Gesù con i dodici apostoli

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=30
QUALE PROFEZIA OGGI
sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 14-15 dicembre 1985
una profezia problematica
È necessario sottolineare il carattere problematico della profezia, l’impossibilità, sia di principio sia legata alla situazione attuale, di trovare parole perentorie dentro ogni situazione. Dobbiamo guardarci da profezie che non portino dentro di sé la problematicità.
Nella profezia dell’Antico Testamento sono presenti questi elementi: 1) il profeta è colui che ha una esperienza particolarmente intensa di Dio; 2) è spinto a parlare in nome di Dio da questa esperienza (profeta=parlare in nome di); 3) non per comunicare dottrine o nozioni su Dio o sull’uomo, ma ciò che l’uomo deve fare nel presente, come deve comportarsi in una certa situazione. Profeta è colui che è investito della capacità di leggere i segni dei tempi; 4) il profeta infine è anche colui che prevede e predice, annuncia un futuro che è minaccia (quando il presente è illusoria sicurezza) o promessa (quando la tentazione è la disperazione).
Nel Nuovo Testamento vi è la democratizzazione della profezia.
Il profeta è normalmente inteso come colui che annuncia parole perentorie, categoriche, incontrovertibili. Invece abbiamo bisogno di profeti alla cui profezia sia essenziale il carattere della problematicità. La parola di Dio pronunciata da labbra umane è sempre stata problematica, sia quando lo sapeva, sia quando non se ne accorgeva.
Bonhoeffer ha introdotto un tema molto fecondo, quello della debolezza, della impotenza di Dio nel mondo. La tradizione teologica ha sviluppato quasi esclusivamente il tema della potenza di Dio nel mondo, per cui tutto ciò che avviene è voluto da Dio e determinato da lui (catastrofi come castigo di Dio…). Dio è pensato in termini di potenza oltre i limiti dell’uomo: dove l’uomo non arriva con le proprie forze a dominare il mondo (sconfitta, malattia, morte), lì arriva Dio (è il Dio dei preti che accorrono al capezzale del morente). È un Dio che si manifesta come al di là della potenza dell’uomo. Ma questo, dice Bonhoeffer non è il Dio della bibbia. Dio in Gesù non si è manifestato come il Dio della potenza, ma come il Dio che si rivela proprio nell’impotenza della croce, nella sconfitta. Quello che noi contempliamo di Dio in Gesù è lo stile di Dio nel mondo. Dio agisce nel mondo ma occultandosi, è presente nella storia dell’uomo in quanto rende capace l’uomo di fare storia. Che Dio si nasconda, che confonda la sua voce dentro le voci della città umana è la condizione di possibilità perché la storia sia davvero storia di un uomo adulto, maggiorenne. Concepire Dio in termini di supplemento di potenza (opera lì dove non arriva la potenza umana) vuol dire concepirlo in termini di competizione con l’uomo, e concepirlo sulla stessa lunghezza d’onda con differenza solo quantitativa. Il Dio della bibbia invece muore per lasciar spazio alla potenza dell’uomo. Muore come Dio potente per rinascere dentro la potenza dell’uomo al fine di renderla potenza giusta, responsabile.
C’è un altro modo di concepire la debolezza di Dio, quando Dio non interviene lì dove la necessità del suo intervento non sarebbe più postulata dal nostro bisogno di un supplemento di potenza, ma da un minimo di esigenza di giustizia, cioè quando Dio non interviene lì dove l’uomo agendo irresponsabilmente determina la morte dell’uomo. L’impotenza di Dio è qui scandalosa. Il richiamo è d’obbligo al genocidio perpetrato contro il popolo ebraico, quel popolo che ha sempre avuto consapevolezza di essere accompagnato e sorretto dalla presenza di Dio. Come è possibile dire che Dio è presente nella storia e nella storia del popolo eletto se è rimasto silente quando per metà è stato distrutto? Qui Dio scompare non perché l’uomo viva e cresca, ma scompare nella sconfitta dell’uomo.
