristianesimo si fonda sulla continuità di una Presenza durante tutto il corso del divenire storico: il Cristo presente nella Sua Chiesa, che trasforma la quotidianità in tempo sacro, nel quale l’incontro tra Dio e l’uomo già avviene. È il « primo giorno dopo il sabato », come dice l’Apostolo Giovanni: ci rinvia al primo giorno della Creazione, è il primo giorno della Creazione nuova.
Non ci sarebbe il Tempo senza la Parola di Dio. Parola, che nella sua connotazione ebraica acquista anche il senso, denso di concretezza, di « cosa, fatto ». Essa comunque non ha esaurito la sua funzione una volta per tutte, « in principio » – anche se si tratta di un principio fondante – perché è una Parola che continua ad essere pronunciata e quindi continua a dispiegare i suoi effetti nella creazione attraverso il concreto « fare » la volontà del Padre, mediante l’osservanza della Sua Legge scritta nel cuore dei suoi figli nel Figlio, Verbo fatto carne. «Tutta la creazione, che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio, geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» [7]
Ce lo dice il fatto che, tra le mirabili invocazioni del Padre nostro, Gesù ci ha lasciato l’eloquente sia « fatta la tua volontà »: non solo detta, proclamata, insegnata; ma soprattutto « fatta », concretizzata, incarnata trasformando in vita, attraverso le opere che nascono dalla fede, una Legge non rivestita come un abito ma diventata carne perché iscritta nel cuore del credente, un cuore cui è partecipata la Risurrezione del Signore Risorto, presente nel mondo e nella Storia.

In principio era il Verbo (Gv Prologo 1, 1-18)
Il Verbo dà origine e senso al Tempo e alla Storia. È una Storia che non ha ancora raggiunto il suo compimento: «…Ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano di Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno: perché quelli che da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché Egli sia il primogenito tra molti fratelli » [8]
«In Dio la Parola è il senso, la chiarezza, la struttura, la forma, l’espressione dell’essere divino. Mediante la Parola Dio esprime se stesso, in essa diventa afferrabile. Nella Parola avviene quindi anche la rivelazione divina… Il rapporto tra Dio e la creatura è dato con l’essenza del discorso: esso è domanda riflessione e risposta.» [9]
È nella Parola che Dio si dona ed è in essa che noi esprimiamo il nostro sì a Lui. Il presente è così decifrato a partire dalla Parola e dal passato; esso nella tradizione ebraica è garantito dal passato e dalla promessa del futuro; per i cristiani diventa già oggi, in ogni « oggi » della storia – nella decisione dell’uomo che si apre all’azione della Parola – riscatto e ricapitolazione del passato, tappa di costruzione del Regno, determinante per il futuro.
Il rapporto del tempo della storia con l’eternità, che è poi il rapporto dell’uomo e – attraverso l’uomo – del mondo con Dio, per il cristianesimo avviene nella presenza di un oggi già redento, per l’ebraismo nel possibile e atteso e desiderato avvento della Redenzione in ciascun istante della storia.
In entrambe le fedi coincidono le originarie modalità di rapporto tra Dio – mondo – uomo: Creazione, Rivelazione e Redenzione; in esse è presente la stessa tensione tra tempo ed eternità, nell’ascolto e nell’apertura alla Verità eterna. Il Cristianesimo ne testimonia la presenza, l’ebraismo l’avvento futuro.
Nell’attingere alle nostre Radici ebraiche, mi colpisce e mi sembra molto rivelatrice e quindi determinante per la nostra ‘conoscenza’, in tutta la pregnanza del senso biblico del termine, una semplice riflessione sul diverso modo di intendere l’insegnamento.
Nella lingua ebraica per « insegnare » viene usato anche il verbo = shanà (che ha anche il significato di ripetere, « ripetizione », che diventa « moltiplicazione » della realtà trasmessa (senso pieno della tradizione) col ripetersi del racconto biblico ad ogni generazione.
Il nostro insegnare invece veicola il concetto di lasciare-il-segno-in, cioè quello di incidere la realtà trasmessa nella interiorità del soggetto. Sostanzialmente si produce lo stesso effetto, ma è importante notare come la ‘visione del mondo’ ebraica rivelata dal linguaggio centra l’attenzione sul « contenuto » trasmesso, mentre quella occidentale sul « soggetto » che lo riceve.
Essere più « centrati » sul contenuto secondo me non è irrilevante, perché non può esservi disgiunto quel senso di « timore », che è rispetto, cura, considerazione, attenzione amorosa, non a caso indicato come il primo dei sette « Doni dello Spirito Santo » che vivificano la vita del credente. Penso che per noi sia molto importante recuperare questo ‘sentire’, laddove non sia già presente per dono di Dio.
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[1] (Gv 1,18)
[2] (Mt 17, 1-8)
[3] (Gv 1,17)
[4] (Mt 28, 20)
[5] (Gv 4, 21 -23)
[6] (A.J.Heschel, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno. Rusconi, Milano 1972)
[7] (Paolo ai Romani 8,19-22).
[8] (Paolo ai Romani 8, 19-23)
[9] (Adrienne Von Speyr, Il Verbo si fa carne, Jaca Book, Milano 1982)

