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Beato Giacomo Alberione

Beato Giacomo Alberione dans immagini sacre

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CONDANNATI AD ESSERE LIBERI

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CONDANNATI AD ESSERE LIBERI

Arch. Justin Popovic

Gli uomini condannarono Dio a morte. Dio, però, attraverso la sua Risurrezione condanna tutti gli uomini all’immortalità. Ai loro colpi risponde con degli abbracci. Agli insulti con delle benedizioni. Alla morte con l’immortalità. L’odio degli uomini non fu mai tanto, quanto nella Sua crocifissione. E Dio non mostrò mai tanto amore agli uomini, quanto nella Sua Risurrezione. Gli uomini volevano rendere Dio mortale, ma Dio attraverso la Sua Risurrezione ha reso gli uomini immortali. Risuscitò il Dio crocifisso e distrusse la morte. Ormai la morte non c’è più. L’immortalità inondò l’uomo e tutti i suoi mondi.
Attraverso la Risurrezione del Teantropo la natura umana fu condotta definitivamente sulla via dell’immortalità e divenne terribile anche per la stessa morte. Perché prima della Resurrezione di Cristo la morte era terribile per l’uomo, mentre dalla Resurrezione del Signore, l’uomo diventa terribile per la morte. Se l’uomo attraverso la fede vive nel Risorto Teantropo, vive al di sopra della morte. Si rende inespugnabile anche dalla morte. La morte si trasforma in “sgabello dei suoi piedi”: “dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (cfr. 1 Cor 15, 55-56). Così, quando l’uomo che vive in Cristo muore, lascia semplicemente la veste del suo corpo per rivestirsi nel giorno della Seconda Venuta.
Fino al momento della Risurrezione del Cristo Teantropo la morte era la seconda natura dell’uomo. La prima era la vita, e la morte la seconda. L’uomo era abituato a vivere la morte come una cosa naturale. Eppure con la Sua Risurrezione il Signore cambiò tutto: l’immortalità divenne la seconda natura dell’uomo, successe qualcosa di naturale nell’uomo, e la morte si rese innaturale. Come fino alla Risurrezione di Cristo era naturale per gli uomini essere mortali, così dopo la Risurrezione divenne naturale per loro l’immortalità.
Attraverso il peccato l’uomo si rese mortale e limitato. Attraverso la Risurrezione del Teantropo diventa immortale ed eterno. In questo esattamente sta la forza e la potenza e l’onnipotenza della Risurrezione di Cristo. E per questo senza la Risurrezione di Cristo non ci sarebbe neppure il Cristianesimo. La Risurrezione del Signore è il più grande miracolo tra i miracoli. Tutti gli altri miracoli nascono da questo e si riassumono in questo. Da questo derivano la fede e l’amore e la speranza e la preghiera e la devozione di Dio. I discepoli fuggiti, quelli che andarono via, lontano da Gesù quando moriva, ritornarono da Lui quando risuscitò. E il centurione Romano quando vide il Cristo alzarsi dalla tomba, lo confessò come Figlio di Dio. Allo stesso modo anche tutti i primi Cristiani divennero Cristiani, perché Cristo risuscitò, perché vinse la morte. Questo è quello che nessun’altra religione ha. Questo è quello che in modo unico e incontestabile dimostra e prova che Gesù Cristo è l’unico vero Dio e Signore in tutti i mondi visibili e invisibili.
Grazie alla Risurrezione di Cristo, grazie alla vittoria sulla morte gli uomini diventavano, diventano e diventeranno per sempre Cristiani. Tutta la storia del Cristianesimo non è altra cosa che la storia di un unico e solo miracolo, della Risurrezione di Cristo, che è perpetuato costantemente in tutti i cuori dei Cristiani di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo fino alla Seconda Venuta.
L’uomo nasce veramente non quando lo porta nel mondo sua madre, ma quando crede nella Risurrezione del Salvatore Cristo, perché allora nasce nell’immortalità e nella vita eterna, mentre la madre genera il suo figlio che arriverà alla morte, alla tomba. La Risurrezione di Cristo è la madre di tutti noi, di tutti i Cristiani, la madre degli immortali. Attraverso la fede nella Risurrezione del Signore, nasce di nuovo l’uomo, nasce per l’eternità.
“Questo è impossibile!”, nota lo scettico. E il Risorto Teantropo risponde: “ogni cosa è possibile a chi crede” (cfr. Mc 9, 23). E chi crede è colui che con tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo essere vive secondo l’Evangelo del Risorto Signore Gesù.
La nostra speranza è la vittoria attraverso cui vinciamo la morte, cioè la fede nel Signore Risorto. “Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”, “pungiglione della morte è il peccato” (1 Cor 15, 55-56). Attraverso la Sua risurrezione il Signore “ha indebolito il pungiglione della morte”. La morte è il serpente mentre il peccato è il suo pungiglione. Attraverso il peccato la morte effonde il veleno nell’anima e nel corpo dell’uomo. Quanti più sono i peccati che l’uomo ha, tanti di più ne sono i pungiglioni tramite i quali la morte effonde il suo veleno in lui.
Quando la vespa punge l’uomo, egli si sforza per quanto possibile ad estrarre il pungiglione dal suo corpo. Quando invece lo pungerà il peccato – il pungiglione stesso della morte – cosa deve fare? – Deve con la fede e la preghiera invocare il Risorto Salvatore Cristo, perché Egli estragga il pungiglione della morte dall’anima. Ed Egli come misericordioso lo farà, poiché è Dio della Misericordia e dell’Amore. Quando molte vespe andranno, attaccheranno il corpo dell’uomo e lo feriranno molto con i loro pungiglioni, allora l’uomo si avvelenerà e morirà. E questo accade anche nell’anima dell’uomo quando viene ferita dai tanti pungiglioni dei tanti peccati. Costui muore di una morte che non conosce resurrezione.
