« …sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra

PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
IL COGNOME DI DIO
Martedì, 17 dicembre 2013
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 290, Merc. 18/12/2013)
L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome. Perché incarnandosi il Signore ha fatto storia con l’umanità: la sua gioia è stata condividere la sua vita con noi, «e questo fa piangere: tanto amore, tanta tenerezza».
È con il pensiero rivolto al Natale ormai imminente che Papa Francesco ha commentato martedì 17 dicembre le due letture proposte dalla liturgia della parola, tratte rispettivamente dalla Genesi (49, 2.8-10) e dal Vangelo di Matteo (1, 1-17). Nel giorno del suo settantasettesimo compleanno, il Santo Padre ha presieduto come di consueto la messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Ha concelebrato tra gli altri il cardinale decano Angelo Sodano, che gli ha espresso gli auguri di tutto il collegio cardinalizio.
All’omelia, incentrata sulla presenza di Dio nella storia dell’umanità, il vescovo di Roma ha individuato in due termini — eredità e genealogia — le chiavi per interpretare rispettivamente la prima lettura (riguardante la profezia di Giacobbe che raduna i propri figli e predice una discendenza gloriosa per Giuda) e il brano evangelico contenente la genealogia di Gesù. Soffermandosi in particolare su quest’ultima, ha sottolineato che non si tratta di «un elenco telefonico», ma di «un argomento importante: è pura storia», perché «Dio ha inviato il suo figlio» in mezzo agli uomini. E, ha aggiunto, «Gesù è consostanziale al padre, Dio; ma anche consostanziale alla madre, una donna. E questa è quella consostanzialità della madre: Dio si è fatto storia, Dio ha voluto farsi storia. È con noi. Ha fatto cammino con noi».
Un cammino — ha proseguito il vescovo di Roma — iniziato da lontano, nel Paradiso, subito dopo il peccato originale. Da quel momento, infatti, il Signore «ha avuto questa idea: fare cammino con noi». Perciò «ha chiamato Abramo, il primo nominato in questa lista, in questo elenco, e lo ha invitato a camminare. E Abramo ha cominciato quel cammino: ha generato Isacco, e Isacco Giacobbe, e Giacobbe Giuda». E così via, avanti nella storia dell’umanità. «Dio cammina con il suo popolo», dunque, perché «non ha voluto venire a salvarci senza storia; lui ha voluto fare storia con noi».
Una storia, ha affermato il Pontefice, fatta di santità e di peccato, perché nell’elenco della genealogia di Gesù ci sono santi e peccatori. Tra i primi il Papa ha ricordato «il nostro padre Abramo» e «Davide, che dopo il peccato si è convertito». Tra i secondi ha individuato «peccatori di alto livello, che hanno fatto peccati grossi», ma con i quali Dio ugualmente «ha fatto storia». Peccatori che non hanno saputo rispondere al progetto che Dio aveva immaginato per loro: come «Salomone, tanto grande e intelligente, finito come un poveraccio che non sapeva nemmeno come si chiamasse». Eppure, ha constatato Papa Francesco, Dio era anche con lui. «E questo è il bello: Dio fa storia con noi. Di più, quando Dio vuol dire chi è, dice: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ecco perché alla domanda «qual è il cognome di Dio?» per Papa Francesco è possibile rispondere: «Siamo noi, ognuno di noi. Lui prende da noi il nome per farne il suo cognome». E nell’esempio offerto dal Pontefice non ci sono solo i padri della nostra fede, ma anche gente comune. «Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Pedro, di Marietta, di Armony, di Marisa, di Simone, di tutti. Da noi prende il cognome. Il cognome di Dio è ognuno di noi», ha spiegato.