Secondo alcuni teologi cattolici l’unica risposta convincente ad Auschwitz sono gli ebrei che hanno continuato a credere. Se loro hanno continuato a credere possiamo credere anche noi. Che cosa vuol dire annunciare l’amore e la bontà di Dio dopo Auschwitz, in un mondo dove miliardi di uomini non hanno a sufficienza per sopravvivere? La profezia può ancora parlare soltanto se prima ha saputo tacere, se prima ha saputo ascoltare e gridare dentro di sé le voci dell’umanità straziata. Occorre avere il coraggio di dire che qui la profezia non può che essere disarmata, anzi problematica, o addirittura messa in discussione: come parlare in nome di Dio che o non ha la potenza di intervenire o non avverte il bisogno di intervenire?
la profezia fatta libro
Noi oggi abbiamo un modo in cui la parola di Dio è presente abitualmente nella nostra storia: la profezia consolidata, sedimentata, fatta libro. Le parole dei profeti, dei narratori, dei sapienti, degli scrittori di lettere noi le accogliamo come parola di Dio che annuncia e interpella. Ma questa parola di Dio non si dà allo stato puro, immediatamente, ma è presente in un insieme di parole umane che vanno pertanto interpretate.
La Bibbia non è un insieme di parole che sarebbero umane solo nella loro esteriorità, ma che in realtà avrebbero come significato solo la Parola di Dio (quasi che Dio detta e l’uomo scrive). Dire che la Bibbia è parola divina mediata da parole umane, vuol dire che la bibbia è un insieme di libri che sono esattamente come tutti gli altri libri, a cui non manca nulla di tutto ciò che è proprio delle parole umane. Le parole cioè comunicano prospettive, mentalità, cultura, modo di organizzare e percepire i valori propri dell’epoca in cui sono state scritte. Paolo ad es. non ha colto la contraddizione tra la novità dell’uomo battezzato in Cristo e le strutture schiaviste e ha ritenuto conciliabili rapporti sociali padrone-schiavo nella società e nella chiesa, cosa che noi oggi avvertiamo come lesivi della dignità dell’uomo. La forza dirompente della parola di Dio è stata compressa dai limiti di Paolo, che pur affermando che in Gesù ognuno è servo dell’altro (eliminando alla radice la volontà di dominio) non riesce a coglierne le conseguenze sul piano sociale. Questo vale anche per il rapporto uomo-donna. Proprio perché la parola di Dio ci è consegnata in questi vasi fragili è necessario un lavoro di scavo, di purificazione e di continua problematizzazione.
Tutto questo vale anche per la parola della chiesa, per la parola magisteriale: nessun carattere perentorio, se non dentro ad un orizzonte problematico.
Quanti errori e quante vittime nell’appellarsi in modo disinvolto e perentorio alla parola di Dio.
Non esistono formule capaci di portare in piena trasparenza la parola di Dio. L’ascolto della profezia richiede lo sforzo a volte faticoso dell’interpretazione, non per edulcorarla ma per non travisarla.
Il bisogno di parole perentorie (spesso nascosto dall’aggettivo profetiche) non è un bisogno di verità, ma di sicurezza, di pacificazione psicologica. Occorre invece attrezzarsi per l’ascolto inquieto, per l’incessante ricerca di quel filo di luce che è la parola di Dio dentro l’involucro delle nostre parole umane.
Oltre alla problematicità interna alla stessa parola di Dio in quanto vive in parole umane, c’è anche una problematicità legata al nostro oggi, una problematicità dell’interlocutore. Nella società di oggi c’è fluidità di ruoli… Anche chi nella Chiesa crede di avere parole perentorie poi di fatto non le trova.
la profezia cristiana ha il suo logo nella pratica
La profezia più specificamente cristiana non ha il suo luogo nel linguaggio, ma nella pratica, nell’amore.
l’asse portante di tutta la rivelazione cristiana
Al centro di tutta la rivelazione biblica, la profezia biblica, sta l’affermazione che « Dio è amore » (1Giovanni). È la chiave interpretativa di tutta la storia della salvezza.
« Dio è amore » non vuol dire però, come affermato a lungo dalla tradizione, che Dio si dona all’uomo come sua beatitudine, perché l’uomo, così attratto, raggiunga il fine ultimo della contemplazione divina.
