Archive pour le 21 novembre, 2014

Cristo Re dell’Universo

Cristo Re dell'Universo dans immagini sacre Cristo-Re

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XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LETTURE ED OMELIA

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XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LETTURE ED OMELIA

I Lettura (Ez 34,11-12.15-17)

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.

Salmo (22)
Rit. Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.

Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce. Rit.

Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome. Rit.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca. Rit.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. Rit.

II Lettura (1Cor 15,20-26.28)
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Rit. Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Rit. Alleluia.

Vangelo (Mt 25,31-46)
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
« Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: ‹Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi›.
Allora i giusti gli risponderanno: ‹Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?›. E il re risponderà loro: ‹In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me›.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: ‹Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato›.
Anch’essi allora risponderanno: ‹Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?›. Allora egli risponderà loro: ‹In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me›.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna ».

Omelia
L’odierno passo del Vangelo è collocato dopo le parabole delle vergini e dei talenti, nelle quali vi è un riferimento al giudizio finale di Dio. E’ il Cristo Re che esercita il potere di giudicare, dopo essersi fatto conoscere nella sua infinita bontà e aver presentato la legge d’amore del suo regno. E’ il Cristo Re, Buon pastore – Bel Pastore nel senso di modello perfetto a cui guardare -, che ha agito lungo il corso dei secoli per condurre gli uomini al suo dolce impero, e che alla fine del mondo separerà le pecore dai capri, prima di offrire il regno, frutto del suo sacrificio, al Padre (1Cor 15,24). Già gli uomini saranno stati separati dal giudizio particolare, ma la separazione finale riguarderà l’uomo nella sua interezza, non più solo anima, ma tutto l’uomo, e sarà udita dall’uomo nella completezza della sua persona. Il Giudice darà la motivazione della sentenza che farà entrare eternamente nel regno del Padre suo: « Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero… ». Sono tutte opere di carità verso i poveri, gli emarginati, i sofferenti, ma non sono semplici azioni: sono azioni che partono dal cuore, da un amore vero che nasce dalla stima dell’uomo quale creatura di Dio. I superbi non si piegano verso i bisognosi. Quando lo fanno è perché sono alla ricerca di consensi, ma le azioni per farsi vedere non salvano (Mt 6,1). Molti fanno del bene, ma davanti alle telecamere, e per il solo tempo della registrazione; non stanno accanto alla croce del fratello. Chi fa opere di carità per comparire generoso, grande, ha la sua ricompensa nel nulla della vanità (Mt 6,2). La carità vera si accompagna sempre con l’umiltà, non con il vanto (Mt 6,3): la carità e l’umiltà sono le due ali che fanno volare verso i cieli. L’amore verso il povero, verso colui che non ti può dar niente è un test del vero amore verso Dio.
Colui che superbo consuma il male di non riconoscersi relativo a Dio e bisognoso della sua misericordia non può amare il fratello povero, indigente. Non può riconosce al povero la sua dignità di persona fatta ad immagine e somiglianza con Dio. Chi non ha amore vero semina mali sulla terra, come è ben dimostrato dalla storia, come si vede ogni giorno. L’amore vuole il donarsi, il perdonare, il rinnegarsi, il non fare scandali, il credere in Dio e amarlo. Non si inganna Dio, egli vede le intenzione del cuore e giudicherà.
Le parole del Giudice nell’estremo giorno, che abbiamo ascoltato nel passo di Vangelo odierno, non vanno considerate come una descrizione esauriente del giudizio universale, ci sono altri passi che ne parlano accentuando altre note (Mt 7,21; 12,42; 24,31; Mc 8,38). Il testo che abbiamo ascoltato è focalizzato sugli uomini non venuti ancora a conoscenza di Cristo. Essi hanno seguito la legge dell’amore, sono stati legge a se stessi, e hanno seguito i palpiti che infondeva loro lo Spirito Santo, poiché esso agisce su tutti gli uomini di buona volontà, cioè pronti a cercare il vero, pronti ad amare.
I giusti che non hanno conosciuto Cristo diranno: « Quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare… ». Certo, fratelli e sorelle, incontrare l’uomo e vederlo in Dio, amato da Dio, e amarlo è un’anticipazione, anche se priva di consapevolezza, del seguire Cristo, il Verbo incarnato.
L’allegorico granello di senapa del regno dei cieli si sviluppa in terra in albero alla cui ombra si posano gli uccelli del cielo, e in cielo l’allegorico albero raggiungerà la sua splendida fioritura, che sarà l’immenso popolo dei risorti nella gloria. Allora il regno sarà consegnato al Padre, come dice il testo di Paolo, e diventerà il regno del Padre: « Venite benedetti del Padre mio ».
Gesù, che si presentava distante da ogni forma di regalità terrena, che parlava di un regno dei cieli in termini di lievito, di granello di senapa, di non apparenza, ribaltando tutte le idee che gli uomini di allora avevano di un regno, avrebbe avuto un’affermazione regale trionfale nell’ultimo giorno e per tutta l’eternità. La missione che il Padre gli aveva affidata si sarebbe conclusa con un atto universale che accomunava tutte le genti nel suo regno celeste, nessun uomo eccettuato.
Il Buon Pastore, che ha cercato le sue pecore, che ha dato la sua vita per le sue pecore per radunarle nell’ovile che è la Chiesa, la quale ha confini che vanno oltre i registri di Battesimo, dando loro i pascoli della verità, alla fine dei secoli giudicherà chi potrà entrare nel suo eterno gaudio. (Mt 25,1): “Bene, servo buono e fedele prendi parte alla gioia del tuo padrone” si sentirà dire colui che ha amato nella verità. “La gioia del tuo padrone”, cioè la gioia di Dio stesso. La gioia che c’è nelle eterne relazioni, senza cominciamento, tra le tre Persone divine, dell’unico Dio, perché rigorosamente una è l’Essenza. Dio è infinitamente beato in se stesso e ha creato l’uomo per renderlo partecipe della beatitudine infinita che ha in se stesso. Dio non è un monolite solitario che ha creato gli uomini e il mondo per fare qualcosa e avere di che superare la sua solitudine, ma è infinitamente felice in se stesso, infinitamente sufficiente in sé, infinitamente non solo in se stesso.
L’abbiamo compreso, Cristo è Re, e non solo riguardo alla Chiesa, ma riguardo a tutta la terra, a tutte le nazioni, a tutti i poteri. Egli è il Re dei re e il Signore dei signori (Ap 19,16) con diritto di abbattere quanti si oppongono alla sua regalità d’amore, ma anche infinitamente misericordioso nell’attendere la conversione di chi lo combatte. Nell’ultimo giorno, nel « giorno del Signore », nel « dies irae » egli ridurrà al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza, non solo della terra, ma anche dell’abisso, che cesserà di vomitare le sue insidie e sarà serrato per sempre in se stesso, nella sua legge, cioè l’odio.
Gesù ora esercita la sua regalità su di noi governandoci quale buon Pastore.
Il salmo ce lo descrive nella sua amabilità. Egli conduce il gregge a pascoli erbosi e ad acque tranquille, e un giorno lo introdurrà « alle fonti delle acque della vita » (Ap 7,17), cioè alla visione di Dio Uno e Trino, le cui tre Persone sono la fonte incessante, eternamente infinitamente ricca, della beatitudine dei beati nel cielo. Fratelli e sorelle, lasciamoci guidare da Gesù, fidiamoci di lui, seguiamo lui. Egli è il Re buon Pastore, che ci guida dove non avremo più fame, più sete, più pianto (Cf. Ap 7,16). I giusti hanno consolato i poveri, gli ammalati hanno visitato gli infermi: hanno amato lui, che si è identificato con loro. Noi li dobbiamo amare in lui con una pienezza d’amore che costituisce per noi gioia, ma anche responsabilità perché a chi più fu dato più sarà chiesto (Lc 12,48).
Amen. Ave Maria. Ave tu che con mano misericordiosa ci aiuti a non perdere mai di vista Gesù, il nostro Re e il nostro eterno Buon Pastore. Amen, Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

