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LA SHOAH E LA MEMORIA : LA VALLE DELLE OSSA SECCHE

http://www.la-shoah-e-la-memoria.it/mostre/poesie.htm

LA SHOAH E LA MEMORIA

(poesie composte nei lager, o successivamente dai sopravvissuti)

LA VALLE DELLE OSSA SECCHE

In ricordo del mio amato zio Eugenio,
dello zio Jacob e di sua moglie Ilona,
dello zio Ernesto e di sua moglie Ethel, della zia Rachele,
e di tutti i miei familiari uccisi
dai nazisti ad Auschwitz

Nella valle delle ossa secche
Non vi sono tombe, non vi sono lapidi —
I resti pietrificati
Di vittime innocenti della persecuzione
Coperti da macchie di sangue
Sono disseminati ovunque,
Incutendo orrore e sgomento
Sul terreno argilloso.
Fui testimone della loro ingiusta esecuzione —
Vennero portati a forza
Nelle camere di sterminio,
Presi a calci e picchiati da pugni crudeli —
Avevano numeri tatuati sui polsi
E lo Scudo di David sui petti —
Andarono incontro alla morte
Pronunciando la preghiera sacra
Con l’ultimo respiro:
“ASCOLTA ISRAELE, IL SIGNORE È NOSTRO DIO
IL SIGNORE È UNO —”
Martiri coraggiosi della stirpe ebraica,
Membri della mia famiglia,
Compagni di prigionia,
Son passati tanti anni
Da quando ve ne siete andati —
Ma io ricordo ancora il vostro grido disperato:

“Decadranno i nostri corpi,
Marcirà la nostra carne,
Se sopravvivrai ad Auschwitz
Non lasciare, per favore, che su di noi cada l’oblio!”

La mia vita fu risparmiata
Per l’intervento di Dio,
Conosco lo scopo di quella protezione celeste:
Far ritorno con il ricordo
Della vostra sofferenza e del vostro dolore,
Far sì che non siate morti invano,
Esaudire il vostro ultimo desiderio,
Non lasciar mai perire i vostri spiriti coraggiosi —

Magda Herzenberger 

Publié dans:ebraismo, poesie, Shoah |on 15 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

1. LA TORAH SCRITTA E LA TORAH ORALE

http://www.luzappy.eu/ebra/torah.htm

1. LA TORAH SCRITTA E LA TORAH ORALE

(non conosco l’autore, ma sulla Home Page del sito c’è la foto della Sinagoga di Roma)

Due premesse.
a) Una precisazione sul significato di Torah. Il termine ebraico Torah (dal verbo jarah «istruire, ammaestrare») è stato tradotto con il greco nòmos e il latino lex. Non si tratta di una traduzione molto corretta, perché «legge» fa venire in mente qualcosa di negativo, di pesante da mettere in pratica (da qui l’idea del Dio che punisce i trasgressori). Torah significa invece «insegnamento, guida». Non si tratta quindi di leggi fondate giuridicamente, emanate da un sovrano o da un parlamento, ma di istruzioni, norme di vita e di comportamento. In senso teologico, non si tratta di qualcosa di vincolante e schiavizzante, a cui contrapporre un vangelo di liberazione («non sono venuto ad abolire la torah, ma a completarla»); si tratta piuttosto della santificazione della vita umana secondo la volontà di Dio, si tratta di un grande dono di grazia che Dio fa affinché l’uomo possa vivere in un giusto rapporto con lui. Nell’ebraismo, il termine Torah (ammaestramento, conoscenza) può indicare:
· l’istruzione umana così come è data quotidianamente
· la dottrina divina comunicata oralmente
· la dottrina divina fissata per iscritto
· i primi cinque libri della Bibbia ebraica (pentateuco).

b) L’ebraismo è accomunato al cristianesimo e all’islam per il fatto di essere una «religione del libro». Il testo scritto, però, in tutte le culture, è sempre preceduto dalla narrazione orale (si pensi ai poemi omerici), la quale poi dà luogo ad una fissazione per scritto.
Ora, se è vero che anche nell’ebraismo le cose sono andate in questo modo (e la moderna critica biblica lo ha dimostrato chiaramente), è anche vero che nell’ebraismo non si può parlare di testo scritto senza testo orale e viceversa: tra scritto e orale c’è una dialettica continua, perché, se è importante il testo, è forse più importante il commento, come mostra questo racconto tratto dal Talmud:
«Una volta un pagano si presentò davanti a Shammai e gli disse: “Voglio convertirmi a patto di imparare tutta la Torah nel tempo in cui si può stare su un piede solo”. Shammai lo mandò via spingendolo col bastone che aveva in mano. Allora si presentò a Hillel, il quale lo convertì dicendogli: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo! Questa è tutta la Torah, il resto è solo commento. Va’ e studia”» [Shabbat 31b].
L’esempio mostra come nell’ebraismo la Torah scritta non possa essere separata dalla Torah orale.

1.1. Torah scritta (Torah she-bi-khtav)
Quella che di solito, con termine greco, si chiama Bibbia, gli ebrei la chiamano TaNaK, che è l’acronimo delle tre parti di cui è costituita la Bibbia: Torah, Neviim, Ketuvim.
La Torah comprende cinque libri (Pentateuco): Genesi (bereshit: all’inizio); Esodo (shemòt: nomi); Levitico (wahiqrà: li chiamò); Numeri (ba-midbàr: nel deserto); Deuteronomio (ha-debbarìm: parole).
La Bibbia ebraica distingue tra profeti anteriori (Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re) e profeti posteriori (15 libri; i più importanti Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos, Giona). Il termine nabi (dal verbo naba «gridare, proclamare») significa all’attivo «colui che proclama» e al passivo «colui che è chiamato».
Gli agiografi (Ketuvin), a differenza dei profeti, sono definiti «parola ispirata», mentre quella dei profeti è definita «parola riferita». Ciò significa che alla base c’è una diversa intensità di ispirazione profetica. Mentre la predicazione di un profeta è il risultato di una comunicazione di Dio al profeta stesso, nei Ketuvin si può e si deve parlare di una ispirazione che fa loro affermare una certa predicazione: si tratta di persone colpite dall’ispirazione e quindi del tutto affidabili, nonostante alcuni di essi risultino piuttosto problematici. Tra i Ketuvim: Salmi (Tehillim «lodi»); Proverbi (meshalim), Giobbe, Cantico dei Cantici (Shir hashirim), Ruth, Qoelet, Ester, Daniele, Ezra, Nehemia, 1-2 Cronache. Cinque Meghillot: Cantico dei cantici a Pesach, Ruth a Shavuot, Lamentazione a Tichah be-Av, Qoelet a Sukkot, Ester a Purim.

1.2. La Torah orale (Torah she-be-al peh)
Partiamo dalla parola lettura. In italiano questo termine ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un’insegna, una lettera; oppure una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino, pur senza avere il testo davanti: è la lettura che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere (gli antichi invece leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche un ascoltare); infine, lettura significa modo di intendere e interpretare ciò che si legge.
Ora, quando noi ci occupiamo del modo ebraico di leggere la Scrittura, dobbiamo prima di tutto tener presente che in ebraico la «Scrittura» si dice miqrah, termine che significa «lettura»; esso deriva dal verbo qarah, che significa «leggere, chiamare, gridare, nominare» (dalla stessa radice semitica qr’ deriva, tra l’altro, anche il termine al-quràn, Corano). Come si vede, tutti fatti acustici. Questo ci aiuta a capire che, delle tre modalità di lettura che ho citato prima, per la Bibbia ebraica ce ne sono una che non conta e due che contano: la lettura silenziosa no; la proclamazione ascoltata e l’interpretazione sì.

1.2.1. Modalità di lettura
Uno dei primi esempi di questo tipo di lettura è presente in Neemia 8,1-8. Questa scena, avvenuta verso il 444 a.e.v. o circa cinquant’anni prima (vi sono rilevanti problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di lettura. In questo periodo il secondo tempio esisteva già (era stato infatti consacrato nel 515). Qui però avviene qualcosa fuori dal tempio, in piazza, cioè nella situazione primitiva della sinagoga (le più antiche sinagoghe erano le piazze). Infatti ci sono già i due elementi fondamentali della sinagoga: la tribuna alzata e il libro. Il centro di questa solenne seduta non è l’altare, ma il sefer («rotolo») che viene portato con la solennità che si usa quando si estrae il rotolo dall’Arca e lo si porta per la lettura. Questo rotolo contiene la legge di Dio.
Come avviene questa lettura? Prima di tutto, c’è una cerimonia di «onore al libro». Segue una benedizione. Il libro viene letto a sezioni, con l’assistenza di alcune persone. Il brano descrive una collaborazione alla lettura: «Essi leggevano nel libro»; poi si dice: «ne davano il senso per far capire al popolo quello che leggevano». Cosa sarà questo ne davano il senso (terzo significato del termine lettura di cui s’è detto sopra)? Può essere due cose contemporaneamente: facevano il targum, cioè la traduzione in aramaico (perché la gente non capiva più l’ebraico) e, al tempo stesso, ne davano un’interpretazione, una spiegazione.
Analizziamo questa scena visivamente (analizzarla all’interno della sinagoga di sabato al giorno d’oggi sarebbe la stessa cosa). In che modo l’assemblea entra in rapporto con la Scrittura o, per dirla in ebraico, con la miqrà (lettura)? Non è qualcosa di assimilabile ad un sapiente o a un non sapiente che legge e pensa a ciò che lo Spirito gli fa capire. Nell’ebraismo, al contrario, bisogna sempre usare il plurale e parlare di fedeli, di assemblea, perché il libro non può essere estratto dall’Arca e letto se non c’è il cosiddetto miniam, cioè la presenza di almeno dieci uomini. Ora, i fedeli non stanno in rapporto diretto con il Libro. C’è piuttosto una situazione di tipo triangolare: tra l’assemblea e il Libro sta la tradizione, che, in termine tecnico, è chiamata Torah she-be-’al pèh, che significa «la torah che sta sulla bocca». Non solo sulla bocca di chi legge, ma anche sulla bocca di tutte le generazioni che li hanno preceduti.
L’assemblea di ascolto non è altro che l’attualizzazione del momento in cui sul Sinai c’è stato il dono della Torah a Mosè. Secondo Es 20,18-20, la gente non voleva neppure sentire la voce di Dio perché aveva troppa paura ed era Mosè che riceveva e trasmetteva, cioè faceva da mediatore tra Dio e il popolo in ascolto (Esodo 20,18-21). Dunque, nella situazione di lettura della Torah di qualunque secolo, anche di oggi, dobbiamo sempre tener presente che tra l’assemblea e il Libro c’è la tradizione orale.
Il trattato rabbinico Pirqè Avòt («Capitoli dei Padri») comincia con queste parole: «Mosè ricevette (qibbel) la Torah dal Sinai e la trasmise (mesarah) a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea (knesset ha-gedolah). Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe (sejag) intorno alla Torah». Un commentatore medievale, Machazor di Vitry, chiarisce: «La Torah tutta intera, sia quella scritta sia quella orale». E il più antico rabbì Jonà: «Sia la Torah che è stata messa per iscritto (Torah she-bi-khtav) sia la Torah che è sulla bocca (Torah she be-al-peh), perché la Torah è già stata data insieme alle sue interpretazioni».
Tutto ciò che costituisce la Torah orale è anch’esso rivelazione sinaitica, che Mosè non ha messo per iscritto, ma ha trasmesso oralmente. Dal punto di vista ebraico la Torah scritta è come un vascello trasportato da un fiume, che è la Torah orale. E’ quest’ultima la garanzia della Torah scritta, non viceversa.