L’uomo, vincendo attraverso il Cristo, il peccato dentro di sé, vince la morte. Se viene trascorso un giorno e tu non hai vinto neanche un tuo peccato, sappi che sei diventato ancora più mortale. Se invece vinci una o due o tre tuoi peccati, sei diventato più giovane di una giovinezza che non invecchia, che è immortale ed eterna! Non dimentichiamo mai: quando qualcuno crede nel risorto Cristo, questo significa che lotta continuamente la lotta contro il peccato, del male e della morte.
Il fatto che l’uomo crede veramente nel Signore Risorto lo prova lottando contro il peccato e le passioni. Se lotta deve sapere che lotta per l’immortalità e la vita eterna. Se però non lotta, allora la sua fede è vana! Perché, se la fede dell’uomo non risulta una lotta per l’immortalità e l’eternità, allora che cosa è? Se con la fede in Cristo non raggiunge l’immortalità e la vittoria sulla morte, allora a cosa serve la nostra fede? Se Cristo non è risorto ciò significa che il peccato e la morte non sono sconfitti. Se questi ultimi due non sono sconfitti, allora perché si deve credere a Cristo? Costui, però, che attraverso la fede nel Cristo Risorto lotta contro ogni suo peccato, egli rafforza gradualmente in sé la sensazione che il Signore è effettivamente risorto, ha infatti indebolito il pungiglione della morte, ha veramente vinto la morte su tutti i fronti della battaglia.
Il peccato sminuisce l’anima dell’uomo gradualmente, la porta pian piano alla morte, la trasforma da immortale a mortale, da incorruttibile e immensa in corruttibile e limitata. Quanti più peccati ha l’uomo, tanto più è mortale. E se l’uomo non sente lui stesso la morte, è evidente che si trova tutto immerso nei peccati, nei pensieri miopi, nei sentimenti morti. Il Cristianesimo è una chiamata, per una lotta fino all’ultimo respiro contro la morte, cioè fino alla vittoria definitiva su di lei. Ogni peccato risulta un ritiro, ogni passione un tradimento, ogni malvagità una sconfitta.
Non si deve chiedere perché anche i Cristiani muoiono della morte fisica. Questo succede perché la morte del corpo è una semina. Si semina corpo mortale, dice l’Apostolo Paolo (cfr. 1 Cor 15, 42 e seg.), e germoglia, cresce e diventa immortale. Come il grano seminato, anche così il corpo si scoglie, perché il Santo Spirito lo vivifichi e lo perfezioni. Se il Signore Gesù non avesse risuscitato il corpo che guadagno avrebbe avuto il corpo da Lui? Egli non avrebbe salvato l’uomo interamente. Se non ha risuscitato il corpo, allora perché si incarnò, perché assunse il corpo, visto che non gli diede niente della Sua Divinità?[1]
Se Cristo non è risuscitato, perché allora si deve credere in Lui? Confesso, sinceramente, che non avrei mai creduto in Cristo, se non fosse risuscitato e non avesse vinto la morte, il nostro maggiore nemico. Però Cristo è risorto e ha donato a noi l’immortalità. Senza questa verità, il nostro mondo è solo una mostra caotica di odiose sciocchezze. Solo con la gloriosa Sua Risurrezione l’ammirabile Signore e Dio nostro, ci ha liberati dall’assurdità e la disperazione. Perché senza la Risurrezione non esiste niente di più assurdo in questo mondo, né sui cieli né sotto i cieli. Né maggior disperazione di questa vita, senza l’immortalità. Per questo in tutti i mondi non esiste un essere più disgraziato dell’uomo, che non crede nella Risurrezione di Cristo e la risurrezione dei morti (cfr. 1 Cor 15, 19). “Sarebbe stato meglio per quest’uomo che non fosse mai nato” (Mt 26, 24).
Nel nostro mondo umano la morte è il più grande tormento e la più orripilante disumanità. La liberazione da questo tormento e da questa disumanità è esattamente la salvezza. Questa salvezza è stata donata al genere umano dal Vincitore della morte – il Risorto Teantropo [= Dio-uomo]. Attraverso la Sua Risurrezione Egli ci ha rivelato tutto il mistero della nostra salvezza. Salvezza significa assicurare per il corpo e l’anima l’immortalità e la vita eterna. E come si riesce in questo? Solo attraverso una vita teantropica, la nuova vita nella Risurrezione e attraverso il Cristo Risorto!
Per noi Cristiani questa vita terrena è una scuola, nella quale impariamo come mettere al sicuro l’immortalità e la vita eterna. Poiché che guadagno abbiamo da questa vita, se tramite essa non riusciamo a ottenere quella eterna? Ma perché l’uomo possa risorgere insieme a Cristo, deve prima morire insieme a Lui e vivere la vita di Cristo come sua. Se fa questo, allora nel giorno della Risurrezione potrà dire, insieme a san Gregorio il Teologo: “Ieri sono stato crocifisso con Cristo, oggi sono glorificato con Lui. Ieri ero morto insieme a Lui, oggi sono vivificato. Ieri mi ero sepolto con Lui, oggi mi alzo insieme a Lui”[2].
Tutti e quattro i Vangeli di Cristo si possono ricapitolare in quattro sole parole: Χριστός Ανέστη! – Αληθώς Ανέστη!… [= Cristo è Risorto! – È veramente Risorto!...] Ad ognuna di queste parole si trova un Evangelo e nei quattro Evangeli si trova l’intero senso di tutti i mondi di Dio, di quelli visibili e invisibili. E quando tutti i sentimenti dell’uomo e tutti i suoi pensieri saranno concentrati nel tuono di questo saluto: “Cristo è Risorto!”, allora la gioia dell’immortalità scuoterà tutti gli esseri, e questi risponderanno in esultanza, confermeranno il miracolo pasquale: “È veramente Risorto!”.
