Champaigne, Sermon sur la montagne

S. GREGORIO DI NISSA: OMELIE SULLE BEATITUDINI – ORAZIONE SECONDA
« BEATI I MITI PERCHÉ EREDITERANNO LA TERRA »
La scala delle beatitudini: il principio della consequenzialità.
Coloro che salgono in alto con una scala, quando calcano il primo gradino, grazie ad esso si portano su quello superiore e, di nuovo, il secondo gradino conduce al terzo colui che sale e questo al successivo e quello al gradino dopo di lui. Così anche colui che sale, sollevandosi dal luogo in cui si trova sempre più su, arriva fino al culmine della salita. Con quale mira inizio da queste considerazioni? A me pare che l’ordine delle beatitudini si disponga quasi come quello dei gradini, rendendo facilmente percorribile al discorso la salita dall’una all’altra. Colui, infatti, che è salito con la mente al primo grado della beatitudine, per una necessaria consequenzialità dei pensieri, raggiunge quello successivo, sebbene il discorso, ad un primo momento, sembri strano. « Non è possibile -dirà forse colui che ascolta- che, seguendo la disposizione dei gradini, l’eredità della terra venga dopo il regno dei cieli; se il discorso doveva seguire la natura degli esseri, era più conseguente che la terra fosse posta prima del cielo, dal momento che per noi l’ascesa è dalla terra al cielo ». Ma se saremo, per così dire, sollevati in alto dalla parola divina e se ci stabiliremo nelle regioni superiori alla volta celeste, troveremo là la terra sovraceleste che è lasciata in eredità a coloro che hanno vissuto secondo virtù; non deve pertanto sembrare errato l’ordine della sequenza delle beatitudini: prima i cieli, poi la terra che ci è proposta da Dio nelle promesse.
La pedagogia linguistica del Logos
Tutto ciò che si manifesta ai sensi del corpo è totalmente affine al sensibile. Sebbene, infatti, il cielo sembri essere superiore per l’elevatezza del luogo, tuttavia è inferiore all’essenza intellettuale, che è impossibile raggiungere con il ragionamento, senza che questo, prima, oltrepassi con la ragione ciò che è raggiunto dai sensi. Nessuna meraviglia, dunque, se la regione superiore è chiamata con il nome di terra; infatti il Logos, che è sceso verso di noi perché a noi non era possibile elevarci fino a Lui, è disceso fino alla pochezza del nostro udito. Perciò Egli ci consegna i misteri divini con parole e nomi a noi conosciuti, facendo uso di quei suoni che la consuetudine della vita umana comprende. Nella promessa precedente a questa, infatti, chiamò quell’indicibile beatitudine celeste « regno ». Intendeva, dunque, qualche cosa di simile a ciò che comporta il regno terreno? Dei diademi circonfusi dello splendore delle pietre? Vesti splendenti di porpora che mandano dolci riflessi agli occhi bramosi? Intendeva forse vestiboli, tendaggi, troni sublimi, dorifori ed ogni altro spettacolo di questo genere, tragica rappresentazione, sulla scena della vita, di coloro che esaltano il fasto del potere più del dovuto con simili spettacoli? Ma poiché il nome di regno è qualche cosa di grande e superiore a tutte le aspirazioni degli uomini durante la vita, Egli fece uso, per questo, di tale nome per indicare i beni superiori; nello stesso modo, se ci fosse stata per gli uomini un’altra realtà, superiore al regno, certamente Egli avrebbe elevato l’anima dell’uditore al desiderio dell’indicibile felicità con il nome di quella. Non era