1.2.2. Il midrash
Perché abbiano effetto, le letture vanno capite e la Torah deve quindi essere spesso tradotta e illustrata in modo che risulti attuale. Il midrash, che nasce come insegnamento orale e diventerà tradizione orale, scaturisce dal bisogno di estrarre dalla fissità della parola scritta lezioni sempre nuove e mutevoli, in modo da tener vivo lo spirito dello scritto in stretta aderenza con i problemi contingenti e cercando di prevenire problemi futuri. Si può dire che il midrash sia il metodo rabbinico di esegesi. Questo spiega perché la teologia ebraica sia una teologia narrativa più che una teologia speculativa.
Il termine midrash viene dalla radice DRSh, «spiegare, interpretare, indagare» (i darshanim sono coloro che si servono del midrash per indagare il testo biblico). I darshanim interpretavano la Torah nel Tempio, attraverso l’omelia. Alla fasce meno colte il testo veniva illustrato attraverso elementi mitologici e folklorici (haggadah). In questo modo si formarono due filoni, distinti e complementari: il midrash haggadah (da lehaghid, «raccontare, spiegare»), di carattere illustrativo-narrativo, e il midrash halakah (dalla radice HLKh, «camminare»), di carattere normativo-giuridico.
L’insegnamento midrashico non è carismatico, ma continuamente dialogico, sta su un piano di parità, senza mai perdere il contatto sia con la Torah sia con la realtà, tanto che spesso per ribadire un principio contenuto nella Torah si porta come esempio un episodio della vita di un maestro, che diventa così esempio vivente. E questi maestri vedevano la Torah come un Pardes, uno speciale giardino percorso da quattro sentieri: Peshat Remez Darash Sod (= PRDS)
Un midrash racconta che quattro maestri vollero percorrere il giardino. Il primo morì fulminato; il secondo fu accecato; il terzo impazzì e diventò apostata; solo il grande rabbi Akiba uscì incolume e anzi padrone di una superiore conoscenza. I nomi dei quattro sentieri hanno questo significato: il peshat è il senso letterale della Scrittura; il remez, «accenno», tende a trovare analogie tra parole ed espressioni uguali in punti diversi del testo e le collega fra di loro al fine di sottolineare l’unità dell’insieme (le parti formano il tutto); il darash (stessa radice DRSh di midrash) è la spiegazione omiletica-allegorica; infine il sod, «segreto», è la mistica della qabbalah [G. Limentani, Il Midrash. Come i Maestri ebrei leggevano e vivevano la Bibbia, Ed. Paoline, Milano 1996, pp. 20-21].

1.2.3. La Mishnah e il Talmud
a) Come si sa, erano due i gruppi di maestri della legge più importanti: i Sadducei (zeduqim), che rifiutavano la Torah orale ed erano per un’interpretazione più rigorosa della Scrittura, e i farisei (perushim), sostenitori della Torah orale e di un’interpretazione più dialettica. Dopo la distruzione di Gerusalemme, i farisei prendono il sopravvento e comincia il periodo dell’interpretazione rabbinica. Senonché, al tempo dell’imperatore Adriano, i Romani vietano lo studio della Torah. Di fronte al rischio della chiusura delle accademie e della dispersione della tradizione rabbì Jehudà ha-Nasì (135-217 e.v.) decide di mettere per scritto non tanto la Torah orale, ma le discussioni fatte dai maestri (tannaim) per ristabilire l’insegnamento originario della Torah orale, dal momento che, a furia di trasmissioni orali e del proliferare di accademie, si erano create delle divergenze di trasmissione. Nasce così la Mishnah. Il termine deriva dalla radice shanah e significa «ripetizione, insegnamento». Nella Mishnah per la prima volta vengono esposti alcuni dei principi ermeneutici, fissati nella Halakhah. Cosa succede, per esempio, quando un insegnamento viene riferito in modo diverso da varie fonti? Nelle accademie vigeva un principio, che noi chiameremmo democratico, secondo il quale prevaleva il parere della maggioranza. Più che sull’amore per la democrazia, questo principio trovava il suo fondamento su di un versetto di Esodo: «Non seguirai la maggioranza nel dare del male; non ergerti in una lite per far piegare la decisione a favore della maggioranza» (23,2). La frase è poco chiara e ci sono varie interpretazioni. Una di queste dice che, laddove c’è una divergenza di opinioni, si segue quella della maggioranza: se infatti così ricorda un maggior numero di persone, è più probabile che sia quella giusta. La Mishnah fu redatta tra il 200 e il 220 e.v.: essa si presenta come una raccolta dei dibattiti e delle discussioni halakiche. La Mishnah fa in modo che la Torah orale diventi, per così dire, la bussola per la vita dell’ebreo.
b) Con il passar del tempo, la Mishnah, da patrimonio da conoscere a memoria e da trasmettere da maestro a maestro, generazione dopo generazione, subì un processo di laicizzazione per effetto del quale divenne un testo scritto che chiunque poteva leggere e conoscere. In seguito, poi, alla diaspora, gli ebrei si trovarono dispersi, chi in Babilonia chi nel vasto impero romano, ma la Mishnah continua ad essere studiata. Ci si accorge che esistevano degli insegnamenti al di fuori della Mishnah, i quali dovevano essere armonizzati con il testo della Mishnah, compito che venne assunto dagli studenti delle accademie. Di fronte al pericolo di chiusura delle accademie, si decise di raccogliere gli appunti di questi allievi (amoraim) che riportavano gli insegnamenti dei vari maestri. Nascono così le ghemarot (ghemarah, termine aramaico, significa «dibattito, approfondimento»). Mishnah e ghemarah insieme formano il Talmud (da lamad, «abituarsi a qualcosa, imparare»), «studio della Torah», il quale è sostanzialmente la ghemarah della Mishnah, cioè il commento della Mishnah. Del Talmud abbiamo due redazioni: quello di Gerusalemme, Talmud Yerushalmi (è più breve; la sua redazione, stabilita da rabbi Yohanan, venne chiusa nel 350 e.v.) e quello di Babilonia, Talmud Babli, nato dalla armonizzazione degli studi delle due maggiori accademie di Babilonia, quella di Sura e quella di Pumbedita, ultima redazione nel 498 e.v. da parte di rabbi Ashi).

 

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

NELL’ORTO DEI PROFETI di padre Pietro Kaswalder ofm

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo-rivista.jsp?wi_number=1853&wi_codseq=TS0905

NELL’ORTO DEI PROFETI

di padre Pietro Kaswalder ofm | settembre-ottobre 2009

Il mondo agricolo-pastorale con i suoi ritmi, i suoi simboli, i suoi termini è molto presente nella cultura biblica dell’Antico Testamento. A cominciare dai nomi di molte città che sono presi dal mondo della natura: pistacchio (Beten, Gs 19,25 e Betonim, Gs 13,26); casa della vigna (Beyt Haccherem, Ger 6,1); casa del pane (Beyt Lehem, Rut 1,19); albicocca (Tappuah, Gs 12,17); città delle palme (Iyr Hattemarim, Gdc 1,16); melograno (Rimmon, Gs 15,32); pressoio del melograno (Gath Rimmon, Gs 19,45); Monte Oliveto (Har Hazzetim, Zac 14,4); YHWH semina (Jizreel, Gs 18,19), palma (Tamar, Ez 47,19); vigna di Dio (Carmel, Gs 15,55).
Dopo decenni di studi si conoscono i metodi usati dai contadini nell’antichità, e si comprendono più correttamente i termini usati in relazione a piante, semi, frutti, verdure, e all’arte dell’agricoltura in generale. Tra i documenti scoperti dagli scavi si trova il famoso Calendario di Ghezer, una iscrizione trovata un secolo fa dall’archeologo Robert Armstrong Stewart Macalister. Il calendario viene datato al X secolo a.C., e quindi è contemporaneo alla storia dell’Antico Testamento. La lettura del testo è sorprendente, perché elenca la successione dei lavori del campo, seguendo le 12 fasi della luna nell’arco di un anno solare: «Due lune di raccolta di olive; due lune di semina dei cereali; due lune di semina ritardata dei legumi e ortaggi; una luna di zappatura delle erbe (per il fieno); una luna di mietitura dell’orzo; una luna di mietitura del frumento e di misurazione (del grano); due lune di raccolta dell’uva; una luna di raccolta dei frutti dell’estate». Il nome luna usato nell’iscrizione di Ghezer, è la misura del tempo precedente al termine mese, introdotto in Israele dopo l’VIII secolo a.C.
La Bibbia nei campi. Gli autori sacri erano stati preceduti dalle descrizioni della terra del Canaan fatte dai popoli vicini. Il generale Uni scrive al faraone Pepi I (2315 a.C.) che nel Canaan ci sono fichi e viti. Per l’egiziano Sinhue (1900 a.C.) nel Canaan si trova più vino che acqua; e aggiunge che è un paese pieno di miele, olivi, frumento e orzo. Dopo la conquista di Megiddo (1465 a.C.), Tutmosi III ha portato in Egitto il bottino, tra cui è elencato il frutto dei campi della Valle di Esdrelon e gli armenti grandi e piccoli. In altre campagne militari il faraone ha raccolto i frutti della terra, la fienagione, l’incenso e il vino mielato e alcuni esemplari della flora e della fauna del Canaan per i giardini reali.
La letteratura biblica è piena di immagini prese dall’agricoltura. Le usano gli autori della storia sacra, i teologi dell’Alleanza, e anche i profeti. Così la descrizione idilliaca della Terra Promessa in Dt 8,7-9: «Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile, paese di torrenti, di fonti, e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni, paese di olivi, di olio e di miele. In Dt 26,9 leggiamo il «piccolo credo» che era recitato alla consegna delle primizie dei campi: «Ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, una terra dove scorre latte e miele».
Una significativa immagine di Israele, la vigna del Signore, viene modulato su varie tonalità dai Profeti e dai Salmi per indicare l’eredità di Dio (Ger 2,21; Ez 17,3-10; Os 10,1). Il piccolo poema di Is 5,1-8 canta l’amore del Signore per Israele, la sua vigna, fatta uscire dall’Egitto (Sal 80,9). Il profeta Geremia usa l’immagine del mandorlo in fiore per descrivere la sua vocazione (Ger 1,11). Il profeta Amos si vanta di essere un pastore e un raccoglitore di sicomori (Am 7,14). Il giudizio divino prende spunto dai lavori agricoli: «Non così gli empi, ma come pula che il vento disperde» (Sal 1,4). Il messianismo e l’escatologia dell’Antico Testamento usano pure immagini agricole: «Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci» (Is 2,4; Mic 4,4.13; Zac 3,10).
La Bibbia è ricca di riferimenti al lavoro dell’agricoltore, o di immagini rubate ai campi per esprimere un concetto sapienziale o una immagine teologica. In altre parole, la terra è fonte di vita, ma anche di ispirazione: vedi Sansone e il miele (Gdc 14,14-18); Iotam e gli alberi della foresta (Gdc 9,8-15); Ezechiele e la favola dell’aquila (Ez 17,3-10), che usano allegorie campestri per trasmettere un messaggio. Anche l’arte e l’architettura dell’antico Israele devono molto alla natura dei campi, come ad esempio il motivo del melograno riproposto in mille forme (pendenti, gioielli, monete, sigilli); e la timorah cioè il capitello a forma di palma da dattero per gli edifici.
Vita contadina e morale. Il vocabolario dell’Antico Testamento è ricco di termini legati al calendario delle stagioni, perchè ognuna ha il suo lavoro agricolo appropriato, come arare, seminare, falciare, mietere, trebbiare, raccogliere, vendemmiare. Le coltivazioni conosciute ai tempi biblici sono moltissime. Anzitutto i cereali, e cioè orzo, frumento e miglio dai quali era prodotto il pane. Poi i legumi, e cioè la fava e la lenticchia. Poi le spezie tra cui il cumino (Is 28,25), il coriandolo (Es 16,31; Num 11,7), il lino e il sesamo (Is 28,25?). Alcune specie non sono menzionate nell’Antico Testamento, ma di esse è stata trovata abbondante traccia negli scavi archeologici. Tra questi i ceci (forse in Is 30,24), i piselli e il fieno greco. Combinando i dati dell’Antico Testamento con le scoperte archeologiche risulta che grano e orzo, fave e lenticchie erano i frutti più coltivati, mentre le spezie avevano un’attenzione minore. Un frutto molto citato nell’Antico Testamento è tappuah, che di solito viene tradotto con mela. Ma è meglio identificare questo frutto con l’albicocca o mishmish visto che la mela non era conosciuta nell’antico Israele. Questo frutto è celebrato per il suo sapore e il suo profumo, vedi Prov 25,11; Cant 2,3.5; 7,9; 8,5; Gioele 1,12, ecc.
Alcuni spunti di vita sociale quali la difesa del povero, dello straniero, dell’orfano e dello schiavo, sono raccolti in un codice morale basato sul lavoro dei campi. Il povero può sfamarsi con i resti della mietitura e della vendemmia, e fruire del raccolto del settimo anno e del giubileo, cf. Es 23,11; Lev 19,9-10; 23,22; 25,6; Deut 24,19-21; 26,12 ecc. E la legge del riposo sabbatico vale anche per i campi, non solo per gli uomini: «Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto (Es 23,11).
Giovanni non magiava locuste. Stranamente il carrubo, pianta molto diffusa ancora oggi nelle terre bibliche, non viene mai menzionato nell’Antico Testamento. Tranne che in Qoe 12,5 dove viene proposto di leggere carruba e non locusta, come troviamo nella versione greca dei Settanta. Questa nota riguarda la lettura corretta di Mc 1,6 e Mt 3,4 cioè i testi dove troviamo Giovanni Battista che dimora nel deserto. Forse è meglio correggere con «Giovanni si cibava di carrube», lasciando la versione tradizionale di locuste.
Sembra strano pure il fatto che l’Antico Testamento conosca poche verdure. Gli orti coltivati sono menzionati in alcuni casi, cfr Nabot di Jizreel che aveva una vigna, ma il re Ahab la voleva trasformare in orto di verdure (1 Re 21,2). Queste verdure sono probabilmente il cocomero, il melone, il porro, la cipolla e l’aglio. La serie delle verdure è menzionata in Num 11,5, un testo nel quale è detto che gli israeliti rimpiangono le «cipolle d’Egitto».
Malattie ed erbacce. Infine una nota dolente e cioè le malattie che colpiscono le piante e i frutti. La siccità e la carestia portavano alla distruzione completa dei raccolti. Altri disastri naturali sono gli insetti nocivi, ad esempio le locuste e le cavallette (1 Re 8,37); i vermi e le larve che divorano le piante, il frumento e le vigne (Giona 4,7); i topi e altri roditori (1 Sam 6,5); i pipistrelli che mangiano i grappoli d’uva (Is 2,20). In assenza delle cure con anticrittogamici scoperti solo in epoca moderna, le malattie che potevano colpire i campi e i frutti della terra erano numerose. Il carbonchio o ruggine delle piante (Dt 28,22; 1 Re 8,37; Am 4,9) e la muffa (Gen 41,6), che si pensavano causati dal vento orientale o scirocco. L’orzo può essere soffocato da erbacce puzzolenti (Giob 31,40), come l’uva può essere selvatica e quindi immangiabile (Is 5,2.4).
Ma il nemico più insistente dei campi e delle vigne erano le erbacce, molte delle quali non sono ancora state identificate dai botanici moderni, ma che sembrano essere delle erbe spinose come rovi, spine, cardi, pruni, ortiche…
Quelle più comuni rilevate ancora oggi nei campi sono la Caephalaria syriaca, il Galium tricorne, la Scorpirius subvillosa, il Lolium temulentum, la Capparis spinosa e l’Echium judaeum.