Sì, è veramente risorto il Signore! E testimone di questo fatto sei tu, ne sono io, ne è ogni Cristiano, partendo dai santi Apostoli fino al giorno della Seconda Venuta. Poiché solo la forza del Risorto Teantropo Cristo riuscì a dare – dà continuamente e continuamente darà – la forza ad ogni Cristiano – dal primo fino all’ultimo – per vincere ogni cosa mortale e anche la morte stessa. Ogni cosa peccatrice e il peccato stesso. Ogni cosa demoniaca e il diavolo stesso. Poiché il Signore solo con la Sua Risurrezione, secondo il modo più convincente, mostrò e dimostrò che la Sua vita è Vita Eterna, la Sua verità è Eterna Verità, il Suo amore Eterno Amore, la Sua bontà Eterna Bontà, la Sua gioia Eterna Gioia. Anzi, mostrò e dimostrò che tutte queste cose le dà Lui, secondo la Sua impareggiabile filantropia, ad ogni Cristiano in tutte le epoche.
A questo riguardo, non esiste un fatto non solo nell’Evangelo, ma neanche nell’intera storia del genere umano, che non sia testimoniato in modo talmente forte, talmente inespugnabile, talmente innegabile, quanto la Risurrezione di Cristo. Indubbiamente, il Cristianesimo in tutta la sua realtà storica, la sua forza storica e la sua onnipotenza, si fonda sull’evento della Risurrezione di Cristo, cioè sull’Esistenza eternamente viva del Teantropo Cristo. E di questo ne è testimone tutta la longeva e sempre miracolosa storia del Cristianesimo.
Poiché se esiste un evento nel quale bisognerebbe riassumere tutti gli eventi, della vita del Signore e degli Apostoli e in genere di tutto il Cristianesimo, questo evento sarebbe la Risurrezione di Cristo. Inoltre, se esiste una verità nella quale sarebbe possibile riassumere tutte le verità Evangeliche, questa verità sarebbe la Risurrezione di Cristo. E ancora, se esiste una realtà nella quale sarebbe possibile riassumere tutte le realtà Neotestamentarie, questa realtà sarebbe la Risurrezione di Cristo. E infine, se esiste un miracolo Evangelico nel quale sarebbe possibile riassumere tutti i miracoli Neotestamentari, allora questo miracolo sarebbe la Risurrezione di Cristo. Perché solo nella luce della Risurrezione di Cristo, vengono messe in risalto meravigliosamente e chiaramente, sia il volto del Teantropo Gesù che la Sua opera. Solo nella Risurrezione di Cristo assumono la piena spiegazione tutti i miracoli di Cristo, tutte le Sue verità, tutte le Sue parole, tutti i fatti del Nuovo Testamento.
Fino alla Sua Risurrezione il Signore insegnava sulla vita eterna, ma dopo la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli è la Vita Eterna. Fino alla Sua Risurrezione insegnava sulla risurrezione dei morti, ma con la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli è difatti la Risurrezione dei morti. Fino alla Sua Risurrezione insegnava che la fede in Lui ci porta dalla morte alla vita, ma con la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli stesso ha vinto la morte e assicurò in questo modo a quelli che erano morti il passaggio dalla morte alla Risurrezione. Sì, sì, sì: il Teantropo Gesù Cristo con la Sua Risurrezione ha mostrato e dimostrato che è l’unico vero Dio, l’unico vero Teantropo in tutti i mondi umani.
E qualcosa ancora: senza la Risurrezione del Teantropo non è possibile spiegare né l’apostolato degli Apostoli, né il martirio dei Martiri, né la confessione dei Confessori, né la santità dei Santi, né l’ascesi degli Asceti, né la miracolosità dei Taumaturghi, né la fede di quelli che hanno creduto, né l’amore di quelli che amano, né la speranza di quelli che sperano, né il digiuno dei digiunatori, né la preghiera degli oranti, né la mitezza dei miti, né il pentimento dei penitenti, né la misericordia dei misericordiosi, né l’ascesi di qualsiasi virtù cristiana. Se il Signore non fosse risorto e come Risorto non avesse riempito i Suoi discepoli con la forza vivifica e la sua sapienza taumaturgica, chi avrebbe potuto radunare e dare il coraggio e la forza e la sapienza a questi impauriti fuggiaschi perché riuscissero così intrepidamente e con tanta forza e sapienza a predicare e confessare il Signore Risorto e andare con tanta gioia alla morte per Lui? E se il Risorto Salvatore non li avesse riempiti con la Sua divina forza e sapienza, come avrebbero potuto accendere nel mondo l’inestinguibile incendio della fede Neotestamentaria, questi ingenui, analfabeti, ignoranti e poveri uomini? Se la fede Cristiana non fosse la fede del Risorto e di conseguenza dell’eternamente vivo e vivificante Signore, chi avrebbe potuto ispirare i Martiri nelle imprese del martirio, e i Confessori nelle imprese della confessione, e gli Asceti nell’impresa dell’ascesi, e gli Anargiri nell’impresa della cura gratuita [anargiria], e i Digiunatori nell’impresa del digiuno e della continenza, e qualsiasi Cristiano in qualsiasi impresa Evangelica?
Tutte queste cose quindi sono vere e reali sia per me e per te, che per ogni esistenza umana. Poiché il mirabile e dolcissimo Signore Gesù, il Risorto Teantropo, è la sola Esistenza sotto il cielo con la quale l’uomo può vincere, qui sulla terra, la morte, il peccato e il diavolo, e divenire beato e immortale, compartecipe nell’Eterno Regno dell’Amore di Cristo… Per questo, per l’esistenza umana il Risorto Signore è tutto per tutti in tutti i mondi: per ogni cosa Bella, Buona, Vera, Cara, Lieta, Divina, Sapiente, Eterna. Egli è tutto il nostro Amore, tutta la nostra Verità, tutta la nostra Gioia, tutte le nostre cose Buone, tutta la nostra Vita, la Vita Eterna in tutte le eternità divine infinite.
– Per questo e di nuovo, e per molte, innumerevoli volte: Cristo è Risorto!