Da qui la constatazione che prendendo «il cognome dal nostro nome, Dio ha fatto storia con noi»; anzi, di più: «si è lasciato scrivere la storia da noi». E noi ancora oggi continuiamo a scrivere «questa storia», che è fatta «di grazia e di peccato», mentre il Signore non si stanca di venirci dietro: «questa è l’umiltà di Dio, la pazienza di Dio, l’amore di Dio». Del resto, anche «il libro della Sapienza dice che la gioia del Signore è tra i figli dell’uomo, con noi».
Ecco allora che «avvicinandosi il Natale», a Papa Francesco — com’egli stesso ha confidato concludendo la sua riflessione — è venuto naturale pensare: «Se lui ha fatto la sua storia con noi, se lui ha preso il suo cognome da noi, se lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia», noi da parte nostra dovremmo lasciare che Dio scriva la nostra. Perché, ha chiarito, «la santità» è proprio «lasciare che il Signore scriva la nostra storia». E questo è l’augurio di Natale che il Pontefice ha voluto fare «per tutti noi». Un augurio che è un invito ad aprire il cuore: «Fa’ che il Signore ti scriva la storia e che tu lasci che te la scriva».
http://www.orarel.com/pensieri/coccolini/silenzio_dio.htm
IL SILENZIO DI DIO
di Giacomo Coccolini
«Il silenzio, più della parola, rimane
la sostanza e il segno di ciò che fu il
loro universo e, come la parola,
il silenzio s’impone e chiede di essere
trasmesso».
Wiesel, Al sorgere delle stelle
Da più parti, nel mondo laico come in quello credente, sembra essere sempre più avvertita l’esigenza di ascoltare parole non consunte dal tempo o dalle mode – una sorta di viatico capace in quest’ora di confusione di confortare le coscienze e mostrare vie alternative a questo disagio che sta squassando ogni cosa. [1] Finita l’epoca delle sintesi falsamente risolutive, in cui le contraddizioni potevano essere consegnate ad un futuro che le avrebbe finalmente redente, l’uomo è rinviato al suo cuore – il centro di ogni battaglia – là dove «ognuno conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia» [Jünger]. Questo è il momento in cui bisogna fermarsi a pensare, per cercare di capire la situazione in cui ci muoviamo, dove i sentimenti del mostruoso e del terribile si confondono con l’angoscia di chi sembra non aver più nulla da sperare.
Ma esiste ancora qualcosa in cui il cuore dell’uomo può restare saldo e, lì, consistere? E’ possibile per l’uomo ascoltare ancora una parola di salvezza? L’uomo è ancora capace di tanto? Oppure è Dio che tace, Lui, «la sottile voce di silenzio», come ha affermato il rabbino Benedetteo Carucci Viterbi riprendendo un significativo midrash [2] sul libro dell’Esodo (cap. 15, 11) – che di fronte ad Auschwitz è sembrato rintanarsi in un mutismo più assordante di tutti i silenzi?
La teologia e la filosofia, così come molta della letteratura contemporanea, si sono soffermati – quasi piegati davanti a quell’irredimibile Golgota che è Auschwitz [3] – a riflettere sullo scandalo proveniente dal silenzio di Dio e da quello che, con sguardo tragicamente premonitore, Martin Buber ebbe a chiamare l’eclissi di Dio: «L’ora in cui viviamo è caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» [4] .
Tale sentimento, anche in riferimento ad avvenimenti della soria passata e recente del popolo ebraico, è stato elevato a condizione normale di un’epoca sprofondata in un’immane crisi di valori che ha cominciato a sperimentare su di sè il nichilismo più estremo. Nietzsche, Dostoevskij, Heidegger, Kafka, Celan, Wiesel, insieme a moltissimi altri sismografi dello spirito, si sono fatti testimoni eloquenti di una condizione di povertà e «spaesamento metafisico» che, nell’investire la civiltà dalle fondamenta, ha comportato, come effetto-boomerang, una sorta di nostalgia del divino. [5] Allo stesso tempo, però, ha cominciato ad essere posta la domanda, trasformatasi poi in grido e invocazione [H.M.Woschitz], se questo silenzio di Dio non sia in verità il suo modo particolarissimo di comunicare con l’uomo e se, dal punto di vista biblico, almeno per ciò che riguarda l’Antico Testamento, il rapporto tra ‘silenzio di Dio’ e ‘parola di Dio’ sia più dialettico di quanto non sembri a prima vista e, quindi, più misterioso, di modo che credente e non credente vengono messi radicalmente in questione non solo dalla parola di Dio ma soprattutto dal silenzio di Dio [6] .
