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« LA RELIGIONE È IL PIÙ POTENTE COSTRUTTORE DI COMUNITÀ CHE IL MONDO ABBIA CONOSCIUTO » – Rabbino capo del Commonwealth

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« LA RELIGIONE È IL PIÙ POTENTE COSTRUTTORE DI COMUNITÀ CHE IL MONDO ABBIA CONOSCIUTO »

Riflessione del rabbino capo del Commonwealth, Jonathan Sacks

ROMA, Friday, 28 December 2012 (Zenit.org).
“L’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, alla biologia evoluzionistica”. Lo scrive il rabbino capo del Commonwealth, Jonathan Sacks, in un articolo pubblicato nei giorni scorsi sul New York Times e sull’International Herald Tribune sotto il titolo The moral animal, cioè “L’animale morale”.
Nel suo articolo, Lord Jonathan Sacks, che nel dicembre dell’anno scorso è stato ricevuto in udienza da Benedetto XVI e ha tenuto anche una conferenza presso la Università Pontificia Gregoriana, osserva che dicembre è “il periodo più religioso dell’anno”. “Entri in qualsiasi città americana o britannica e vedrai il cielo notturno illuminato da simboli religiosi, certamente decorazioni natalizie e probabilmente anche una menorah gigante”, scrive Sacks. “La religione in Occidente sembra essere viva e in buona salute”.
Ma lo è davvero o sono solo simboli “svuotati di contenuto, nient’altro che uno sfondo scintillante per la nuova fede occidentale, il consumismo, e per le sue cattedrali laiche, i centri commerciali?”, si chiede Lord Sacks.
A prima vista – continua il rabbino capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth – “la religione è in declino”. Dai dati del censimento nazionale del 2011 emerge – spiega Sacks – che in Gran Bretagna un quarto della popolazione dichiara di non avere una religione, vale a dire quasi il doppio rispetto a dieci anni fa.
Ma guardando questi dati da un altro punto di vista, essi raccontano, secondo Sacks, “una storia differente”. Infatti, “sin dal XVIII secolo, molti intellettuali occidentali hanno predetto l’imminente morte della religione”. Ma nonostante gli attacchi, fra cui quelli più recenti da parte dei cosiddetti “nuovi atei”, alla fine oggi tre persone su quattro in Gran Bretagna e ben quattro persone su cinque in America si dichiarano o si ritengono “devote ad una fede religiosa”.  “Ed è questo, in un’età della scienza, che è veramente sorprendente”, sottolinea Sacks, autore di libri comeFrom Optimism to Hope e The Great Partnership: Science, Religion, and the Search for Meaning.
Come osserva Sacks, l’ironia della sorte vuole che molti dei nuovi atei sono seguaci di Charles Darwin. “Noi siamo quello che siamo, sostengono, perché che ci ha permesso di sopravvivere e di passare il nostro codice genetico alla generazione successiva”. Colpisce allora che “la religione è il più grande sopravvissuto di tutti“. Come mai?
Secondo Sacks, è lo stesso Darwin a suggerire quella che è probabilmente la risposta giusta. Lui fu molto colpito da un fenomeno che “sembrava contraddire la sua tesi più basilare, cioè che la selezione naturale dovrebbe favorire i più spietati”. Invece, “tutte le società valorizzano l’altruismo, e qualcosa di simile può essere visto anche tra gli animali sociali”.
Come funziona, lo spiega la neuroscienza: “Abbiamo neuroni specchio che ci portano a provare dolore quando vediamo soffrire altri. Siamo programmati per l’empatia. Siamo animali morali”.
Questo ha implicazioni importanti: “Passiamo i nostri geni come individui ma sopravviviamo come membri di un gruppo, e i gruppi possono esistere solo quando gli individui non agiscono esclusivamente per il proprio bene ma per il bene dell’insieme del gruppo”.
A livello cerebrale, l’uomo ha due modalità di reazione, “una che si concentra su un potenziale pericolo per noi, come individui, e l’altra, situata nella corteccia prefrontale, che pondera di più le conseguenze delle nostre azioni per noi e gli altri”. “La prima è immediata, istintiva ed emotiva. La seconda è riflessiva e razionale”, sintetizza il rabbino capo.
L’uomo risulta dunque preso tra due pensieri o percorsi, quello veloce, che “ci aiuta a sopravvivere, ma può anche portarci ad azioni impulsive e distruttive”, e quello lento, che “ci porta ad un comportamento più ponderato, ma viene spesso sopraffatto nella foga del momento”. Infatti, “siamo peccatori e santi, egoisti e altruisti, esattamente come hanno sostenuto a lungo filosofi e profeti”.
“Se è così, possiamo capire come la religione ci abbia aiutato a sopravvivere nel passato – e perché ne avremo ancora bisogno nel futuro”. La religione, continua Sacks, “rafforza e accelera il percorso lento”. Essa “riconfigura i nostri circuiti neurali, trasformando l’altruismo in istinto, attraverso i rituali che eseguiamo, i testi che leggiamo così come le preghiere che preghiamo. Rimane il più potente costruttore di comunità che il mondo abbia conosciuto”.
Essa “lega gli individui in gruppi attraverso comportamenti di altruismo, creando relazioni di fiducia abbastanza forti da sconfiggere emozioni distruttive”. Perciò, “ben lontani dal confutare la religione, i neo-darwinisti ci hanno aiutati a capire perché è importante”.
Essa è infatti “il miglior antidoto all’individualismo dell’epoca del consumismo”. Perciò, “l’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, alla biologia evoluzionistica”.
In conclusione, per Sacks, c’è una cosa che le società libere dell’Occidente non devono mai fare: “perdere il loro senso di Dio”.

Dio è nel sussurro (don Angelo Casati, midrash)

http://www.qumran2.net/ritagli/ritaglio.pax?id=7854

Dio è nel sussurro 

(don Angelo Casati, midrash – pubblicato su « Il Gallo » – settembre 2011)

Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero».
Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome.
Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio».

Dio non è nell’arroganza. Nemmeno nell’arroganza della verità. È nel suono di un silenzio sottile. È nel sussurro.

Publié dans:ebraismo, Ebraismo: Midrash |on 23 février, 2012 |Pas de commentaires »

I dieci comandamenti – « E Hashem disse a Moshè: « Voi avete visto che vi ho parlato dal cielo »

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=413:i-dieci-comandamenti&catid=52:interpretazioni&Itemid=63

Asseret Hadibberot – I Dieci Comandamenti

  »E Hashem disse a Moshè: « Voi avete visto che vi ho parlato dal cielo »
(Esodo 20:22).
 
Le « Dieci Parole » (Asseret Hadibberot), chiamate più comunemente « Dieci Comandamenti », sono i precetti che il Creatore dell’Universo pronunciò sul monte Sinai quando si manifestò in modo grandioso davanti a tutto il popolo Ebraico per stabilire la Sua Alleanza.
Questi Comandamenti sono i principi fondamentali della Torah e rappresentano la base e la sintesi di ogni altro precetto.
Pur essendo espressione di valori morali universalmente validi, i Dieci Comandamenti furono donati soltanto ad Israele e la loro osservanza spetta, come vedremo meglio in seguito, unicamente agli Ebrei. Gli altri popoli sono invece tenuti ad osservare i sette precetti Noachidi, che sono la base legislativa per l’intera umanità.
Per immergersi nel mondo dell’Ebraismo bisogna comprendere le « Dieci Parole » attraverso le riflessioni dei grandi Maestri della Torah, i luminari di quel popolo che vede nella Rivelazione ai piedi del Sinai il proprio atto di nascita come nazione.
In questo modo è possibile contemplare la natura dell’etica biblica e la grande sensibilità rabbinica che segna profondamente il pensiero ebraico.
 
La voce di Hashem
« Hashem disse a Moshè: «Io mi appresto a venire da te nella densa nube, affinchè il popolo senta mentre ti parlo e abbia fede anche in te in eterno » (Esodo 19:9).
« E Dio proferì tutte queste parole dicendo…. » (Esodo 20:1).
L’espressione « tutte queste parole » sembra superflua poichè sarebbe stato sufficiente dire « Dio parlò dicendo…. ». Rashi commenta questa apparente anomalia linguistica spiegando che Dio pronunciò tutti i Dieci Comandamenti istantaneamente con un unico suono, cosa che sarebbe impossibile ad un essere umano. Solo in un secondo momento le parole furono ripetute una alla volta.
Secondo il Talmud (Makkot 24a), dopo aver udito i primi due Comandamenti, il popolo fu grandemente intimorito e temette di non riuscire a resistere ad una manifestazione così eccelsa che era accompagnata da grandi prodigi e sconvolgimenti. Perciò gli Ebrei chiesero a Moshè di fare da intermediario nella Rivelazione. Questo avvenimento è narrato in Esodo 20:18-21, ma i Maestri spiegano che la Torah non segue sempre l’ordine cronologico nel raccontare gli eventi.
 
Suddivisione
A Moshè furono consegnate due tavole di pietra: su una erano scritti i primi cinque Comandamenti, sull’altra gli ultimi cinque.
I Comandamenti scritti sulla prima tavola riguardavano il rapporto tra l’uomo e Dio, mentre sulla seconda c’erano quelli che regolano il rapporto tra le persone.
Nella Mekhilta, come verrà spiegato, vengono messe in luce le corrispondenze tra i Comandamenti della prima tavola e quelli della seconda.
 
