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SINTESI DELLA FEDE DI UN UMILE CRISTIANO – PAPA MONTINI
Montini esprime nel suo testamento la fede in quella forma in cui gli era stata insegnata. Lo riproponiamo ai nostri lettori in occasione del ventunesimo anniversario della sua morte
di Paolo Mattei
Paolo VI a Venezia il16 settembre 1972. Durante quella visita il Papa si tolse la stola rossa e la pose sulle spalle di monsignor Luciani che non era neanche cardinale
Paolo VI a Venezia il16 settembre 1972. Durante quella visita il Papa si tolse la stola rossa e la pose sulle spalle di monsignor Luciani che non era neanche cardinale
Il pontificato di Paolo VI può essere riassunto in queste parole: una difesa della Tradizione apostolica. Un esempio, semplice e comprensibile, di questa difesa della Tradizione degli apostoli è il testamento di papa Montini. Può apparire una cosa un po’ insolita prendere spunto, per indicare il cuore di tutto un pontificato, da uno scritto così personale qual è un testamento. Ma in questo testo tutta la fede cristiana di Montini è espressa con una semplicità fedele e con una bellezza uniche.
Il pericolo più grave per la Tradizione della Chiesa in epoca moderna non viene da una negazione di singoli contenuti della fede. Il pericolo più grave per la Tradizione della Chiesa viene da uno snaturamento dei contenuti della fede. Se non si comprende questo, non si capisce la vera grandezza di Paolo VI. Il pericolo non era la negazione diretta dei contenuti della dottrina della fede, quindi non era, per esempio, l’ateismo marxista. Il pericolo era lo svuotamento dall’interno o, più precisamente, lo snaturamento dall’interno dei contenuti della fede. Il termine snaturare, dall’enciclica Humani generis di Pio XII, è la chiave per comprendere l’attacco alla Tradizione degli apostoli in epoca moderna.
L’espressione di Pio XII, «altri snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale», può individuare quell’apparentemente piccolo mutamento che è alla radice della catastrofe della scristianizzazione moderna. Come aveva intuito Péguy, la scristianizzazione nasce da un errore mistico cioè precisamente dallo snaturare il concetto della gratuità della grazia. La grazia non è più riconosciuta come un avvenimento che si incontra, come un dono gratuito che viene fatto all’uomo, ma viene concepita come una dimensione dell’esistenza umana in quanto tale. Il soprannaturale non è più riconosciuto come un dono che suppone e ricrea la natura secondo il grande principio di san Tommaso d’Aquino («…cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat», scrive l’Aquinate nella Summa theologica I-I, q. 8 ad 2). Ma il soprannaturale viene concepito come una dimensione interna alla stessa natura. Quindi non c’è più distinzione tra natura e grazia, ma si dice: tutto è grazia. E se tutto è grazia, si finisce con l’attribuire alla storia umana un significato assoluto. Non l’avvenimento e quindi la storia di questa particolare realtà che è la grazia, ma la storia umana in quanto tale assume un significato assoluto, quasi fosse essa, e non il mistero e l’operazione della grazia, il principio della divinizzazione dell’uomo.
Così chi ha intelligenza e cuore cattolico comprende facilmente che la crisi della Chiesa non ha avuto il suo apice nella contestazione dei dogmi e dell’autorità degli anni Settanta. La crisi della Chiesa ha il suo apice in questi ultimi decenni.
Quando Paolo VI nel maggio 1978 celebrò la messa funebre per Aldo Moro a San Giovanni in Laterano, apparve agli occhi di tutti come uno sconfitto. Uno che osava utilizzare le parole di Giobbe per rimproverare a Dio di non essere intervenuto a difendere un amico. L’immagine di quel Papa sconfitto rappresenta molto più realisticamente la condizione della Chiesa che non tutti quei gesti e momenti teatrali con cui oggi si tenta di occultare la dilagante scristianizzazione. È come se davanti a una casa distrutta si fosse messo un sipario di teatro. O peggio si fossero usati elementi di quella dimora per costruzioni architettoniche altrui.