Secondo la bibbia « Dio è amore » vuol dire che Dio vuole il bene dell’uomo. Il destinatario di questo amore è l’uomo in quanto povero e in quanto peccatore.
Dio ama l’uomo nella sua povertà e dona all’uomo ciò di cui di volta in volta ha bisogno. Dio ama l’uomo in quanto peccatore, perduto, per restituirgli nel proprio spirito la capacità di compiere il bene.
Nella bibbia è importante tutto ciò che può far vivere l’uomo.
Dio non cerca la propria gloria, o meglio la propria gloria è che il povero viva (Mons. Romero). Il Dio della bibbia cerca l’altro da sé, l’uomo, non in quanto ha qualcosa da poter dare a Dio. Dio è diverso da noi, è infinito proprio perché esce da sé senza più bisogno di tornare in sé. È un amore totalmente gratuito.
la vita delle prime comunità cristiane
1. Gesù raccoglie attorno a sé una cerchia di discepoli per creare un segno vivo di ciò che sta annunciando: l’avvento della regalità di Dio. Avranno il centuplo per aver lasciato tutto, la famiglia… (Marco 10,29). Nel regno di Dio, in cui si instaura la sua signoria, si costituisce una umanità dove l’unico legame è la reciprocità, la fraternità.
2. Nelle comunità fondate dagli apostoli c’è un’esplosione di esperienze carismatiche straordinarie. Paolo (1Cor,13) mette in guardia, sostenendo che l’unico carisma che concentra in sé la sostanza della presenza dello Spirito è l’agape, che non ha nulla di straordinario: è l’amore come positività dei rapporti più semplici nella vita quotidiana, è la capacità di ascoltare, di dimenticare il male ricevuto, e di essere grati del bene. È il carisma che non tramonta, che permane oltre la morte. Paolo trasferisce la creatività dello Spirito sul piano della eticità non eroica.
3. I Padri vedono realizzata la profezia di Isaia 2 sull’affluire di tutti i popoli a Gerusalemme per ascoltare la parola di Dio e vivere in pace e armonia non alla fine dei tempi, ma nella comunità cristiana. La comunità cristiana è una comunità di non violenza totale, di pace sia come rinuncia alla violenza, che, in positivo, come prassi di fraternità, di scambio, di condivisione, di aiuto reciproco. Addirittura diventa la dimostrazione della messianicità di Gesù.
evangelizzare è promuovere
Compito specifico della chiesa è evangelizzare o anche promuovere? è il dibattito ecclesiologico di oggi. Sostengo la non esistenza del problema in quanto il vero annuncio, l’annunciare chi è Dio, è vivere l’agape. La vera evangelizzazione è la promozione dell’uomo, non solo casuale a livello di effetti, ma voluta a livello di intenzioni. Data la problematicità della profezia verbale, la vera profezia incontrovertibile è nel vivere e testimoniare l’agape, il prendersi cura dell’altro, in cui la fonte del dare il pane è l’amore per l’affamato, la fonte del dare amicizia, perdono è l’amore… Quando mi faccio braccio, mano, corpo dell’amore di Dio divento la sua prima parola attraverso cui lui si rivela. La profezia fondamentale, poiché l’amore parla di Dio, è amarsi a vicenda. È una profezia incontrovertibile, chiara, ma non irrecusabile: è possibile rifiutarla. Dio resta colui che si propone, colui che non decide al posto mio. Davanti all’amore posso accettare o fuggire. La prassi evangelica è la prassi in cui la chiesa è segno davanti al mondo dell’amore di Dio e quindi mette il mondo davanti alla scelta.
Ci sono tre aree in cui testimoniare il primato dell’amore come profezia della realtà di Dio nel mondo, sono tre culture che dovrebbero diventare il programma di una comunità cristiana:
cultura della solidarietà
Occorre anzitutto premettere il carattere dialogico della profezia. Non è che uno sia solo portatore della parola e un altro solo uditore, ma c’è reciprocità e circolazione: tutti sono ad un tempo uditori e portatori. Lo spirito della profezia è dato ad ogni uomo: ognuno ha la radicale capacità di cogliere il bene e di produrre l’operosità dell’amore.
