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MONASTERI DI CLAUSURA tratto dal n. 12 – 2004
… PER DIRE A LUI: «VIENI»
Il prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata spiega il perché di una vocazione ancora attuale
di Franc Rodé C. M.
Da sempre una domanda sale dal cuore dell’uomo, domanda che esprime l’essenza ultima dell’umanità, che sale da ogni luogo e da ogni tempo, che trova casa nel più intimo, nel fondo dell’essere umano: «Di te ha sete, Signore, l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 62, 2).
Come scrive santa Teresa d’Avila nel suo Cammino di perfezione, «la sete esprime il desiderio di una cosa, ma un desiderio talmente intenso che noi moriamo se ne restiamo privi» (Cammino di perfezione XIX). La sete non è un problema dei giorni tristi o di circostanze sfortunate, non è un accidente, non è saltuaria ma è una condizione ordinaria, normale, eterna. Questa sete si traduce nel desiderio di una vita autentica, che affonda le sue radici nella profondità dell’essere e non in superficie, al centro, al cuore della persona e non ai margini: è sete di comunione, di amore, di incontro, di sguardi, di verità, di bellezza. È sete di un Dio che scende a passeggiare nel giardino alla brezza della sera.
Questo desiderio di Dio è desiderio di infinito, di perfezione; è la risposta agli interrogativi che pone la nostra condizione umana; è la consapevolezza che l’uomo non si spiega da solo, che noi e la realtà abbiamo senso solo alla luce di una realtà più grande, nascosta ai nostri occhi, ma percepita e desiderata dal nostro cuore. Questa sete di giorni e di eternità – di vita –, desiderio di una sorgente che zampilla per la vita eterna, può essere saziata: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me» (Gv 7, 37-38). Sant’Agostino, di cui quest’anno celebriamo il milleseicentocinquantesimo anniversario della nascita, nella celebre apertura delle sue Confessioni esprimeva efficacemente il bisogno insopprimibile che spinge l’uomo a cercare il volto di Dio: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». I contemplativi hanno risposto alla chiamata ad un Amore con la A maiuscola. Solo Dio è il loro Sposo, solo Lui può dissetare la loro sete: «Capacem Dei, quidquid Deo minus est non implebit», chi può contenere Dio, non può essere riempito da qualunque cosa che sia meno di Dio.
La vita dei contemplativi, dedita alla preghiera, all’intercessione orante, al lavoro semplice e povero, all’umile fraternità, evoca la cella del cuore, il luogo dell’incontro con l’Amato, in cui ciascuno è chiamato a vivere l’unione con lo Sposo, quel luogo dove l’intera esistenza umana trova pienezza di significato e di gioia.
La clausura è il luogo del deserto, in cui Dio unisce a sé l’amata, in un rapporto intimo e indissolubile: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2, 16). Il deserto dove il bisogno dell’acqua, la sete si fa più insopprimibile, più urgente, questione di morte e di vita.
Ho avuto modo di respirare l’aria pulita e il soave profumo della vita totalmente dedita alla contemplazione, in una comunità della diocesi di Ljubljana, della quale sono stato padre e pastore per sette anni: la comunità delle Carmelitane Scalze di Sora. La clausura «accolta come dono e scelta come libera risposta di amore» (esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, 59): venti donne, giovani, d’età o di voglia di vivere (è proprio vero che i contemplativi non invecchiano!).
Chi entra in quel monastero, come nei tanti monasteri di contemplative e di contemplativi sparsi nel mondo, avverte la gioia profonda, pura, semplice che vi regna; sperimenta come dai pugni serrati sulle nostre povere cose sia possibile passare alle braccia aperte di chi sa accogliere perché ha sperimentato la dolcezza dell’essere accolti, dell’essere eternamente amati, come si può passare dalla propria cisterna screpolata e sigillata, gelosa di sé stessa e delle proprie poche gocce di acqua amara, a una brocca versata, a un cuore aperto ai grandi bisogni degli uomini e della storia, aperto a chi cerca l’incontro, la comunione, aperto a tutti gli assetati e gli affamati di Dio e del suo amore.
La loro gioia, intima, profonda, che è purezza e nobiltà di tratto, si manifesta in un sorriso aperto, disponibile, negli occhi e nei volti trasfigurati dall’incontro con Dio, che trasforma poco a poco; si traduce in una comunità dove la volgarità e la falsità non trovano ostello, scalzate da un’atmosfera di verità e sincerità, dove abita un affetto libero da condizionamenti umani.
La clausura, in questo modo, oltre ad essere «il luogo della comunione spirituale con Dio», diventa il luogo della comunione di amore «con i fratelli e le sorelle», dove «la limitazione degli spazi e dei contatti opera a vantaggio dell’interiorizzazione dei valori evangelici» (VC 59).
Come scriveva santa Teresa di Lisieux, il posto dei contemplativi è nel cuore della Chiesa e la loro vocazione è l’amore: «Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore, e sarò tutto». Questi uomini e queste donne offrono la loro vita per la Chiesa, per i vescovi, per i sacerdoti, per quanti sono nel dubbio, per chi soffre, per chi è lontano da Dio e per tutte le tragedie e i bisogni dell’umanità: nonostante le grate – o, in qualche modo misterioso, proprio attraverso di esse – che materialmente le separano dal mondo, attraverso gli angusti e infiniti spazi della loro clausura, sono presenti con la loro vita di nascondimento, di amore e di sacrificio a tutti i drammi del mondo e della Chiesa. Diventano la sorgente a cui ogni uomo e ogni donna può attingere forza, gioia, serenità, coraggio, in una comunicazione continua, fatta di parole semplici, di richieste di preghiere, di vicinanza spirituale, di cui tutti coloro che bussano alla porta del monastero possono fare esperienza concreta.
La clausura è dunque il luogo dove la Chiesa sposa dà gloria al suo Sposo e, mossa dallo Spirito che la abita, grida a Lui: «Vieni!» (Ap 22, 17). Ogni contemplativo ripete, incessantemente e colmo di stupore, la preghiera di santa Maria Maddalena de’ Pazzi: «O Sposo, o Verbo, sempre ti voglio chiamare in questo modo. Deh, ammirate il mio Sposo Verbo, quanto è bello, quanto è grande, quanto è degno, quanto è risplendente la faccia sua. O Sposo, o mio amoroso Verbo! O creature da lui create che state a fare? Tutti vi invito a mirare e considerare la sua grandezza, la sua magnificenza e la gloria».