1: « Io sono Hashem, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dal luogo della schiavitù. »
Il primo Comandamento è espresso come un dato di fatto, e non come un vero e proprio precetto da eseguire.
Una parabola rabbinica paragona Dio ad un re che conquista un nuovo paese e prima di emanare le sue leggi chiede agli abitanti di accettare la sua sovranità.
Allo stesso modo, riconoscere Hashem come proprio Dio è il requisito indispensabile per osservare i Suoi precetti.
« Anochì Hashem Elohecha » (Io sono Hashem, il tuo Dio). In Ebraico il pronome « io » è reso comunemente con il termine anì, ma qui troviamo la forma anochì  che sembra evidenziare l’esclusività e l’autorità del soggetto.
Potrebbe sembrare strano che in questo contesto Dio si sia presentato come Colui che ha liberato il popolo dall’Egitto e non come il Creatore dell’Universo. A questo proposito, alcuni Maestri spiegano che Dio intendeva stabilire una relazione diretta con gli Ebrei facendo riferimento alla loro esperienza personale e indicandoli chiaramente come i destinatari dei Dieci Comandamenti. 
Rashi scrive: « La liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto è una ragione sufficiente per sottometterci a Lui », dunque la gratitudine verso Colui che ha operato la Redenzione portò gli Ebrei ad assumersi responsabilità maggiori di quelle degli altri popoli e ad accettare l’elezione Divina.
2: « Non avere divinità altrui al mio cospetto, Non farti sculture o immagini qualsiasi di ciò che è in cielo, in alto, di ciò che è in terra, in basso, in acqua, sotto la terra. Non inchinarti ad esse e non servirle, poichè io sono Hashem il tuo Dio, un Dio geloso che ricorda il peccato dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che Mi odiano, ma che agisce con il bene fino alla millesima generazione per coloro che Mi amano e per coloro che osservano i Miei precetti ».
Il secondo Comandamento è il divieto di ogni forma di idolatria.
Non si può credere in alcuna divinità che non sia Hashem, il Dio Unico (vedi Isaia 44:6).
Rashi sottolinea che non bisogna intendere l’espressione elohim acherim come « altre divinità », ma come « divinità degli altri », cioè divinità che altre persone considerano tali ma che in realtà non esistono e non hanno alcun potere.
R. Bachya spiega che è proibito credere che ci siano delle forze spirituali o degli astri dotati di poteri autonomi, poichè Dio è la sorgente di ogni cosa.
Il termine Elohim è usato nella Bibbia per indicare non solo il vero Dio, ma anche gli idoli pagani e gli uomini potenti. Questa parola è sia il plurale di Eloha (giudice/potente) che il suo superlativo indefinito (quindi singolare).
Il concetto di divinità in Ebraico è perciò legato a quello di giudice supremo, autorità somma.
« Al panay » (davanti al mio cospetto), significa in ogni momento e in ogni luogo, poichè non esiste uno spazio che sia privo della Presenza di Dio.
Chi possiede idoli senza adorarli trasgredisce comunque questo precetto.
E’ vietato anche fabbricare idoli sia per se stesso che per altre persone.
Maimonide traccia le fasi della storia dell’idolatria partendo dal principio, quando tutto il mondo sapeva dell’esistenza del Creatore. Ad un certo punto l’umanità iniziò ad onorare anche gli astri e gli elementi naturali considerandoli servitori di Dio. Successivamente, a queste opere del Creatore furono attribuiti poteri divini autonomi. Ad essere adorati furono poi addirittura alcuni uomini e infine gli spiriti.
Non bisogna interpretare male la dichiarazione secondo cui Dio « ricorda il peccato dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione ».
La Torah dichiara: « I padri non moriranno per le colpe dei figli e i figli non periranno a causa delle colpe dei padri; un uomo morirà solo a causa dei suoi stessi peccati » (Deuteronomio 24:16).
Il verbo pachad, qui tradotto con « ricordare », significa più precisamente visitare, considerare, o esaminare, sia in senso negativo che positivo. Il Talmud spiega che Dio punisce le generazioni future solo se i figli ripeteranno i peccati dei loro genitori, accettando così di ereditare la malvagità dei padri.
Quindi, al contrario di come molti pensano, questo versetto enfatizza la pazienza del Creatore che non applica le sue punizioni immediatamente, ma aspetta per dare agli uomini l’opportunità di ravvedersi fino a che il peccato non raggiunge il limite massimo, cioè alla terza o alla quarta generazione.
Per approfondire vai all’articolo: « Le colpe dei padri ricadono sui figli? »
3: « Non pronunciare il Nome di Hashem tuo Dio invano. Poiché Hashem non lascerà impunito chi avrà pronunciato il Suo Nome invano »
L’Ebraismo attribuisce da sempre molta importanza al rispetto verso il Nome di Dio che rappresenta l’identità e l’essenza del Sovrano dell’Universo.
Questo Comandamento proibisce principalmente di pronunciare il Nome Divino in un giuramento falso o anche in un giuramento inutile e banale.
Una traduzione più letterale del Comandamento sarebbe: « Non portare il Nome di Hashem tuo Dio invano »; Maimonide afferma che è quindi proibito menzionare inutilmente o in modo inappropriato il Nome di Dio in qualsiasi contesto.
Hashem significa « Il Nome » ed è l’espressione utilizzata comunemente dagli Ebrei in sostituzione del Tetragramma Sacro che è il Nome di Dio più propriamente detto. 
4: « Ricorda il giorno dello Shabbat per santificarlo. Per sei giorni lavorerai e compirai ogni tua opera, e il settimo giorno sarà Shabbat per Hashem il tuo Dio: non compiere alcuna opera, nè tu, nè tuo figlio, nè tua figlia, nè il tuo servo, nè il tuo bestiame nè lo straniero che vive entro le tue porte. Poichè in sei giorni Hashem fece il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che si trova in essi, e al settimo cessò, per questo Hashem benedisse il giorno di Shabbat e lo santificò ».
Shabbat significa cessazione ed è il settimo giorno della settimana, il giorno sacro del riposo.
Al popolo Ebraico è comandato di riconoscere continuamente che Hashem è il Creatore del mondo tramite la consacrazione dello Shabbat, il giorno che Dio stesso benedisse al termine della sua grandiosa opera (vedi Genesi 2:2).
Nel libro dell’Esodo è scritto di « Ricordare lo Shabbat », ma nella ripetizione dei Dieci Comandamenti in Deuteronomio 5:12 si trova scritto: « Osserva lo Shabbat ».
Nel Talmud (Shevuot 20b) i Maestri spiegano che queste due versioni differenti del Comandamento furono pronunciate prodigiosamente da Dio nello stesso momento e con uno stesso suono, come dichiara il Salmista: « Dio ha parlato una volta, due volte io ho udito » (Salmi 62:11). Da ciò si comprende che lo Shabbat deve essere sia ricordato che osservato.
Dal testo biblico non è chiaro cosa si intenda con « ogni tua opera ». Per comprendere quali azioni sono effettivamente proibite durante lo Shabbat è necessario ricorrere alla Tradizione orale che menziona trentanove categorie di opere che esprimono in modo particolare il dominio dell’uomo sulla natura e che furono tutte impiegate nella costruzione del Tabernacolo.
Il riposo settimanale non è solo un privilegio dei ricchi e dei potenti, ma persino dei servi che sono alle loro dipendenze.
Secondo la Mekhilta, con « il tuo servo » la Torah si riferisce ai lavoratori acquistati dalle altre nazioni; i loro padroni non devono assolutamente farli lavorare durante lo Shabbat. « Lo straniero che vive entro le tue porte » è invece il proselita, cioè lo straniero che si è convertito all’Ebraismo e ha quindi deciso di osservare tutta la Torah.
Lo Shabbat è comunque un segno esclusivo dell’Alleanza tra Dio e Israele e perciò non è stato comandato agli altri popoli.
5: « Onora tuo padre e tua madre, affinchè si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che Hashem il tuo Dio ti concede. »
Il Comandamento di onorare i genitori era scritto sulla prima tavola, ed è dunque incluso tra i precetti relativi al rapporto tra l’uomo e Dio. Ciò non deve sembrare strano, infatti nel Talmud (Kiddushin 30b) è scritto: « Tre sono i soci nella creazione di un essere umano: Dio, il padre e la madre. Hashem considera colui che onora i suoi genitori come se onorasse Lui stesso » . Dio è perciò il nostro primo genitore. 
Il rispetto verso il padre e la madre non può scaturire semplicemente da un sentimento naturale, ma deve invece essere considerato un vero e proprio precetto Divino (vedi Deuteronomio 5:16).
Nachmanide dichiara che i modi per onorare i propri genitori si ricavano dai Comandamenti precedenti, quelli che si riferiscono direttamente a Dio. Bisogna infatti accettare l’autorità dei genitori, non giurare falsamente nel loro nome e riconoscerli come nostri « creatori ».
« Affinchè si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che Hashem il tuo Dio ti concede »; Rav Saadia Gaon interpreta questa promessa spiegando che una lunga vita è il premio che il Creatore dona a coloro che assistono i propri genitori durante la loro vecchiaia.
Maimonide intende invece questo verso nel senso che il rispetto verso il padre e la madre serve a rafforzare la società e quindi a migliorare la vita degli individui.
Secondo Ralbag, l’onore verso i genitori comporta necessariamente l’accettazione dei precetti tramandati dagli avi, e di conseguenza è la garanzia che la Torah verrà osservata anche dalle generazioni successive.
6: « Non uccidere. »
Con il divieto dell’assassinio iniziano i Comandamenti scritti sulla seconda tavola, quelli che riguardano i rapporti tra le persone.
La Mekhilta fa notare la connessione tra questo Comandamento e il primo (« Io sono Hashem il tuo Dio » ); l’essere umano è stato creato a immagine di Dio, e perciò l’omicidio è considerato un atto commesso contro il Creatore stesso:
« Chiunque sparga il sangue dell’uomo, il suo sangue sarà sparso dall’uomo; perchè Dio creò l’uomo a Sua immagine » (Genesi 9:6).
Chi rifiuta Dio non potrà mai comprendere la vera sacralità della vita e la necessità di tutelarla.
« Lo tirzach » significa propriamente « non assassinare » e in questa espressione non rientra la legittima difesa, l’omicidio compiuto dal combattente in guerra e la pena di morte (che veniva applicata raramente e solo in casi estremi). Secondo la Torah questi tre tipi di uccisione sono comunque da evitare per quanto possibile.
I Maestri hanno meditato molto su questo Comandamento, andando oltre il senso letterale e cercando significati più profondi. Nel Talmud (Bava Metzia 58b) è scritto ad esempio che umiliare una persona in pubblico facendole provare vergogna o imbarazzo equivale ad ucciderla. Anche privare qualcuno dei mezzi di sussistenza (Yevarnot 78b), prendere decisioni legali quando non si ha la giusta competenza e rifiutarsi di farlo quando si è adeguatamente qualificati sono tutti atti che i Saggi paragonano all’assassinio.
Con queste riflessioni, i Rabbini hanno voluto soltanto dare insegnamenti morali che riguardano la personalità e la coscienza, e che non valgono nell’ambito legale. E’ chiaro infatti che sul piano giuridico chi umilia pubblicamente il suo prossimo non viene realmente condannato per omicidio.
7: « Non commettere adulterio. »
Secondo la Torah, avere rapporti sessuali con una persona già sposata è una colpa davvero gravissima.
Il settimo Comandamento corrisponde al secondo. Avendo infatti stipulato un Patto con il Creatore, il popolo d’Israele è spesso descritto dai Profeti come la « sposa di Dio », e quindi l’idolatria è paragonabile all’adulterio.
« Ama una donna amata da un amante ed adultera, come Hashem ama i figli di Israele, i quali si volgono anch’essi ad altre divinità » (Osea 3:1);
« Come una donna che tradisce il proprio amato, così voi siete stati infedeli a me, o casa d’Israele » (Geremia 3:20).
Il Targum Yonatan espone così il significato del Comandamento:
« Dio disse ad Israele: «La Mia nazione non deve essere immorale, non unitevi e non entrate in alcuna forma di società con gente immorale e non permettete che i vostri figli siano in loro compagnia per paura che imparino dalle loro azioni malvagie.» »
Anche su questo Comandamento i Saggi hanno fondato molti insegnamenti morali, come il dovere di astenersi da tutti gli atteggiamenti che potrebbero in qualche modo suscitare un desiderio sessuale illecito.
8: « Non rubare. »
Citando una deduzione degli antichi Maestri, Rashi spiega che questo Comandamento si riferisce al rapimento più che al semplice furto.
Il divieto di appropriarsi illecitamente dei beni altrui si trova invece in Levitico 19:11.
Nella Mekhilta l’ottavo Comandamento viene paragonato al terzo, poichè i ladri e i truffatori sono disposti a pronunciare giuramenti falsi. Inoltre, poichè tutte le cose appartengono al Creatore, il furto rappresenta una profanazione del Nome Divino e quindi una bestemmia.
Secondo lo Shulchan Arukh è proibito anche acquistare beni che sono stati rubati.
Nel Talmud viene condannata ogni forma di disonestà, e andando sempre oltre il senso letterale, il Comandamento è applicato anche a coloro che rubano le opinioni e le idee altrui o che cercano di ottenere approvazione e favori con l’inganno. 
9: « Non portare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. »
Nessuno è autorizzato a testimoniare in un processo se non ha assistito in prima ersona all’evento.
La Torah comanda di presentare in tribunale almeno due testimoni oculari che devono essere interrogati e risultare concordi nelle loro versioni dei fatti.
Le testimonianze « per sentito dire » non sono attendibili e non vanno prese in considerazione, neppure se la fonte è perfettamente attendibile.
Secondo la Mekhilta questo Comandamento corrisponde al quarto: « Ricorda il giorno dello Shabbat per santificarlo…. Poichè in sei giorni Hashem fece il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che si trova in essi, e al settimo cessò ».
Coloro che negano che Dio abbia creato il mondo compiono la falsa testimonianza per eccellenza, e infatti è scritto: « I miei testimoni siete voi, dice Hashem » (Isaia 43:10).
10: « Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo né il suo servoe la sua serva né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo »
« Dio disse ad Israele: «Mia nazione, non desiderare ciò che non è tuo. Non associarti e non mescolarti con popoli che desiderano. Evita di stare in loro compagnia per paura di imitare i loro modi malvagi» » (Targum Yonatan).
Il desiderio proibito da questo Comandamento è quello di colui che ambisce ad impossessarsi delle cose altrui meditando su come poter raggiungere il suo scopo.
Nel Talmud (Bava Kama 62a) viene condannato il comportamento di chi sottrae un oggetto da un’altra persona con la forza, anche se poi la rimborsa.
Il Profeta Michea mette la bramosia in stretta relazione con il furto: « Essi desiderano dei campi e poi li rubano » (Michea 2:2).
Secondo Ibn Ezra, l’essere umano può controllare il suo naturale desiderio imparando a distinguere ciò che gli è inaccessibile da ciò che invece può ottenere, come nel caso di un contadino che non ambierebbe mai a sposare una regina.
R. Bachya sottolinea che nella Torah viene proibito soltanto il desiderio delle cose materiali che appartengono agli altri, mentre è concesso invidiare la spiritualità di chi è superiore a noi. Anche il Talmud insegna a questo proposito: « La gelosia tra gli scolari che studiano la Torah aumenta la saggezza ».
Il decimo Comandamento è legato al quinto: « Onora tuo padre e tua madre ». Il desiderio egoistico di chi è troppo legato ai beni materiali comporta proprio la mancanza di amore verso gli esseri umani, e in particolare verso i genitori.
Per esprimere la loro gratitudine nei confronti di Hashem che ha donato la Sua Legge, gli Ebrei pronunciano quotidinamente preghiere come questa:
« Baruch atah Hashem Elohenu Melech haOlam asher bachar micol ‘aamim venatan lanu et torato’. Baruch atah Hashem noten haTorah. »
Benedetto sei tu, Hashem nostro Dio Re del mondo, che ci hai eletti tra tutti i popoli e ci hai dato la tua Torah. Benedetto Hashem che doni la Torah ».
In questo modo, il dono dei Dieci Comandamenti e di tutti i precetti della Torah appare come un evento attuale che si rinnova continuamente.

Publié dans:ebraismo |on 4 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

28/29 SETTEMBRE 2011 – ROSH HASHANA’

dal sito:

http://www.nostreradici.it/Rosh-haShana.htm#rosh

28/29 SETTEMBRE 2011 – ROSH HASHANA’       

Il nome più noto della festa è sicuramente Rosh HaShanà, capodanno.

Rosh… la memoria della conclusione della creazione del mondo: il venerdì della creazione compiuta nella dimensione materiale (manca il sabato). Facendo memoria della creazione dell’uomo, si contempla il vero inizio del tempo nella sua percezione umana, cioè il momento « zero » dell’esistenza dell’uomo nella realtà.
Per noi che vogliamo vivere questo ricordo significa « tornare in una situazione nella quale il peccato non c’è ». In realtà noi siamo esseri fortemente temporali; è una valenza positiva, ma ci condiziona il fatto che è difficile scardinare l’oggi: « sono così perché ieri ero così ». Invece questo tornare al momento 0 rompe il legame del nesso logico di causa-effetto; il che impedisce che diventiamo il prodotto di un determinismo spaventoso che ci fa rimanere schiavi di ciò che siamo stati e rende vana la redenzione.
Il procedimento non è semplice e non esauribile in toto in un solo momento; ma esso dura tutta la vita e fa sì che il passato, pur restando presente, cambi di segno.
Questo nome della festa dipende da vari motivi. Innanzi tutto, è il momento dell’anno in cui D-o inizia a giudicare l’uomo per le proprie azioni, come afferma il Talmùd Babilonese: Nel capodanno ogni uomo passa davanti a D-o come gli animali del gregge davanti a un pastore. Ossia, così come un pastore fa sfilare le sue pecore una per una davanti a sé per farle entrare nell’ovile, così D-o, guardando il destino di ogni uomo, fa passare davanti a Sé le azioni compiute da ogni persona. In questo modo Egli può giudicare l’operato di ogni persona per sapere in quale libro scrivere il suo nome. Disse, infatti, rabbi Kruspedaì a nome di rabbi Yochanàn:
Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh Hashanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh Hashanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte.
Il giudizio implica il peso delle azioni umane, che vale sia per il singolo che per la collettività e, in definitiva, per l’intera umanità. Giudizio rigoroso, che si dipana nei giorni successivi della teshuva.
Ciascuno, cambiando il peso delle proprie azioni, può cambiare il mondo.
Norme rabbiniche precise per la celebrazione di Rosh Hashanà prescrivono il suono dello shofar (corno di ariete) che non a caso ricorre anche a Kippur. L’ariete ricorda la legatura di Isacco. (cfr. approfondimenti in Yom teruà)
Vi riconosciamo l’aspetto collettivo di chiamare alla riunione e invitare al pentimento tutta la comunità ed ogni persona.
Ma lo shofar è anche una citazione della creazione: il primo vero shofar è Adamo (quando Dio gli ha inalato la ruah), il primo che suona lo shofar è D-o. Vi leggiamo la riproposizione delle modalità di rapporto tra materia e spirito. Noi prendiamo da dentro il fiato da insufflare, Dio lo prende da sé. Lo shofar ricorda l’impasto costitutivo dell’essere dell’uomo
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Publié dans:ebraismo, Ebraismo : feste |on 30 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Levi : Da Ulisse a Lilit

dal sito:

http://www.hakeillah.com/2_07_16.htm

Levi

Da Ulisse a Lilit

di Anna Segre

Spesso ci si ritrova, di fronte agli scrittori ebrei, a ricercare qua e là elementi della loro identità; è un compito talvolta facilissimo e più che legittimo, anzi doveroso, quando si parla di autori cresciuti in ambienti osservanti (pensiamo a un Singer, ma anche a Kafka); in altri casi bisogna arrampicarsi sugli specchi, con il dubbio di essere scorretti, e forse velatamente razzisti, come se esistesse un gene dell’ebraicità anche in scrittori che non hanno ricevuto alcuna educazione ebraica. E così talvolta ci si ritrova a costruire castelli in aria sull’umorismo di Svevo, o sulla capra di Saba, castelli estremamente affascinanti, non c’è dubbio, ma forse poco consistenti.
Qui è forse necessario aprire una parentesi per domandarsi che cosa esattamente si debba cercare quando si analizzano le influenze dell’identità ebraica su uno scrittore ebreo; a seconda della risposta che diamo a questa domanda, la ricerca risulterà più o meno agevole. Mi pare che si possano individuare tre ambiti:
1. L’ebraismo come condizione: poiché l’identità ebraica è determinata dall’esterno, e non è una scelta dell’autore che vogliamo studiare, non è necessaria da parte sua alcuna particolare conoscenza, e neppure consapevolezza. In questo ambito di analisi il lavoro, purtroppo, è facilissimo: basta che un autore abbia subito qualche persecuzione o anche solo qualche atto di ostilità e siamo a posto; se non ha subito nulla del genere si può sempre ripiegare sull’identità in bilico, sulla diversità, ecc.; e lì non si sbaglia mai: quale autore di un certo peso non pone da qualche parte nei suoi testi un problema di identità, o non propone qualche conflitto di mondi e di valori? Qualunque analisi in questo senso funzionerà benissimo per qualunque autore ebreo di un certo valore, così come funzionerebbe altrettanto bene per Euripide, Virgilio, Dante o Shakespeare.
2. L’ebraismo come ambiente: la descrizione di un mondo ebraico, le comunità, la sinagoga, le feste, i rituali, i cibi tradizionali, la kasherut; oppure semplicemente la descrizione di parenti e amici ebrei. Qui il gioco comincia a non funzionare più proprio per tutti, ma ancora ce la caviamo, perché temi di questo genere si trovano spesso in autori ebrei anche non osservanti; anzi, spesso, come accade per i torinesi che narrano gli anni ’30 e ’40, abbiamo numerosi racconti che si intersecano e personaggi che si citano reciprocamente; questo rende l’analisi ancora più affascinante.
3. (Ed è quella che interessa davvero) L’ebraismo come linguaggio: non tanto i “modi di dire” (che in fondo servono più che altro a connotare un ambiente, e quindi rientrano nell’ambito precedente); qui si tratta di ricercare riferimenti specifici alla cultura ebraica, come metafore, citazioni, chiavi di lettura della realtà, motivazioni ideali. Il lavoro diventa molto più difficile: persino in un romanzo come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, ambientato quasi completamente all’interno del mondo ebraico, è difficile andare oltre la descrizione di un ambiente e ritrovare temi specificamente ebraici, citazioni di testi della cultura ebraica o altro.
Cosa possiamo trovare in Primo Levi? Sull’influenza che la condizione ebraica ha avuto nella sua vita c’è poco da discutere. Non è molto difficile neppure trovare descrizioni dell’ambiente ebraico, e ancora di più di singoli ebrei, dagli antenati di Argon agli amici di Oro. Troviamo anche riferimenti alla kasherut (magari per negarla, come in Zinco: Un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato), oppure a cibi tipici: il salame d’oca in Argon, la cui ricetta segreta viene svelata per vendetta, appare in qualche modo come un simbolo del legame di complicità e diffidenza verso il mondo esterno che unisce tra loro i membri della comunità; questa funzione è assunta in modo ben più esplicito dal dialetto giudaico-piemontese, che è il vero protagonista del racconto. Peraltro, per illustrare al lettore questo strano dialetto e per presentare attraverso di esso l’ambiente dei suoi antenati, Levi si è trovato “costretto” a riscoprire e illustrare citazioni bibliche, formule rituali, costumi e tradizioni. A proposito di dialetti, è interessante notare come il giudaico-romanesco di Cesare nella Tregua contribuisca a connotare il personaggio, solare, che non parla nessuna lingua, ma riesce comunque a interagire con tutti.
Si può parlare, per Primo Levi, anche di ebraismo come linguaggio, come chiave di lettura della realtà? A prima vista sembrerebbe la solita arrampicata sugli specchi, trattandosi di un autore certamente proveniente da un ambiente “assimilato”. Tuttavia non c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi per notare che ben due titoli di suoi libri fanno riferimento a testi della cultura ebraica (Lilit, che fa riferimento ad un midrash narrato nell’omonimo racconto, e Se non ora, quando?, citazione dai Pirke’ Avot). Né c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi per rilevare che sulla prima pagina del primo testo da lui pubblicato sono riportate due frasi (1), dello Shemà preghiera fondamentale della ritualità ebraica, fonte di precetti pratici (mezuzà, tefillin), la prima che si impara, e che si ripete ogni giorno coricandosi e alzandosi; è vero che all’inizio di Se questo è un uomo l’oggetto di cui è prescritto il ricordo è diametralmente diverso, quasi come se una nuova pratica dovesse sostituirsi a quella tradizionale, tuttavia è innegabile che la citazione costituisca un forte richiamo alla tradizione e che mantenga due elementi fondamentali del contesto originario: il dovere della memoria (e non è certo estraneo alla tradizione ebraica l’imperativo di ricordare cosa ci ha fatto Amalek) e il dialogo continuo con le generazioni future.
Questi elementi sono abbastanza significativi da autorizzare qualche ricerca ulteriore, e qualche riflessione, seppure aleatoria. Le citazioni bibliche (quando non occasionali, come Henri paragonato al Serpente della Genesi) non sono molto numerose, ma talvolta sono molto significative, come il riferimento alla torre di Babele in Se questo è un uomo, che sembra richiamare alcune interpretazioni midrashiche (2): La torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e così noi la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
È anche interessante che proprio con un testo biblico (il libro di Giobbe) Levi abbia scelto di aprire La ricerca delle radici, una sorta di antologia personale: Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo.
Talvolta la Bibbia è usata come metafora della condizione degli ebrei, in negativo (Se questo è un uomo: …tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica, sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda la sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?), ma anche in positivo, come paradigma della liberazione da ogni possibile oppressione; ciò è evidentissimo in Potassio (Il sistema periodico): Ci radunavamo nella palestra del “Talmud Torà”, della Scuola della Legge, come orgogliosamente si chiamava la vetusta scuola elementare ebraica, e ci insegnavamo a vicenda a ritrovare nella Bibbia la giustizia e l’ingiustizia e la forza che abbatte l’ingiustizia: a riconoscere in Assuero e in Nabucodonosor i nuovi oppressori. Ma dov’era Kadosh Barukhù, “il Santo, Benedetto sia Egli”, colui che spezza le catene degli schiavi e sommerge i carri degli Egizi? Colui che aveva dettato la Legge a Mosè, ed ispirato i liberatori Ezra e Neemia, non ispirava più nessuno, il cielo sopra noi era silenzioso e vuoto: lasciava sterminare i ghetti polacchi e lentamente, confusamente, si faceva strada in noi l’idea che eravamo soli, che non avevamo alleati su cui contare, né in terra né in cielo, che la forza di resistere avremmo dovuto trovarla in noi stessi.
Da Babele al Faraone, passando per Giobbe, la cultura ebraica è interrogata in una ricerca di senso, che prende le mosse dalla riflessione sulla creazione stessa dell’uomo (Il sesto giorno in Vizio di forma) e della donna (in Lilit, che propone, pur se come “racconto nel racconto”, il tema kabbalistico del nascondimento della divinità). In particolare è curioso l’atto unico Il sesto giorno, in cui un gruppo di tecnici discute sull’opportunità di creare l’uomo e sulle caratteristiche che dovrebbe avere, ma alla fine tutti scoprono di essere stati scavalcati dalla “direzione”, che ha creato arbitrariamente l’uomo dalla terra: non solo sono numerosi e puntuali i riferimenti alla Genesi (a cominciare dal titolo), ma non si può fare a meno di ricordare che la struttura stessa della vicenda ricalca un famoso midrash, in cui diversi gruppi di angeli discutono sull’opportunità di creare l’uomo e, anche in questo caso, sono poi messi di fronte al fatto compiuto.
Abbiamo analizzato più attentamente le prime opere di Levi; nelle ultime i riferimenti alla cultura ebraica si moltiplicano (in particolare in Se non ora, quando?), tanto che sarebbe impossibile catalogarli tutti. Si potrebbe ipotizzare una progressiva riscoperta e riappropriazione della cultura ebraica da parte di Primo Levi? È un’ipotesi suggestiva, ma sarebbe un po’ difficile da confermare, perché la citazione dello Shemà (che resta comunque la più importante e pregnante) si trova, come si è detto, proprio al principio della sua opera, e anche Il sesto giorno è tra i primi testi. Ammettendo anche che l’ipotesi sia sostenibile (a suffragarla potrebbero contribuire soprattutto i due titoli-citazione, che sono piuttosto tardi), non sarebbe necessariamente il sintomo di un diverso atteggiamento di Levi nei confronti della cultura ebraica: si potrebbe spiegare con la sua straordinaria curiosità, con un generale riavvicinamento alle fonti tradizionali da parte dell’ebraismo italiano (e non solo) nel corso del ventesimo secolo, con lo status di autore ebreo per eccellenza che Levi ha finito per ricoprire nel panorama letterario del nostro paese.

Tuttavia l’ipotesi resta suggestiva. Basti una considerazione: nel racconto Il cantore e il veterano (in Lilit) l’osservanza del Kippur da parte del cantore Ezra viene presentata come una sorta di barriera contro la disumanizzazione del lager; lo stesso si può dire per il midrash sulla creazione della donna in Lilit, narrato nel contesto di una discussione sull’apparente ripetizione presente nei capitoli iniziali della Genesi (in cui l’interlocutore gli fa digrignare i denti, con citazione sottintesa dell’Haggadà di Pesach); questa discussione, che avviene in un tubo durante una pioggia che ha interrotto il lavoro, ricopre la stessa funzione narrativa che aveva in Se questo è un uomo il tentativo di ricordare a memoria e insegnare al compagno Pikolo il XXVI canto dell’Inferno, il canto di Ulisse. Ipotizzare un consapevole passaggio da Dante al midrash appare azzardato e forzato, tuttavia senz’altro questo e altri passi citati in precedenza consentono una riflessione: rispetto ad altri autori Primo Levi parla relativamente poco di ebrei, di vita comunitaria, di riti e cerimonie; in compenso l’ebraismo nella sua opera non si presenta solo come condizione e come ambiente, ma talvolta anche come linguaggio.

Anna Segre

(1) Che sono anche versi biblici (Deuteronomio, VI, 6-7)
(2) Dissero: Egli non dovrebbe scegliere per sé il mondo superiore e lasciare a noi l’inferiore: andiamo, perciò, e costruiamo una torre, poniamoci in cima una divinità, e armiamola di una spada, come se volesse contendere con Lui (Bereshit Rabbà, 38; citato da Midrashim, fatti e personaggi biblici, a cura di Riccardo Pacifici, Marietti, 1986)

Publié dans:ebraismo |on 21 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

La musica sacra nell’ebraismo: la lettura della Torah

dal sito:

http://www.eclettico.org/israele/ebraico/musica.htm

La musica sacra nell’ebraismo: la lettura della Torah

Introduzione alla lettura ed ai diversi « modi » La religiosità ebraica è strettamente collegata all’espressione musicale. Lo si riscontra immediatamente entrando in una sinagoga, durante un servizio, in cui si scopre che i versi sacri della Torah (la Bibbia ebraica) e delle preghiere non vengono semplicemente letti in ebraico, ma vengono « cantillenati », cioè cantati secondo una determinata melodia.
Ai tempi del Tempio di Gerusalemme era uso normale impiegare la musica durante il culto; ora questa abitudine si è persa, anche in ricordo del lutto sempre presente per la distruzione del Tempio stesso. Nell’antichità la musica è sempre stata associata al divino e spesso le erano attribuiti poteri divini (presso gli egiziani, fenici, assiri e babilonesi). L’impiego della musica ha anche avuto forti avversatori per la sua carica di sensualità (Talmud, Trattato Berachot) e quindi per i culti venivano usati solo strumenti particolari. All’epoca del Tempio di Gerusalemme venivano impiegati vari strumenti a fiato, per richiamo (lo shofar – il corno di ariete – e la chatzotzera – una tromba) o per fare musica (a fiato: ugabh – piccola zampogna o flauto – halil – grande zampogna – alamoth – flauto doppio – magrepha – siringa. A percussione: tof – tamburello – metziltayim o tziltzal – cimbalo).
Nel Tempio di Gerusalemme erano impiegati il nebhel (arpa grande), il kinnor (arpa piccola), il tziltzal ed il halil; era presente anche un coro composto da uomini. La danza era considerata parte integrante delle cerimonie religiose. Il canto era in forma responsoriale (più cori che si alternano), unisono, a solo, e, raramente, antifonale (canto alternato fra gruppi equivalenti). Le fonti – la Torah e gli altri testi dell’ebraismo – attestano l’uso di cantare e suonare nei momenti di gioia come espressione di lode al Signore (vedi le varie cantiche: di Mosè, di Miriam, etc.). Purtroppo non ci sono arrivate testimonianze scritte delle melodie e quindi molto di questo patrimonio è andato perso. Sappiamo però come leggere la Torah, grazie alla tradizione orale ed a valenti maestri come Aaron ben Asher di Tiberiade del IX sec. – che fu il primo a dare alla Torah un sistema compiuto di accenti – ed i Masoreti (in ebr. « coloro che trasmettono la tradizione ») del X sec.
Il primo sistema di notazione conosciuto (segni mnemonici, con accenti particolari detti « te’amim », e chironomici, dal termine greco « chironomia », cioè segni fatti con la mano per indicare la melodia, tecnica attestata dal Talmud) descriveva, con il movimento di un dito, l’andamento della melodia ascendente (« kadma »), discendente (« tifha ») o prolungato (« zakef »): è possibile vedere l’impiego di questi segni da parte di colui che assiste il Chazzan, cioè il cantore – necessario in quanto non è permessa la lettura da un testo con scritti gli accenti – andando in una sinagoga durante la lettura della Torah. Qualsiasi ebreo può officiare il culto nella sinagoga, ma deve saper leggere la Torah e le preghiere, pratica che richiede ovviamente uno studio. Solo alcuni libri della Torah, la cui lettura pubblica è obbligatoria, sono provvisti di melodia: Pentateuco, Profeti, Ester, Lamentazioni, Ruth, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Salmi, Giobbe (Proverbi, Esdra, Neemia e Cronache non hanno melodie perché non erano letti durante il servizio).
La musica ebraica sacra è fondata sul sistema modale, composto da un numero di « motivi » (breve figure musicali o gruppi di note) all’interno di una determinata scala. Il modo di leggere la Torah è segnalato fin dal I secolo. Il modo del Pentateuco è influenzato dalla musica greca ed orientale ed esprime dignità ed innalzamento dello spirito. Vi sono vari modi di leggere la Torah, a seconda dell’area geografica. Quello askenazita (Europa dell’Est) – fortemente influenzato dalla musica tedesca ed espressione di sentimenti struggenti e melanconici – è simile a quello in uso nelle comunità ebraiche del sud della Francia – Carpentras, Avignone – e dell’Italia. Il modo sefardita (Spagna ed Africa del nord) ha invece varie somiglianze con il canto gregoriano – che fece propri parecchi elementi dei canti ebraici – ed ovviamente ha molte affinità con le melodie arabe. In Italia, nel XVII secolo, Salomone Rossi – famoso musicista ebreo alla corte di Mantova – introdusse l’armonia e la polifonia nella musica sinagogale ed influenzò anche i paesi di lingua tedesca.
Il modo di cantare la Torah viene effettuato su una base stabilita, che sono appunto i « te’amim », ma il suo svolgimento è diverso non solo tra comunità askenazite, sefardite, italiane, ma anche tra le varie città della stessa nazione. Motivo per cui, per esempio, se si andrà in sinagoga a Roma, Venezia o Torino, non si ascolterà la stessa identica lettura. Ogni comunità ebraica, su una base di regole comuni, ha i propri usi e costumi e ciò è valido anche per il modo della lettura della Torah.