Traduzione a cura di Tradizione Cristiana, gennaio 2009

[1] Cfr. G. Crisostomo, in Hom. 1 Cor. 39, 2. PG 61, 334: “Se non risorgono (i corpi), perché Cristo è risuscitato? Perché è venuto? Perché ha assunto la carne se non la doveva risuscitare? Perché non ne aveva bisogno ma l’ha fatto per noi”.
[2] Discorso sulla Pasqua, PG 35, 397. Cfr. anche il Canone di Pasqua, Ode 3.

 

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26 NOVEMBRE: BEATO GIACOMO ALBERIONE SACERDOTE

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26 NOVEMBRE: BEATO GIACOMO ALBERIONE SACERDOTE

San Lorenzo di Fossano, Cuneo, 4 aprile 1884 – Roma, 26 novembre 1971

Giacomo Alberione nacque il 4 aprile 1884 a San Lorenzo di Fossano (Cuneo), da una povera e laboriosa famiglia di contadini. A sette anni sentì la vocazione al sacerdozio. Entrò nel seminario di Bra, ma dopo quattro anni di permanenza una crisi gli fece lasciare il seminario. Nell’autunno del 1900 tornò a indossare l’abito del seminarista, questa volta nel collegio di Alba. Nella notte che segnava il passaggio al nuovo secolo, durante la veglia di adorazione solenne nel Duomo, mentre era inginocchiato a pregare una particolare luce gli venne dall’Ostia, l’invito di Gesù: “Venite ad me omnes…”(Mt 11, 28) lo incitò a fare qualcosa per gli uomini e le donne del nuovo secolo. Il 20 agosto 1914 diede inizio a quella che dapprima si chiamò “Scuola Tipografica Piccolo Operaio”, e successivamente “Pia Società San Paolo”, il primo dei dieci rami della Famiglia Paolina. La morte lo colse a Roma, all’età di 87 anni, il 26 novembre 1971. Il 26 giugno 1996 Giovanni Paolo II ne ha riconosciuto le virtù eroiche dichiarandolo Venerabile.
Martirologio Romano: A Roma, beato Giacomo Alberione, sacerdote, che, sommamente sollecito per l’evangelizzazione, si dedicò con ogni mezzo a volgere gli strumenti della comunicazione sociale al bene della società, facendo dei sussidi per annunciare più efficacemente la verità di Cristo al mondo, e fondò per questo la Congregazione della Pia Società di San Paolo Apostolo.