E’ stato André Neher ne L’esilio della parola [7] ad affermare che «il silenzio costituisce il paesaggio della Bibbia» dove il Signore non può essere conosciuto faccia a faccia ma solo da dietro, a terga: «Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà [...] ma tu non potrai vede la mia faccia, perchè un uomo non può vedere me e vivere [...] Quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della roccia, ti coprirò con la mia mano. Poi ritirerò la mia mano e mi vedrai da dietro, ma non potrai vedere la mia faccia» (Es. 33, 18-23). « Dio » designa quindi «il Luogo dove tutto si spiega – ha affermato Stefano Levi Della Torre – e, contemporaneamente, il luogo dell’inesplicabile. Dio diventa in un certo senso un ossimoro: è l’insplicabile dove tutto si spiega»; è una «dimensione paradossale». [8]
Questo modo di interrogare la Bibbia, per cui l’«instabilità dell’immagine divina» diventa la nota caratteristica di Dio, pur nella molteplicità delle tradizioni culturali a cui ci si può richiamare, evidenzia una gamma particolarmente ampia di possibilità da parte dell’uomo di parlare di Dio (teo-logein). Paolo De Benedetti, nel suo Intervento alla Cattedra dei non-credenti [9] , così come nel suo testo Ciò che tarda avverrà da poco pubblicato [10] , ha richiamato l’attenzione, a partire dal testo biblico, sull’impossibilità di costruire una teologia consolatoria «dopo Auschwitz». «Il chiedere conto a Dio è come un filo rosso o un filo nero che percorre tutta la tradizione ebraica: da Giobbe a Qohelet fino ai processi a Dio nella tradizione e nella leggenda chassidica». [11] Proprio per questo bisogna, a suo parere, desistere dal parlare con troppa sicurezza di Dio: potremmo mentire su di Lui e, affermando cose che fanno parte delle nostre modalità rappresentative, farci un Dio a nostra immagine e somiglianza (Es. 32). Il mondo biblico scagliandosi contro l’idolatria e contro un sacralismo esasperato, predilige un’immagine simbolica del volto di Dio: «Il Dio della Bibbia si rivela sostanzialmente come il Simbolo per eccellenza, cioè come colui che unisce in sè i poli estremi, i perfetti contrari e tutta al gamma intermedia delle colorazioni dell’essere. Nell’infinito divino avviene una « sim-bolica » coincidentia oppositorum». [12] Dio resta più grande dell’orizzonte di questo mondo – ha detto Bruno Forte – «anche quando per un atto gratuito della sua libertà, e dunque per amore, si autocomunica al cuore umano entrando nella storia. [...] Re-velare viene pertanto a dire l’atto del passaggio dal velato allo scoperto, lo svelamento del precedentemente nascosto, ma non esclude mai del tutto una reduplicazione, un permanere del velo, anzi un suo infittirsi mediante la ripetizione, proprio nell’atto in cui sembra che venga tolto (analogamente si potrebbe dire del significato originario di apokalúpto, toglimento della copertura, che non esclude un rinforzarsi di essa)». [13] Ma questa simbolicità tipicamente biblica del volto di Dio non richiama forse la necessità di una teologia negativa? Non diventa necessaria – come ha mostrato nella sua insonne ricerca Italo Mancini – una «logica dei doppi pensieri», riprendendo così quanto Dionigi l’Areopagita nella Teologia mistica (III, 1033 C) aveva riconosciuto, e cioè che di fronte all’incognito di Dio ogni discorso umano diventa ??????, muto? [14] Termimi quali dolore messianico e impotenza di Dio, così ampiamente ripresi da larga parte della teologia e della filosofia contemporanea (basti pensare a Dietrich Bonhoeffer e alla sua lettura ‘non religiosa’ della Bibbia e ad Hans Jonas con la sua ricerca di un nuovo « concetto di Dio dopo Auschwitz »), hanno permesso di ritrovare nella figura di Dio non tanto una risposta esaustiva ad ogni domanda umana quanto, piuttosto, un «interlocutore delle domande di senso» e in special modo un interlocutore di tutte quelle domande che vivono lo scandalo della sofferenza inutile. [15] Di fronte a questa che se ne sta conficcata nella realtà come una sorta di ‘iattura’ senza redenzione, un autore come Dostoevskij ha potuto affermare che essa, proprio a causa della sua irredimibilità, esprimerebbe il fallimento della creazione, l’assurdità del mondo e, di conseguenza, la non-accettazione di un Dio simile. E’ nei Fratelli Karamazov, nella figura di Ivan, che erompe tutto lo scandalo di questa sofferenza, sperimentata soprattutto dagli idioti e dai bambini. Essa, restando senza senso, risulta incompatibile con l’esistenza stessa di un Dio giusto. Ivan – ha scritto Pareyson – «è disposto ad ammettere il carattere trionfale ed esaltante dell’armonia finale, in cui non rimarrà nulla d’ingiustificato e d’incomprensibile per la mente umana, e ogni contrasto sarà eliminato fra gli uomini, tutti ugualmente redenti e redenti dal male, riscattati dal dolore, liberati dal bisogno e saziati dalla sete di giustizia» [16] ; ma di fronte alla sofferenza dei bambini l’utopia di una riconciliazione finale finisce in pezzi. Non solo Dostoevskij ha riflettuto su tale immane questione ma Albert Camus ne L’uomo in rivolta, Reinhold Schneider in Winter in Wien e Elie Wiesel ne La notte – per non ricordare che tre dei nomi più eminenti – potrebbero porsi come testimoni privilegiati di queste domande espresse de profundis.
Il silenzio di Dio davanti alla sofferenza inutile diventa quindi lo spazio attraverso cui l’uomo viene interrogandosi, la possibilità, sperimentata in mezzo alla vita, dicendole sì ogni momento – per riprendere un’immagine cara a Bonhoeffer – di chiedere a Dio di rispondere finalmente alle nostre domande; e questo perchè «l’alleanza, come la coscienza ebraica ha sempre creduto con ostinata fede, comporta obblichi bilaterali, da parte cioè dell’uomo e di Dio. [...] L’esistenza del dolore ingiusto « salva » Dio solo se c’è un tempo o un luogo (parole estremamente improprie per la vita del mondo che verrà) in cui egli si spieghi e ci spieghi. La bontà del mondo è una moneta ormai troppo svalutata; la responsabilità dell’uomo o la finitezza degli esseri sono semplici rinvii all’interno del triste mistero. Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione: per questo crediamo in lui e nella vita futura. [...] Non ci sono parole utili, finchè non parlerà lui» [corsivo nostro]. [17] Il compito dell’uomo resta invece quello di cercare, insonnemente cercare, «nella flebile voce che rimbomba» [B. Carucci Viterbi], il messaggio di Dio che continua a parlare all’uomo che abita il proprio tempo. Questo Dio non si rivela nel frastuono, nè nelle voci assordanti del mondo, così come non si rivela in ciò che molto spesso adoriamo – quegli idoli che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono» (Sal. 115, 5). Il silenzio di Dio non resta solo un’enigma che lo studio dell’uomo dovrà prima o poi sciogliere – come afferma la tradizione rabbinica – ma rimanda all’evento del silenzio di Dio Padre che sulla croce, abbandonando il Figlio, risuona nel grido: «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?» (Mat. 27, 46). In quell’abbandono – come ha detto von Balthasar – è presente l’icona di Dio che sulla croce si infrange in una non-forma, ma «nonostante tutto non è infranta, perchè proprio nell’infrangersi mondano rivela, in modo univocamente non-dialettico, l’infrangibilità dell’amore divino». [18] Solo così questo silenzio impotente può diventare il luogo della redenzione – la voce più assordante di tutte le voci – in cui possono risuonare gli alta silentia di Dio e l’umanità presente ritrova, intatta, l’icona di ogni grido e di ogni invocazione.