Publié dans:ebraismo, musica sacra |on 25 août, 2011 |Pas de commentaires »

RABBI NACHMAN DI BRESLOV

 dal sito:

http://www.cabala.org/articoli/nachman.htm

RABBI NACHMAN DI BRESLOV

Rabbi Nachman è stato uno dei più grandi tra i maestri chasidici di tutti i tempi. La sua vita fu breve e piena di eventi drammatici, ma qualunque cosa gli succedeva serviva unicamente a rafforzare la sua già incommensurabile fede in Dio. Egli era un pronipote dello stesso Baal Shem Tov, il fondatore del Chasidismo. Rabbi Nachman nacque il primo del mese di Nissan dell’anno 5532 (1772). Fin da piccolo fu attratto da particolari vie di contemplazione e di meditazione mistica, che praticava in solitudine nei boschi e sulle montagne, a guisa del suo famoso bisnonno. Sposatosi in età molto giovane (secondo l’abitudine di quel periodo), Rabbi Nachman, date le sue brillanti virtù umane e spirituali, non ebbe difficoltà a radunare intorno a sè un folto numero di discepoli. Gli unici problemi gli venivano dal movimento degli « oppositori » (Mitnagdim), e perfino da alcuni maestri chasidici, forse gelosi dello sviluppo rapidissimo che il suo gruppo di fedeli andava assumendo, attirando a sé anche anziani e quotati rabbini. Molti dei suoi cambiamenti di sede furono proprio dovuti al fatto che Rabbi Nachman rifuggiva le diatribe e gli scontri, e preferiva andarsene piuttosto che causare invidia e inimicizia. Egli ebbe comunque un grande desiderio di viaggiare, che lo portò nella stessa terra d’Israele, per una breve visita. Tuttavia gli spostamenti in quei periodi erano molto difficili, e richiedevano un notevole sforzo fisico. Fu soprattutto ciò che lo portò a contrarre la tubercolosi, la malattia che avrebbe causato la sua morte prematura. Poco tempo prima gli era morta anche la moglie e un figlio in tenera età. Rabbi Nachman lasciò questo mondo durante la festa di Sukkot dell’anno 5571 (1810), all’età di 38 anni.
Furono tuttavia anni intensi e pieni forse quanto intere vite. All’età di 18 anni Rabbi Nachman aveva testimoniato di se stesso di essere già arrivato al livello del santo bisnonno, il Baal Shem Tov. Forse una tale affermazione potrebbe sembrare orgogliosa, ma Rabbi Nachman era la persona più modesta della terra, e quanto diceva era semplicemente vero.
In modo simile a quanto era già successo per il santo Arizal (anch’egli mancato a 38 anni), l’opera di Rabbi Nachman fu registrata e pubblicata dal suo più fedele discepolo, Rabbi Natan. Essa è composta da tre elementi principali. Il primo libro è Likutei Moharan, una collezione dei suoi più importanti insegnamenti. In essi il maestro tesse insieme nozioni profondamente cabalistiche con le loro interpretazioni chasidiche, elementi di racconti o midrashim con altri di carattere morale e psicologico. Poi vi è un’opera in diversi volumi: Likutei Halakhot, dove il maestro spiega il significato interiore e cabalistico delle regole della Halakhà. Si tratta di un’opera preziosissima, che da un’infinito respiro mistico all’altrimenti stretto e difficile mondo dell’Halakhà. Altrettanto importante è il Likutei Etzot ha-Meshulash (Raccolta triplice di Consigli), una raccolta di interpretazioni chasidiche, sistematizzata come una specie di mini-enciclopedia un ordine alfabetico. Infine ci sono diversi racconti o leggende, che Rabbi Nachman raccontò in varie occasioni.
Uno degli elementi centrali del suo insegnamento, tratto tipicamente chasidico, è l’insistenza sul bisogno di essere sempre contenti, di non lasciarsi mai abbattere, di non avere mai paura. Rabbi Nachman spiega che l’unico vero peccato è la tristezza e lo scoramento che gelano il cuore di una persona che ha commesso un’infrazione morale o alla quale è successo qualcosa di brutto (Dio non voglia). La depressione è la radice di ogni peccato successivo, in quanto convince la persona di non essere capace di allontanarsi dalla falsa strada, di non essere capace di fare altro che errori, di non meritare nulla se non disgrazie e punizioni.
Un altro elemento particolare del pensiero di Rabbi Nachman è il suo non aver voluto iniziare una dinastia chasidica, come invece tipico di ogni altro gruppo, nel quale alla morte del Rebbe viene eletto un successore, quasi sempre il figlio di costui. Rabbi Nachman disse ai suoi discepoli che non avrebbero dovuto aspettarsi nessun altro Rebbe se non lo stesso Messia. Tutt’oggi il movimento dei Chasidim di Breslov, diffuso soprattutto in Israele, Stati Uniti e Francia, non ha un maestro-guida, se non lo stesso Rabbi Nachman, vivo più che mai nell’amore e nell’attenzione di quanti seguono la sua via.
Un’altra delle particolarità di Rabbi Nachman fu quella di insegnare tramite racconti dall’aspetto fiabesco e mitico (re, principesse, castelli, ecc.). Si trattava dell’evolversi di una delle caratteristiche presenti nell’insegnamento del suo santo bisnonno: il Baal Shem Tov. I suoi racconti però erano di carattere più popolare e folcloristico, più vicini agli archetipi della cultura ebraico-contadino di Russia e Polonia in quei tempi. Come vedremo dai due esempi che verranno tradotti qui di seguito, le storie di Rabbi Nachman avevano invece un aspetto esteriore quasi vicino agli archetipi dei nobili gentili di quei tempi. Si tratta però di un solo aspetto esterno, poichè le storie di Rabbi Nachman sono in realtà tesori preziosi di sapienza cabalistica, opere altamente creative di un’anima che sapeva trovare scintille di santità ovunque.
Rabbi Nachman aveva una vocazione particolare nell’avvicinare e nel comunicare con gli ebrei dell’ »Hashkalà », l’Illuminismo ebraico, che stava prendendo piede in Europa in quegli stessi anni. Condannati con veemenza da parte del rabbinato ufficiale e benpensante, i maskilim (illuministi) furono gli iniziatori del laicismo ebraico, e sostenevano il diritto di frequentare le scuole e le università degli stati in cui vivevano, e il diritto di seguire valori molto più vicini a quelli dei popoli gentili loro vicini e contemporanei. Ovviamente ciò portava a un notevole indebolimento o alla stessa scomparsa della pratica religiosa ebraica, l’osservanza delle Mitzvot, e ciò segnò anche l’inizio del doloroso fenomeno dell’assimilazione. Vi erano dunque motivi più che sufficienti per preoccupare il mondo ebraico ortodosso.
Ma Rabbi Nachman vedeva molto più in là dei suoi contemporanei: scorgeva nelle anime dei maskilim (gli intellettuali) un’ansia di conoscenza e di progresso che la pur valida vita di osservanza religiosa non riusciva a soddisfare. Inoltre egli scorgeva in essi anche dei potenziali « ba’alei teshuvà » (maestri del ritorno), che sarebbero un giorno ritornati all’Ebraismo con i tesori delle conoscenze prese dall’ambito mondano nel quale si erano a lungo intrattenuti, conoscenze che sarebbero state « rettificate » alla luce dei principi esoterici della Torà. Rabbi Nachman arrivò a dire che la stessa venuta del Messia sarebbe stata annunciata dal fenomeno congiunto di un gran numero di « ba’alei teshuvà » e di « gherei tzedek » (giusti convertiti). Pur se l’Ebraismo è sempre stato e rimane una religione che non cerca proseliti, se questi si avvicinano con intenzioni pure e serie essi sono accolti con grande gioia.
La profezia di Rabbi Nachman si sta avverando proprio nei nostri giorni, nei quali diventa sempre più imponente il numero di ebrei laici che stanno ritornando all’osservanza e allo studio della Torà, specie nelle sue componenti esoteriche. Contemporaneamente, cresce in modo inaspettato il numero di gentili che chiedono di diventare ebrei. Purtroppo il Rabbinato ufficiale, con la stessa mancanza di perspicacia già dimostrata altre volte nel passato, tratta entrambi questi due tipi di persone come dei sottosviluppati mentali, tenendoli lontani dalle conoscenze della parte mistica ed esoterica della Torà, e cercando di dirigerli unicamente verso la sola pratica della parte halakica (delle regole pratiche), pia e devota quanto si vuole, ma senz’altro limitata. Non c’è nessun dubbio che una retta osservanza dei precetti sia la base insostituibile senza la quale non potrebbe esserci né una vera teshuvà, né una sincera conversione, e neppure una genuina comprensione della Cabalà.. Tuttavia i collegi di studi rabbinici, ai quali queste persone vengono indirizzate, non contengono nei loro programmi altro che le istruzioni sul come fare i pavimenti, dimenticandosi di come una casa sia costituita anche da pareti e da tetti. Quello che il Rabbinato non ha ancora capito è che non si tratta di ritornare semplicemente alla situazione esistente prima del diffondersi del laicismo. Ciò è del tutto inconcepibile. Il mondo si muove ad una velocità sempre più elevata, e lo stesso pensare di rimanere fermi nello stesso posto già costituisce un errore madornale, per non parlare del credere di poter ritornare indietro!
I « maestri del ritorno » e i « giusti convertiti » (e qui potremmo anche includere tutti quei gentili che pur non intendendo diventare ebrei si sentono sinceramente attratti dalla sapienza contenuta nella Torà) non ricercano soltanto la parte morale e pratica della Legge ebraica, per quanto profonda e perfetta possa essere. Nella maggior parte dei casi essi desiderano un’esperienza diretta della parte mistica e contemplativa, desiderano gettare uno sguardo dentro le stanze interne della Torà, dove sono custoditi i suoi segreti. Non è un desiderio erroneo o prematuro, come sostengono i rabbini non preparati a condurli all’interno del Palazzo del Re. Una tale opinione negativa è unicamente motivata dai pregiudizi di una mentalità ristretta che ha già fatto il suo tempo, oltre che dalla stessa incapacità, peraltro non ammessa volentieri, di tali rabbini nel condurre altri in luoghi dei quali loro stessi non sono a conoscenza.
Quel che si richiede a tali maestri è un fondamentale atto d’umiltà: è noto che non tutte le anime d’Israele hanno la stessa accesa passione per la parte mistica della Torà. Molte anime sono soprattutto attratte dalla parte più pratica e legale, che peraltro contiene così tanta saggezza da riempire facilmente i giorni e gli anni di chi vi si senta votato. Ma non occorre generalizzare. Succede invece che tali maestri pretendono che i loro interessi diventino una norma per tutti, confinando ogni attrazione verso la parte cabalistica in un angolo a volte definito come accessorio e facoltativo, e a volte definito come inutile, pericoloso o proibito. Non c’è nulla di più falso! La Cabalà. è da sempre l’anima della Torà, così come le regole dell’Halakhà ne sono il corpo. Solo una piena interazione di questi due partner inseparabili è chiamata « vita », e il Dio d’Israele è il Dio della vita. D’altronde sono sempre esistiti, in ogni luogo e in ogni generazione, validissimi maestri, esperti della parte legale e pratica, che hanno scalato anche le vette delle conoscenze esoteriche. Oggi costoro si dichiarano pronti ad insegnare chi gli si avvicina sinceramente, senza porre precondizioni o senza esami introduttivi. Dunque l’unica cosa che viene richiesta ai rabbini delle molte Yeshivot ufficiali, per il momento, è almeno di non interferire in ciò. In un futuro ormai prossimo però si renderà necessario introdurre corsi di Cabalà in ogni programma di studio in yeshivà, a qualsiasi livello, avanzato o introduttivo che sia.
Un altro punto sul quale Rabbi Nachman ci lascia un insegnamento quanto mai attuale è sull’atteggiamento che gli ebrei religiosi dovrebbero tenere nei confronti di quelli non religiosi, specie in paesi come Israele o gli Stati Uniti, cioè dove vi sono forti comunità religiose. Purtroppo non è raro tutt’oggi vedere come l’ebreo ortodosso guardi ai suoi fratelli laici con un malcelato orgoglio e senso di superiorità morale. Non c’è nulla di più errato, dato che solo Dio è in grado di giudicare tutti i meriti e i demeriti di una persona. Rabbi Nachman invece, irradiando simpatia ed interesse umano anche verso il più assimilato degli ebrei, stabiliva subito un canale di contatto, tramite il quale ogni forma di benedizione e di insegnamento poteva passare. Il suo esempio è tutt’oggi centrale nel comportamento dei Chasidim Breslov. Questi sono tra i più aperti e tolleranti degli ebrei ortodossi, e nei loro ranghi vi sono numerosissimi ba’alei teshuvà.