Paolo VI lo ha definito «una meraviglia del nostro secolo», altri un «industriale del Vangelo». Sicuramente è stato un grande personaggio della storia sociale italiana e della storia della Chiesa. Grazie a lui il mondo cattolico si è affacciato sul mercato dei mass media con strumenti e prodotti culturali competitivi. Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, è stato un genio organizzativo nella caotica e insidiosa giungla della comunicazione sociale.
Alberione fu uomo solo, senza amici. La sua vita fu avvolta da un alone di mistero. Nessuno, credo, è mai riuscito a sollevare tutto il velo che coprì l’identità di quest’uomo, così alieno alle confessioni intime e dalle effusioni spontanee. Anche per questo egli non conobbe amici nel senso comune della parola. Eppure fu sempre ammirato e un suo sorriso era cercato come quello della mamma, così come «le sue lavate di capo, che regalava qualche volta, assumevano il tono di un Savonarola in formato tascabile», come scrisse di lui un suo scomodo quanto appassionato figlio paolino.
Don Alberione nasce, figlio di contadini, in uno squallido stanzone di un rustico a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). È il 4 aprile 1884. E morirà il 26 novembre 1971, in una semplice stanzetta dai gusti francescani nella Casa generalizia della Pia Società San Paolo di Roma senza aver riconosciuto il Papa. Paolo VI si era infatti recato al suo capezzale per rendere l’ultimo omaggio a chi aveva fondato, a soli 30 anni, una congregazione religiosa ed ora ne lasciava ben cinque, più quattro istituti aggregati all’Unione Cooperatori Paolini. Nessuno ha ancora lasciato, nella millenaria storia delle congregazioni e degli ordini religiosi, un così alto numero di fondazioni.
Il 26 novembre del 1904 rimane orfano di padre: lo stesso giorno in cui lui morirà. Tra padre e figlio non c’era mai stata intesa, come d’altra parte con il resto della famiglia. Sull’immaginetta stampata in occasione della sua ordinazione sacerdotale fece scrivere: «Quoniam pater meus dereliquit me… Dominus autem suscepit me» («Il padre mi ha abbandonato ma il Signore si è preso cura di me»).
Don Alberione è stato anche uno dei fondatori più longevi della storia della Chiesa. È vissuto 87 anni costantemente proteso a diffondere la Parola. Giacomo preferiva il libro al gioco, così come preferiva il libro alla zappa, con le conseguenti lamentele e i rimbrotti del padre. Leggiamo in un suo scritto di quando aveva vent’anni e già aveva inteso l’essenza della sua missione: «La vera forza reggitrice degli affetti del cuore, motrice del regno invisibile del pensiero, nell’unione intellettuale e morale, individuale e sociale, che scorre in tutti i secoli, che si dilata in tutte le nazioni è la potenza della parola. Parla l’uomo e parla Dio; quello con pochi mezzi manifesta i suoi verbi mentali, questi con mezzi infiniti, come infinito è Egli stesso. Ei parlò stampando il suo verbo nella natura; onde l’uomo studiando la natura studia il Verbo di Dio».
La sua attività pubblicistica inizia nel 1913 con la direzione della «Gazzetta d’Alba». L’anno dopo nasce la Scuola Tipografica Piccolo Operaio, primo nucleo della futura Pia Società San Paolo. Nel 1915 don Alberione dà vita alla prima comunità femminile della Pia Società Figlie di San Paolo.
Gracile nel fisico, don Alberione aveva una volontà granitica. Si svegliava fra le 3 e le 3,15; alle 4,45 celebrava la messa. Verso le 7 raggiungeva il tavolo di lavoro, rispondendo personalmente alle molte lettere che giungevano da tutte le parti del mondo. Antesignano della comunicazione globale, veniva interrotto dalle visite, per le quali, generalmente, non era necessario fissare un appuntamento: si bussava alla sua porta e si entrava. Lavoratore infaticabile, ma anche organizzatore perfetto e manager d’eccezione. Ha scritto «Famiglia Cristiana», sua straordinaria creatura che nacque il 25 dicembre 1931: «L’intuizione di don Alberione non sta tanto nell’aver utilizzato i mezzi più celeri ed efficaci della comunicazione sociale come strumenti di apostolato, quanto nell’aver adottato integralmente il metodo industriale, che si tira dietro, per sua natura, l’obbligo di aggiornamento continuo e la complementarità di molti settori. È l’industria al servizio della Chiesa; è la rinunzia definitiva a un certo tipo di artigianato; è soprattutto la rinunzia all’arrangiamento. Libri, giornali, ecc., oltre che fatti a scopo di bene, devono essere fatti secondo tutte le regole». La professionalità a dispetto del pressappochismo che molta parte della cosiddetta «buona stampa» perseguiva. Ma tali risultati don Alberione li pagò a caro prezzo. Le travagliate vicende sono ampiamente registrate e documentate negli atti della causa di beatificazione che si è aperta nel 1981 e che lo ha già portato, nel 1996, al titolo di venerabile.
Nel 1931 invia i primi missionari all’estero: Brasile, Argentina, Stati Uniti, India, Cina, Giappone e Isole Filippine. Pur maneggiando molto denaro, fra pretese di creditori e saldi di debiti, don Alberione rimane ben ancorato al voto di povertà. Fra le tante definizioni che gli sono state date c’è anche quella di «manager di Dio». Questo piccolo e fragile uomo ha fondato un impero editoriale di dimensioni intercontinentali, sempre con il rosario alla mano e contro tutti. «L’unica sconfitta nella vita», lascia scritto, «è cedere alle difficoltà, anzi l’abbandono della lotta. L’uomo se muore lottando, vince, se abbandona la lotta è un vinto».
Autore: Cristina Siccardi