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[1] . Basterebbe leggere la sintesi del 26 Rapporto su La situazione sociale del Paese 1992 in Censis. Note e commenti 10-12 (1992).
[2] . Il termine Midrash deriva dal termine ebraico darash (ricercare, sondare, interpretare) ed è «il tentativo – così ha scritto G. STENBERGER [Il Midrash. Uso rabbinico della Bibbia. Introduzione, testi, commenti, Dehoniane, Bologna 1992, p. 8] – di penetrare più profondamente nel linguaggio della rivelazione. (…) Ponendosi con cura all’ascolto del testo, prestando attenzione anche ai minimi dettagli linguistici, si cerca di sondare le profondità della rivelazione, di sperimentare la continua presenza di Dio, di convincersi della solidità delle sue promesse». Il testo di BENEDETTO CARUCCI VITERBI, Una sottile voce di silenzio è contenuto nel volume Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini, Garzanti, Milano 1993, pp. 75-84 [VI sessione della Cattedra dei non-credenti]. Il termine «voce di silenzio sottile» per designare l’impercettibilità di Dio è preso da I Re 19, 12.
[3] . E’ stato X.TILLIETTE [La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1992, pp. 101-102] a riprendere la questione del rapporto tra la filosofia e la sofferenza assoluta sperimentata ad Auschwitz riprendendo la domanda fatta da Adorno ne La dialettica negativa: «Si può filosofare dopo Auschwitz?». Per Tilliette, «tra un Prima colmo di premonizioni e un Dopo tormentato da paure, la filosofia ha vacillato sotto il colpo dell’olocausto, non si è più rimessa dallo shock, il malheur l’ha stregata, è entrata nella sua fase critica, se si mantiene all’espressione la sua ambiguità». Cfr. J. KOHN/J.B.METZ, Auschwitz in Dizionario delle questioni religiose del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1992, pp. 42-46 e C.THOMA, Olocausto in Lessico dell’incontro ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1992, pp. 171-174. Ultimamente E. WIESEL – J.M.LUSTIGER – R. SÜSSMUTH – W. BARTOSZEWSKI, Per non dimenticare Auschwitz, Piemme, Milano 1993.
[4] . M. BUBER, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1992.
[5] . Sulla questione ultimamente è intervenuto J. IMBACH, Nostalgia di Dio, Studium, Roma 1992. Bisogna però notare che gli effetti di tale condizione di disincanto si sono fatti sentire nel bene come nel male. Basterebbe considerare il fenomeno del fondamentalismo – tema che in questi ultimi anni è diventato centrale per la comprensione dell’orizzonte tardo-modermo – dal punto di vista di un tentativo di compensazione nei confronti di una realtà ‘scarica’ di Assoluto. Per un primo approccio al problema cfr. E. PACE, Il regime della verità. Il fondamentalismo religioso contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1990 e il n. 4(1991) di Sette e Religioni dedicato a Il fondamentalismo di matrice cristiana.