Così, per usare un’altra espressione di Péguy, si è ridotto il cristianesimo a eccellente materia di insegnamento. Infatti se la grazia diventa una dimensione dell’umano in quanto tale, se la Chiesa non è più gesto dell’operare della grazia, comunicazione della grazia come dono gratuito, che cosa può fare la Chiesa? Insegnare all’uomo come scoprire la grazia immanente, cioè la grazia ridotta a dimensione della vita umana (come dimensione del lavoro, della sofferenza, del genio femminile, della famiglia, ecc.). La missione della Chiesa non è più riconosciuta come il comunicarsi di un dono non dovuto, di un tesoro gratuito, come la possibilità di un incontro imprevisto e imprevedibile. Ma diventa insegnare ad ogni uomo come scoprire questo tesoro, considerato una dimensione della sua stessa natura e, una volta scoperto questo tesoro, essere buono in forza di esso. Certo, nessuno afferma che l’uomo diventa buono da sé, grazie alle sole sue forze. Questa evidentemente sarebbe l’eresia di Pelagio. Anche se, a dire il vero, nemmeno Pelagio diceva questo. Anche lui parlava della grazia. Ma, come i chierici di oggi, della grazia aveva una concezione puramente intellettiva, come un dono di insegnamento e di intelligenza in grado di far riscoprire agli uomini le possibilità naturali che Dio ha donato loro. Si tratta di uno snaturamento del concetto della gratuità della grazia che lascia intatte le parole cristiane. È quindi molto più difficile cogliere il pericolo, cogliere l’alternativa che questo rappresenta rispetto alla Tradizione degli apostoli.
Nel suo testamento papa Montini esprime, quasi senza accorgersene, la fede in quella forma in cui gli era stata insegnata. Il testamento esprime la sua fede cattolica e la esprime in diretto contrasto con lo snaturamento del concetto di grazia. Per Montini non è vero che tutto è di per sé grazia, non è vero cioè che la grazia si possa concepire come una dimensione immanente all’umano in quanto tale. Questo nel testamento è evidente. È evidente non in termini criticamente riflessi ma innanzitutto come testimonianza immediata di un semplice fedele che dalla Tradizione aveva appreso gli elementi fondamentali della fede cattolica. Anche Montini conosceva a memoria il Catechismo di san Pio X.
«Alcune note per il mio testamento. In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. 1. Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo lo rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce».
Il mistero della morte, nella luce di Cristo, il vincitore della morte, viene guardato con umile e serena fiducia. Questo è il paradosso cristiano: la grazia non censura né sublima. La grazia dona umiltà, luce, conforto nel vivere i fattori, le circostanze della vita.
«Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza».
Questo è il cattolicesimo. La vita naturale è fugace. Eppure è bella. Ha ragione Benigni: La vita è bella. Che venga al mondo un figlio è una cosa bella.
«Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita».
Così il Ti adoro mio Dio (la preghiera del mattino e della sera del Catechismo di san Pio X), che tutti abbiamo recitato e che probabilmente anche Montini avrà ripetuto tutte le mattine e tutte le sere. «Ti adoro mio Dio… ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano». Ecco la chiara distinzione: «avermi creato, fatto cristiano». L’essere stato creato è una cosa bella, mirabile dice la Tradizione della Chiesa. Più bello e più mirabile è l’essere fatto cristiano. Questa affermazione semplice e chiara di due doni distinti (la natura e la grazia) è l’elemento più decisivo di papa Montini in difesa della Tradizione degli apostoli. Ci sono due doni e il secondo, la grazia, rende più mirabile anche il primo, anche perché vi corrisponde gratuitamente. Ma non c’è omologazione, non c’è confusione; quella confusione per cui si dice che tutto è Cristo, tutto è grazia.