Giacomo Alberione nasce il 4 aprile 1884 nella cascina delle « Nuove Peschiere » a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). Presso la cappella dedicata a San Lorenzo riceve il Battesimo il giorno successivo, 5 aprile. La famiglia Alberione è guidata da papà Michele e benevolmente curata da mamma Teresa Allocco. Ci sono già i fratelli: Giovenale, Francesco, Giovanni; seguiranno la sorellina che morirà entro un anno e l’ultimo fratello Tommaso. Famiglia di poveri contadini, profondamente cristiana e laboriosa, che trasmette ai figli con la fede una forte educazione al lavoro e una fiducia incrollabile nella Provvidenza.
Il progetto di Dio su Giacomo comincia ad evidenziarsi molto presto: in prima elementare, interrogato dalla maestra Rosa Cardona su cosa farà da grande, egli risponde con chiarezza: « Mi farò prete! ».
Seguono gli anni della fanciullezza orientati in questa direzione.
Nella nuova abitazione della famiglia nella regione di Cherasco, parrocchia San Martino, diocesi di Alba, il parroco don Montersino aiuta l’adolescente a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata del Signore. A 16 anni Giacomo è accolto nel Seminario di Alba e subito si incontra con colui che gli sarà padre, guida, amico, consigliere per 46 anni: il can. Francesco Chiesa.
Fare « qualcosa » per il Signore e gli uomini del nuovo secolo
Al termine dell’Anno Santo 1900, già fortemente interpellato dall’enciclica di Papa Leone XIII « Tametsi futura », Giacomo asseconda l’invito potente della grazia divina: nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, sosta per quattro ore in adorazione davanti al SS. mo Sacramento solennemente esposto nella Cattedrale di Alba. Una « particolare luce », come testimonia egli stesso, gli viene dall’Ostia e da quel giorno si sente « profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo », « obbligato a servire la Chiesa », con i mezzi nuovi offerti dall’ingegno umano.
E’ in seguito a tale esperienza che don Alberione ricorda senza fine a tutti i suoi figli e figlie: « Siete nati dall’Ostia, dal Tabernacolo! ».
L’itinerario del giovane Alberione prosegue molto intensamente negli anni dello studio della filosofìa e teologia. Il 29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote. Segue una breve ma decisiva esperienza pastorale in Narzole (Cuneo), nella parrocchia di S. Bernardo, in qualità di vice parroco. Nei pochi mesi di apostolato pastorale diretto incontra il giovinetto Giuseppe Giaccardo che per lui sarà ciò che fu Timoteo per l’Apostolo Paolo. E sempre a Narzole don Alberione matura una maggior comprensione di ciò che può fare la donna coinvolta nell’apostolato.
Seguono gli anni vissuti nel Seminario ad Alba, dove svolge il compito di Padre Spirituale dei seminaristi maggiori e minori, e d’insegnante in varie materie.
Il giovanissimo sacerdote prega molto, studia, si presta per predicazione, catechesi, conferenze nelle parrocchie della diocesi. Dedica pure molto tempo allo studio, approfondendo particolarmente testi che lo illuminano e lo aggiornano sulla situazione della società civile ed ecclesiale del suo tempo e sulle necessità dell’uomo d’oggi: verso dove cammina questa umanità?
Ma il Signore lo vuole e lo guida in una missione nuova, multiforme nei mezzi e nelle strutture, per predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spirito dell’Apostolo San Paolo: portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini, utilizzando i mezzi moderni di comunicazione. Testimoniano tale orientamento due libri di notevole importanza, maturati in quegli anni: « Appunti di teologia pastorale » (1912) e « La donna associata allo zelo sacerdotale » (iniziato nel 1911 e pubblicato nel 1915).
Maggior luce e maggior comprensione per un nuovo passo avviene nel 1910, quando don Alberione prende coscienza che la missione di dare Gesù Cristo al mondo deve essere assunta e realizzata da persone consacrate: « Le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio », amerà ripetere spesso.
La missione si concretizza: evangelizzare con i mezzi moderni
Per obbedire a Dio e alla Chiesa, il 20 agosto 1914, mentre a Roma muore il santo pontefice Pio X, ad Alba don Alberione dà inizio alla « Famiglia Paolina » con la fondazione della Pia Società San Paolo. Tutto avviene in forma semplice e dimessa: don Alberione si sente strumento di Dio, mosso dalla pedagogia divina che ama « iniziare sempre da un presepio », nel silenzio e nel nascondimento.
La famiglia umana – alla quale don Alberione si ispira – è composta di… fratelli e sorelle. Don Alberione è ben consapevole del ruolo importante che la donna, esercita nel « fare del bene » a gloria di Dio e per la salvezza dei fratelli. La prima donna che segue don Alberione è una ragazza ventenne di Castagnito (Cuneo): Teresa Merlo. Con il suo contributo, Alberione dà inizio alla congregazione delle Figlie di San Paolo (1915). Lentamente, ma decisamente, tra difficoltà di ogni genere, la « Famiglia » si sviluppa, le vocazioni maschili e femminili aumentano, l’apostolato si delinea e prende forma.
Nel 1918 (dicembre) avviene una prima partenza (quante ne seguiranno?) di « figlie » verso Susa: inizia una coraggiosa storia ricca di fede e di giovanile entusiasmo, che genera anche uno stile caratteristico, denominato « alla paolina ».
È abbastanza semplice seguire la cronologia di questi anni: ma quanto cammino, quanto progresso! Dio è presente e dà segni evidenti che è Lui solo a volere la Famiglia Paolina.
Però, nel luglio 1923 una nube oscura sembra troncare sul nascere tutti i sogni. Don Alberione si ammala gravemente; e il responso dei medici non lascia speranze. Ma ecco che, contrariamente ad ogni previsione, don Alberione riprende miracolosamente il cammino: « San Paolo mi ha guarito », commenterà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoline la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Maestro rivolge al Fondatore: « Non temete – Io sono con voi – Di qui voglio illuminare – Abbiate il dolore dei peccati ».