Publié dans:ebraismo |on 24 juin, 2014 |Pas de commentaires »

LETTERE PER MEDITARE: ALEF  » א

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/alfabeto_ebraico1.htm

LETTERE PER MEDITARE

ALEF «   א

SALMO 119

(ALEF) 1 Beati quelli che sono integri nelle loro vie, che camminano secondo la legge del SIGNORE. 2 Beati quelli che osservano i suoi insegnamenti, che lo cercano con tutto il cuore 3 e non commettono il male, ma camminano nelle sue vie. 4 Tu hai dato i tuoi precetti perché siano osservati con cura.  5 Sia ferma la mia condotta nell’osservanza dei tuoi statuti! 6 Non dovrò vergognarmi quando considererò tutti i tuoi comandamenti. 7 Ti celebrerò con cuore retto, imparando i tuoi giusti decreti. 8 Osserverò i tuoi statuti, non abbandonarmi mai.

Alef – Lettera muta o vocale

Pronuncia: A,E,I,O,U – a seconda della vocale*

Esempio: ECHAD (uno) oppure ACH (fratello).

Il valore numerico (Ghematria) della Alef è 1

La lettera alef rappresenta Dio, Uno, Unico ed Eterno. La forma grafica della lettera alef simbolizza la natura infinita ed eterna di Dio. Essa consiste di tre parti: il segmento superiore destro è una Yod, quello inferiore sinistro è, ancora, una Yod, e queste due lettere sono connesse da una Vav diagonale. Ogni Yod vale 10, e la Vav vale 6. La somma è 26, che è esattamente il valore della somma delle lettere del Nome Divino formato da quattro lettere (Tetragramma Yod=10, He=5 Vav=6, He=5). Questo è il nome che rappresenta Dio come Eterno, perché con queste quattro lettere si possono formare le parole HAYA’ (era) HOVE’ (presente) e IHIE’ (sarà). ALEF sta anche per ADAM (Uomo), la più nobile tra le creazioni di Dio. Le tre lettere che formano la parola ADAM alludono all’unicità dell’essere umano: ALEF per ADAM (uomo), DALET per DIBUR (la capacità di parlare), MEM per MAASE’ (la capacità di fare ). Tutte le grandi cose si fanno con un primo piccolo passo. Mattone su mattone si costruisce una casa, soldo per soldo si mette su una fortuna. La ALEF (uno), cresce e diventa ELEF (mille), semplicemente cambiando una vocale. Ma come puo’ un medio essere umano raggiungere la saggezza della Tora’, che e’ profonda come il mare? Come fa un principiante a partire dal riconoscere una alef per diventare un ALUF (maestro) di Tora’? La risposta è data nella Tora’ stessa: « Perche’ questi precetti che io ti comando oggi non sono una cosa straordinaria oltre le tue forze nè sono cosa lontana da te; non è nel cielo.. e neppure al di là del mare..questa cosa è molto vicina a te: è nella tua bocca, è nel tuo cuore perchè tu possa eseguirla. » (Deuteronomio 30:11) Per spiegare questo un Midrash descrive un ignorante che entra in Sinagoga. Vedendo la gente che studiava la Torà, egli chiese: « Come posso io studiare tutto questo? » Chi ascoltava gli rispose: « Comincia con l’alfabeto, continua con le Scritture, e quindi vai avanti con la Mishnà e la Ghemarà ». Dopo aver sentito ciò, egli pensò e concluse: « Come farò a studiare così tanto? » e se ne andò.

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI, biblica, ebraismo |on 27 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

L’EBRAISMO E I DIRITTI CULTURALI (*)

http://www.nostreradici.it/ebrediritti.htm

L’EBRAISMO E I DIRITTI CULTURALI (*)