Publié dans:ebraismo |on 21 juin, 2011 |Pas de commentaires »

QUELL’ABBRACCIO TRA WOJTYLA E IL RABBINO TOAFF (Di Segni: « Tra loro un feeling speciale »)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26779?l=italian

QUELL’ABBRACCIO TRA WOJTYLA E IL RABBINO TOAFF

Di Segni: « Tra loro un feeling speciale »

di Mariaelena Finessi

ROMA, venerdì, 20 maggio 2011 (ZENIT.org).- Del dialogo, dei giovani e della comunicazione, Wojtyla è stato però anche il Papa della prima visita ufficiale in una sinagoga. «No signorina qua si sbaglia»: il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni scherza con la presentatrice al concerto organizzato il 18 maggio da « Roma Capitale » a chiusura degli eventi per la beatificazione di Giovanni Paolo II. Sale sul palco dellAuditorium della Conciliazione per raccontare il particolare «feeling» con lebraismo instaurato dal Papa polacco durante il suo mandato.
«Se vogliamo essere precisi prosegue Di Segni , il primo Pontefice in assoluto a visitare una sinagoga è stato Pietro». In platea, tra migliaia di spettatori, una delegazione ebraica composta, tra gli altri, dal Presidente dellUnione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e dallassessore della Comunità ebraica di Roma Ruben Della Rocca in rappresentanza del presidente Riccardo Pacifici.
Artisti di fama, e testimoni « speciali » del legame vissuto con Wojtyla nel corso del suo pontificato durato 27 anni – come ad esempio l’ex Cardinale vicario di Roma Camillo Ruini o il postulatore monsignor Slawomir Oder – si alternano sul palco a ripercorrere i momenti più importanti, le svolte e i giri di boa che questo pontefice ha consegnato per sempre alla storia.
Come quella volta, 13 aprile 1986, quando Giovanni Paolo II ha varcato la soglia del Tempio di Roma. Di Segni, ai tempi giovane ministro del culto, ricorda così levento: «Cera la sensazione di vivere un momento storico». E tanta era stata poi la sorpresa «anche perché non era poca la perplessità per i problemi procedurali da risolvere. In altri termini era tutto da creare». E, daltra parte, si era impreparati: mai cerano stati precedenti di tale portata.
«Si racconta una leggenda continua Di Segni per spiegare come fosse unassoluta novità quellincontro tra il Papa e lex rabbino capo di Roma Elio Toaff, oggi 96enne -, che io allora abbia cantato ma posso assicurarvi che ciò non corrisponde al vero. Di fatto ironizza il rabbino nella sua nota cifra stilistica, lasciando intendere una scarsa capacità canora non ha piovuto quel giorno». Indimenticabile labbraccio tra i due uomini, in cui si racchiudevano tante parole non dette a sciogliere altrettante incomprensioni. «Tra loro cera un feeling speciale», commenta Di Segni.
Lo stesso Toaff nell’autobiografico « Perfidi giudei, fratelli maggiori »  (ediz. Mondadori) scrive: «Insieme entrammo nel Tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il Papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò lapplauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l’importanza di quel momento… Lapplauso scoppiò [nuovamente] irrefrenabile quando [il Papa] disse: « Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori »».
E non a caso il nome di Toaff è uno dei tre insieme a quello dellallora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinale Joseph  Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, e del cardinale Stanislaw Dziwisz, attuale arcivescovo di Cracovia ma per quarantanni a servizio di Wojtyla come suo segretario particolare – pubblicati nel testamento spirituale del pontefice polacco «a ulteriore riprova di un legame che va oltre lufficialità. Una simpatia sostanziale che porta allamicizia là dove il profilo dottrinale può creare problemi».
Il rabbino puntualizza quindi il senso della parola « dialogo » che molti osservatori hanno preso ad usare per raccontare, con la visita di Wojtyla al Ghetto, linfrangersi di certe rigidità del passato: «In quegli anni il dialogo tra ebraismo e cristianesimo era già ben impostato ma si trattava perlopiù di un dialogo tra eruditi e teologi. Un dialogo a cui mancava laspetto umano e Wojtyla è stato in grado coglierne la necessità».
Insomma, conclude Di Segni, «questo Papa ha saputo rompere il ghiaccio ed oggi tutti ci rendiamo conto che il suo gesto ha cambiato per sempre latmosfera nelle nostre relazioni».

LA PASQUA EBRAICA

dal sito:

http://www.aquino.it/terrasanta/pasquaebraica.htm

LA PASQUA EBRAICA

Il mese di Nissan

Con il mese di Nissan inizia l’anno religioso, In questo mese i nostri padri furono liberati dalla schiavitù dell’Egitto, nel mese di Nissan diventammo nazione. Nel mese di Nissan, quindi, inizia la festività di Pessach, memoriale di tutti questi eventi.
Durante tutto il mese – con un’unica eccezione – è vietato digiunare, pronunciare preghiere penitenziali, cantare lamentazioni. Durante lo shabbath che precede Pessach – lo chiamiamo Shabbat ha Gadol il grande Shabbath, per i grandi miracoli che avvennero in quel tempo -, il Rabbi dà alla comunità una catechesi sui precetti di Pessach e alla vigilia di Pessach i primogeniti digiunano in memoria del castigo che si abbatté sull’Egitto, la decima e più terribile delle dieci piaghe: la morte dei primogeniti. Israele ne fu risparmiato, non per i suoi meriti – non ne aveva – ma per l’amore infinito del Santo, benedetto sia. Per i ragazzi che non hanno ancora raggiunto i tredici anni, la Bar-Mitzvah, digiuna il padre; ma se lui stesso è un primogenito e deve quindi digiunare per se stesso, al posto del figlio digiuna la madre.

Vivere la Pasqua

Pessach 1 non è una pia commemorazione di eventi lontani: è invece un’esperienza. La Pasqua invita ogni ebreo a partecipare oggi a un evento fondamentale per lui, per il suo popolo e per tutta l’umanità.
Celebrando la Pasqua l’ebreo collabora con Dio nella redenzione del mondo.
Ma com’è possibile partecipare oggi ad un evento che ebbe luogo più di tremila anni fa? La Torah chiama le grandi feste ebraiche Moadim (giorni di incontro con Dio). Ognuna delle grandi feste ebraiche trasmette un messaggio divino, radicato in un evento storico.
La Pasqua trasmette la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. È una meraviglia che quel messaggio non ci raggiunga da un passato remoto, ma che ci venga donato ogni anno di nuovo, celebrando un evento storico che diventa oggi una parola eterna di Dio per noi.
Per l’uomo occidentale questo è difficile da capire, perché egli considera il tempo come una linea diritta, che parte da un passato remoto e non tornerà mai più, dirigendosi verso un futuro imprevedibile che nessuno può conoscere. Spicca una sola certezza, quella della propria morte. Da questa l’uomo « occidentale » cerca di fuggire in molteplici faccende alienandosi dal proprio oggi.
Perciò gli eventi dell’Esodo dall’Egitto gli sembrano un lontano passato, senza alcun significato attuale.
Ma l’ebreo non vive il tempo in questa maniera: Dio è intervenuto nella sua storia e continua a intervenire, caricandola di un significato eterno e sempre attuale.
Mentre la storia avanza, l’ebreo non avanza su una linea diritta, lasciando il passato dietro a sé,: « Noi ci muoviamo in cerchio o, meglio, in una spirale, e perciò passiamo anno dopo anno attraverso le stesse stagioni, nelle quali avvennero gli interventi storici di Dio in favore dei nostri padri » 2
Per questo gli ebrei, quando ringraziano Dio per i miracoli che ha operato nella loro storia, non parlano dei grandi eventi dicendo « in quei giorni », ma dicono « in quei giorni, in questo nostro tempo »; ancora oggi ne sono partecipi.
Quando dunque un ebreo veglia durante l’inter notte di Shavuoth 3, scrutando la Torah, non commemora semplòicemente il dono della Torah sul Sinai, ma si prepara oggi a riceverla di nuovo. Quando a Tisha be Av digiuna, cantando lamentazioni seduto tutto il giorno per terra, egli partecipa alla tragedia della distruzione del Tempio e la rivive. Quando, a Sukkoth, vive per otto gironi con tutta la famiglia in una capanna di frasche, attraverso la quale si deve intravedere il cielo, egli non si ricorda semplicemente dei suoi padri che, guidati da Dio, vissero per quaranta anni pellegrini nel deserto, ma proclama attraverso quel segno che anch’egli è pellegrino su questa terra e che la sua sola luce gli viene dal cielo, da dove aspetta la venuta del Messia.
Tutto questo lo riassume molto bene Moshe Chaim Luzzato, rabbino e qabbalista italiano:  » Ogni impresa operata da Dio, ogni luce che brillò in un certo tempo della nostra storia, quando questo tempo ci raggiunge attraverso la memoria, lo splendore di questa luce brilla di nuovo e i frutti di quell’impresa possono essere mietuti da chiunque è presente per raccoglierli « 4.
Ogni festa dell’anno liturgico ebraico contiene dunque la propria specifica e unica emanazione di santità, e l’ebreo può così rivivere i grandi avvenimenti della sua storia e, entrando nel loro spirito, attingere forza e ispirazione per il suo cammino 5.
La prima e principale festa dell’anno – principale perché segna gli inizi del popolo ebraico ed è quindi madre di tutte le feste dell’anno liturgico, anche dello Shabbath – è Pessach, la Pasqua, che gli ebrei chiamano  » il tempo della nostra liberazione « .
Questa liberazione cade sempre di primavera, nel mese di Nissan. Ma questo non è, il mese della liberazione perché in esso avvennero i prodigi dell’esodo: i prodigi dell’esodo avvennero invece in quel mese perché così Dio l’aveva preordinato per manifestarsi e per liberare, innestando la liberazione spirituale in un fenomeno naturale di vita, festeggiato ciclicamente da tutti i popoli: la primavera.
È la stagione nella quale la natura, libera dalle catene dell’inverno, si rinnova e si riveste di nuovo splendore. Questa è la stagione della libertà nella quale risuona la voce dell’amato:  » Alzati, amica mia, vieni, mia bella, mettiti in cammino. Ecco l’inverno [della schiavitù] è passato 6.
Questa è la stagione nella quale sono state aperte le sorgenti della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto; liberazione per poter servire ed amare Dio. Queste sorgenti che si aprono nuovamente ogni anno zampillano con tutta la loro forza ogni mese di Nissan.
La schiavitù e la liberazione dall’Egitto costituiscono la pietra di fondazione di Israele; su di esse poggia tutta la sua storia. Per questo i saggi di Israele possono dire:  » Ogni periodo di esilio nella storia del nostro popolo fu prefigurato dalla schiavitù d’Egitto e ogni atto di liberazione, fino a quando giungerà quello definitivo, l’ avvento del Messia, ha le sue radici in questa redenzione originale, che avvenne durante l’eterna stagione della nostra liberazione dall’Egitto « .
Ecco perché l’ebreo nella notte di Pessach diventa partecipe di quell’intervento fondante attraverso il quale Dio stesso si scelse un popolo, lo adottò e lo strappò dal potere di un altro, dimostrando così che egli è il Signore della storia.
Entrando in questa esperienza e assorbendone gli insegnamenti, l’ebreo prepara il mondo per la venuta del Messia, aspettando l’ultima manifestazione della gloria di Dio e la liberazione definitiva del suo popolo e dell’umanità.
Come avviene questo? Quando giunge questa notte gli ebrei si siedono, famiglia per famiglia, comunità per comunità, come fecero i loro padri, attorno a una mensa addobbata con i segni della redenzione e proclamano le meraviglie che Dio ha operato per loro; poi mangiano e bevono (consumando si partecipa) i segni della loro salvezza, la loro stessa liberazione.
il Seder pasquale è quindi un dono di Dio, un’opportunità che Dio offre per rivivere e non soltanto per ricordare l’esodo dall’Egitto.
Rabbi Yitzchaq Luria, il grande mistico e qabbalista 7, dice:  » Quando la Pasqua è preparata e celebrata come si deve le forze spirituali che si manifestarono durante la prima Pasqua agiscono nuovamente. Per questo il Talmud dice: « In ogni generazione uno si deve considerare come se lui stesso uscisse dall’Egitto ». Ecco perché la preparazione della Pasqua è una condizione essenziale per poter riviverla  » 8
Dice il Maharal 9:  » Ognuno si applichi con riverenza a seguire le indicazioni dei saggi che hanno fissato nella Haggadah lo svolgersi dei riti del Seder. Nessun dettaglio ci sembri di troppo, anche se ci sono molte cose attorno alla Pasqua che ci potrebbero sembrare superflue. Neanche il minimo segno, il minimo gesto è senza significato ed efficacia « .
Il Sefer Hachinuch10 aggiunge:  » Una persona è motivata per le sue azioni « .
L’esperienza del proprio esodo non può essere un esercizio intellettuale, un pio sentimento o una decisione della nostra buona volontà. Bisogna preparare e lavorare per creare un ambiente e un clima nei quali l’esodo sia evocato attraverso segni evidenti.
Questo è lo scopo del Seder pasquale. Le sue parole e i suoi segni sono intesi a provocare un’esperienza personale e comunitaria di liberazione dalla schiavitù. Perciò ogni pur minimo segno e dettaglio usato durante la notte devono essere considerati come strumenti che aiutano a raggiungere questo scopo spirituale: sono come tessere di un mosaico, indispensabili perché Dio possa comporre per l’uomo l’insieme di un disegno.
I riti del Seder e i minimi dettagli del testo della Haggadah sono stati composti con uno scopo ben preciso: aiutare a ri-sperimentare la redenzione dall’Egitto. Questo viene anche significato dal nome  » Seder di Pasqua « , cioè ordine di Pasqua: ogni minimo dettaglio della notte pasquale fa parte di un progetto unico. Perciò una serie di segni scandisce ogni tappa della notte di Pasqua. Chi è presente in questa notte viene condotto dall’esperienza di schiavitù alla gioia della libertà.
il Maharal afferma ancora: – Seguendo tappa per tappa il modello tracciato dai padri, prepariamo l’avvento della redenzione finale perché, come si è già detto, ogni Pasqua fa rivivere l’esperienza della prima liberazione e fa presagire quella successiva, fino all’ultima e definitiva liberazione « .
Quali sono i principali elementi che devono precedere il Seder pasquale?
L’annuncio della Pasqua;
La preparazione della Pasqua.
Tutta la vita dell’uomo è preparazione. La storia prepara l’umanità per il regno di Dio, per la venuta del Messia e per la risurrezione dai morti. La vita di ogni singolo individuo lo prepara per la vita eterna. Anche nella vita quotidiana dell’uomo, ogni passo importante, ogni decisione che inciderà sul futuro devono essere preparati.
Così non stupisce che prima di uscire dall’Egitto e poi, di nuovo, prima del dono della Torah, sia stato comandato agli ebrei di prepararsi per quei grandi eventi.
L’ebreo si prepara attraverso il proprio vissuto a uscire da se stesso. Quando si alza al mattino proclama:  » Preparati, Israele, all’incontro con il tuo Dio « 11. E così, di comandamento in comandamento, si prepara. Quando si alza al mattino, si lava per prepararsi alla preghiera mattutina, poi prega per prepararsi alla storia che lo aspetta lungo la giornata. Ogni giorno della settimana è preparazione per lo Shabbath. I saggi dicono:  » Chi ha lavorato prima dello Shabbath, avrà qualcosa da mangiare il giorno dello Shabbath ». Durante lo Shabbath l’ebreo si prepara per la vita eterna. Ma in nessuna occasione la preparazione viene così insistentemente sottolineata dalla Torah come a Pessach, perché a Pasqua si esce dalla schiavitù. Questa preparazione ha il suo centro attorno a un segno.