Nel 1924 prende vita la seconda congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l’apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle nella nuova vocazione don Alberione chiama la giovane Orsola Rivata.
Intanto don Alberione, sempre bruciato dallo « zelo » per le anime, va individuando le forme più rapide per raggiungere con il messaggio evangelico ogni uomo, soprattutto i lontani e le masse. Intuendo che, accanto ai libri, un mezzo molto efficace poteva risultare la pubblicazione di periodici, eccolo …buttarsi massicciamente in questa forma di apostolato. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pastorale destinata ai parroci, al fine « che ogni pastore sia un Pastor Bonus, modellato sopra Gesù Cristo… »; adesso (1931) nasce Famiglia Cristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare la vita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio (1933), « per svelare alle anime le bellezze e le grandezze di Maria »; Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua latina, nella quale si trattavano problemi di cura pastorale e venivano offerte profonde meditazioni biblico-teologiche; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la conoscenza e l’insegnamento della dottrina cristiana; La Vita in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far « conoscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello che serve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa… ». Don Alberione pensa anche ai ragazzi: per loro fa pubblicare Il Giornalino.
Si pone pure mano alla costruzione del grandioso Tempio a San Paolo, prima chiesa dedicata a una delle devozioni fondamentali della Famiglia Paolina. Seguiranno i due Templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il Santuario alla Regina degli Apostoli (Roma).
Don Alberione si preoccupa di guidare, formare, orientare fratelli e sorelle precedendoli nella vita – vocazione – missione paolina.
Da Alba al mondo: come Paolo sempre in cammino
Nel 1926 si concretizza la fondazione della prima Casa « filiale » a Roma, seguita negli anni successivi da molte fondazioni in Italia e all’Estero.
Intanto cresce l’edificio spirituale: si segue con una maggiore comprensione e quindi più facilmente l’insegnamento del « Primo Maestro » sulla « devozione » fondamentale e qualificante: « Gesù Maestro e Pastore, Via e Verità e Vita », sulla devozione a Maria Madre, Maestra e Regina degli Apostoli; e sulla devozione a San Paolo, che ci specifica nella Chiesa e per cui siamo « i Paolini ».
La meta che il Fondatore indica a tutti e che vuole sia assunta come il primo « impegno » è la conformazione piena a Cristo: accogliere tutto il Cristo Via e Verità e Vita in tutta la persona, mente, volontà, cuore, forze fisiche. Orientamento codificato in un volumetto composto intorno agli anni ’30 e al quale dà il titolo paolino: « Donec formetur Christus in vobis ».
Nell’ottobre 1938 don Alberione fonda la terza congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o « Pastorelle », destinate all’apostolato pastorale diretto in ausilio ai Pastori.
La seconda guerra mondiale (1940-1945) segna una battuta d’arresto; ma il Primo Maestro, forzatamente fermo a Roma, non si arresta nel suo itinerario spirituale. Mentre attende il ritorno di condizioni migliori per operare, egli va accogliendo in misura sempre più radicale la luce di Dio in un clima di adorazione e contemplazione ogni giorno crescente.
Frutto di tale attitudine adorante sono gli scritti che il Fondatore continua a regalare ai suoi figli, tutti di grande rilievo per la Famiglia Paolina. Ricordiamo solo la « Via humanitatis » (1947), altissima rilettura del cammino dell’umanità in ottica mariana (« per Mariam, in Christo et in Ecclesia »), e quello che è il suo sogno incompiuto: il Progetto di un’enciclopedia su Gesù Maestro (1959).
Per don Alberione l’attività piena riprende alla fine del 1945, con i grandi viaggi intorno al mondo, allo scopo di incontrare e confermare fratelli e sorelle. Rimane « folgorato » dall’Oriente (India, Cina, Filippine…): le moltitudini, i miliardi di persone… Ma quanti conoscono Gesù Cristo? « Mi protendo in avanti! Non pensare a quel che si è fatto, ma piuttosto a quanto rimane da fare ».
Gli anni 1950-1960 sono gli anni d’oro del consolidamento della Famiglia Paolina: tutto fiorisce con vocazioni, fondazioni, edizioni, iniziative molteplici, impegno nella formazione, nello studio, nella povertà.
Nel 1954 si celebra il quarantesimo di fondazione, documentato in un volume pubblicato nella circostanza: « Mi protendo in avanti ». E’ esattamente in questa occasione che don Alberione riesce a vincere la sua naturale ritrosia nel parlare di se stesso e consegna ai suoi figli lo scritto che sarà pubblicato con il titolo: « Abundantes divitiae gratiae suae » e che viene considerato ora come la « storia carismatica della Famiglia Paolina ».
Con la fondazione della quarta congregazione femminile: l’Istituto Regina degli Apostoli per le vocazioni (Suore Apostoline), dedite all’apostolato vocazionale (1959) e con gli Istituti aggregati: San Gabriele Arcangelo, Maria SS.ma Annunziata, Gesù Sacerdote, Santa Famiglia, si completa il grande « albero » della Famiglia Paolina, pensata e voluta da Dio.
Don Alberione è ora la guida di circa diecimila persone, inclusi pure i Cooperatori Paolini, tutte unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l’avvento di Cristo, Via, Verità, Vita, nelle anime e nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.