MARCO MORSELLI

Stiamo per entrare nell’anno giubilare della scomparsa di Raïssa Oumançoff Maritain. Esattamente 49 anni fa, il 4 novembre 1960, Raïssa lasciava questo mondo: «J’ai reçu la grâce d’avoir auprès de moi, toute ma vie, et pour se sacrifier à mon pauvre travail, deux saintes filles d’Israël, Raïssa et sa soeur [Vera], dont les ancêtres étaient des hassidim et qui ont aimé Jésus de tout leur coeur; et c’est à elles que je dois tout».(1) Sia il loro ricordo in benedizione.
1. Per poter parlare dell’ebraismo dobbiamo innanzi tutto, brevemente, parlare della Torah. Che cos’è la Torah? Il termine significa insegnamento, e designa in primo luogo cinque libri, il Pentateuco: Bereshìt/In principio, Shemòt/Nomi, Wayiqrà/Chiamò, Bamidbàr/Nel deserto, Devarìm/Parole. A questi libri vanno aggiunti i Neviim, ossia gli scritti dei Profeti, e i Ketuvim, gli Agiografi. Se eliminiamo la divisione in libri, capitoli e versetti, abbiamo 304.805 lettere\numeri che possono essere studiati anche da un punto di vista strettamente matematico.
 ccorre inoltre tenere presente che non vi è solo la Torah scritta, vi è anche la Torah orale, che precede e accompagna la Torah scritta. In una situazione di estremo pericolo per l’esistenza stessa del popolo ebraico(2) la Torah orale venne messa per iscritto, e abbiamo così la Mishnàh. I commenti alla Mishnah costituiscono il Talmùd. Abbiamo poi ancora il Midràsh e la Qabbalàh.
Elie Wiesel ha definito il Talmud «un oceano vasto, turbolento eppure confortante, che suggerisce l’infinita dimensione dell’esistenza e l’amore per la vita, oltre che il mistero della morte e dell’istante che la precede». Il Talmud fa parte della storia degli ebrei da millenni, se consideriamo la sua storia dalle tradizioni orali alla Mishnah, alla discussione della Mishnah, al Talmud orale, al Talmud manoscritto, poi stampato, poi su Internet. Al suo interno, il qui e l’ora sono intimamente connessi con altri tempi e altri luoghi, i Maestri del I secolo discutono con i Maestri del XX secolo, i Rabbini babilonesi con quelli francesi. Più che un libro, è un approccio all’esistenza, nel quale la ricerca e la discussione collegano le realtà di questo mondo alle realtà del mondo a venire.(3)
Quello che il Talmud è per la Mishnah, il Midrash è per la Torah. Il termine deriva da darash, ricercare. Vi sono moltissimi punti oscuri nella Bibbia, incomprensibili senza il riferimento a una tradizione esegetica che precede, accompagna e segue il testo./4)
La Qabbalah è la mistica ebraica. La realtà è un’unità in cui il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito si compenetrano. Il progressivo disvelamento della Qabbalah ha valenze escatologiche. Vi sono dei momenti privilegiati del passaggio dei segreti dalla sfera esoterica a quella essoterica. Nell’anno 1240, corrispondente all’anno 5000 nella datazione ebraica, ha avuto inizio il sesto millennio, e ha fatto la sua comparsa lo Zohar, il principale testo cabbalistico. Altra data importante è il 1840, corrispondente al 5600. Siamo ora nell’anno 5770, in un’epoca in cui la preparazione messianica si intensifica.(5)
2. Il fondamento biblico dei diritti umani si trova in Gn 1,26: «Wa-yomer Eloqim: “Naaseh adam be-salmenu ki-demutenu”» e nel v. 27 si precisa che imago D. non è il maschio, ma la coppia maschile-femminile: «Wa-yivra Eloqim et ha-adam be-salmo be-selem Eloqim bara oto zakhar (maschio) u-neqewah (femmina)». Se ho un testo che dice: «Dio crea Adamo» mi trovo davanti a un testo maschilista, perché non ho invece: «Dea crea Adamà»? Ma nell’originale abbiamo uno dei due Nomi di D., che è un plurale e, a Sua immagine e somiglianza, Adam, che è maschio-femmina. Se osserviamo l’albero delle Sefirot, vediamo forze maschili e femminili, abbiamo un Abba\Padre e una Imma\Madre, un Ben\Figlio e una Bat\Figlia.
Dalla coppia Adam-Hawah nasce tutta l’umanità futura, e questo rende ogni razzismo privo di fondamento biblico. Anche Shem, Ham e Yafet, che sono stati in seguito trasformati nei capostipiti delle tre “razze” umane, sono in realtà fratelli, figli di Noah\Noè (Gn 5,32).
«Ha-shomer ahi anokhi? Sono forse il custode di mio fratello?» risponde Qain ad Ha-Shem subito dopo aver ucciso Hevel (Gn 4,9). Sì, siamo responsabili dei nostri fratelli.
E lo straniero? «Come un nato tra di voi sarà ha-ger ha-gar, colui che risiede presso di voi, we-ahavta lo kamokha e lo amerai come te stesso» (Lv 19,34).
Come si vede da questi pochi ma significativi esempi, che potrebbero essere moltiplicati, l’accento è posto molto più sui doveri che sui diritti e a questo proposito viene in mente il Mahatma Gandhi quando scriveva: «Tutti i diritti da meritare e da preservare derivano da un dovere ben fatto».(6)
3. Quali insegnamenti etici contiene la Torah per gli esseri umani? Per millenni l’ebraismo è stato accusato di essere una religione particolaristica. Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) è tra coloro che più si sono adoperati per dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai stato possibile che da tale particolarismo scaturissero due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, articolata in noachismo e mosaismo. L’alleanza con Noè non è in nulla inferiore all’alleanza con Mosè. Colui che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e dichiarare di voler appartenere alla religione noachide. E’ probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque vive del miqweh. Il noachide si impegna a rispettare sette precetti: 1) istituzione di tribunali (= ogni società umana ha bisogno di giustizia); 2) divieto di blasfemia; 3) divieto di idolatria; 4) divieto di adulterio; 5) divieto di omicidio; 6) divieto di furto; 7) divieto di mangiare una parte di un animale vivo (= divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando tali comandamenti il noachide entrerà nel mondo a venire, ossia avrà parte alla vita eterna.(7)
Ad alcuni questi sette precetti sembrano troppo poco per condurre una vita di alta spiritualità. Non è di questo parere Emmanuel Levinas, il quale scrive: «La Legge di Dio è Rivelazione poiché in essa si enuncia: “non uccidere”. Tutto il resto è forse un tentativo di pensare questo – una “messa in scena” certamente necessaria, una “cultura” in cui ciò “si può capire”. E’ per lo meno così che cerco di dirlo a me stesso. Beninteso, “non uccidere” significa: “fa di tutto affinché l’altro viva”».(8) «Non uccidere», il resto è commento.
La Torah è dunque un libro da fare: 613 miswot per gli ebrei e per chi voglia entrare nell’alleanza di Mosè, 7 miswot per chi voglia entrare nell’alleanza di Noè, con la libertà di osservare, volendo, anche un certo numero delle restanti.(9) Il Santo, benedetto Egli sia, nella sua trascendenza è assolutamente inconoscibile. Di Lui possiamo conoscere ciò che Lui ha voluto rivelarci: la sua volontà. Aderendo alla sua volontà noi ci avviciniamo a Lui. Come Lui è santo, così noi cerchiamo di santificarci, anche nelle minute attività della nostra vita quotidiana. Ciò che la Torah ci indica, più che una ortodossia, è una ortoprassi. Il primato dell’etica non è un rifiuto della Rivelazione, ma proprio il contenuto della Rivelazione.
Abbiamo impostato il discorso in modo da evitare una contrapposizione tra etica “veterotestamentaria” ed etica “neotestamentaria”. Ci auguriamo che l’epoca della controversistica ebraico-cristiana si sia conclusa. Un’unica Torah, due Alleanze, quella di Noè (con i suoi 7 precetti) e quella di Mosè (con i suoi 613 precetti): questo è l’insegnamento della Tradizione ebraica, questo è anche l’insegnamento di Yeshùa e del cristianesimo delle origini.(10) Le miswot degli uni e degli altri illuminano la nostra vita terrestre, ma anche preparano le nostre anime alle vite future, tessono le vesti di luce indispensabili per godere delle beatitudini celesti.
Le anime procedono dalla seconda Sefirah, Hokhmah (il pensiero divino) ma compiendo le miswot accedono alla prima Sefirah, Keter (la volontà divina). Il valore numerico di Keter è 620 (613+7): «Questo numero designa i 620 comandamenti dell’ebraismo, e la Qabbalah parla delle 620 colonne di luce che uniscono il mondo dell’Alto al mondo del Basso».(11)
Non vi è una Nuova Alleanza che si contrapponga a una Vecchia Alleanza, non vi è neppure un’unica Alleanza Vecchio-Nuova che costringerebbe gli ebrei a farsi cristiani o i cristiani a farsi ebrei. Vi è un’unica Torah eterna che contiene molte Alleanze, i molti modi in cui il Santo, benedetto Egli sia, rivela il suo amore per gli uomini e indica le vie per giungere all’incontro con Lui.
Poiché l’alleanza noachide non prescrive nessuna cultura, nessuna religione, nessun mito, nessun rito, è compatibile con tutte le culture e con tutti i diversi modi di essere umani: in questo senso è cattolica, ossia universale.(12) Scrive Rav Jonathan Sacks: «L’unità in cielo crea diversità sulla terra. Lo stesso vale per le civiltà. Il messaggio fondamentale della Bibbia ebraica è che l’universalità – il patto con Noè – è solo il contesto e il preludio dell’irriducibile molteplicità delle culture, quei sistemi di significato tramite i quali gli esseri umani hanno cercato di comprendere il rapporto che li lega, il mondo e la sorgente dell’essere. L’affermazione platonica dell’universalità della verità è valida quando la si applica alla scienza e alla descrizione di ciò che è. Non lo è se la si applica all’etica, alla spiritualità e al nostro senso di ciò che dovrebbe essere. Vi è una differenza tra physis e nomos, descrizione e prescrizione, natura e cultura. Le culture sono come le lingue. Il mondo che descrivono è lo stesso, ma i modi in cui lo fanno sono quasi infinitamente variabili».(13)
4. «Come ha così bene detto un grande biologo francese, Jean Hamburger, niente è più falso dell’affermazione secondo cui i diritti umani sono “diritti naturali”, ossia coessenziali alla natura umana, connaturati all’uomo. In realtà, egli ha notato, l’uomo come essere biologico è portato ad aggredire e soverchiare l’altro, a prevaricare per sopravvivere, e niente è più lontano da lui dell’altruismo e dell’amore per l’altro […] i diritti umani sono una vittoria dell’io sociale su quello biologico […] il concetto di diritti dell’uomo non è ispirato alla legge naturale della vita, è al contrario ribellione contro la legge naturale».(14)
L’idea che i diritti umani siano culturali e non naturali è particolarmente congeniale all’ebraismo, dal momento che nella Torah il termine “natura” neppure compare: «Se si ricercano nell’ebraico biblico dei termini che corrispondano alla physis greca, intesa come natura creatrice, è possibile constatare come questo concetto è praticamente introvabile».(15) Dopo aver esaminato sei radici ebraiche, Rav Di Segni conclude: «Molto spesso, invece di indicare ‘la natura’, l’ebraico biblico ricorre alla elencazione dei vari elementi naturali (cfr. Ps 98), o usa delle frasi come ‘la terra e ciò che la riempie’ (Jes 34:1), oppure dei termini più generali, come ‘olàm, il mondo, l’universo» (p. 24).
Abbiamo ascoltato da Gabriela Häbich che i diritti culturali non sono un’appendice dei diritti umani, ma sono la condizione della loro applicabilità e del loro sviluppo: la loro promozione costituisce la condizione per la realizzazione di tutti gli altri diritti.
Nell’art. 3 della Dichiarazione di Friburgo (2007) si afferma che ogni persona ha diritto «di scegliere e veder rispettata la propria identità culturale nella diversità dei suoi modi di espressione» (comma a) e «di conoscere e veder rispettata la propria cultura» (comma b). Non so se questo fosse nelle intenzioni degli estensori della Dichiarazione, ma mi chiedo se tale principio non possa essere applicato anche al passato.
Siegfried Kracauer (1889-1966) ha scritto un importante libro intitolato History. The Last Things Before the Last(16) in cui assegna alla storia un’area intermedia tra scienza e metafisica, nella quale si tratta di ricercare «una conoscenza provvisoria delle ultime cose che vengono prima delle ultime». Si tratta cioè di riabilitare «finalità e modi di essere ancora privi di nome e per questo trascurati e fraintesi», di riscoprire «possibilità senza nome nascoste negli interstizi delle dottrine e dei movimenti dominanti». Secondo una leggenda ebraica, esistono in ogni generazione trentasei saddiqim, giusti, che sostengono il mondo: «Senza la loro presenza il mondo sarebbe distrutto e perirebbe. Tuttavia nessuno li conosce; e neppure essi sanno che si deve alla loro presenza se il mondo è salvato dalla rovina. L’impossibile ricerca di questi giusti nascosti (sono veramente trentasei in ogni generazione?) mi sembra una delle più eccitanti avventure nelle quali la storia si possa imbarcare» (p. 15).
E’ una delle più eccitanti avventure nelle quali la storia si possa imbarcare perché è il tentativo, e la speranza, di ridare giustizia a tutti coloro ai quali i diritti umani e culturali nel corso dei secoli non sono stati riconosciuti. Una folla enorme di persone ignote, di cui non è rimasta traccia, ma per ognuno di loro bisogna intraprendere il lavoro impossibile di ricercare il nome, perché ognuno di loro era forse uno dei trentasei giusti senza il quale il mondo non può esistere.
5. Uno dei titoli più citati e dei libri meno letti degli ultimi anni è sicuramente The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order di Samuel Huntington (1927-2008).(17) In questo libro l’autore sostiene che nel nuovo mondo del Dopo-guerra fredda i conflitti più profondi, laceranti e pericolosi saranno quelli tra gruppi appartenenti ad entità culturali diverse. Tali civiltà vengono così identificate da Huntington:

1. Occidentale
2. Latino-americana
3 Africana
4. Islamica
5. Cinese
6. Induista
7. Ortodossa
8. Buddhista
9. Giapponese

Tale classificazione suscita molte perplessità: in alcuni casi ci si trova di fronte a un indicatore etnico, in altri casi religioso, in altri ancora geografico. Ma ciò che è ancor più degno di nota è che si parla di civiltà islamica, induista, buddhista, ma non si parla invece di civiltà cristiana (c’è solo un riferimento a una sua componente, quella ortodossa) e ancor meno di civiltà ebraico-cristiana. Si parla invece di una civiltà “occidentale”, ossia caratterizzata solo da un riferimento geografico.        
Il libro di Huntington è da criticare non in quanto si faccia promotore di uno scontro delle civiltà (non è così, anzi il libro termina con un generico invito alla comunanza delle civiltà) ma perché manca una giustificazione della sua classificazione delle civiltà e delle loro caratteristiche. E questo vale in particolare per quella che viene definita la civiltà occidentale.                                                                                           
Se si mettono a confronto le due espressioni «civiltà ebraico-cristiana» e «civiltà arabo-islamica» ci si rende subito conto che non sono equivalenti. A ben vedere, una civiltà ebraico-cristiana non è mai esistita: la teologia della sostituzione, l’insegnamento del disprezzo e la conseguente passi discriminatoria ed escludente dovrebbero semmai far parlare di una civiltà ebraico-cristiana, dove una X è posta sul primo termine, allo stesso modo in cui Heidegger poneva una X sul Sein cancellato dalla dimenticanza della differenza ontologica.
Niente di simile è avvenuto nella civiltà arabo-islamica, dove gli islamici non hanno certo accusato per secoli gli arabi di deicidio, né hanno dichiarato decaduta la loro elezione sostituendosi all’Arabia come Nuova Arabia, come è invece avvenuto nella Cristianità, dove la Chiesa si è per secoli autodefinita come Nuovo Israele o vero Israele.
La civiltà ebraico-cristiana è una utopia da realizzare, non una realtà del passato da difendere. Non si tratta di privilegiare arbitrariamente, sia pure in nome di un’identità storicamente determinata, e anche in parte gloriosa, due religioni a scapito delle altre. Si tratta di una formula della universalità in cui vale il principio del terzo incluso. Tra a e non a non vi può essere un terzo escluso, perché il terzo, il quarto e così via all’infinito, sono già inclusi. Per questo preferiamo parlare di una civiltà messianica come luogo di incontro delle civiltà.
6. Il dialogo ebraico-cristiano era giunto negli ultimi mesi a un punto di crisi che sembrava insormontabile, intorno alla questione della conversione degli ebrei. In un recente incontro tra Autorità rabbiniche e Autorità episcopali italiane si è chiarito che non vi è nessuna intenzione da parte della Chiesa Cattolica di operare attivamente per la conversione degli ebrei e che di conversione si parla solo in una prospettiva escatologica.
Una delle tesi de I passi del Messia(18) è che la prospettiva escatologica preveda non già la conversione\apostasia d’Israele, ma la conversione\teshuvah dei cristiani.
«I cristiani non possono non pregare per la conversione del mondo intero, e in particolare per Israele». Lasciando per il momento da parte la questione della conversione del mondo intero, per quanto riguarda Israele non è così. Altro è che i cristiani desiderino che il Messia sia riconosciuto da Israele, altro è che sperino e preghino per la conversione d’Israele, ossia per la sua apostasia.
Quando Yeshua predicava: «Shùvu!» (Mt 4,17) (stessa radice di teshuvah) voleva dire: «Ritornate a Ha-Shem Eloqim!» e non: «Cambiate religione!», «Smettete di essere ebrei!», «Ripudiate la perfidia giudaica!», «Non osservate più la Torah e le miswot!» come da secoli e in parte tuttora i cristiani ex gentibus credono.
Altro è che i cristiani siano testimoni della messianicità di Gesù, anche e innanzi tutto nei confronti d’Israele (e si tratta di vedere quali caratteristiche tale testimonianza debba avere) altro è che facciano coincidere la loro testimonianza con la speranza nella apostasia d’Israele.
A chi afferma che il cristianesimo è per sua natura missionario occorre ricordare che la missione è partita da Gerusalemme, dagli ebrei della Ecclesia ex circumcisione, e che era rivolta alle genti, non viceversa. E’ avvenuto un vero e proprio ribaltamento.
Sulla scorta di Cornelius a Lapide (1567-1637) Maritain era arrivato al convincimento che la riconciliazione finale «ne doit pas être appelé la conversion d’Israël mais bien sa plénitude».(19)
Rav Elia Benamozegh in un’opera postuma pubblicata a Parigi nel 1914 scriveva: «La riconciliazione sognata dai primi cristiani come una delle condizioni della Parusia, o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel seno della Chiesa, senza di cui le diverse confessioni cristiane sono concordi nel riconoscere che l’opera della redenzione rimane incompleta, questo ritorno si effettuerà non come lo si è atteso, ma nel solo modo serio, logico e durevole, e soprattutto nel solo modo proficuo al genere umano. Sarà la riunione dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate, e, secondo la parola dell’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, “il ritorno del cuore dei figli ai loro padri”» (Ml 3,24).(20)
«Sono persuaso che lo scopo supremo della storia sia questa riconciliazione definitiva tra il popolo eletto e la cristianità che san Paolo descrive come una risurrezione dei morti e come la gloria del vecchio tronco d’Israele sul quale, allora, la Chiesa di Cristo apparirà a tutti come innestata. Allora tutto sarà compiuto. Ma comprendiamo anche che nel tempo questo non è ciò che precederà, bensì ciò che completerà la realizzazione della nostra speranza.
Nel frattempo, quello che si esige con assoluta necessità è lo sviluppo, per tutto il tempo che sta davanti, di un’amicizia sempre più stretta. Non dico amicizia vera, ma veramente fraterna, e veramente efficace, e veramente dono di sé, tra i figli della Casa d’Israele e i figli della Chiesa di Cristo».(21)

Note

1. Lettre à André Neher del 21 agosto 1972, in J. Maritain, Le mystère d’Israël, Desclée de Brouwer, Paris 1990, p. 297 (ed. it. a c. di V. Possenti, Massimo, Milano 1992).
2. Mi riferisco a quelle che i Romani chiamarono la I e la II Guerra Giudaica. Durante la I venne distrutto il Tempio di Gerusalemme e, riferisce Flavio Giuseppe, non vi erano più alberi in Israele perché centinaia di migliaia di Ebrei erano stati crocifissi dalle truppe di occupazione romane: «Secondo i dati forniti indipendentemente da Giuseppe e da Tacito, oltre 600.000 Ebrei avrebbero trovato la morte nel corso delle operazioni militari, circa il 25% della popolazione, e molti altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. Con ciò sembra possibile che qualcosa come la metà della popolazione ebraica sia stata eliminata fisicamente» (J. A. Soggin, Storia d’Israele, Paideia, Brescia 1984, p. 485). Nel 135 i morti furono 850.000 (Soggin p. 492).
3. E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani, Milano 2000; Id., Celebrazione talmudica, Lulav, Milano 2002; A. Steinsaltz, Cos’è il Talmud?, Giuntina, Firenze 2004.
4. G. Stemberger, Il Midrash, Dehoniane, Bologna 1992.
5. A. Safran, Saggezza della Cabbalà, Giuntina, Firenze 1998; Id., Tradizione esoterica ebraica, Giuntina, Firenze 1999; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, Giuntina, Firenze 2000; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993.
6. Citato in M. Flores, Storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna 2008, p. 222.
7. E. Benamozegh, Israele e l’umanità, a c. di M. Morselli, Marietti, Genova 1990; Id., Il noachismo, a c. di M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2006; A. Pallière, Il Santuario sconosciuto, a c. di M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2005.
8. E. Levinas, Trascendenza e intelligibilità, a c. di F. Camera, Marietti, Genova-Milano 2009, pp. 36-7.
9. Qui trova il suo fondamento il tema della libertà del cristiano, ma si tratta di libertà nella Legge e non dalla Legge.
10. Cfr. la Didachè. La Torah del Messia attraverso i Dodici Apostoli ai goyim, a c. di G. Maestri e M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2009.
11. J. Eisenberg e A. Steinsaltz, Le chandelier d’or, Verdier, Paris 1988, p. 356.
12. E’ Rav Benamozegh a parlare della «cattolicità d’Israele», nel già citato Israele e l’umanità.
13. J. Sacks, La dignità della differenza. Come evitare lo scontro delle civiltà, tr. di F. Paracchini, Garzanti, Milano 2004, p. 66.
14. A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Bari-Roma 2005, pp. 230-1.
15. R. Di Segni, Le unghie di Adamo. Studi di antropologia ebraica, Guida, Napoli 1981, p. 22.
16. S. Kracauer, History. The Last Things Before The Last, Oxford U.P., New York 1969 (tr. di S. Pennisi, Marietti 1985).
17. S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996 (tr. di S. Minucci, Garzanti 1997)
18. M. Morselli, I passi del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo, Marietti, Genova-Milano 2007.
19. Maritain lo scrive sia nel 1943 che nel 1964 : cfr. J. Maritain, Le mystère d’Israël, cit., pp. 198 e 250. Nel 1941 scriveva invece ancora: «Les promesses de Dieu sont sans repentance, le peuple d’Israël se convertira» (p. 153).
20. E. Benamozegh, Israele e l’umanità, cit., p. 30.
21. Lettera di Maritain a Chouraqui del 5 ottobre 1971, in A. Chouraqui, Il destino d’Israele. Corrispondenza con Jules Isaac, Jacques Ellul, Jacques Maritain, Marc Chagall, tr. it. di P. Pellizzari, Paoline, Milano 2009, pp. 181-2.

(*) Per doverosa completezza. La curatrice di questo sito, cristiana cattolica, non condivide la conclusione dell’autore, che arriva alle estreme conseguenze di inglobare il cristianesimo nell’ebraismo. Piuttosto [vedi Benedetto XVI, Catechesi del 1° ottobre 2008 su "il Concilio di Gerusalemme e l'incidente di Antiochia"]. Il dialogo è occasione di conoscenza e rispetto reciproci, riconoscendo le differenti identità, senza nessun tipo di omologazione.

Publié dans:ebraismo |on 13 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

« UN CRISTIANO NON PUÒ ESSERE ANTISEMITA! » – DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALLA DELEGAZIONE DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA

http://www.zenit.org/it/articles/un-cristiano-non-puo-essere-antisemita–2

« UN CRISTIANO NON PUÒ ESSERE ANTISEMITA! »

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALLA DELEGAZIONE DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA

CITTA’ DEL VATICANO, 11 OTTOBRE 2013 (ZENIT.ORG)

Papa Francesco ha ricevuto oggi in Udienza una delegazione della Comunità Ebraica di Roma, in occasione del 70° anniversario della deportazione degli Ebrei di Roma, avvenuta il 16 ottobre del 1943.

Riprendiamo di seguito le parole rivolte dal Pontefice ai presenti.

***
Cari amici della Comunità ebraica di Roma,

Shalom!