possibile, infatti, che con nomi propri fossero rivelati agli uomini quei beni che trascendono la sensazione e la conoscenza umana. Infatti dice l’Apostolo: « Occhio non vide e orecchio non udì, né entrò in un cuore di uomo » [1Cor 2,9]. Ma perché la beatitudine sperata non sfugga alla nostra mira, ascoltiamo quanto ci vien detto su questi beni ineffabili, così, come è possibile alla miseria della nostra natura. L’omonimia, pertanto, non trascini di nuovo la tua ragione dalla terra sopra i cieli a quella di quaggiù, ma, se sei stato elevato dal Logos con la beatitudine precedente e sei entrato nella speranza celeste ricerca con me quale sia quella terra che è eredità non di tutti, ma solo di quelli giudicati degni di quella promessa per la mansuetudine della vita. Il grande Davide, che la Sacra Scrittura testimonia essere stato, tra i suoi contemporanei, mansueto e paziente, credo avesse previsto questa terra per ispirazione dello Spirito e che già possedesse per fede quanto sperava, quando diceva: « Credo di vedere i beni del Signore nella terra dei viventi » [Sal 26,13]. Io dico che il profeta non ha chiamato terra dei viventi questa, che produce tutto ciò che è mortale e di nuovo disgrega tutto ciò che da essa si genera; egli sapeva che terra dei viventi è quella in cui la morte non ha accesso, in cui la via dei peccatori non è battuta, su cui non si mostra traccia di vizio, su cui il seminatore di zizzania non traccia il solco con l’aratro della malvagità; è la terra che non produce punte e spine; in essa vi è l’acqua del riposo, il luogo verdeggiante, la fonte divisa in quattro rivi, la vite coltivata dal Dio dell’universo e quante altre cose ascoltiamo, per via di enigmi, dall’insegnamento ispirato da Dio. Se il nostro intelletto considera la terra sublime che si contempla sopra i cieli, in cui è fondata la città del Re, di cui si raccontano cose gloriose, come dice il profeta [Sal 86,3], a buon diritto non dovremmo stupirci dell’ordine consequenziale delle beatitudini. Non sarebbe conveniente, io credo, che fosse questa quaggiù la terra di benedizioni offerte alla speranza di coloro che, come dice l’Apostolo, saranno rapiti sulle nubi per l’incontro, nell’aria, con il Signore e così saranno con Lui per sempre. Che necessità hanno, ancora, della terra di quaggiù coloro la cui vita è sospesa alla speranza? Infatti « saremo rapiti sulle nubi per l’incontro con il Signore, nell’aria, e così saremo con Lui per sempre » [1Ts 4,17].
Non sempre la mitezza è virtù; carattere dinamico della virtù.
Ma vediamo di quale virtù sia premio l’eredità di quella terra. « Beati i miti -dice infatti il Signore- perché erediteranno la terra ». Che cos’è la mitezza? Perché il Logos chiama beata la mitezza? Non mi pare sia giusto ritenere egualmente virtù tutti quanti gli aspetti della mitezza, se si intende come suo significato l’esser placido o, unicamente, l’essere lento nelle reazioni. Nelle corse, infatti, chi va con calma non ha miglior successo di chi si affretta e nel pugilato chi ha difficoltà di movimento non sottrae la corona della vittoria al suo avversario. Anche noi corriamo per il premio della chiamata superiore. L’apostolo Paolo ci indica, simbolicamente, di accrescere la velocità della corsa quando dice « Correte così da ottenere » [1Cor 9,24]. Egli stesso, infatti, con un movimento sempre più impetuoso si spingeva in avanti, lasciandosi alle