L’eliminazione di ogni lievito
Poco tempo dopo Pessach, l’ebreo si deve già dare da fare per mettere da parte, dopo la mietitura, la farina più pura e custodirla fino al Pessach successivo da ogni contatto con qualsiasi elemento che possa farla fermentare e lievitare. Tutto l’anno egli deve essere attento che nessun chametz (cibo lievitato) penetri in armadi, libri, corrispondenza, eccetera. Molte settimane prima di Pasqua tutta la famiglia comincia a pulire ogni angolo e fessura della casa da qualsiasi residuo di lievito; lo conserva in uno spazio sempre più ristretto, il giorno prima di Pessach in una piccola stanza. Poi, durante la notte che precede Pessach, tutta la famiglia percorre, a lume di candela, ogni angolo della casa, per eliminare ogni minima traccia di chametz. Questo viene poi bruciato al mattino, mentre tutta la famiglia danza attorno al fuoco.

Ma che cosa significa tutta questa preparazione e precauzione?
Alcuni rabbini hanno osservato che la differenza tra la parola chametz (= lievito) e matzah (= il pane azzimo) sta nella differenza tra la lettera He e la lettera Cheth. Le altre lettere contenute nelle due parole sono uguali. E perché He e Cheth siano uguali manca solo un puntino. Quando Israele uscì dall’Egitto era così degenerato per la dura schiavitù che solo un puntino lo separava dalla morte eterna, dallo stato in cui Dio, secondo i saggi, non può più salvare l’uomo, perché ha varcato il limite della degradazione e ha perso ogni sensibilità spirituale.
Se Dio non fosse intervenuto in tutta fretta a liberarlo, Israele sarebbe rimasto in Egitto.
Infatti, la minima quantità di lievito rende chametz tutta la massa 12.Il lievito è simbolo e segno dell’istinto malvagio che abita nell’uomo. Il desiderio di annientare ogni traccia di lievito e di cibo lievitato prepara l’ebreo per la festa di Pessach, nella quale deve essere annientato ogni istinto malvagio in noi.
Il rabbi chassidico Baruch di Medzibosh diceva, mentre pronunciava la benedizione sull’annullamento dello chametz:  » Ogni lievito « , cioè tutti gli istinti d’egoismo,  » che è ancora in mia proprietà, certamente ne esistono dentro la mia anima, quello che ho visto e quello che non ho visto, penso di averli visti, ma purtroppo non li ho visti, che ho distrutto e che non ho distrutto, penso di averli distrutti, ma purtroppo non li ho distrutti, siano considerati nulla. Sii tu, Signore, a nullificarli e a distruggerli « .
Rabbi Shmuel di Sochatchov dice:  » La ricerca e il bruciare dello chametz alludono al comando di distruggere Amaleq « 13.
Lo chametz significa l’istinto malvagio, l’arroganza, la superbia, la grossolanità, la volgarità, la decadenza, la noia, la durezza del cuore e del volto e la menzogna.
La matzah invece significa l’istinto buono, la semplicità, il non avere pretese, la rapidità nell’operare il bene, la prudenza, l’umiltà e la verità.
Lo chametz è più gustoso e gradevole della matzah, più bello e più appariscente, come l’istinto malvagio, il quale tenta l’uomo con i piaceri di questo mondo, gli suggerisce e gli mette davanti agli occhi cose piacevoli…
È un precetto distruggere completamente questo chametz e perciò lo si deve cercare negli angoli e nelle fessure e in ogni luogo dove si sarebbe potuto nascondere. £ebreo deve scoprire i nascondigli dell’istinto malvagio, le sue proprietà corrosive e le sue opere cattive, per poterli distruggere e annientare.
Desiderando liberarsi dal dominio dell’istinto malvagio potrà accedere alla libertà spirituale e considererà se stesso come un redento che esce dalle impurità dell’Egitto.
Dice il Talmud:  » Nella notte del quattordici Nissan si cerchi con diligenza ogni sostanza con lievito alla luce di una candela « .
Così, a partire dalla prima notte del suo quattordicesimo anno, giorno in cui il giovane ebreo ha celebrato la sua Bar-Mitzvah, egli è tenuto a cercare il lievito in sé e a combattere l’istinto malvagio  » con la candela del comandamento e con la luce della Torah  » 14.
Che cosa viene considerato chametz = lievitato?
Qualsiasi seme o farina dei cinque tipi di cereali nominati nella Bibbia.
Quando uno di questi entra in contatto con l’acqua per il tempo necessario a lievitare – cioè otto o dieci minuti -, a meno che venga impastato e subito infornato, è considerato chametz. È assolutamente vietato mangiare, utilizzare o conservare questo chametz nella propria casa durante i sette giorni della festa di Pasqua. Qualsiasi prodotto che contenga la minima componente dei cinque tipi di cereali è chametz15.
Si capisce così il vero senso di tutta questa preparazione: prima di sedersi alla mensa del Seder per lasciarsi penetrare dallo spirito di Pessach, bisogna rimuovere ogni briciola di chametz dalla propria casa come segno che si desidera rimuovere dalla propria vita e da sé quello che significa lo chametz.
Il Talmud fa derivare l’obbligo di cercare lo chametz di notte alla luce di una candela da questo versetto del libro dei Proverbi:  » L’anima dell’uomo è come una luce del Signore, che scruta tutte le stanze del cuore « 16.
A ovvio che c’è un significato molto profondo che viene espresso attraverso la ricerca dello chametz: è la ricerca nel proprio io.
Rabbi Pinchas di Koretz così spiegava l’affermazione del secondo libro dei Re:  » Difatti una Pasqua simile non era mai stata celebrata dal tempo dei Giudici per tutto il periodo dei re di Israele e dei re di Giuda » 17: questo allude alla distruzione degli altari pagani e di ogni luogo di idolatria, operata da Giosia dopo questa Pasqua. Egli eliminò veramente tutto il lievito.
 » Portare alla luce il nostro chametz, cioè ogni idolatria che abita in noi, perché il Signore in questa santa notte passi, ci trascini con sé e così ci dia la forza di rinunciarvi: questo è il significato profondo della preparazione pasquale « .

Punto di Partenza: la liberazione
 » Ogni anno liturgico viene a noi per chiamarci a rinnovare il nostro servizio di Dio e ogni giorno dell’anno incide in questo rinnovamento. La chiave del nostro rinnovamento è la nostra coscienza dell’amore di Dio, re dell’universo, che si manifestò al mondo nell’esodo, facendo di noi il suo popolo. Per questo anche la nostra preghiera quotidiana ricorda la nostra liberazione dall’Egitto. Il riposo sabbatico, in particolare, è un memoriale della nostra liberazione dalla schiavitù che Dio operò con miracoli e segni, con i quali si fece conoscere come Creatore e Signore dell’universo « 18.
Il versetto:  » Ha lasciato un memoriale delle sue meraviglie, pietoso e misericordioso è il Signore « 19 viene interpretato da Rashi in questo modo:  » Poiché Dio è pieno di amore e compassione e desidera che i suoi figli siano santi, ha dato loro dei sabati e delle feste perché possano fare un memoriale della schiavitù in Egitto « .
Ma la festa di Pessach è innanzi tutto il pozzo e la sorgente di ogni liberazione. È in questo giorno che possiamo ri-sperimentare il principio della manifestazione di Dio e la creazione del popolo ebraico come nazione libera.
 » Tutte le altre feste hanno il loro punto di partenza nella Pasqua. La libertà ottenuta attraverso l’esodo è sviluppata a Shavuoth (Pentecoste) attraverso il dono della Torah e trova la sua espressione finale a Sukkoth quando l’ebreo, costruendo una capanna di frasche, esce da questo mondo temporale e si trasferisce nella Sukkah, che rappresenta le ali della Shekinah (l’Emmanuele, Dio con noi) « 20.
La Pasqua segna l’inizio del regno di Dio su Israele, e la sua celebrazione porta con sé un frutto meraviglioso:  » Che tu ricordi il giorno in cui sei uscito dal paese d’Egitto per tutti i giorni della tua Vita « 21.
 » L’influsso della Pasqua perdura per tutto l’anno come fondamento di tutti i comandamenti, e per questo uno deve osservare i comandamenti per la Pasqua con totale dedizione « 22.

I tre segni principali: Agnello Matzah e Maror
Tutto il Seder pasquale gira da sempre attorno ai tre comandamenti che segnarono la prima notte di Pasqua in Egitto:
l’agnello pasquale,
la matzah e
il maror (le  » erbe amare « ).
Ora come allora, questi comandamenti  » Obiettivi  » (non si tratta di comandamenti morali o divieti, ma di fatti da preparare, da proclamare, da indicare ben visibilmente e da mangiare) formano il nucleo del Seder pasquale. Certo, si sarebbe potuto concepire una celebrazione basata unicamente sul racconto degli eventi, ma l’uomo è plasmato dalle proprie azioni più che da idee, speculazioni filosofiche e ideologie.
Perché Pessach sia un’esperienza significativa piena di efficacia e non un semplice ricordo, essa richiede un’azione concreta: l’obbedienza ai precetti pasquali.
I saggi di Israele sottolineano che i padri furono redenti dall’Egitto in virtù della loro obbedienza ai comandamenti dati da Mosè per la Pasqua. Non furono liberati per merito di una grande fede – infatti stavano per varcare la quarantanovesima e ultima porta della degradazione, dopo la quale neanche Dio poteva più intervenire – e neanche per una loro azione morale o sociale, ma per una semplice e  » stupida  » obbedienza alla parola di un altro, Mosè 23, che parlava a nome di Dio.
Il Midrash racconta che furono soltanto i più poveri, così abbrutiti da non avere altra speranza di questa notte promessa, che obbedirono, mentre tutti gli altri Israeliti perirono con i primogeniti o rimasero in Egitto.
Ora capiamo perché la Haggadah vieta di dire:  » Per quello che il Signore ha fatto per me « , se l’agnello (dopo la distruzione del tempio e la cessazione dei sacrifici, significato da un osso di gallina o di agnello), la matzah e le erbe amare (maror) non sono esposti sulla mensa.
La matzah è oggi il segno più importante e unisce l’esilio alla redenzione.
Da un lato è lechem oni, il pane dell’umiliazione e della povertà, che in Egitto veniva mangiato dagli schiavi, i quali non potevano aspirare a un pane migliore 24; dall’altro è il segno della libertà, perché quando scoccò l’ora della liberazione, tutto si svolse con tale rapidità che gli ebrei non ebbero neppure il tempo di far lievitare il pane e uscirono con le loro provviste di pane azzimo non cotto. La caratteristica principale della matzah è l’assenza di ogni lievito; il lievito fa crescere la pasta e le dà gusto ed è perciò il segno dell’autoaffermazione, dell’oppressione e del peccato. Come schiavi del faraone, gli ebrei, se desideravano la liberazione, non avevano altra scelta che umiliarsi e sottomettersi a Dio.

Preparazione delle Matzoth
Il frumento per le matzoth viene macinato almeno quattro settimane prima di Pessach.
Per evitare ogni lievitazione, non deve essere vecchio, né deve aver avuto contatto con la minima goccia d’acqua. Il mulino nel quale viene macinato deve servire solo per il frumento destinato alla cottura delle matzoth; la pietra del mulino deve essere ogni anno nuovamente levigata, l’imbuto sopra la pietra va acquistato nuovo ogni anno, così i contenitori, i sacchi e tutto ciò che occorre per la conservazione, la macinazione, la cottura e la consumazione delle matzoth. Tutto questo processo viene fatto sotto la stretta sorveglianza di uomini pii e dotti.
La stessa acqua che serve per impastare le matzoth dev’essere acqua pura di fontana o di sorgente e, prima di usarla, tra il tramonto e l’alba – la confezione delle matzoth deve avvenire di preferenza di notte, per evitare ogni calore, agente di lievitazione – deve essere attinta con un mestolo nuovo, passata attraverso un panno nuovo e versata in un altro recipiente che serve unicamente per l’impasto delle matzoth. Se si impasta la matzah di giorno, si deve badare che nessun raggio di sole tocchi il tavolo, la farina, l’acqua o l’impasto. Mentre si impastano le matzoth non ci si deve fermare neanche un momento.

Pessach nel Santo Tempio – il sacrificio dell’Agnello
A Pessach ogni ebreo doveva offrire il sacrificio pasquale nel Tempio di Gerusalemme. Così, tra le grandi feste di pellegrinaggio a Gerusalemme, Pessach, Shavuoth e Sukkoth, Pessach era quella che attirava il più grande numero di pellegrini. Centinaia di migliaia di ebrei venivano da tutti gli angoli della terra di Israele per radunarsi in quella occasione.
Il Talmud racconta:
Un mese prima di Pessach si riparavano tutte le strade che conducevano a Gerusalemme e si riempivano tutte le cisterne e i pozzi lungo il cammino per garantire ai pellegrini l’acqua necessaria durante il loro viaggio verso la città santa.
Gerusalemme stessa si preparava febbrilmente per ricevere il popolo che affluiva. I pellegrini si contavano per centinaio di migliaia ma, cosa stupefacente, c’era posto per tutti nella città e mai qualcuno ebbe a lamentarsi di non aver trovato un buon alloggio. La gioia e l’entusiasmo del popolo non conoscevano limiti.
Il sacrificio dell’agnello pasquale, l’evento più solenne della festa, avveniva durante il pomeriggio della vigilia di Pessach.
Ogni famiglia numerosa aveva preparato un agnello, che sorvegliava attentamente durante diversi giorni, affinché nessun incidente lo rendesse improprio al sacrificio. Le famiglie più piccole si organizzavano in comunità di famiglie per offrire il sacrificio comune, poiché la Pasqua prescrive che tutta la carne dell’agnello deve essere consumata durante la notte di Pessach. Le comunità familiari e quelle spirituali (chaburot) erano migliaia ma, nonostante il loro numero, tutti riuscivano a offrire il sacrificio pasquale in quel pomeriggio (cfr. Mc 14,12).
Il sacrificio si svolgeva così: la moltitudine dei fedeli veniva divisa in tre gruppi, ammessi successivamente nel grande cortile del tempio.Dopo l’entrata del primo gruppo, le pesanti porte venivano chiuse. Tre suoni di tromba annunciavano l’inizio dei sacrifici. I sacerdoti, muniti di bacini d’oro e d’argento, si disponevano in diverse file che si dirigevano all’altare, i sacerdoti muniti di bacini d’oro in file distinte da quelle dei sacerdoti muniti di bacini d’argento. Immediatamente dopo lo scannamento dell’animale (shchitah), il sacerdote più vicino al sacrificio riceveva il sangue dall’israelita che aveva sacrificato accanto a lui e passava il bacino al sacerdote sul gradino superiore e così via fino all’altare sul quale veniva versato il sangue. I bacini avevano una forma particolare: erano stretti in basso, in modo che non potevano essere posati per terra senza rovesciarsi. I sacerdoti dovevano perciò passarli di mano in mano, senza versare una goccia di sangue. Bisognava fare presto per evitare il coagularsi del sangue. La destrezza e la velocità dei sacerdoti erano uno spettacolo stupendo. Dopo che il sangue veniva sparso sull’altare, alcune parti dei sacrifici (il grasso e le viscere) venivano bruciate sull’altare.
Appena il primo gruppo aveva terminato, veniva ammesso per il sacrificio il secondo e, finalmente, il terzo.
Durante i sacrifici, tutti i fedeli, diretti dai leviti, cantavano salmi di lode. Poi si arrostivano gli agnelli pasquali, come prescrive la Torah (TalmudB Pessachim 64a).
Quando giungeva la notte, ogni comunità di famiglie che aveva offerto il comune sacrificio si radunava in casa per celebrare il Seder secondo un rito peraltro molto simile a quello che celebriamo adesso. Avendo partecipato nel tempio al sacrificio stesso, non mettevano sul piatto del Seder l’osso disossato che ricorda oggi la mancanza del sacrificio a causa della distruzione del tempio, ma disponevano sulla mensa la carne arrostita dell’agnello sacrificato.
Si celebrava allora il Seder con i quattro segni sacramentali principali: agnello, matzah, maror e le quattro coppe di vino. Gli altri simboli (uovo, Charoset, lattuga) furono aggiunti dopo la distruzione del tempio.
Che gioia regnava in quei giorni a Gerusalemme! Molti gentili venivano da ogni parte del mondo per assistere alla meravigliosa celebrazione della Pessach nella città santa (Gv 12,20; At 2,5-11).
Nei nostri giorni, celebrando il Seder nell’esilio e ricordandoci di quei giorni gloriosi, quando il tempio si ergeva ancora in tutto il suo splendore, proclamiamo:  » Quest’anno qui (nell’esilio), ma desideriamo celebrare Pessach l’anno prossimo nel tempio, a Gerusalemme!  » Concludiamo infatti il Seder con le parole:  » L’anno prossimo a Gerusalemme! « 

