L’UMANESIMO BIBLICO DI ABRAHAM JOSHUA HESCHEL
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L’UMANESIMO BIBLICO DI ABRAHAM JOSHUA HESCHEL
(molti studi ne metto uno)
2. Esperienza dell’ineffabile
Il punto di vista fenomenologico, appreso da Heschel nei suoi anni di studio a Berlino, parte dal dato elementare fondamentale «io sono». Un ‘dato’ che tuttavia non ha una propria autoevidenza; la posizione interrogativa conseguente, ‘chi sono? ‘ e ‘perché sono? ‘, dimostra che c’è una paradossale sproporzione tra la datità ontico-ontologica e l’autoconoscenza a cui non possiamo però rinunciare.8 L’affermazione ontologica prelude allo stupore, lo stupore d’esistere.9 Si potrebbe affermare che nell’uomo, il dato richiede l’interrogativo. La tonalità emotiva fondamentale non è né la Geworfenheit (deiezione, essere gettato), né l’Angst (angoscia), per utilizzare la terminologia di Heidegger, bensì piuttosto lo stupore che manifesta la dicotomia tra l’essere e la capacità di dire l’essere, che si meraviglia del suo stesso essere. Io sono, ma non sono in grado di esprimere chi sono e perché sono.10 Questo stupore apre l’uomo al mistero e lo rende insoddisfatto di qualsiasi risposta che pretenda di essere totalizzante e definitiva sul senso del suo esistere. Nel saggio citato «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico», Heschel inizia con questa affermazione: «Le nostre teorie svaniranno, e una dopo l’altra ci getteranno polvere negli occhi, a meno che non osiamo affrontare non solo il mondo, ma anche l’anima e iniziare a stupirci della nostra mancanza di stupore di fronte al fatto di essere vivi, stupirci di dare la vita per scontata».11 L’esercizio dell’esistenza non è un’anonima ripetizione di atti, bensì una ‘pretesa di significato’ e per Heschel ciò significa che «la coscienza è dedizione a un disegno».12
Esiste una radice metafisica dello stupore, e qui il termine ‘metafisica’ assume una valenza che trascende le critiche portate a questo concetto dalla modernità, una radice che fenomenologicamente appartiene all’umano nella sua struttura essenziale. Lo stupore nasce dal senso dell’ineffabile. Quest’ultimo non è semplicemente l’espressione della negatività e del limite, ma paradosso di un soggetto che nella sua finitezza non può non aprirsi all’infinito intravisto nell’essere e nella propria esistenza. Mancanza di stupore e assenza del senso dell’ineffabile sono quindi drammaticamente correlati e ben esprimono una delle caratteristiche dell’uomo occidentale contemporaneo, la sua natura prometeica che, come dice il nome dell’eroe greco,13 è caratterizzata da un sapere preveggente. Stupirsi significa riconoscere che non tutto ciò che è, è dicibile e, tuttavia, non siamo condannati al silenzio sterile dell’ignoranza, piuttosto al silenzio fecondo della contemplazione del mistero.14 L’ineffabile ha trovato molti interpreti, tra i più interessanti nella nostra prospettiva possiamo ricordare almeno Kant, Wittgenstein, Jaspers, per citare autori la cui ispirazione non è immediatamente legata al contesto biblico. Il senso dell’ineffabile è il senso dell’infinito, della totalità del senso, misura dell’incommensurabile.