spalle il passato; egli era anche un pugile veloce ed agile: stabile sui suoi passi, con le mani ben armate, non lanciava nel vuoto, vanamente, l’arma che teneva in mano, ma assaliva l’avversario al momento opportuno, percuotendolo nel corpo. Vuoi conoscere l’arte del pugilato di Paolo? Guarda le ferite dell’antagonista, guarda le lividure del rivale, i segni di chi è stato vinto! Certamente tu non ignori il rivale che gli si contrappone attraverso la carne e che Paolo rende livido con l’arte del pugilato, lacerandolo con le unghie della continenza; il rivale le cui membra egli uccide con la fame, la sete, il freddo, la nudità e su cui getta le impronte del Signore; non ignori il nemico che egli vince nella corsa, lasciandolo dietro a sé perché i suoi occhi non siano ottenebrati, mentre quello corre avanti. Se dunque Paolo è veloce e scattante nelle gare, Davide allunga i passi nell’inseguimento dei nemici [Sal 17,17ss] e lo sposo nel Cantico è paragonato ad un capriolo per l’agilità del movimento [Ct 8,9], poiché spicca balzi sui monti e salta sulle alture (e si trovano molti simili esempi in cui vale di più la velocità del movimento della mitezza), in che senso, qui, il Logos, quasi in forma di precetto, chiama beata la mitezza? « Beati i miti -Egli dice infatti- perché erediteranno la terra ». Quella terra, certamente, che è feconda di bei frutti, su cui ondeggiano le fronde dell’albero della vita, che è irrigata dalle fonti delle grazie spirituali, su cui germina la vera vite, il cui agricoltore, noi udiamo, è il Padre del Signore. Ma sembra che il Logos ci insegni tale sapienza: grande è la prontezza verso il vizio e la natura inclina al peggio. Come avviene per i corpi: la pesantezza li fa rimanere del tutto immobili rispetto a ciò che è in alto, ma se vengono fatti cadere a capofitto da una altura superiore, precipitano in basso con tale stridore, poiché il loro peso accresce il loro moto, che la velocità acquistata supera la possibilità di descrizione a parole. Poiché in questi casi la prontezza è pericolosa, dovrebbe essere stimato beato ciò che è pensato nella disposizione contraria rispetto ad essa. E questa è la mitezza che è l’atteggiamento tardo e lento rispetto agli impulsi della natura. Come il fuoco, che ha una natura che si muove sempre verso l’alto, è immobile verso la direzione contraria, nello stesso modo la virtù, che è pronta e veloce verso le realtà superiori non diminuendo mai di velocità, si arresta di fronte all’impulso contrario. Poiché dunque, secondo la nostra natura, la velocità nei vizi sovrabbonda, giustamente è chiamata beata la lentezza nei loro confronti. Infatti la quiete nei confronti dei vizi è testimonianza di movimento verso ciò che è superiore. Per rendere chiaro il discorso sarebbe meglio fare degli esempi tratti dalla vita. Il movimento della libera scelta di ciascuno ha una doppia direzione: secondo il suo arbitrio si dirige verso ciò che gli sembra opportuno, di qui la saggezza, di là dissennatezza. Ora ciò che si dice, in particolare, dell’aspetto, questo si intenda anche, in generale. La condotta dell’uomo, infatti, si scinde compIetamente negli impulsi contrari: l’irascibilità si oppone alla mitezza, l’orgoglio alla moderatezza, l’invidia alla benevolenza, la disposizione amorevole e pacificante alla malevolenza.
All’uomo è impossibile l’apátheia: la mitezza come misura delle passioni.