Sono contento di accogliervi e di avere così la possibilità di approfondire e di allargare il primo incontro avuto con alcuni vostri rappresentanti lo scorso 20 marzo. Saluto tutti con affetto, in particolare il Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto. Anche per quel ricordo del coraggio del nostro padre Abramo quando lottava col Signore per salvare Sodoma e Gomorra: « e se fossero trenta, e se fossero venticinque e se fossero venti… » E’ proprio una preghiera coraggiosa davanti al Signore. Grazie. Saluto anche il Presidente della Comunità ebraica di Roma, Dottor Riccardo Pacifici, e il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dottor Renzo Gattegna.
Come Vescovo di Roma, sento particolarmente vicina la vita della Comunità ebraica dell’Urbe: so che essa, con oltre duemila anni di ininterrotta presenza, può vantarsi di essere la più antica dell’Europa occidentale. Da molti secoli dunque, la Comunità ebraica e la Chiesa di Roma convivono in questa nostra città, con una storia – lo sappiamo bene – che è stata spesso attraversata da incomprensioni e anche da autentiche ingiustizie. E’ una storia, però, che, con l’aiuto di Dio, ha conosciuto ormai da molti decenni lo sviluppo di rapporti amichevoli e fraterni.
A questo cambiamento di mentalità ha certamente contribuito, per parte cattolica, la riflessione del Concilio Vaticano II, ma un apporto non minore è venuto dalla vita e dall’azione, da ambo le parti, di uomini saggi e generosi, capaci di riconoscere la chiamata del Signore e di incamminarsi con coraggio su sentieri nuovi di incontro e di dialogo.
Paradossalmente, la comune tragedia della guerra ci ha insegnato a camminare insieme. Ricorderemo tra pochi giorni il 70° anniversario della deportazione degli Ebrei di Roma. Faremo memoria e pregheremo per tante vittime innocenti della barbarie umana, per le loro famiglie. Sarà anche l’occasione per mantenere sempre vigile la nostra attenzione affinché non riprendano vita, sotto nessun pretesto, forme di intolleranza e di antisemitismo, a Roma e nel resto del mondo. L’ho detto altre volte e mi piace ripeterlo adesso: è una contraddizione che un cristiano sia antisemita. Un po’ le sue radici sono ebree. Un cristiano non può essere antisemita! L’antisemitismo sia bandito dal cuore e dalla vita di ogni uomo e di ogni donna!
Quell’anniversario ci permetterà anche di ricordare come nell’ora delle tenebre la comunità cristiana di questa città abbia saputo tendere la mano al fratello in difficoltà. Sappiamo come molti istituti religiosi, monasteri e le stesse Basiliche Papali, interpretando la volontà del Papa, abbiano aperto le loro porte per una fraterna accoglienza, e come tanti cristiani comuni abbiano offerto l’aiuto che potevano dare, piccolo o grande che fosse.
In grande maggioranza non erano certo al corrente della necessità di aggiornare la comprensione cristiana dell’ebraismo e forse conoscevano ben poco della vita stessa della comunità ebraica. Ebbero però il coraggio di fare ciò che in quel momento era la cosa giusta: proteggere il fratello, che era in pericolo. Mi piace sottolineare questo aspetto, perché se è vero che è importante approfondire, da entrambe le parti, la riflessione teologica attraverso il dialogo, è anche vero che esiste un dialogo vitale, quello dell’esperienza quotidiana, che non è meno fondamentale. Anzi, senza questo, senza una vera e concreta cultura dell’incontro, che porta a relazioni autentiche, senza pregiudizi e sospetti, a poco servirebbe l’impegno in campo intellettuale. Anche qui, come spesso amo sottolineare, il Popolo di Dio ha un proprio fiuto e intuisce il sentiero che Dio gli chiede di percorrere. In questo caso il sentiero dell’amicizia, della vicinanza, della fraternità.
Spero di contribuire qui a Roma, come Vescovo, a questa vicinanza e amicizia, così come ho avuto la grazia – perché è stata una grazia – di fare con la comunità ebraica di Buenos Aires. Tra le molte cose che ci possono accomunare, vi è la testimonianza alla verità delle dieci parole, al Decalogo, come solido fondamento e sorgente di vita anche per la nostra società, così disorientata da un pluralismo estremo delle scelte e degli orientamenti, e segnata da un relativismo che porta a non avere più punti di riferimento solidi e sicuri (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010, 5-6).
Cari amici, vi ringrazio per la vostra visita e invoco con voi la protezione e la benedizione dell’Altissimo per questo nostro comune cammino d’amicizia e di fiducia. Possa Egli, nella sua benevolenza, concedere ai nostri giorni la sua pace. Grazie.

Publié dans:ebraismo, PAPA FRANCESCO, Shoah |on 12 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

MARTIN BUBER: IL CAMMINO DELL’UOMO – COMINCIARE DA SE STESSI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/cammino_uomo4.htm

MARTIN BUBER 

IL CAMMINO DELL’UOMO – COMINCIARE DA SE STESSI

Alcune persone eminenti di Israele erano un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde sull’importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa: « Tutto volge al bene – dicevano – se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava ». Ma Rabbi Isacco non condivideva l’opinione generale. « Ero anch’io dello stesso avviso – disse – finché il mio maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da giovane, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. ‘Perché ti rivolgi a me? – rispose – Rivolgiti a te stesso!’. Dovetti riflettere a lungo su queste parole prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole del Baal-Shem: ‘Ci sono il pensiero, la parola e l’azione. Il pensiero corrisponde alla moglie, la parola ai figli, l’azione ai servitori. Tutto si volgerà al bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito’. Allora compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me ».
Questo racconto tocca uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.
Abbiamo l’abitudine di spiegare le manifestazioni del conflitto innanzitutto con i motivi che gli antagonisti riconoscono coscientemente come origine della disputa, oppure con le situazioni e i processi oggettivi che stanno alla base di questi motivi e nei quali le due parti sono implicate; un’altra pista è invece quella di procedere in modo analitico, cercando di esplorare i complessi inconsci, considerati allora come i danni organici di una malattia di cui i motivi evidenti rappresentano i sintomi. L’insegnamento chassidico si avvicina a quest’ultima concezione in quanto rimanda anch’esso la problematica della vita esteriore a quella della vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali, uno di principio e l’altro, ancora più importante, di ordine pratico.
La differenza di principio risiede nel fatto che l’insegnamento chassidico non tende a esaminare le difficoltà isolate dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero. Non si tratta tuttavia di una differenza quantitativa, ma piuttosto della constatazione che il fatto di separare dal tutto elementi e processi parziali ostacola sempre la comprensione della totalità, e che solo la comprensione della totalità in quanto tale può comportare una trasformazione reale, una reale guarigione, innanzitutto dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili (o, per usare un paradosso: la ricerca del punto nodale sposta quest’ultimo e fa così fallire l’intero tentativo di superare la problematica). Questo non significa assolutamente che non si debbano prendere in considerazione tutti i fenomeni dell’anima; ma nessuno di essi dev’essere posto al centro dell’esame, al punto che tutto il resto possa esserne dedotto. È invece indispensabile considerare tutti i punti, e non in modo separato ma proprio nella loro connessione vitale.
Quanto alla differenza pratica, consiste nel fatto che l’uomo, invece di essere trattato come oggetto dell’analisi, è sollecitato a « rimettersi in sesto ». Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente, per sua natura, l’uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo: allora ribatte all’autore di questa ingiunzione – o alla propria anima, se è lei a intimargliela – che ogni conflitto implica due attori e che perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto interiore, si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in questo modo di vedere – in base al quale l’essere umano si considera solo come un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo – proprio qui risiede l’errore fondamentale contro il quale si erge l’insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo mio inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente.
Così insegnava Rabbi Bunam: « I nostri saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. È detto nel salmo: ‘Non c’è pace nelle mie ossa a causa del mio peccato ». Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero ».
Ma il racconto che ho preso come punto di partenza non si accontenta di indicare la vera origine dei, conflitti esterni e di attirare l’attenzione sul conflitto interiore in modo generico. L’affermazione del Baal-Shem che vi si trova citata ci precisa anche esattamente in cosa consiste il conflitto interiore determinante. Si tratta del conflitto fra tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo: il principio del pensiero, il principio della parola e il principio dell’azione. Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. In questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione, sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo. Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci riducono in schiavitù. Per uscirne c’è una sola strada: capire la svolta – tutto dipende da me – e volere la svolta – voglio rimettermi in sesto.
Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo. E anche qui tutte le nostre abitudini ci sono di ostacolo.
Vorrei concludere questa riflessione con un divertente aneddoto antico ripreso da uno zaddik. Rabbi Hanoch raccontava: « C’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem. Quando si alzava al mattino gli riusciva così difficile ritrovare gli abiti che alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi, annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente, si alzò tutto contento e prese la sua lista: ‘Il berretto: là’, e se lo mise in testa; ‘I pantaloni: lì, e se li infilò; e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Sì, ma io, dove sono? – si chiese all’improvviso in preda all’ansia – Dove sono rimasto?’. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a trovarsi. Così succede anche a noi », concluse il Rabbi.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 22 août, 2013 |Pas de commentaires »

LA BENEDIZIONE DEL SOLE. IL MIRACOLO DELLA CREAZIONE

http://moked.it/blog/2009/04/06/verso-pesach-la-benedizione-del-sole-il-miracolo-della-creazione-ogni-28-anni/

LA BENEDIZIONE DEL SOLE. IL MIRACOLO DELLA CREAZIONE

Una preghiera per il sole? Può sembrare un rito pagano ma si tratta di uno dei più rari riti ebraici . Il Talmud (Berakhot 59a) ci dice che ogni 28 anni il sole si trova nella stessa posizione, nella stessa ora del giorno e nello stesso giorno in cui si trovava quando fu creato a Gerusalemme esattamente alle 6 del pomeriggio. Un calcolo piuttosto complicato, quello elaborato dai nostri Maestri, che sottolineano tale evento con la prescrizione della recita di una benedizione “Benedetto tu o Signore, Dio nostro Re del mondo, che fa l’opera della creazione”, seguita da alcuni salmi che allo stesso modo esaltano l’opera della creazione.
Questo della Birkhat ha Chammah è forse il rito più raro della ritualistica ebraica e non scevro da numerose discussioni fra i Maestri che temevano si potesse fraintendere il senso di questa celebrazione. Ciò che si celebra è infatti l’opera della creazione del sole da parte dell’Onnipotente e non il sole in quanto tale.
Fra qualche giorno, esattamente l’otto aprile, vigilia di Pesach, nelle prime ore del mattino, i fedeli usciranno dalle sinagoghe e davanti al sole (speriamo che ci sia) reciteranno questa speciale preghiera. La Comunità Ebraica di Torino quest’anno oltre ad eseguire il rito della Birkhat ha Chammah, celebrerà la pubblicazione di un testo di questa preghiera, che il rav Alberto Somekh ha rintracciato nell’Archivio ebraico Terracini di Torino: un manoscritto proveniente da quella che una volta era la Comunità ebraica di Mondovì.
Rav Somekh ci racconti la storia di questo ritrovamento.
L’archivio Terracini, nato nel 1973 grazie a un notevole lascito di libri e documenti appartenuti ai fratelli Benvenuto e Alessandro Terracini, dispone anche di una biblioteca nella quale sono pervenuti volumi da tutte le comunità ebraiche del Piemonte. Nel fondo della Comunità di Mondovì alcuni anni fa abbiamo trovato un antico manoscritto dell’800 che attesta una Birkhat ha Chammah, e si è deciso di stamparlo nell’ambito di una ricerca che si sta conducendo sul patrimonio storico ebraico di quella città. Ho curato la pubblicazione del testo ebraico con traduzione, introduzione e note esplicative in ebraico e in italiano.
Quali sono gli aspetti liturgici della preghiera?
Vi è un contenuto in versetti e salmi in cui le creature ringraziano l’Onnipotente per l’opera della creazione. Qui a Torino vi sarà una cerimonia che si svolgerà subito dopo la tefillà di shachrit. Saliremo sulle cupole della sinagoga e reciteremo la benedizione.
Quest’anno poi, la celebrazione coincide con la vigilia di Pesach, com’era già avvenuto nel 1925, e questo rende ancora più impegnativa una giornata che già lo è perché alla tefillà ordinaria si aggiunge il digiuno dei primogeniti e la Birkhat ha Chammah.
Questa preghiera non viene un po’ meno al principio di non amare altri dei…
Assolutamente no, e non bisogna cadere in quest’errore. Noi non ci rivolgiamo direttamente al sole, ma al Creatore e lo ringraziamo per l’opera della creazione del sole, per la sua bellezza, per il suo calore, per la sua luce. Non c’è alcuna possibilità di fraintendere. Anzi, questa berachà ribadisce la concezione ebraica del rapporto con il creato.