«Parimente sento il dovere di ringraziare e di benedire chi a me fu tramite dei doni della vita, da Te, o Signore, elargitimi: chi nella vita mi ha introdotto (oh! siano benedetti i miei degnissimi Genitori!), chi mi ha educato, benvoluto, beneficiato, aiutato, circondato di buoni esempi, di cure, di affetto, di fiducia, di bontà, di cortesia, di amicizia, di fedeltà, di ossequio. Guardo con riconoscenza ai rapporti naturali e spirituali che hanno dato origine, assistenza, conforto, significato alla mia umile esistenza: quanti doni, quante cose belle ed alte, quanta speranza, ho io ricevuto in questo mondo!».
Ecco innanzitutto la bellezza della vita, dei doni naturali elargiti dal Signore, che fa piovere e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
«Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?».
Non c’è bisogno di negare la natura per ringraziare della grazia che, alla fine, è l’unica ricchezza vera che rimane. Ma questo non distrugge la bellezza di quei doni naturali, anzi rende più umili e grati nel riconoscere la loro bellezza. Anche qui c’è la distinzione: la natura e la grazia. In una corrispondenza non ideologica, cioè non stabilita da una spiegazione o da una tesi teologica. È una corrispondenza di incontro, una corrispondenza di esperienza, una corrispondenza di grazia. L’avvenimento della grazia corrisponde gratuitamente al cuore, trasfigura, rendendola più mirabile, la stessa vita naturale; e il riposo ultimamente unico della grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la compie oltre ogni desiderio.
«Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica? come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa, a Roma specialmente, accanto al Papa, poi a Milano, come arcivescovo, sulla cattedra, per me troppo alta, e venerabilissima dei santi Ambrogio e Carlo, e finalmente su questa suprema e formidabile e santissima di San Pietro? In aeternum Domini misericordias cantabo».
Un’ultima osservazione. Ci sono delle note complementari al testamento. Esse furono redatte il 16 settembre 1972 alle ore 7 e 30. Dopo averle scritte, quel medesimo giorno papa Montini andò a Venezia. Fu in quell’occasione che coprì con la sua stola rossa di papa le spalle di monsignor Albino Luciani, che non era neanche cardinale. Si legge in queste note:
«In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.
Magnificat anima mea Dominum, Maria!
Credo. Spero. Amo. In Gesù Cristo.
Ringrazio quanti mi hanno fatto del bene. Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace.
Saluto il carissimo fratello Lodovico e tutti i miei familiari e parenti e amici, e quanti hanno accolto il mio ministero. A tutti i collaboratori, grazie. Alla Segreteria di Stato particolarmente. Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera. Quam dilecta tabernacula tua, Domine!».
Leggendo il testamento è evidente che Montini ha difeso la Tradizione degli apostoli anche perché come cuore era umile. Cioè ha difeso quello che lui stesso umilmente aveva imparato. Il testamento testimonia che Montini ha difeso le poche cose essenziali che lui stesso aveva imparato dalla tradizione cattolica che l’aveva preceduto. Uno, anche se papa, può fare mille peccati. Anche i papi sono poveri peccatori. Sant’Agostino dice che l’essere cristiano è la dignità di grazia che ci accomuna, mentre l’essere vescovo è, di fatto, un pericolo. Se l’essere vescovo di una piccola diocesi dell’Africa rappresentava un pericolo per Agostino, tanto più l’essere vescovo della Chiesa di Roma, con il carico del ministero verso tutte le Chiese, è un pericolo per la stessa salvezza eterna. L’essere vescovo di Roma non evita di per sé la possibilità di peccati e di errori nelle cose umane. Ma, come dice l’apostolo Paolo, di cui Montini volle assumere il nome, ciò che si richiede all’amministratore è semplicemente di essere fedele, cioè di custodire e di difendere un tesoro che non è suo.