Poiché dunque la vita dell’uomo è materiale, le passioni riguardano le cose materiali e ognuna di esse ha un veloce ed irrefrenabile impulso alla pienezza del piacere (la materia, infatti, è pesante e trascina in basso) per questo il Signore non chiama beati coloro che vivono raccolti in se stessi, estranei alle passioni (non è infatti possibile, durante un’esistenza materiale, condurre perfettamente una vita completamente immateriale e impassibile), ma dichiara che la mitezza è il limite della virtù accettabile nella vita della carne ed afferma che è sufficiente per la beatitudine l’essere mite. Egli, infatti, non prescrive assolutamente alla natura umana l’impassibilità. Non è degno di un giusto legislatore, infatti, ordinare quanto è impossibile alla natura. è come se uno volesse trasferire in una vita aerea quanto vive d’acqua o, di nuovo, trasferire nell’acqua quanto vive di aria. Conviene, invece, che la legge sia proporzionata alla potenza corrispondente e sia secondo natura. Per questo la beatitudine non esorta ad esser privi di passioni ma esorta alla misura ed alla mitezza. Il primo caso, infatti, è possibile solo fuori della natura, il secondo, invece, è realizzabile tramite la virtù. Se dunque la beatitudine stabilisse la completa immobilità nei confronti del desiderio, vana ed inutile per la vita sarebbe la benedizione. Chi, infatti, potrebbe raggiungere tale meta, essendo un’unione di carne e sangue? Ora, Egli non dice che è condannato colui che ha desiderato in qualche circostanza, ma colui che si è attirato la passione con premeditazione. Il fatto che nascano talvolta simili impulsi è predisposto, spesso, dalla debolezza a cui è mischiata la natura e non è intenzionale. Non lasciarsi trascinare dall’impeto della passione come in un torrente, ma rimanere in piedi, coraggiosamente, di fronte ad essa e respingere con i ragionamenti la passione, questa è opera di virtù! Beati dunque coloro che non sono facili ai movimenti passionali dell’anima, ma sono mantenuti calmi dalla ragione; in essi, il ragionamento, tenendo a freno come una briglia gli impulsi, non lascia che l’anima sia trascinata nel disordine. Si potrebbero notare, nella passione dell’iracondia, degli aspetti così negativi da farci considerare ancor meglio quanto sia beata la mitezza. Infatti, non appena una parola, un’azione o il sospetto di cose più spiacevoli abbia sollevato una simile malattia ed il cuore ribolla nel sangue, anche l’anima si drizza per la vendetta. Come i racconti mitici trasformano, per una sorta di droga, in forme di esseri irrazionali, così improvvisamente si può vedere l’uomo diventare per l’ira un porco o un cane o una pantera o un altro simile animale; l’occhio è iniettato di sangue; il capello è dritto e irsuto; la voce si fa aspra e irritata nelle parole; la lingua è intorpidita dalla passione e non risponde più agli stimoli interni; le labbra sono serrate, non articolano parole e non riescono a tener chiuso nella bocca l’umore che si è formato a causa della passione, ma espellono con le mani e i piedi ed ogni atteggiamento del corpo, poiché ciascuna delle membra è disposta dalla passione. Se dunque l’iracondo fosse ridotto in tal modo e colui che volge lo sguardo alla beatitudine riuscisse, invece, a calmare il male con sguardo fermo e voce tranquilla, come un medico cura con la sua arte chi si comporta in modo indecente a causa di una malattia mentale, non dirai tu stesso, confrontando i due, che miserabile e nauseante è il primo, ridotto ad animale e beato è il mite, che non perverte la sua dignità per il vizio del vicino. Che il Logos abbia dinnanzi agli occhi soprattutto questa passione è chiaro dal fatto che ci prescrive la mitezza dopo l’umiltà. Sembra infatti che si ottenga l’una dall’altra e che il fondamento dell’umiltà sia come una madre per l’habitus della mitezza. Infatti se tu elimini l’orgoglio della condotta, la passione dell’ira non ha occasione di nascere. La tracotanza e il disonore sono la causa di simile debolezza negli iracondi. Il disonore non ha appiglio su coloro che si sono educati nell’umiltà. Se uno, infatti, avesse purificato il ragionamento dall’inganno umano e vedesse la pochezza della natura di cui partecipa, da quale principio trae origine e a quale fine si conduce l’estrema brevità di questa vita, e vedesse il sudiciume unito alla carne e la povertà della natura che non basterebbe a se stessa per il proprio sostentamento, se non supplisse alla necessità con l’abbondanza degli animali; se vedesse, costui, oltre a ciò, anche