Il Seder può iniziare
Quando, la prima sera di Pessach, gli uomini tornano dalla Sinagoga, appena entrati in casa, sono avvolti dall’atmosfera calda e unica di quella festa.
La madre pronuncia la benedizione sulla luce. In mezzo alla stanza migliore brilla la mensa, coperta da una tovaglia bianca e ricamata, apparecchiata con i segni pasquali. La stanza è illuminata il più possibile, e anche il capofamiglia  » brilla  » vestito del suo kittel bianco, nel quale un giorno verrà rivestito da altri, in attesa di presentarsi al suo Dio per la risurrezione e il giudizio universale. Indossa la kippah di seta bianca ed è cinto di una corda bianca, come lo furono i nostri padri in Egitto, pronti ad essere guidati dall’inviato di Dio, Mosè, dalla schiavitù alla libertà.
Pieni di stupore e meraviglia, i bambini contemplano la mensa e tutti i segni particolari che caratterizzano questa notte. Davanti ad ognuno dei commensali è posta una Haggadah di Pasqua ed una coppa.
Durante il Seder quattro coppe di vino berrà ognuno, piccolo o grande, ricco o povero, uomo o donna. Anche il vino è stato preparato con la stessa cura prestata alle matzoth. Ogni volta che si beve alla coppa – e si berrà almeno quattro volte – la coppa deve essere vuotata. Si beve con la destra, appoggiati sul fianco sinistro, come banchettavano gli uomini liberi al tempo dei Romani.
Come un grande  » mistero « , il piatto del Seder è posto davanti al padrone di casa, che ne svelerà i significati.
Vi sono poste tre matzoth, ognuna separata dall’altra da una tovaglia di lino. Sul piatto sono posti la lattuga, frutto della terra, il maror, l’erba amara, il charoset, un dolce in forma di mattone, un uovo sodo e un osso di agnello o di gallina spolpato.

Raccontare l’Esodo
 » …Perché tu possa raccontare nelle orecchie di tuo figlio e di tuo nipote quello che ho operato in Egitto, i segni che ho compiuti in mezzo a loro e così conoscerete che io sono il Signore « 25
I segni dell’agnello, della matzah e delle erbe amare sono la base per il racconto dell’Esodo. I rabbini leggono le parole « pane dell’umiliazione » anche come « pane sopra il quale si dicono molte cose »26.
La matzath e il maror devono essere ben visibili sulla mensa, ma prima di mangiarli, l’ebreo deve parlare dell’uscita dall’Egitto.
La stessa parola  » Pessach  » è stata intepretata dai rabbini: pe sach =  » la bocca parla « , sottolineando l’importanza di esprimere l’evento in parole. Come un semplice parlare di questi grandi eventi non basta, così neanche il segno da solo è sufficiente. Unicamente l’unità tra il fatto e l’articolazione in parole del suo significato conferisce alla notte pasquale il potere di riprodurre nell’assemblea gli antichi prodigi.
Il comando di parlare della liberazione dall’Egitto implica il racconto di tutti quegli eventi nella loro unicità miracolosa.
Ma perché proprio quelli e non altri interventi di Dio, come, per esempio, il dono della Torah sul Sinai o la conquista della Terra Promessa?
Perché l’esodo è il fondamento di tutto. perché l’esodo è una nuova creazione, l’inizio della storia di Israele come popolo di Dio attraverso l’intervento amoroso e totalmente gratuito di Dio nella storia dell’umanità; l’esodo è la manifestazione della regalità di Dio su tutte le nazioni.
Attraverso questa redenzione fu rivelato a Israele e a tutti i popoli che solo a Dio appartengono il regno, il potere e la gloria in cielo e in terra.
Il faraone, all’apice del suo dominio sull’impero più civilizzato del suo tempo, fece una domanda che risuona fino ad oggi nella storia dei popoli e di ogni individuo: – Chi è perché io debba ascoltare la sua voce?  » 27.
Dice il Ramban:  » Gli eventi e le circostanze dell’esodo sono una parola eterna per ogni faraone e per tutta l’umanità: « lo sono, il Signore, in mezzo alla terra, non un Dio astratto, che abita in un cielo distante, ma mia è la terra 28 e ne posso disporre secondo la mia volontà ». Dio, sposando sul Sinai il popolo che si è riscattato, dice di se stesso: « Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù. Non avrai altri dèi di fronte a me29.
 » Nell’evento liberatore dell’Egitto, Dio si è manifestato come l’unico vero sposo « 30.
Per questo l’ebreo deve parlare di ognuno degli eventi dell’esodo fin nei più minuti dettagli ed entrare nei loro significati storici e spirituali per poterli sperimentare nella propria esistenza. Questi eventi sono il fondamento e il presupposto di tutta la sua storia.
Finché gli uomini rifiuteranno di riconoscere la fragilità del proprio potere e i limiti di ogni loro impresa, il racconto dell’esodo ricorderà sempre che l’uomo è argilla nelle mani del suo Creatore e che la sua vita dipende da Dio. Per questo l’Aggadah di Pasqua insiste che  » più uno parla dell’esodo dall’Egitto, più è meritevole di lode « .

Domanda e risposta
Dobbiamo porre l’attenzione su un altro aspetto unico che caratterizza il Seder pasquale: il dovere di parlare dell’esodo deve compiersi attraverso domande e risposte tra il padre e i figli.
 » Quando tuo figlio domani ti domanderà: « Che significa ciò? » ‘ tu gli risponderai: « Con braccio potente il Signore ci ha fatto uscire… « 31.
Perché questa insistenza sulla formulazione di domande? Solo colui che veramente si pone delle domande sarà interessato alla risposta.
Esiste una domanda fondamentale che ognuno si deve fare ogni volta che ascolta la Parola di Dio:  » Che cosa mi dice con questa Parola il Signore? « .
La notte di Pessach è una meravigliosa occasione per porsi questa domanda e il fatto di porla al proprio padre è un mezzo per risvegliare la coscienza dei figli e di tutti i presenti32.
Celebrare il Seder nella cerchia familiare è l’esperienza dell’Egitto, quando gli Israeliti si radunarono nelle loro case attorno a  » un agnello per ogni famiglia, uno per ogni casa  » 33. Lo stesso modo di celebrare è già una dimostrazione di libertà. Come schiavi non potevano vivere una normale vita familiare e ora potevano radunarsi nella propria casa, mentre fuori si compiva il giudizio di Dio sull’Egitto. Gli schiavi non conoscono una relazione padre-figlio, i figli di uno schiavo non gli appartengono.
Ma c’è di più. l’esodo è l’evento in cui Dio Padre si scelse una famiglia 34. La liberazione dall’Egitto segna la nascita degli ebrei come nazione, unita da un legame particolare dei figli con il padre.  » Israele è il mio primogenito « 35
investito da lui di una missione particolare e benedetto con l’indistruttibilità.
 » Così come Dio al principio creò dal nulla mondo perfetto, così ha creato dal nulla la sua esistenza il suo popolo. Israele non è frutto di un processo evolutivo, come avviene per tutti i popoli, ma creazione di Dio, che sfida ogni legge della natura e della storia « 36.
Dice rabbi Samson Rafael Hirsch:  » Fu introdotta una nazione in mezzo a tutte le altre, che doveva dimostrare con la sua vita e il suo destino che Dio è l’unico fondamento della vita e che il vero senso della vita è il compimento della volontà di Dio. La Torah è l’unico legame che unisce questo popolo. Dio dovette dunque scegliere un popolo, al quale mancava tutto quello sul quale l’umanità costruisce la propria grandezza e il proprio potere… Per questo fu tolto alla famiglia di Giacobbe tutto ciò che fa di un popolo un popolo e di un uomo un uomo: la terra, la dignità, la libertà, infine la vita familiare. Doveva diventare popolo attraverso l’esodo in modo del tutto nuovo, dalle stesse mani di Dio « 37.
La Pasqua, quindi, è il natale del popolo ebraico. Ora si capisce perché Israele conta i mesi dell’anno cominciando dal mese di Nissan. Questo spiega anche una differenza sostanziale tra la celebrazione della Pasqua e la celebrazione di tutti gli altri grandiosi eventi della storia ebraica. In nessun’altra occasione l’ebreo è tenuto con un comandamento esplicito a raccontare i prodigi operati da Dio. In nessun’altra festa la Torah chiede una preparazione così meticolosa e segni così particolari ed evidenti da osservare rigorosamente.
 » È Pessach che ha operato la nascita di Israele; perciò le leggi per la conversione al giudaismo sono derivate dagli eventi dell’esodo. È da allora che esistono ebrei. Per questo i segni che iniziano alla comprensione di Pessach e parlano dell’evento pasquale devono essere assolutamente chiari e non si può tollerare la minima impurità « 38.
La notte del Seder viene celebrata in famiglia, perché la continuità di una nazione ha le radici naturali nella famiglia. Se comprendiamo questo, comprendiamo anche il comando di riunirsi per famiglie in Egitto che dura fino ad oggi. Fino alla venuta del Messia la famiglia o la comunità ebraica si radunerà la notte per il Seder. Notte in cui, ogni anno, un padre deve nuovamente parlare ai figli, per renderli pienamente coscienti delle loro origini e per aggiungere un nuovo anello alla ininterrotta catena della tradizione.
I figli fanno l’esperienza degli eventi della Pasqua in un ambiente che li colpisce, perché raccontare quello che si è sperimentato lungo tutta la storia non è il racconto di una leggenda ma la testimonianza di un fatto storico esperienza di tutto un popolo.
padre non parla ai figli come un individuo privato, debole e mortale, ma come il rappresentante di una nazione che parla con autorità. I presenti sono testimoni che trasmettono la fede di Israele ai loro figli.
Nella notte di Pasqua l’ebreo sfida le forze della  » normalità « , rappresentate dalle nazioni del mondo e, per poter fare questo, Dio lo ha creato indistruttibile. Come popolo di Dio deve dimostrare al mondo che la normalità non è altro che un’illusione e che  » l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio « 39.

Dalla schiavitù alla libertà
 » … E ti celebreremo per il nostro riscatto e la redenzione della nostra anima  » (Haggadah).
Trasmettendo il messaggio di Pasqua ai suoi figli, il padre segue anche un’altra indicazione della tradizione:  » Cominci con la parte umiliante della nostra storia e concludi con quella gloriosa « .
Anche questo aiuta a sperimentare la liberazione dall’Egitto. Senza alienarsi, l’uomo deve avvertire e riconoscere i propri limiti e le proprie schiavitù in tutta la loro concretezza. Solo così può realmente apprezzare con gratitudine la propria liberazione e prendere a cuore i suoi insegnamenti.
Per questo, i segni del Seder esprimono sia schiavitù sia libertà e ci aiutano a uscire dal- le nostre proiezioni e a entrare nella nostra vera storia. Entrando in essa con Dio possiamo uscire dall’Egitto verso la libertà.
 » I bambini che osservano tutto quello che succede in questa notte sono aiutati dai segni a domandare: « Perché questa notte è diversa da tutte le altre notti? ». Vedono, palpano e gustano la schiavitù attraverso le erbe amare e il pane dell’afflizione e gustano la libertà bevendo dalle quattro coppe della salvezza e mangiando appoggiati sul gomito. Alle loro domande il padre risponde che in questa notte sperimentiamo i due estremi: schiavitù e libertà « 40.
Ma qual è il significato di questa schiavitù e di questa libertà? Si tratta solo di una liberazione politica o essa ha un significato più profondo? Su questo la Haggadah ci riferisce due opinioni: Rav ritiene che il racconto debba iniziare partendo dalla schiavitù d’Egitto 41. Shmuel invece lo fa iniziare dalle origini, dalla schiavitù dell’idolatria del clan di Abramo e le accetta entrambe. Prima si risponde:  » Siamo stati schiavi in Egitto « , poi si approfondisce andando indietro nella storia fino alle origini:  » In principio i nostri padri erano adoratoti di idoli  » 42.
Questo sottolinea due aspetti dell’esperienza storica di Israele. Da un punto di vista puramente socio-politico si fa presente la schiavitù fisica e la liberazione. Ma perché essere grati a Dio per questa liberazione se è lui stesso che l’ha decretata 43 e vi ha sottoposto Israele?
Questa domanda riceve risposta se si guarda alla schiavitù d’Egitto sotto una prospettiva più profonda e spirituale. Dalle origini Israele, come tutti gli altri popoli, fu schiavo della paura della morte e dell’egoismo, la forma più profonda e distruttrice della schiavitù. Dominato dalla paura della morte, Israele non poteva diventare il popolo di Dio, l’araldo del suo messaggio liberatore al mondo.
 » Solo buttato nella fornace d’Egitto ed essendone tratto fuori miracolosamente (« Vi ha fatto uscire dal crogiolo di ferro, dall’Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come siete oggi »)44 Israele poté essere illuminato e condotto a vette spirituali che lo liberarono dalla schiavitù originale dello spirito « 45.
La Haggadah parla, quindi, di una duplice schiavitù e Maimonide, dando indicazioni al maestro del Seder, le riassume così:  » Il padre deve cominciare col raccontare che in principio, ai tempi di Terach e prima di lui, i nostri antenati erano idolatri che andavano dietro a vanità e si sviavano dietro agli idoli e deve terminare con la vera fede, cioè che Dio ci ha portati vicino a sé, ci ha separati da tutti gli altri e ci ha condotti a riconoscere la sua unicità. Allo stesso modo il padre cominci spiegando che fummo schiavi del faraone in Egitto, raccontando tutto il male che egli ci fece e terminando con i miracoli e le meraviglie che Dio operò per noi e per la nostra liberazione « .