Una cultura della solidarietà è anzitutto uno spezzare la visione che ha percorso la storia dell’occidente, contaminando anche il cristianesimo, che fa perno sull’individuo (l’individuo alla ricerca della felicità, alla ricerca della propria salvezza). Deve riproporre il centro del messaggio cristiano, che Dio è agape, che ha cercato e si è preso cura dell’uomo come altro, in modo assolutamente gratuito e disinteressato, la cui gloria è che l’uomo viva e che questa possibilità di amare, di volere il bene dell’altro senza seconde intenzioni, in Gesù e nel suo Spirito, è diventata un possibilità anche per noi. Amare l’altro con nessun altra ragione se non che lui viva è il divino nella storia. Una cultura della solidarietà nasce da questo cambiamento di mentalità che può avvenire a vari livelli. Non l’essere, ma l’altro è il grande rimosso dell’occidente.
cultura della pace
La cultura della pace è storicamente il presupposto della cultura della solidarietà. L’altro può essere avvertito anche come un pericolo per me, o perché mette a repentaglio un mio interesse o perché ritengo che metta a repentaglio l’equilibrio generale. Combatterlo non è più solo difendere i miei interessi, ma assumere una grande missione, farsi incarnazione della lotta del bene contro il male. Noi abbiamo questa capacità diabolica di rivestire di valori ideali l’inimicizia funzionale (difesa di interessi). È la favola del lupo e dell’agnello. È la violenza specificamente umana quella di razionalizzare le proprie cariche aggressive, dando ad esse un ordine di valori.
Una cultura della pace fa piazza pulita di queste giustificazioni. In una cultura della pace l’uomo non ha bisogno di ideali per trovare un’identità perché trova la sua identificazione nel rapporto con l’altro. Non cerca l’assoluto in ideali, neanche religiosi, ma solo nell’altro e nel suo bisogno. Una cultura della pace fa cadere tutte le maiuscole.
Esemplare la parabola del buon samaritano: prossimo è colui al quale tu ti fai prossimo, ti fai vicino all’altro (cultura della solidarietà), ed è il samaritano, il nemico, il non correligionario (cultura della pace) a farsi prossimo.
cultura della qualità
La storia ha obbligato le collettività umane a sviluppare una cultura della quantità. Nella dura lotta per la sopravvivenza la quantità era l’imperativo primario. Per la prima volta della storia in occidente una maggioranza ha superato la soglia della sopravvivenza e si apre al problema della qualità, dei beni gratuiti in rapporto con la natura, con la cultura, con gli altri (il bene dello stare con gli altri, il godere della convivialità).
Come mettere in comunicazione cultura della solidarietà, della pace, della qualità? Come democratizzare i beni di qualità? Come renderli elementi di incontro? È un impegno per tutti.
http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=25930
DON ALBERTO BRIGNOLI
XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) (15/07/2012)
Credo che nessun credente, a qualunque religione appartenga, nel momento in cui mette a disposizione la propria vita per l’annuncio di un messaggio di testimonianza lo faccia per ambizione, per la ricerca del successo, di gloria o di fama personale. Sono anzi abbastanza certo, anche sulla scorta dell’esperienza personale, che se sapesse in anticipo che cosa lo attende, quando mette a disposizione la propria vita per un annuncio di speranza, di certo ci penserebbe non una volta sola, prima di dire « sì ». Essere testimoni di qualcosa di importante non è facile, occorre innanzitutto esserne convinti.
Ma essere annunciatori del messaggio di speranza che viene dalla Parola di Dio è veramente un compito arduo, perché non comporta onori, benemerenze, reverenze e riconoscimenti come forse si è tentati di pensare. Il più delle volte comporta contrasti, difficoltà, fatiche, forti incomprensioni: soprattutto quando il messaggio che si porta è di denuncia contro atteggiamenti di ingiustizia e di sopruso nei confronti dei più deboli, quando si entra in contrasto con un modo di intendere la vita che non corrisponde ai disegni di Dio.