[6] . La fenomenologia del typos del credente e del non credente, così come la loro reciproca dialettica, sono stati ripresi da un punto di vista biblico, pur se con intenzioni diverse, nella relazione di E. BIANCHI, L’incredulità del credente, pp. 95- 104 e nell’intervento di M. CACCIARI, pp. 105-109 in Chi è come te fra i muti? su cui torneremo. Sul tema del silenzio e della parola si possono vedere utilmente M. BALDINI e S. ZUCAL (a cura di), Le forme del silenzio e della parola, Morcelliana, Brescia 1989 e Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, Morcelliana, Brescia 1990.
[7] . L’edizione francese originale è del 1970 ma in Italia è stato tradotto dalla Marietti, Casale Monferrato 1983. Il sottotitolo del libro suona: Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz.
[8] . Pp. 21. Il testo di S. LEVI DELLA TORRE, Forse [in Chi è come te fra i muti?, pp. 18-32] si interroga sul ‘luogo’ occupato dall’uomo che vive «tra» due versanti del divino che gli si manifestano e che, contemporaneamente, possono caratterizzare due modalità di ‘visione’ del divino qualitativamente differenti: l’una, rappresentata dalla possibilità da parte dell’uomo-Mosè di vedere Dio da dietro; l’altra, rappresentata dall’impossibilità da parte dell’uomo-Mosè di vedere Dio in faccia: «Dunque un lato visibile, un ditro-verso noi; e una parte invisibile – la faccia: due versanti del divino, verso di noi e verso di Lui: rivelazione e inaccessibilità» (p. 22). Un altro filosofo ebraico contemporaneo – E. Levinas – parlerà della possibilità da parte dell’uomo di cogliere solo le tracce di Dio.
[9] . In Chi è come te fra i muti?, pp.33-41.
[10] . Edizioni Qiqajon, Magnano 1992. Per una nota sulla teologia di De Benedetti cfr. I. BERTOLETTI, Tra domande dell’attesa e interpretazione della Legge. Una nota sulla teo-logia di Paolo De Benedetti in Humanitas, 1 (1993) pp. 127-131
[11] . P. DE BENEDETTI, Intervento in Chi è come te fra i muti?, p. 38.
[12] . G. RAVASI, I volti di Dio nella Bibbia in I volti di Dio. Il Rivelato e le sue tradizioni, a cura di E. Guerriero e A. Tarzia, Paoline, Milano 1992, pp. 59-68, cit. p. 65.
[13] . B. FORTE, Gli «alta silentia» e l’autocomunicarsi di Dio: silenzio, parola, incontro. Un dialogo teologico con hegel, Schelling e Barth in L’ombra di Dio. L’ineffabile e i suoi nomi, a cura di E. Guerriro e A. Tarzia, Paoline, Milano 1991, pp. 103-125, cit. p. 119.
[14] . I. MANCINI, Doxa. Debolezza e forza di Dio in L’ombra di Dio, pp. 141-183. Sulla ‘logica dei doppi pensieri’ Mancini è intervenuto in Teologia e filosofia. Per una logica della fede in Scritti cristiani, Marietti, Genova 1991, pp. 13-28.
[15] . Sulla questione cf. L. PAREYSON, La sofferenza inutile in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, pp. 170-217.
[16] . Così L. PAREYSON, La sofferenza inutile, p. 185. Scrive Dostoevskij ne I fratelli Karamazov [Vol. I, Milano, p. 313]: «Non vale, essa [cioè, la suprema armonia] le povere lacrime foss’anche di quel bambino solo, che straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con le sue lacrime irriscattabili il « buon Gesù »! Non vale, perchè queste piccole lacrime rimarranno irriscattate, altrimenti non potrebbe sussitere l’armonia. Ma in che modo, in che modo vorresti mai riscattarle? Ti pare una cosa possibile? Forse col dire che saranno vendicate? »
[17] . P. DE BENEDETTI, Ciò che tarda avverrà, pp. 11-113.
[18] . H. URS VON BALTHASAR, Il Linguaggio di Dio in Homo creatus est, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 271-302, cit. p. 295.