BENEDETTO XVI – COMMENTO AL SALMO 23

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111005_it.html

BENEDETTO XVI – COMMENTO AL SALMO 23

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 ottobre 2011

SALMO 23

Cari fratelli e sorelle,

rivolgersi al Signore nella preghiera implica un radicale atto di fiducia, nella consapevolezza di affidarsi a Dio che è buono, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6-7; Sal 86,15; cfr Gl 2,13; Gn 4,2; Sal 103,8; 145,8; Ne 9,17). Per questo oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo tutto pervaso di fiducia, in cui il Salmista esprime la sua serena certezza di essere guidato e protetto, messo al sicuro da ogni pericolo, perché il Signore è il suo pastore. Si tratta del Salmo 23 – secondo la datazione greco latina 22 – un testo familiare a tutti e amato da tutti.
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla»: così inizia questa bella preghiera, evocando l’ambiente nomade della pastorizia e l’esperienza di conoscenza reciproca che si stabilisce tra il pastore e le pecore che compongono il suo piccolo gregge. L’immagine richiama un’atmosfera di confidenza, intimità, tenerezza: il pastore conosce le sue pecorelle una per una, le chiama per nome ed esse lo seguono perché lo riconoscono e si fidano di lui (cfr Gv 10,2-4). Egli si prende cura di loro, le custodisce come beni preziosi, pronto a difenderle, a garantirne il benessere, a farle vivere in tranquillità. Nulla può mancare se il pastore è con loro. A questa esperienza fa riferimento il Salmista, chiamando Dio suo pastore, e lasciandosi guidare da Lui verso pascoli sicuri:

«Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome» (vv. 2-3).