Or ha Chamma
A cura del rav Alberto Moshè Somekh
Zamorani Editore, pagg. 88, 14 euro

Lucilla Efrati

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Publié dans:BENEDIZIONE, ebraismo |on 10 août, 2013 |Pas de commentaires »

PURIM – LA FESTA DELLE SORTI

http://www.nostreradici.it/giornata_cultura09.htm

PURIM – LA FESTA DELLE SORTI

Purim, la più gioiosa tra le festività ebraiche, è la festa più amata dai bambini. Cade a metà del mese ebraico di Adar e ricorda il sovvertimento delle sorti e il conseguente scampato pericolo per il popolo ebraico.
La storia di Purìm (in ebraico Purim significa « sorti ») accaduta circa 2500 anni fa, ci viene raccontata nella Meghillàth Estèr, il Libro di Ester, libro che fa parte del canone biblico e che in questa occasione si legge pubblicamente.
La storia che viene narrata in breve è la seguente: Assuero, re di Persia e di Media, regnava su 127 province, era un sovrano molto potente ed aveva accanto a sé una moglie che però (essendosi rifiutata di partecipare ad un banchetto fatto preparare dal re e a cui erano stati invitati le persone più importanti del regno) venne ripudiata. Vennero quindi convocate le più belle ragazze del paese e fra queste fu scelta una ragazza ebrea, Estèr che andò così in sposa ad Assuero. Ester divenne la nuova regina e nella storia avrà un importante ruolo: difatti Hamàn, primo Ministro del re Assuero, chiese ed ottenne dal re che tutti gli ebrei del regno fossero uccisi, in un giorno che sarebbe stato tirato a sorte (pur). Fu così tirato a sorte il 13 di Adar. Quando Mordekhài, zio della regina lo seppe, si rivolse ad Ester perché intercedesse. Ester informò il re sulle malvagie macchinazioni e supplicò di salvare il suo popolo e lei stessa, in quanto ebrea. Per merito della regina gli ebrei, con l’aiuto del Signore, riuscirono a salvarsi.
Assistere alla lettura del Libro di Ester è uno dei precetti della festa. In questo giorno si devono anche fare doni ai bisognosi, inviare dei cibi a due persone diverse, partecipare ad un banchetto festivo.
Negli anni embolismici (con un mese in più) Purìm viene festeggiato in Adàr Shenì perché l’intervallo, fra questa festa e Pésach, deve essere di circa trenta giorni.
Il giorno 13 è giorno di digiuno in ricordo del digiuno fatto da Estèr per invocare l’aiuto del Signore.
Midrash
« Se anche dovessero essere cancellate tutte le feste dal nostro ricordo, la festa di Purim sarà sempre ricordata. »

Un approfondimento:  » Meghillat Ester: lo svelamento del nascosto. »
di rav Roberto Della Rocca
 » … Questi giorni di Purim non cadranno in disuso tra gli ebrei ed il loro ricordo non cessi in mezzo alla loro discendenza… » (Libro di Ester, 9; 28).
Nella sua grande opera di giurisprudenza ebraica, il Mishnèh Torà, Maimonide (1135-1204) sostiene che nell’era messianica tutti i libri della Bibbia cadranno in disuso tranne il Rotolo di Estèr essendo questo duraturo come i cinque libri della Torà, l’esistenza della quale è eterna e, continua, « …anche se dovesse scomparire il ricordo di tutte le nostre sofferenze, quello di Purim non sarà mai cancellato ».
Ma perché proprio il Libro di Estèr e con esso il ricordo di Purim dovrebbero sopravvivere a tutti gli altri? La Meghillàh (termine che deriva dalla g-l-l, che significa arrotolare, avvolgere, e che indica la lettura su un rotolo di pergamena come il Sefer Torà) è un libro che narra di una comunità completamente assimilata, sradicata dalla sua terra d’origine, lontana, materialmente e spiritualmente, dalla Terra di Israele, di cui, in tutto il racconto, non si fa alcun cenno, né come ricordo né, tanto meno, come mèta di aspirazione. Siamo nel pieno della golàh, dell’ esilio, quindi, al punto che gli ebrei temono addirittura di rivelare la loro identità.
Un altro segno sorprendente è che, contrariamente a quanto si fà durante la festa di Chanukkàh, a Purim non si legge l’ Hallel (lett. lode; è il nome dato ai Salmi 113-118), riservato solo ai miracoli avvenuti in Terra di Israele.
Ciononostante, Estèr ottiene quello che ai valorosi fratelli Maccabei non è stato concesso: non solo il suo libro viene incluso nel canone biblico, ma questo ha dato anche il nome ad un trattato talmudico, chiamato appunto « Meghillàh ».
Ciò che però più sorprende, nel libro di Estèr, è che in tutto il testo non viene mai citato il Nome di Dio, né alcuno dei Suoi attributi. Questa peculiarità della Meghillàh, cioè di essere l’unico libro della Bibbia non solo privo della parola e dell’azione di Dio, ma anche di qualsiasi riferimento a Lui, ha fatto discutere molto i Maestri, prima che si arrivasse alla decisione di inserire anche questo testo nel canone biblico.
La stessa storia di Estèr, sembra essere un concatenarsi di eventi del tutto casuali: ad esempio, il grande banchetto del re Assuero, la decisione di chiamare la regina Vashtì, il rifiuto di questa di presentarsi, la scelta di Estèr, il tentativo del colpo di Stato scoperto casualmente da Mordekhài, l’insonnia del re, l’arrivo di Hamàn e di Assuero proprio in quella notte. Il destino del popolo ebraico sembra completamente abbandonato al caso e alla fatalità.
Il termine Purim, dal persiano pur, designa le sorti che si gettano per fissare una data o per regolare il destino altrui secondo il decreto del solo caso. L’esistenza degli ebrei sembra legata a una partita a dadi e il popolo stesso appare impotente in un mondo mosso dalla sorte, abbandonato a un destino cieco, in un mondo da cui Dio sembra assente o, quantomeno, così ben nascosto che tutto accade come se Egli non esistesse.
I Maestri del Talmùd, ricorrendo ai più originali espedienti interpretativi, si domandano « …dove si parla di Estèr nella Torà… » (Talmùd babilonese; Haghigàh 5, b). I Maestri fingono di non sapere che tra la Torà ed Estèr trascorrono almeno sette, otto secoli.
Per capire il senso della loro domanda bisogna interpretare il testo come segue: in quale punto della Torà si trova un’allusione alla storia di Estèr? Nella Torà, dove è compresa la storia passata, presente e futura del popolo ebraico, deve pur esserci un qualche riferimento al tipo di miracolo che caratterizza Purim e molta parte della storia ebraica. I Maestri leggono quindi nel verso del Deuteronomio 31; 18: « …ed Io continuerò a nascondere il Mio volto in quel giorno… », un preciso riferimento a Estèr e a Purim.
Il Talmùd, quindi, scorge uno stretto rapporto tra il tema del Dio nascosto, che si eclissa, e l’etimologia del nome Estèr, che significa appunto nascosta.
La salvezza del popolo di Estèr e di Mordekhài avviene in modo nascosto e discreto, diversamente da quanto accade per altri miracoli, nei quali Dio si manifesta e opera in forma palese, come, ad esempio, nella liberazione degli Ebrei dall’Egitto.
Ecco perché qualche commentatore ha tentato di trovare un’allusione al Nome di Dio nel verso in cui Mordekhài, spazientito dalle esitazioni di Estèr a presentarsi al re ed intercedere per la salvezza del popolo, dichiara: « … se tu in questo momento taci, liberazione e salvezza sorgeranno da un altro luogo.. » ( Ester 4; 14).
Il termine Maqom, Luogo, designerebbe la stessa residenza divina, conformemente a quanto sostiene la letteratura rabbinica: « Egli è il Luogo del Suo mondo, ma il Suo mondo non è il Suo Luogo », nel senso che Dio è onnipresente anche quando Egli è nascosto.
La parola ebraica che indica il mondo è olam e deriva dalla radice alum, nascosto, forse per significare che l’esistenza di Dio in questo mondo è nascosta e lo scopo dell’ olam, cioè del mondo nascosto, è la ricerca di quella verità, emèt, che secondo il Midràsh al momento della creazione Dio ha gettato a terra, affinché l’uomo la facesse germogliare con i suoi propri strumenti.
Compito dell’uomo quindi, è quello di cogliere l’intervento di Dio non tanto nelle dieci piaghe o nell’aprirsi del mare, quanto piuttosto negli eventi di ogni giorno, poiché un’eccessiva enfasi sull’attività miracolosa di Dio può farci dimenticare che la Sua presenza è in ogni luogo.
Benché altri quattro libri biblici portino il nome di Meghillàh, quello di Estèr è considerato il Rotolo per antonomasia.
Durante il suo srotolamento ci viene gradatamente rivelato ciò che è avvolto e nascosto. Dio si rivela una guida così silenziosa e invisibile, che la Sua reale partecipazione agli eventi dell’uomo può anche essere messa in discussione.
L’abilità, la forza di Israele consiste nel saper srotolare il rotolo, dipanare la matassa: potremmo dire nel saper « meghillare estèr », cioè svelare il nascosto, sollevare il velo dell’ascondimento, saper leggere dietro la maschera dell’apparenza e restituire un significato autentico al volto della maschera, che di umano ha solo la parvenza.
è detto nel Talmùd che nel pasto del giorno di Purim è consuetudine bere tanto vino fino al punto di non saper più distinguere la destra dalla sinistra, di non saper più riconoscere la differenza tra « maledetto Hamàn e benedetto Mordekhài ».
(è notevole tra l’altro che le due espressioni, arur Hamàn e baruch Mordekhài, abbiano lo stesso valore numerico secondo la Ghematrià, regola interpretativa che si basa sul valore numerico delle lettere).
In un universo, quindi, dominato dalla confusione, dove non si discerne il giusto dall’ingiusto, dove la fatalità sembra reggere i due estremi della catena della storia e il mondo rischia di trasformarsi in una gigantesca mascherata, e in una sbornia generale, i Maestri invitano a mantenere quel discernimento che permette di decifrare il senso del trucco universale.
In ebraico la differenza tra golàh, esilio, e gheullàh, redenzione, è data da una sola lettera la a Alef, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, la lettera con cui iniziano fra l’altro diversi nomi di Dio, la parola Adàm, uomo, i Dieci Comandamenti, la lettera con cui doveva avere inizio la Torà, ma che ha dovuto lasciare il posto alla b Bet, la seconda lettera dell’alfabeto, forse per insegnare al mondo, simboleggiato dalla dualità della Bet, di tendere alla ricerca dell’Uno.
Se la gheullàh è la condizione ideale a cui deve aspirare il popolo ebraico, ed essa sarà raggiunta con la celebrazione di quel Seder, quell’ordine di tutta l’umanità, la golàh del libro di Estèr, è la condizione reale del mondo, dove tutto è confuso, distorto, disordinato.
Tuttavia la golàh e la gheullàh non sono così distanti fra loro come potrebbe sembrare; infatti negli anni embolismici, quando si aggiunge un tredicesimo mese, Adar , si celebra Purim nel secondo Adar, per avvicinare il più possibile questa ricorrenza alla festa di Pesach. Purim, infatti è la preparazione a Pesach, una preparazione per la completa gheullàh.
Purim, le sorti del popolo ebraico, sono legate alla ricerca e alla riconquista dell’Alef, dell’unicità, dell’identità individuale e collettiva, di quella particella dell’ Unico che è in ognuno di noi e in virtù della quale Gli somigliamo.
è proprio l’assenza dell’ Alef che consente agli Hamàn di ogni tempo di giocare a dadi le sorti del popolo ebraico. La disunione e le scissioni all’interno del popolo ebraico scatenano le forze di Amalek, antenato di Hamàn, prototipo dell’antigiudaismo irrazionale e gratuito di tutte le generazioni destinato a minacciare l’esistenza di Israele in tutti i tempi della storia.
La salvezza nella storia di Purim, giunge viceversa solo quando Estèr rivela ciò che ha tenuto celato: la sua identità, la sua Alef, adempiendo così all’imperativo della Torà
 » …Ricorda ciò che fece a te Amalek..! » (Deuteronomio, 25; 17).
Il digiuno istituito da Estèr per invocare l’aiuto divino contro il decreto di Hamàn diventa, quindi, una premessa a un radicale capovolgimento della situazione. La Teshuvàh, il pentimento, il ritorno, attraverso il digiuno rappresenta l’occasione per scrutare dentro di sé, per riprendere in mano le sorti del proprio destino e per liberarsi da un esilio che non ha una valenza esclusivamente geografica.
La condizione necessaria per passare oltre la golàh e raggiungere la gheullàh è, dunque, l’esperienza della Teshuvàh, così come è detto nel Talmùd « …grande è la Teshuvàh perché avvicina la gheullà…. » ( Jomà 86, b). Forse questo è il senso di ciò che è sostenuto dalla letteratura rabbinica: la parola Purim, sorti, è contenuta dalla parola Kippurim, espiazioni. Le sorti sono dentro le espiazioni, nel senso letterale dell’affermazione, ma si può anche leggere: le sorti sono nella Teshuvàh.
Solo con la Teshuvàh l’ebreo riprende quindi in mano, responsabilmente e coscientemente, le proprie sorti, non consentendo più che il caso decida per lui.
Purim-Kippurim, (in questo caso la k Kaf iniziale potrebbe avere la funzione di « come ») Purim come il giorno del grande digiuno! La vita dell’uomo oscilla tra queste due dimensioni, così diverse, ma al contempo così legate tra loro. Il mascherarsi e lo smascherarsi completamente!
Il digiuno, in fondo, è la necessaria conseguenza di un grande banchetto, e l’introspezione è l’inevitabile reazione a una rumorosa baldoria; talvolta è proprio una sbornia e il travalicamento dei limiti a stimolare un sincero esame di coscienza.
Nella concezione ebraica, il corpo non è scisso dall’anima: la nostra esistenza fisica nel mondo, messa in pericolo a Purim e, quindi, esaltata attraverso un banchetto, è inscindibile dalla nostra esistenza spirituale celebrata nello Jom Ha-Kippurim. Non c’è un Kippurim senza un Purim che lo determini e lo motivi, e non c’è un Purim senza un Kippurim che lo contenga e gli dia senso.
La prima volta che figura la parola estèr nella Torà è in Genesi 4; 14:
 » … Sarò rimosso dal tuo cospetto… ». è Caino che parla: egli teme di essere abbandonato da Dio e non essere considerato più come uomo. Caino, uccidendo suo fratello, tende a restaurare il caos originario dell’universo. Eppure la sua condanna non è la pena capitale, ma l’esilio: il primo assassino gode di una strana immunità, nessuno ha il diritto di imitarlo, grazie a un marchio che Dio incide su di lui. Il primo segno che il Signore pone nel mondo. Secondo un midràsh Adamo incontrando Caino rimane stupito nel trovarlo vivo, tanto da chiedergli: » non hai forse ucciso tuo fratello Abele? » Caino gli risponde:  » Io ho fatto Teshuvàh padre e sono stato perdonato! » nascondendo il volto fra le mani, Adamo, allora, esclama: « tanto grande è il potere della Teshuvàh? … non lo sapevo! ».
Caino, l’uomo del crimine brutale, rappresenta la prova vivente che il perdono è possibile e che la forza della Teshuvàh può far risplendere la luce velata dall’oscurarsi del volto di Dio: la Hastaràt Panim.
« … Se si legge la Meghillat Estèr a ritroso non si è compiuto il proprio obbligo… » (Mishnàh, Meghillàh, 2; 1)
Quale è il senso di questa norma? Chi legge la Meghillat Estèr pensando che gli eventi in essa narrati appartengano solo al passato, « a ritroso », e il miracolo non è rilevante per il presente, non ha compiuto il suo obbligo.
Molti eventi della storia ebraica, anche quelli più recenti sembrano farci rivivere la storia del libro di Estèr, dove Dio sembra essere completamente assente. Per questo motivo i Maestri hanno visto nella storia di Purim, la condizione paradigmatica del popolo ebraico, indicando che sta all’uomo cercare la presenza divina nella storia, anche quando l’oscurità dell’esilio è divenuta più fitta, o quando la disumanità della maschera rischia di trasfigurare il volto umano.
Non dimentichiamoci, infatti, che nella lingua ebraica, l’etimo g-l-h significa « esiliare » e « rivelare » nello stesso tempo.