Dell’ineffabile, per definizione, non c’è conoscenza, ma possiamo farne esperienza; anzi costituisce la condizione stessa della possibilità dell’esperienza. Il piano dell’esperienza è più ampio di quello della ragione e della conoscenza. Sperimentare l’ineffabile, non significa ricondurre a concetto o a nome ciò che non ha nome, a parola ciò che non può essere detto; piuttosto significa attingere una dimensione originaria, un’ottica che permette di vedere altrimenti il mondo. Non più soltanto mondo di cose conoscibili, ma anche orizzonte di eventi al di là delle cose. Scrive Heschel: «Divenire consapevole dell’ineffabile vuol dire entrare in urto con le parole. L’essenza, la tangente alla curva dell’esperienza umana, è al di là dei confini del linguaggio. Il mondo delle cose che percepiamo altro non è che un velo. Il suo fluire è musica, il suo ornamento è scienza, ma ciò che vi si cela è imperscrutabile. Il suo silenzio rimane intatto: nessuna parola riesce a cancellarlo».15
Si diceva sopra che lo stupore nasce dal senso dell’ineffabile. Quest’espressione nella visione di Heschel va presa alla lettera. Se stupirsi appartiene in maniera essenziale all’uomo, ciò significa che «Il senso dell’ineffabile non è una capacità esoterica, ma una facoltà di cui tutti gli uomini sono dotati; è una qualità potenzialmente comune a tutti, come la vista o la capacità di formulare sillogismi. Infatti, come l’uomo è dotato della capacità di conoscere determinati aspetti della realtà, così è dotato della capacità di sapere che nella realtà esiste più di quanto egli sappia. La sua mente si interessa all’ineffabile e a ciò che è esprimibile, e la consapevolezza del suo stupore radicale è universalmente valida quanto il principio di contraddizione o quello di ragion sufficiente». [...] «Il senso dell’ineffabile percepisce qualcosa di oggettivo che non si lascia concepire dalla mente o captare dall’immaginazione o dal sentimento, qualcosa di reale che, per la sua stessa natura, trascende la portata del pensiero e del sentimento».16 Tutto ciò significa che «l’ineffabile è concepibile, nonostante che sia inconoscibile».17
Ho sopra ricordato Kant, Wittgenstein e Jaspers, si può aggiungere Levinas e la sua proposta filosofica imperniata sull’idea dell’infinito ripresa da Descartes, ma tutto ciò che cosa ha a che fare con la prospettiva biblica, se è ancora questo l’obiettivo della nostra breve analisi? La lettura hescheliana dell’ineffabile, a mio avviso, apre delle prospettive particolarmente interessanti per l’autocomprensione dell’uomo ed è qui che si intreccia con l’ottica biblica. A differenza di gran parte della filosofia occidentale, in particolare moderna, Dio non è né il grande assente, né la presenza ingombrante che sovrasta e nega l’autonomia dell’uomo. Heschel intorno all’ineffabile presenta un ‘intrico’ in cui Dio e uomo si annodano con forza liberante e creativa. «La nostra consapevolezza di Dio è una sintassi del silenzio, in cui l’anima si mescola al divino, in cui l’ineffabile che è in noi si unisce all’ineffabile che è al di là di noi. [...] Nel regno dell’ineffabile Dio non è un’ipotesi derivata da presupposti logici, ma un’intuizione immediata, evidente di per sé come la luce. Egli non è qualcosa che si debba cercare al buio col lume della ragione. Al cospetto dell’ineffabile Egli è la luce».18
L’esperienza dell’ineffabile oltrepassa la sfera teoretica e diventa carne di un’esperienza esistenziale radicale in cui si dischiude un significato che trasfigura l’esistenza stessa. La trasfigurazione consiste nel riconoscimento, che è però rovesciamento, che ‘essere è obbedire’. «Essere — scrive Heschel — è obbedire al comandamento della creazione. Nell’essere è in gioco la parola di Dio. Vi è una religiosità cosmica nel mero essere. Ciò che esiste rimane come risposta a un comando. » [...] «La mia esistenza infatti non è frutto della mia volontà di esistere. Essere è obbedienza, è una risposta: ‘Tu sei’ viene prima di ‘io sono’. Io sono perché sono chiamato ad essere».19
Una costante del pensiero ebraico nella molteplicità delle sue espressioni è quella di vedere nella creazione dell’uomo un evento qualitativamente diverso rispetto agli altri enti, nella fenomenologia dell’esperienza dell’ineffabile si annuncia questa differenza. La capacità dell’esperienza dell’ineffabile è il fenomeno della sua spiritualità, a sua volta, differenza qualitativa nell’essere. La narrazione biblica della creazione dell’uomo è, in primis, un racconto su Dio, perché Egli ne è il paradigma.