La visione che si apre ai nostri occhi è quella di prati verdi e fonti di acqua limpida, oasi di pace verso cui il pastore accompagna il gregge, simboli dei luoghi di vita verso cui il Signore conduce il Salmista, il quale si sente come le pecore sdraiate sull’erba accanto ad una sorgente, in situazione di riposo, non in tensione o in stato di allarme, ma fiduciose e tranquille, perché il posto è sicuro, l’acqua è fresca, e il pastore veglia su di loro. E non dimentichiamo qui che la scena evocata dal Salmo è ambientata in una terra in larga parte desertica, battuta dal sole cocente, dove il pastore seminomade mediorientale vive con il suo gregge nelle steppe riarse che si estendono intorno ai villaggi. Ma il pastore sa dove trovare erba e acqua fresca, essenziali per la vita, sa portare all’oasi in cui l’anima “si rinfranca” ed è possibile riprendere le forze e nuove energie per rimettersi in cammino.
Come dice il Salmista, Dio lo guida verso «pascoli erbosi» e «acque tranquille», dove tutto è sovrabbondante, tutto è donato copiosamente. Se il Signore è il pastore, anche nel deserto, luogo di assenza e di morte, non viene meno la certezza di una radicale presenza di vita, tanto da poter dire: «non manco di nulla». Il pastore, infatti, ha a cuore il bene del suo gregge, adegua i propri ritmi e le proprie esigenze a quelli delle sue pecore, cammina e vive con loro, guidandole per sentieri “giusti”, cioè adatti a loro, con attenzione alle loro necessità e non alle proprie. La sicurezza del suo gregge è la sua priorità e a questa obbedisce nel guidarlo.
Cari fratelli e sorelle, anche noi, come il Salmista, se camminiamo dietro al “Pastore buono”, per quanto difficili, tortuosi o lunghi possano apparire i percorsi della nostra vita, spesso anche in zone desertiche spiritualmente, senza acqua e con un sole di razionalismo cocente, sotto la guida del pastore buono, Cristo, siamo certi di andare sulle strade “giuste” e che il Signore ci guida e ci è sempre vicino e non ci mancherà nulla.
Per questo il Salmista può dichiarare una tranquillità e una sicurezza senza incertezze né timori:

«Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza» (v. 4).

Chi va col Signore anche nelle vali oscure della sofferenza, dell’incertezza e di tutti i problemi umani, si sente sicuro. Tu sei con me: questa è la nostra certezza, quella che ci sostiene. Il buio della notte fa paura, con le sue ombre mutevoli, la difficoltà a distinguere i pericoli, il suo silenzio riempito di rumori indecifrabili. Se il gregge si muove dopo il calar del sole, quando la visibilità si fa incerta, è normale che le pecore siano inquiete, c’è il rischio di inciampare oppure di allontanarsi e di perdersi, e c’è ancora il timore di possibili aggressori che si nascondano nell’oscurità. Per parlare della valle “oscura”, il Salmista usa un’espressione ebraica che evoca le tenebre della morte, per cui la valle da attraversare è un luogo di angoscia, di minacce terribili, di pericolo di morte. Eppure, l’orante procede sicuro, senza paura, perché sa che il Signore è con lui. Quel «tu sei con me» è una proclamazione di fiducia incrollabile, e sintetizza l’esperienza di fede radicale; la vicinanza di Dio trasforma la realtà, la valle oscura perde ogni pericolosità, si svuota di ogni minaccia. Il gregge ora può camminare tranquillo, accompagnato dal rumore familiare del bastone che batte sul terreno e segnala la presenza rassicurante del pastore.
Questa immagine confortante chiude la prima parte del Salmo, e lascia il posto ad una scena diversa. Siamo ancora nel deserto, dove il pastore vive con il suo gregge, ma adesso siamo trasportati sotto la sua tenda, che si apre per dare ospitalità:

«Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca» (v. 5).