Le quattro coppe, le quattro notti…
 » Nella notte di Pasqua tutto quello che avvenne in Egitto si rinnova e risorge. E questo affretta l’ultima redenzione « 46 .
Mentre Dio entra in comunione con Israele attraverso i segni della schiavitù (la matzah spezzata e il maror) che egli ha assunto ( » Sarò con lui nell’oppressione, lo libererò e lo glorificherò « ) 47, Israele entra in comunione con Dio attraverso i segni della libertà e del regno di Dio: la seconda e terza matzah della provvidenza nel deserto e le quattro coppe.
Perché quattro coppe? Perché la salvezza, lungo la storia della salvezza, si è manifestata attraverso molte salvezze. Per questo il Salmi dice:  » Alzerò la coppa delle salvezze (kos ye shuoth) e griderò il nome del Signore « 48.
Tra le innumerevoli salvezze operate da Dio ce ne sono però quattro fondamentali dalle quali derivano tutte le altre.

Il documento pasquale più antico che ne parla è il Targum Onkelos a Es 12,42:

(Nella traduzione dall’Aramaico di P. Giovanni Odasso):

 » Notte di veglia fu questa per il Signore, per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione.Notte predestinata e preparata per la redenzione nel nome del Signore, al tempo della liberazione dei figli di Israele, redenti dalla terra d’Egitto.

 » In realtà, quattro notti sono scritte nel libro dei memoriali.
 » La prima notte quando il Signore si manifestò sul mondo per crearlo: « Il mondo era deserto e vuoto e la tenebra si estendeva sulla superficie dell’abisso, ma il Verbo del Signore era la luce e illuminava. Ed egli la chiamò: notte prima49 .
 » La seconda notte quando Il Signore si manifestò ad Abramo dell’età di cento anni, mentre Sara sua moglie, aveva novanta anni, affinché si compisse ciò che dice la Scrittura: « Certo Abramo genera all’età di cento anni e Sara partorisce all’età di novant’anni » 50. Isacco aveva trentasette anni quando fu offerto sull’altare. I cieli si abbassarono e discesero e Isacco ne contemplò le perfezioni e i suoi occhi rimasero abbagliati per le loro perfezioni. Ed egli la chiamò: notte seconda51.
 » La terza notte quando il Signore si manifestò contro gli egiziani durante la notte: la sua mano uccideva i primogeniti d’Egitto e la sua destra proteggeva i primogeniti di Israele per compiere la parola della Scrittura: « Israele è il mio primogenito » 52. Ed egli la chiamò: notte terza53 .
 » La quarta notte quando il mondo giungerà alla sua fine per essere redento. Le sbarre di ferro saranno spezzate e le generazioni degli empi saranno distrutte. E Mosè salirà dal deserto e il re messia dall’alto: l’uno camminerà alla testa del gregge e l’ altro camminerà alla testa del gregge e il suo Verbo camminerà in mezzo a loro ed essi cammineranno insieme54.
 » È la notte di Pasqua nel nome del Signore notte predestinata e preparata per la redenzione di tutti gli Israeliti in ogni loro generazione. »
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Raccontare il cammino dalla schiavitù alla libertà suscita riconoscenza a Dio, lode e benedizione per tutto quello che egli ha compiuto. Israele alza le quattro coppe, cantando l’Hallel 55, e così si fanno rivivere i canti di lode che gli ebrei cantavano uscendo dall’Egitto.
La Redenzione futura
Questo cammino di liberazione, che ha avuto inizio con la fede di Abramo, ha raggiunto il suo termine? Guardiamoci intorno, guardiamo in noi stessi, e la risposta sarà chiaramente: no!
E così nella notte di Pasqua Israele gioisce per l’alba della liberazione dall’Egitto e per l’amore liberatore di Dio nella sua storia, alzando lo sguardo verso l’ultima e piena redenzione che deve ancora venire. Questa è la speranza, l’attesa di questa notte: la certezza che, rivivendo gli eventi dell’esodo e consacrandosi nuovamente al Signore, che allora si manifestò come fonte di ogni libertà, si apriranno, oggi, le sorgenti della salvezza e metteranno in movimento le acque che aprirono per far passare Israele attraverso mare della morte. Vicina è la notte della liberazione definitiva!
Iella notte di Pasqua, Israele volge lo ardo verso due eventi: la liberazione dall’Egitto e la redenzione definitiva. Quando Dio ò a Mosè dal roveto ardente, gli disse:  » Io sarò colui che sono  » 56. Il Midrash spiega questo come una promessa:  » lo sarò con loro in questo tempo di sofferenza, come sarò con loro quando saranno schiavi di altri poteri « .
La stessa promessa la fa il profeta Michea:  » Proprio come quando uscisti dall’Egitto ti mostrerò cose prodigiose « 57. Ma la redenzione che aspetta non sarà una semplice conseguenza dell’esodo: l’esodo è preludio della redenzione finale e messianica. Per questo il Talmud dice che quando il Messia verrà, l’uscita dall’ Egitto passerà in secondo piano »58.
Nella liberazione dall’Egitto in quella remota .notte di Pasqua si trova il seme di ogni salvezza futura.
Israele esprime questi due Poli (Esodo e attesa del Messia) che animano tutta la notte con il canto dell’Hallel, che è diviso in due parti.
I primi due salmi, che si riferiscono direttamente all’uscita dall’Egitto, vengono cantati prima del pasto e segnano la fine del racconto dell’esodo; gli altri salmi, tutti rivolti alla lode di Dio, sono cantati dopo il pasto, quando Israele guarda al futuro, alla redenzione che viene al Messia, con in bocca ancora il gusto della matzah conservata e nascosta, dell’afikoman, segno della liberazione definitiva. Il Seder, inteso così, si divide in due parti: dal Qiddush al pasto fa memoriale del passato, attualizzandolo; dal pasto fino alla fine del Seder guarda al futuro invocando la venuta del Messia:

Maran atha! Vieni, Signore!
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NOTE

1. Così anche la Pasqua cristiana
2. Rabbi E. Dessler; Mikhtav mi Eliahu
3. La festa del dono della Torah, celebrata sette settimane dopo Pessach, che corrisponde alla
Pentecoste cristiana
4. Derekh hashem di rabbi Moshe Chaim Luzzato (il Ramchal), Padova 1707 – Akko 1747
5. Sfath Emeth, di rabbi Jehudah Arye Leib Alter di Ger (1847 – 1903)
6. Ct 2,10-11. Molti chassidim terminano il Seder cantando, fino all’alba il Cantico dei Cantici
7. Yitzaq Luria (Safed 1534 -1572)
8. bTalm. Pessachim 116b
9. Maharal, rabbi yehudah Loeve di Praga (poznan 1528-1609), I pozzi dell’esilio
10. Sefer Hachinuch, attribuito a rabbi Aharon ha-Levi (il Reach 1235-1300)
11. Cfr. Es 12,1-28; 19, 1-15; Am 4,12
12. Cfr. 1Cor 5,6 ss.
13. Amaleq, Cfr. Es 17,14-16
14. Cfr. Prv 6,23
15. bTalm. Pessachim
16. Prv 20, 27
17. 2Re 23, 22-24
18. Ramdam (Maimonide, Cordova 1135 – Cairo 1204). Commento a Dt 5,15
19. Sal 111,4. Questo salmo viene cantato duranto lo Hallel del Seder
20. Affermazione del Maharal, rabbi Yehudah Loeve di Praga (Poznan 1528-1609), nella sua opera
I pozzi dell’esilio
21. Dt 16,3
22. Zohar
23. La stoltezza della predicazione
24. Per questo il pane è schiacciasto, insipido, non si gonfia, significando una vita senza gusto. La
matzah, fatta a mano, è rotonda, a singnificare il cerchio della schiavitù nel quale gli ebrei erano
rinchiusi senza via d’uscita
25. Es 10,42
26. La parola oni = umiliazione, può intendresi anche « rispondere, parlare »
27. Es 5,2
28. Lv 25,33
29. Es 20,2-3
30. Nachmanide (Rambam, Gerona 1194 -Palestina 1270)
31. Es 13,14
32. È commovente incontrare lo stesso schema di domanda e risposta nei capitoli 13-17 del
vangelo di Giovanni. In Giovanni il clima della Cena Pasquale non viene evocato, come nei
sinottici, da un racconto succinto del Seder pasquale, ma proprio attraverso questo fiducioso
rapporto di domanda e risposta tra padre e figli che è tipico del Seder
33. Es 12, 3-4
34. Cfr. Sal 68,6-7
35. Es 4,22
36. Maharal, I pozzi dell’esilio
37. Samson Rafael Hirsch (1808-1888), Commento alla Torah
38. Maimonide
39. Dt 8,3
40. Abarbanel
41. Cfr. Dt 6,21
42. Cfr. Gs 24,2
43. Cfr. Gn 15,13
44. Dt 6,21
45. Maggid di Dubno (Setil 1741 – Dubno 1804)
46. Moshe Chaim Luzzato
47. Sal 91,15
48. Sal 116,13
49. Qiddush (prima coppa; cfr. Lc 22,14-18)
50. Targum a Gn 18,12
51. Seconda coppa
52. Es 4,22
53. Terza coppa (cfr. Lc 22.19-20: l’esodo dall’Egitto si compie nell’esodo di Gesù)
54. Manca testo. Si può però immaginare Mosè da un lato, Elia dall’altro e il Messia (la Parola) tra i
due (cfr Lc 9, 30-31)
55. Lo Hallel, Salmi 113-118 e Salmo 136: « Il grande Hallel »
56. Es 3,14
57. Mi 7,15
58. bTalmud Berachot 12b
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1 Tratto dal saggio introduttivo di Daniel Lifschitz dal volume: Sholem Aleichem, Mendele Mokher Sforim, Yitzchaq Leib Peretz, Le feste ebraiche – 3. Pessach – Pasqua, Ed. Paoline, 2001

Publié dans:ebraismo, Pasqua |on 3 mai, 2011 |Pas de commentaires »

PRIMO LEVI: SE QUESTO È UN UOMO

forse l’ho già messo, ma a volte desidero rileggere, dal sito:

http://www.commentiamo.com/2009/01/se-questo-un-uomo.html

PRIMO LEVI: SE QUESTO È UN UOMO

Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)

E’ fin troppo ovvio dire che in questa poesia, che fa da preludio all’omonimo romanzo, Primo Levi sollecita i lettori a riflettere sullo sterminio dei lager nazisti: lo sanno tutti. Certo, a differenza di altre poesie presenti nel blog, in questo caso è praticamente impossibile slegare il commento dal momento storico ma, considerato il fatto che purtroppo i genocidi avvengono anche ai giorni nostri, vedrò di fare una riflessione che in parte contenga anche spunti validi per ogni epoca: in fondo ogni poesia ha più valore perché è potenzialmente eterna.
La poesia apre con un appello diretto a tutti quelli che hanno la coscienza tranquilla, che vivono quasi senza prendere posizione su nulla: l’aggettivo tiepida, riferito alla casa, esprime bene questo stato di situazione intermedia, né calda né fredda, perfetta nella sua medietà, completata da cibi caldi e amicizie famigliari.
Dopo i primi quattro versi, arriva il pugno dello stomaco: considerate, dice il Primo Levi. Un verbo quasi scientifico, non dice ancora « pensateci », « dite la vostra »: invita a guardare il più oggettivamente possibile e a fare una reale considerazione di uno stato vivendi a cui è costretto un individuo. Non sta parlando dell’uomo con la U maiuscola, della specie umana, ma proprio di colui che nel campo di concentramento fatica (« il lavoro rende liberi » è il motto del lager di Auschwitz), che si ammazza per un pezzetto di pane, che non trova quiete in niente e che infine può morire per un sì o per un no. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto: un’affermazione e un diniego. Siamo lontani anni luce dal tepore sereno e neutro dei primi quattro versi, siamo davanti ad una situazione « decisa », in il libero arbitrio non trova spazio.
Dopo la descrizione dell’uomo, ecco quella della donna, privata della sua bellezza fisica e della sua memoria, annichilita persino nel suo nome e nell’istinto materno e ridotta a scheletro di rana. Uomini e donne, quindi, defraudati delle loro caratteristiche umane e rimasti soli, tristi particelle corporali da vivisezionare: il lager ha rubato l’anima è ha lasciato solo corpi sofferenti.
Successivamente alla considerazione di tale scempio, non resta che un imperativo: è giunto il momento della riflessione, il momento del ricordo. Tutto quello che prima era considerato in maniera quasi analitica, forse per precepirne quella che chiamerei « assurdità reale », deve essere portato dentro il cuore, la ragione deve elevarsi a sentimento sotteso ad ogni azione quotidiana.
E’ di nuovo un quadro famigliare quello che si presenta alla conclusione della poesia: l’inizio e la fine della giornata, il dialogo con i figli. Il comando è quello di custodire il ricordo della degenerazione umana, di ripeterselo nella mente come un rosario pagano. E’ un’esigenza imprescindibile che sfocia in una maledizione contro tutti quelli che ne negano la necessità, che chiudono gli occhi e fanno finta di niente: la condanna all’indifferenza è fortissima, o almeno sembra tale, con i suoi strali che predicono malattia e disgrazie. Ma se pensiamo all’inferno descritto prima, quello inciso nel finale è comunque un disastro minore, un terremoto dentro un paradiso di normalità.
Sotto tale luce, lasciatemi una conclusione in tono sommesso, in un quadro generico e, se vogliamo, fuori contesto: non dico che ci sarebbe di giovamento se ci cadesse il soffitto in testa in testa, ma ogni tanto possiamo provare a fare crollare la Casa del Grande Fratello, seppellire la Talpa, fare sprofondare l’Isola dei Famosi, bruciare La Fattoria. Al loro posto, un attimo di pausa, a televisore spento, per guardarci negli occhi con chi ci sta vicino e ricordarci che esiste la realtà, con i suoi aspetti più scuri e con i suoi lati più luminosi, quella realtà dove ci siamo noi e altri come noi, di qualsiasi razza e condizione, ma sempre degni di essere uomini.

Publié dans:ebraismo |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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