Publié dans:ebraismo e cristianesimo |on 23 août, 2012 |Pas de commentaires »

GLI ANGELI, UN PONTE TRA EBRAISMO E CRISTIANESIMO (P. Manns)

dal sito:

http://www.bibbiablog.com/2011/02/19/gli-angeli-un-ponte-tra-ebraismo-e-cristianesimo/

Alle porte di Sion

GLI ANGELI, UN PONTE TRA EBRAISMO E CRISTIANESIMO

di padre Frédéric Manns ofm

In un mondo dove il telefonino ha rivoluzionato i rapporti tra gli uomini, ha ancora senso credere agli angeli? O sono solo un retaggio delle culture mesopotamiche, semitiche e zoroastriane? Culture nelle quali l’uomo era ancora bloccato dalle paure e interrogava i cieli stellati alla ricerca di un segno soprannaturale?
Riflettiamo un secondo. Se, in nome della cultura postmoderna, cancellassimo gli angeli, cosa rimarrebbe del vangelo dell’infanzia di Gesù o della Bibbia stessa? Il Vangelo di Luca presenta gli angeli all’inizio e poi alla fine della vita di Cristo. L’angelo appare a Zaccaria in Luca 1, 11 e alle donne che scoprono la tomba vuota di Gesù un angelo dice: «Non è qui, è risorto» (Lc 24,6). È un angelo che annuncia a Maria la nascita del Salvatore (Lc 1,26-38). Ai pastori appaiono gli angeli (Lc 2,8-15). Un angelo rassicura Giuseppe (Mt 1,20), gli chiede di partire per l’Egitto (Mt 2,13) e poi di tornare in Galilea (Mt 2,19-22). Si tratta solo di poesia o di qualcosa di più serio?
Già nel libro della Genesi appaiono esseri misteriosi. Dopo il peccato di Adamo e di Eva, «Dio scacciò l’uomo e pose ad Oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire la via all’albero della vita» (Gn 3,24). Gli angeli intervengono continuamente nella Bibbia. Ricordiamo solo alcuni episodi tra i tanti: due angeli del Signore si presentarono a Lot per salvarlo della distruzione di Sodoma (Gn 19,1); nel libro dei Giudici un angelo appare alla moglie sterile di Manoah per annunciargli la nascita di colui che li salverà dai Filistei (Giudici 13,3-7), nel libro di Zaccaria un angelo compare al profeta per dargli delle istruzioni da parte di Dio (Zc 1,8-15).
Nella tradizione ebraica gli angeli furono creati il secondo giorno della creazione, giorno che non contiene la frase ricorrente «E Dio vide che era cosa buona», perché alcuni angeli si ribellano a Dio. Il trono di Dio è circondato da quattro angeli: Gabriele, Michaele, Raffaele e Uriele. Un esercito celeste sta intorno a Dio. Il libro di Ezechiele, nella descrizione del carro di Dio, menziona i cherubini, i viventi e gli Ofanim(Ez 1,4-28). Ognuna delle settanta nazioni esistenti, secondo Genesi 10, possiede un principe angelico che la protegge. Gesù, figlio di Israele, s’inserisce in questa tradizione: non bisogna scandalizzare i piccoli, perché i loro angeli contemplano il volto di Dio (Mt 18,10).
Compito primario degli angeli è quello di onorare Dio e di presentare agli uomini la volontà del Creatore. Sono dotati del dono della profezia e recano benedizioni secondo il volere di Dio.
Nelle sue omelie sul Vangelo di Luca, parlando della moltitudine dell’esercito celeste che si unisce all’angelo di Dio, Origene si chiede: «Chi erano gli  angeli che hanno raggiunto l’angelo del Signore?». La risposta viene offerta dalla tradizione ebraica. Erano gli angeli delle settanta  nazioni che ritenevano che, con la nascita di Gesù, il loro lavoro fosse finito, gli uomini diventati fratelli, le nazioni unite e le frontiere abolite. Per questo gli angeli annunciano ai pastori di Betlemme: «Oggi per voi è nato il Salvatore, quello che farà di tutte le nazioni l’unico popolo dei figli di Dio».
La presenza degli angeli nei Vangeli sottolinea l’ambiente ebraico che ha dato forma al Nuovo Testamento. E per questa ragione il Natale, anche nel nome degli angeli, dovrebbe diventare la festa dell’amicizia ebraico-cristiana.

Publié dans:ebraismo e cristianesimo |on 4 mars, 2011 |Pas de commentaires »

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