Publié dans:ebraismo, Ebraismo : feste |on 23 février, 2013 |Pas de commentaires »

per il 27 gennaio il giorno della memoria – Primo Levi: il dovere della memoria

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Primo Levi: il dovere della memoria 

di Tina Borgogni Incoccia

Fino dal tempo di detenzione nel campo di sterminio di Auschwitz, Primo Levi sentì l’esigenza di raccontare la sua esperienza infernale e, subito dopo il ritorno, provò l’impulso immiediato e violento di farne “gli altri” partecipi, forse per liberarsi di un peso insopportabile da sostenere.
Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, /  voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una  donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno.
Così leggiamo nella poesia che costituisce l’avantesto di Se questo è un uomo.
Scrisse il libro di getto, con l’incubo di non essere ascoltato e creduto. In realtà, nella frenesia vitale di riappropriazione dell’esistenza, caratteristica di tutti i dopoguerra, non c’era troppa voglia di voltarsi indietro e riaffondare nell’orrore del passato. Il libro, rifiutato da Einaudi, trovò finalmente un editore che ne stampò soltanto duemilacinquecento copie, di cui appena millecinquecento vendute, soprattutto a Torino, città dell’autore. Italo Calvino ne fece una buona recensione sull’“Unità”, ma Levi, convinto ormai del fallimento della sua aspirazione alla scrittura, si impegnò a svolgere con scrupolo soltanto la sua professione di chimico.
Dieci anni dopo, furono i giovani a risvegliare in lui la vocazione sopita.
Invitato nel 1956 a partecipare ad una mostra sulla deportazione, egli si vide circondato dai ragazzi che volevano sapere, volevano sentirlo raccontare. La sua parola, concisa, senza sbavature, con l’evidenza efficace della verità dei fatti raccontati, trovò finalmente gli ascoltatori attenti che egli avrebbe voluto incontrare nei primi anni del suo ritorno a casa.
L’editore Einaudi, nuovamente sollecitato, si decise finalmente a pubblicare il libro, nella collana dei Saggi (1958) e da allora esso fu ristampato e tradotto in tante lingue del mondo. A questo libro ne seguirono altri: La tregua, Vizio di forma, La chiave a stella, Se non ora, quando?, I sommersi e i salvati, che confermarono in Primo Levi la sua vocazione di scrittore e gli fecero ottenere premi e riconoscimenti in Italia e all’estero.
Egli era tornato dai campi di sterminio nell’ottobre del 1945, dopo un viaggio lungo e avventuroso attraverso la Russia, viaggio che descrisse nel suo secondo libro La tregua, pubblicato nel 1963 e premiato a Venezia col Campiello. Il racconto, scritto con intenti letterari, cioè con una più accurata elaborazione formale, con una maggiore variatà di argomenti, con note anche ironiche e scherzose che potevano rendere più piacevole la lettura, ha avuto nel 1997 una trasposizione filmica, realizzata dal regista Francesco Rosi nel decennale della morte dell’autore.
Nessun libro di Levi raggiunse comunque l’efficacia del primo, scritto con l’impeto febbrile dovuto all’urgenza della sua prima disperata testimonianza. Ad Auschwitz, durante la deportazione, le S.S. avevano ironicamente sentenziato: Se anche sopravviverete, non vi crederà nessuno. Si sbagliavano profondamente.
Levi attribuiva la sua sopravvivenza a vari fattori: egli conosceva abbastanza il tedesco e questo gli permetteva di capire gli ordini con immediatezza. Data la sua laurea in Chimica lo avevano utilizzato in un laboratonio dove soffriva meno il freddo e i disagi materiali. Si era inoltre ammalato provvidenzialmente di scarlattina quando, nel 1945, avvicinandosi i Russi, i prigionieri furono fatti spostare a Buchenwald e a Mathausen dove morirono quasi tutti, mentre i malati furono abbandonati al loro destino.
Pochi furono i superstiti, perché inumane erano le condizioni di vita del campo. Nella lotta per sopravvivere ognuno era ferocemente e disperatamente solo, tutto teso con selvaggia pazienza e con qualsiasi mezzo, a ritagliarsi un angolo minuscolo di privilegio, un grammo in più di pane, un lavoro meno sfibrante. Gli altri, i sopraffatti dalle fatiche, dall’inedia, dal freddo, erano destinati a soccombere, ad essere eliminati, ormai distrutti e già morti prima di andare nelle camere a gas, perché troppo stanchi.
Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto _ scrive Levi _ e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occbi non si possa leggere traccia del pensiero.
E, sempre a proposito di Auschwitz, Levi afferma:
Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuta. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.                                                                                                                                   
In mezzo a tanta desolazione, avvertiamo però ad un tratto nelle sue pagine la sferzata di energia che può provenire dalla forza morale emanata dalla grande poesia.
Levi sta lavorando con altri all’interno di una grande cisterna interrata con poca luce e la polvere di ruggine che gli brucia le palpebre. Arriva Jean, il prigioniero alsaziano che gode nel Kommando di una posizione particolare, perché è il più giovane (lo chiamano il Pikolo) e può scegliere chi lo accompagnerà a ritirare, con il carretto, la marmitta di cinquanta chili con il rancio giornaliero. Viene scelto Levi. Il ragazzo ha simpatia per lui, conosce bene il francese e vorrebbe imparare l’italiano.
Il tragitto è di circa un chilometro, ma Jean sceglie la via più lunga. E’ una chiara e tiepida mattinata di giugno e all’orizzonte si delineano i Carpazi bianchi di neve. Levi sceglie per la sua lezione il canto di Ulisse (Inferno, XXVI). Deve parlare di Dante, di Beatrice, di Virgilio. Il Pikolo è attentissimo e Levi comincia a declamare: Lo maggior corno della fiamma antica… Gli anni del Liceo sono purtroppo lontani e qualche verso è inesorabilmente dimenticato. L’episodio è lungo e il tempo passa velocemente. Ci sarebbero ancora tante cose da dire, ma a Levi preme arrivare alla terzina che sta fissa e luminosa nella sua memoria.                                              
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza (1).
(1) voce arcaica, per conoscenza

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di  tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Forse il messaggio è arrivato perché riguarda tutti gli uomini in travaglio e Jean è intelligente. La conclusione avviene in fretta perché è tardi e sono arrivati alla cucina; sono ormai nella fila, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos.

Infin che il mar fu sopra a noi ricbiuso.

L’ultimo verso è pronunciato prima dell’annuncio ufficiale che la zuppa del giorno è di cavolo e rape: kraut und rüben.
Tina Borgogni Incoccia

Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi tascabili, 1999.

 Primo Levi: la materia e la letteratura

27 gennaio 2002. Giornata della memoria per le vittime dell’odio razziale
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