Ora il Signore è presentato come Colui che accoglie l’orante, con i segni di una ospitalità generosa e piena di attenzioni. L’ospite divino prepara il cibo sulla “mensa”, un termine che in ebraico indica, nel suo senso primitivo, la pelle di animale che veniva stesa per terra e su cui si mettevano le vivande per il pasto in comune. È un gesto di condivisione non solo del cibo, ma anche della vita, in un’offerta di comunione e di amicizia che crea legami ed esprime solidarietà. E poi c’è il dono munifico dell’olio profumato sul capo, che dà sollievo dall’arsura del sole del deserto, rinfresca e lenisce la pelle e allieta lo spirito con la sua fragranza. Infine, il calice ricolmo aggiunge una nota di festa, con il suo vino squisito, condiviso con generosità sovrabbondante. Cibo, olio, vino: sono i doni che fanno vivere e danno gioia perché vanno al di là di ciò che è strettamente necessario ed esprimono la gratuità e l’abbondanza dell’amore. Proclama il Salmo 104, celebrando la bontà provvidente del Signore: «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (vv. 14-15). Il Salmista è fatto oggetto di tante attenzioni, per cui si vede come un viandante che trova riparo in una tenda ospitale, mentre i suoi nemici devono fermarsi a guardare, senza poter intervenire, perché colui che consideravano loro preda è stato messo al sicuro, è diventato ospite sacro, intoccabile. E il Salmista siamo noi se siamo realmente credenti in comunione con Cristo. Quando Dio apre la sua tenda per accoglierci, nulla può farci del male.
Quando poi il viandante riparte, la protezione divina si prolunga e lo accompagna nel suo viaggio:

«Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni» (v. 6).

La bontà e la fedeltà di Dio sono la scorta che accompagna il Salmista che esce dalla tenda e si rimette in cammino. Ma è un cammino che acquista un nuovo senso, e diventa pellegrinaggio verso il Tempio del Signore, il luogo santo in cui l’orante vuole “abitare” per sempre e a cui anche vuole “ritornare”. Il verbo ebraico qui utilizzato ha il senso di “tornare”, ma, con una piccola modifica vocalica, può essere inteso come “abitare”, e così è reso dalle antiche versioni e dalla maggior parte delle traduzioni moderne. Ambedue i sensi possono essere mantenuti: tornare al Tempio e abitarvi è il desiderio di ogni Israelita, e abitare vicino a Dio nella sua vicinanza e bontà è l’anelito e la nostalgia di ogni credente: poter abitare realmente dove è Dio, vicino a Dio. La sequela del Pastore porta alla sua casa, è quella la meta di ogni cammino, oasi desiderata nel deserto, tenda di rifugio nella fuga dai nemici, luogo di pace dove sperimentare la bontà e l’amore fedele di Dio, giorno dopo giorno, nella gioia serena di un tempo senza fine.
Le immagini di questo Salmo, con la loro ricchezza e profondità, hanno accompagnato tutta la storia e l’esperienza religiosa del popolo di Israele e accompagnano i cristiani. La figura del pastore, in particolare, evoca il tempo originario dell’Esodo, il lungo cammino nel deserto, come un gregge sotto la guida del Pastore divino (cfr Is 63,11-14; Sal 77,20-21; 78,52-54). E nella Terra Promessa era il re ad avere il compito di pascere il gregge del Signore, come Davide, pastore scelto da Dio e figura del Messia (cfr 2Sam 5,1-2; 7,8; Sal 78,70-72). Poi, dopo l’esilio di Babilonia, quasi in un nuovo Esodo (cfr Is 40,3-5.9-11; 43,16-21), Israele è riportato in patria come pecora dispersa e ritrovata, ricondotta da Dio a rigogliosi pascoli e luoghi di riposo (cfr Ez 34,11-16.23-31). Ma è nel Signore Gesù che tutta la forza evocativa del nostro Salmo giunge a completezza, trova la sua pienezza di significato: Gesù è il “Buon Pastore” che va in cerca della pecora smarrita, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr Mt 18,12-14; Lc 15,4-7; Gv 10,2-4.11-18), Egli è la via, il giusto cammino che ci porta alla vita (cfr Gv 14,6), la luce che illumina la valle oscura e vince ogni nostra paura (cfr Gv 1,9; 8,12; 9,5; 12,46). È Lui l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue (cfr Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e quella definitiva del banchetto messianico nel Cielo (cfr Lc 14,15ss; Ap 3,20; 19,9). È Lui il Pastore regale, re nella mitezza e nel perdono, intronizzato sul legno glorioso della croce (cfr Gv 3,13-15; 12,32; 17,4-5).
Cari fratelli e sorelle, il Salmo 23 ci invita a rinnovare la nostra fiducia in Dio, abbandonandoci totalmente nelle sue mani. Chiediamo dunque con fede che il Signore ci conceda, anche nelle strade difficili del nostro tempo, di camminare sempre sui suoi sentieri come gregge docile e obbediente, ci accolga nella sua casa, alla sua mensa, e ci conduca ad «acque tranquille», perché, nell’accoglienza del dono del suo Spirito, possiamo abbeverarci alle sue sorgenti, fonti di quell’acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14; cfr 7,37-39). Grazie.

 

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