dolori, afflizioni e disgrazie ed i vari generi di mali a cui soggiace la vita umana e da cui non vi è nessuno che sia libero e immune per natura, guardando con cura queste cose, con l’occhio dell’anima purificato, non si adirerebbe facilmente per la mancanza di onori. Al contrario, riterrebbe un inganno l’onore presentatogli, per qualche ragione, dal suo vicino, poiché non c’è per noi, in natura, nulla che possa avere comunanza con l’onore, salvo l’anima, il cui onore non consiste in ciò che si cerca in questo mondo. Il vantarsi per la ricchezza, infatti, il gloriarsi per la nobiltà, il mirare alla gloria, l’apparire superiore al vicino per quelle cose di cui consistono gli onori umani, tutto ciò costituisce una distruzione dell’anima. Se l’ira non è presente, la vita trascorre calma e tranquilla. Ora, ciò non è null’altro che la mitezza, il cui fine è la beatitudine e l’eredità della terra celeste in Cristo Gesù, a cui è la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
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MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA
DI GIANFRANCO RAVASI,
Avvenire di domenica 6 marzo 2011
«Imparate da me che sono mite e umile di cuore». Questa autodefinizione di Gesù nel Vangelo di Matteo (11,29) ci permette di ricollegare il tema del ‘cuore’ di Cristo a quello della mitezza, che è al centro di una delle beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Una beatitudine che ha una sua radice anticotestamentaria nel Sal 37,11: «I miti [in ebraico, però, si ha anawìm che indica anzitutto i 'poveri'] erediteranno la terra e potranno godere della pace in abbondanza». Una beatitudine che sarà raccolta anche dal Corano, che fa esplicito riferimento al passo salmico: «Noi abbiamo scritto nei salmi […] che la terra l’avrebbero ereditata i miei servi buoni» (21,105). Sulla definizione esatta di questi ‘miti’, che le tre religioni monoteistiche esaltano come i destinatari della terra promessa, ossia del regno di Dio nella sua pienezza, si hanno differenziazioni tra gli studiosi. C’è chi vi vede i non violenti, gli oppressi che non ricorrono alla forza, coloro che non scelgono il possesso e l’autoaffermazione così da non prevaricare sugli altri e c’è chi intuisce il profilo dei mansueti, dei diseredati e degli espropriati; c’è chi pensa agli umili e agli inoffensivi, fiduciosi nella volontà di Dio e chi li considera interiormente forti e, per questo, pazienti, dolci, generosi e così via. Certo è che due sono le beatitudini parallele, anche a causa dell’unico vocabolo ebraico soggiacente alla differente terminologia greca usata dai Vangeli: «Beati i poveri in spirito» e «Beati gli umili».
Sono due atteggiamenti che hanno una radice comune e che si espandono verso Dio (beatitudine dei poveri) e verso il prossimo (beatitudine dei miti). Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica» per eccellenza e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione della politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica, la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma vuole raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza. Noi, però, vorremmo ora in modo più ampio e libero delineare il volto della mitezza nella sua accezione più comune, quella della nonviolenza; lo faremo ricorrendo a una sorta di polittico numerico, espressione sia dell’antitesi alla mitezza sia della sua pienezza. Inizieremo con l’equazione 7 a 77. È questo l’atteggiamento incarnato da uno dei discendenti di Caino, Lamech, il quale codifica la reazione tipica dell’anti-mite, colui che opta per la spirale della violenza. Celebre è quel suo terribile canto della spada sempre insanguinata: «Ho ucciso un uomo per una mia ferita e un giovane per una mia ammaccatura. Caino sarà vendicato sette volte, ma Lamech settantasette». È quell’immensa scia di sangue che pervade la terra e la storia e che non si decide mai di arrestarsi. Lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914) metteva in bocca a Dio queste parole: «Gli uomini preparavano tali orrori e mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato. Non ne potevo sopportare l’idea. Ho dovuto perdere la pazienza; eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto trattenermi. Era più forte di me. Io ho anche un volto di sdegno». Il giudizio divino è, alla fine, la protezione dei miti. Passiamo a un’altra equazione numerico-simbolica: 1 a 1, quella sottesa alla cosiddetta legge del taglione. Si legge, infatti, nel libro