Dalla Chiesa del Concilio a quella celeste
Negli anni 1962-1965 il Primo Maestro è protagonista silenzioso, ma molto attento del Concilio Vaticano II, alle cui quattro « sessioni » partecipa quotidianamente con vivo impegno. Giorno di particolare giubilo è il 4 dicembre 1963, in cui viene emanato il Decreto conciliare « Inter Mirifica » sugli strumenti della comunicazione sociale da assumersi come mezzi di evangelizzazione. Egli così commentò: « Ora non potete più avere dubbi. La Chiesa ha parlato ». E ancora: « Vi ho dato il meglio. Se avessi trovato qualcos’altro di meglio, ve lo darei ora, ma non l’ho trovato ».
Nel frattempo, non mancano tribolazioni e sofferenze al padre comune. Tra le più acute, la morte dei suoi primi figli e figlie. Il 24 gennaio 1948 torna al padre don Timoteo Giaccardo, che egli considera « fedelissimo tra i fedeli ». Quindi, il 5 febbraio 1964, don Alberione è colpito da un nuovo, profondo dolore per la morte della Prima Maestra Teda (Teresa Merlo), la donna che non dubitò mai e vide in Lui l’Uomo trasmettitore della Volontà di Dio. In quell’occasione don Alberione non si preoccupò di nascondere le lacrime.
Ormai verso la fine del cammino terreno, si può affermare che il segreto di tanta multiforme attività fu la sua vita interiore, per la quale egli realizzò l’adesione totale alla Volontà di Dio, e compì in sé la parola dell’Apostolo San Paolo: « La mia vita è Cristo ». Il Cristo Gesù, in particolare il Cristo Eucaristico, fu la grande, l’unica passione di don Alberione: « La nostra pietà è in primo luogo eucaristica. Tutto nasce, come da fonte vitale, dal Maestro Divino. Così è nata dal tabernacolo la Famiglia Paolina, così si alimenta, così vive, così opera, così si santifica. Dalla Messa, dalla Comunione, dalla Visita, tutto: santità e apostolato ».
Il Venerabile don Giacomo Alberione rimase sulla terra 87 anni. Compiuta l’opera che il Padre Celeste gli aveva dato da fare, il 26 novembre 1971, lasciò la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Le ultime ore di don Alberione furono confortate dalla visita e dalla benedizione del Papa Paolo VI, che non nascose mai la sua ammirazione e venerazione per don Alberione. Ad ogni membro della Famiglia Paolina è oltremodo cara la testimonianza che volle lasciare il Papa Paolo VI, nella memorabile Udienza concessa al Primo Maestro e a una folta rappresentanza di membri della Famiglia Paolina, il 28 giugno 1969 (il Primo Maestro aveva 85 anni): « Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, sempre intento a scrutare i « segni dei tempi », cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. Lasci, caro Don Alberione, che il Papa goda di codesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essa prodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa ».
Il 25 giugno 1996 il Santo Padre Giovanni Paolo II firma il Decreto con il quale vengono riconosciute le virtù eroiche e il conseguente titolo di Venerabile.
E’ stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II a Roma il 27 aprile 2003.

Autore: Don Luigi Valtorta, ssp – Postulatore Generale

 

Publié dans:Beati, Santi |on 25 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

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