Un testimone scomodo: questo è stato, nell’Antico Israele, il profeta Amos. Egli, originario del Regno di Giuda, del Sud, viene mandato da Dio a predicare la sua parola e a denunciare gli atteggiamenti di corruzione nel Regno del Nord, il Regno di Israele. Figuriamoci se viene accolto bene: viene insultato dalla classe dirigente, soprattutto dai sacerdoti del santuario di Betel, che lo vedono come un opportunista, uno che va in cerca di fortune, di potenti protettori a cui può dare una mano nella loro lotta politica contro il potere costituito. E non usano mezzi termini, come abbiamo ascoltato nella prima lettura: « Vattene, veggente, nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare ». Qui no: qui non abbiamo bisogno di mercenari della Parola di Dio, abbiamo il nostro santuario, abbiamo il nostro re, il resto ci avanza tutto.
Ma Amos è ben cosciente di non essersi cercato nulla, di non aver creato nulla e soprattutto di non essere andato a mendicare pane da nessuno. Quello che sta facendo non è sua iniziativa. Lui stava bene dov’era: non era assolutamente nato come profeta, non ha avuto una formazione profetica, niente a che vedere nemmeno con le scuole di pensiero dell’epoca. E non può nemmeno vantare una nobile stirpe: era un pastore, un coltivatore di piante del deserto, fondamentalmente un nomade. Ha però risposto ad una chiamata, ha dato retta alla voce di Dio, e ha iniziato a parlare in suo nome. Fosse stato per lui, ne avrebbe fatto volentieri a meno: chi si mette a fare il testimone, il profeta, l’annunciatore di misteri della salvezza e di valori grandi, sapendo bene che tutte queste cose non procurano se non fastidi senza fine?
Eppure, non riesci a dire di no…quando Dio chiama, difficile resistere. E questo vale per tutti: per un pastore di Tekoa come Amos, per un pescatore della Galilea come Pietro, per un esattore delle tasse come Matteo, per un rivoluzionario come Simone lo Zelota, per una donna dai mille amori come Maria Maddalena, per un rabbino integralista come Paolo di Tarso. Tutti quanti chiamati, presi così com’erano, e mandati ad annunciare, ognuno nel proprio ambiente, il messaggio di salvezza. Quale fosse il contenuto di questo messaggio, beh…abbiamo tutta la Bibbia per capirlo e comprenderlo e per cercare di trarne fuori un catechismo, un vademecum, un prontuario all’uso del predicatore.
Rimane, però, un problema, che non dev’essere di scarsa importanza, visto che Gesù vi dedica quasi la metà del discorso riportato dal Vangelo di oggi: ovvero, che questo annuncio non trova grandi adesioni e di solito non riscuote un enorme entusiasmo.
Oggi come allora, al tempo di Gesù come al tempo di Amos o di tutta la storia della salvezza, il messaggio del’uomo di Dio, del testimone della giustizia, del profeta di speranza, non viene accolto con entusiasmo da tutti. Entrare nelle case degli uomini, rimanere a loro fianco, calpestare la polvere delle loro strade, condividere le loro vicende umane è un imperativo categorico, un compito ineludibile di ogni cristiano. Guarire i malati, scacciare i demoni, invitare la gente alla conversione; questo è quello che il Maestro ci chiede di fare, e non ce lo chiede per la nostra bella faccia o per i nostri tanti o pochi meriti. Ce lo chiede perché ce lo chiede, perché è sua volontà. Punto.
Ma ce lo chiede anche con quel sano realismo di chi sa che la Parola di Dio è efficace nella misura in cui incontra un terreno disposto ad accoglierla e a farla crescere. Insistere a voler rimanere in un posto, in una casa, in un villaggio, affinché tutti si convertano e credano al Vangelo non ha senso e non è ciò che il Maestro ci chiede.
Occorre avere un sano distacco dalle cose e dalle situazioni, tale per cui, se la Parola non viene accolta, non ha alcun senso insistere: attaccarsi alle persone per sperare di ottenere un successo personale è come volersi attaccare alla polvere che è sotto i nostri piedi.
La polvere è il nulla, è inconsistente, e da essa ci dobbiamo staccare: preoccupiamoci solo che la gente, un giorno, anche grazie alla nostra testimonianza, attacchi il proprio cuore al cuore di Dio.