dell’Esodo: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, piaga per piaga» (21,23). La brutalità della formulazione, di taglio semitico, ci impedisce di vedere il progresso reale che qui si ha rispetto alla legge di Lamech: si ha, infatti, la codificazione della giustizia distributiva che sarebbe già un bel passo di civiltà. Non è forse vero che ebrei e cristiani e arabi ancora oggi nelle loro guerre adottano la norma della rappresaglia più feroce e non certo l’equilibrio della risposta giusta? Tuttavia è indiscutibile che anche in questa regola sangue chiama sangue ed è per questo che Cristo, pur attento alla giustizia, non esiterà a spezzare la catena del «taglione» (vocabolo derivante dal latino talis: tale la colpa, tale la pena), introducendo proprio lo stile della mitezza. Egli lo fa nella quinta delle sei antitesi del Discorso della Montagna, ricorrendo a una trilogia esemplificativa: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra. A uno che vuol trascinarti in giudizio per prendersi la tunica, dagli anche il mantello; se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Mt 5,38-41). Ci stiamo, quindi, spostando nella regione luminosa della mitezza, ove al radicalismo sanguinario di Lamech e al realismo duro del taglione si fa subentrare l’utopia dell’amore, un progetto che dev’essere incarnato con pazienza nella storia. Possiamo così passare a un’altra equazione: 7 a 1000. Essa, da un lato, calibra la giustizia nella sua pienezza (il 7), ma esalta il perdono e la misericordia fino all’infinito, raffigurato nel numero 1000. È ciò che viene espresso secondo il linguaggio semitico generazionale (per indicare che il peccato non è mai solo una questione esclusivamente individuale, ma sociale) in una specie di autoritratto divino, in quella che un esegeta, Albert Gelin, ha definito «la carta d’identità biblica di Dio»: «Il Signore, il Signore, Dio di pietà e misericordia, lento all’ira e ricco di grazia e verità, che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza ritenerli innocenti, che visita la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione» (Es 34,6-7). Da accostare a questa dichiarazione ce n’è un’altra, sempre messa in bocca a Dio, che ribadisce la scelta fondamentale del Signore: «Forse mi compiaccio della morte dell’empio? Oracolo di Dio, mio Signore. Convertendosi dalla sua condotta, forse non vivrà? […] Oh, non mi compiaccio certo della morte di alcuno, oracolo del Signore Dio. Convertitevi e vivrete» (Ez 18,23.32). La nostra sequenza numerica può, così, approdare a un’altra equazione: 7 a 70 x 7. È questa la formula del perdono e dell’amore cristiano che Gesù delinea in una risposta a un modello numerico suggerito dall’apostolo Pietro: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà contro di me, dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Gesù gli risponde: «Non ti dico fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18,21-22). Come si vede, c’è un’allusione per contrasto alla legge della vendetta da cui siamo partiti, ovvero all’equazione 7 a 77. Qui essa è radicalizzata e condotta, attraverso il ricorso al simbolismo settenario, a una pienezza assoluta positiva. La meta da raggiungere è quella di un Dio che fa piovere su giusti e ingiusti e fa risplendere su tutti il suo sole (cfr. Mt 5,45-46). Ormai l’appello supera le frontiere dell’amiconemico e giunge sull’invito che è lanciato sempre nel Discorso della Montagna: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (5,44). L’appello di Gesù andrà anche oltre lo stesso confine dell’io. Infatti, pur riconoscendo la validità dell’imperativo della legge «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), egli accentuerà e travalicherà quella comparazione: «Amatevi gli uni agli altri, come io ho amato voi» (cfr. Gv 13,34). Ossia con un amore infinito com’è quello divino e un amore che giunge sino a rinunciare a se stessi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici» (15,13). Vorremmo a questo punto concludere con un apologo dello scrittore argentino Jorge L. Borges (1899-1986), che prende spunto dal celebre racconto di Abele e Caino, trasformandolo in un apologo sulla colpa, il rimorso e il perdono. Abele e Caino s’incontrano dopo la morte di Abele nel tempo eterno di Dio. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele, però, disse: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima». Allora Caino replicò: «Ora so che mi hai perdonato davvero, perché dimenticare è perdonare». Solo con il perdono tutto ricomincia da capo ed è nuovo.