Archive pour le 30 juillet, 2015

Rueil-Malmaison – Église Saint-Pierre Saint-Paul – Statue de Saint Pierre

Rueil-Malmaison - Église Saint-Pierre Saint-Paul - Statue de Saint Pierre dans immagini sacre
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… PER DIRE A LUI: «VIENI» (LA VITA CONSACRATA UNA VOCAZIONE ANCORA ATTUALE)

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MONASTERI DI CLAUSURA tratto dal n. 12 – 2004

… PER DIRE A LUI: «VIENI»

Il prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata spiega il perché di una vocazione ancora attuale

di Franc Rodé C. M.

Da sempre una domanda sale dal cuore dell’uomo, domanda che esprime l’essenza ultima dell’umanità, che sale da ogni luogo e da ogni tempo, che trova casa nel più intimo, nel fondo dell’essere umano: «Di te ha sete, Signore, l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 62, 2).
Come scrive santa Teresa d’Avila nel suo Cammino di perfezione, «la sete esprime il desiderio di una cosa, ma un desiderio talmente intenso che noi moriamo se ne restiamo privi» (Cammino di perfezione XIX). La sete non è un problema dei giorni tristi o di circostanze sfortunate, non è un accidente, non è saltuaria ma è una condizione ordinaria, normale, eterna. Questa sete si traduce nel desiderio di una vita autentica, che affonda le sue radici nella profondità dell’essere e non in superficie, al centro, al cuore della persona e non ai margini: è sete di comunione, di amore, di incontro, di sguardi, di verità, di bellezza. È sete di un Dio che scende a passeggiare nel giardino alla brezza della sera.
Questo desiderio di Dio è desiderio di infinito, di perfezione; è la risposta agli interrogativi che pone la nostra condizione umana; è la consapevolezza che l’uomo non si spiega da solo, che noi e la realtà abbiamo senso solo alla luce di una realtà più grande, nascosta ai nostri occhi, ma percepita e desiderata dal nostro cuore. Questa sete di giorni e di eternità – di vita –, desiderio di una sorgente che zampilla per la vita eterna, può essere saziata: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me» (Gv 7, 37-38). Sant’Agostino, di cui quest’anno celebriamo il milleseicentocinquantesimo anniversario della nascita, nella celebre apertura delle sue Confessioni esprimeva efficacemente il bisogno insopprimibile che spinge l’uomo a cercare il volto di Dio: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». I contemplativi hanno risposto alla chiamata ad un Amore con la A maiuscola. Solo Dio è il loro Sposo, solo Lui può dissetare la loro sete: «Capacem Dei, quidquid Deo minus est non implebit», chi può contenere Dio, non può essere riempito da qualunque cosa che sia meno di Dio.
La vita dei contemplativi, dedita alla preghiera, all’intercessione orante, al lavoro semplice e povero, all’umile fraternità, evoca la cella del cuore, il luogo dell’incontro con l’Amato, in cui ciascuno è chiamato a vivere l’unione con lo Sposo, quel luogo dove l’intera esistenza umana trova pienezza di significato e di gioia.
La clausura è il luogo del deserto, in cui Dio unisce a sé l’amata, in un rapporto intimo e indissolubile: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2, 16). Il deserto dove il bisogno dell’acqua, la sete si fa più insopprimibile, più urgente, questione di morte e di vita.
Ho avuto modo di respirare l’aria pulita e il soave profumo della vita totalmente dedita alla contemplazione, in una comunità della diocesi di Ljubljana, della quale sono stato padre e pastore per sette anni: la comunità delle Carmelitane Scalze di Sora. La clausura «accolta come dono e scelta come libera risposta di amore» (esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, 59): venti donne, giovani, d’età o di voglia di vivere (è proprio vero che i contemplativi non invecchiano!).
Chi entra in quel monastero, come nei tanti monasteri di contemplative e di contemplativi sparsi nel mondo, avverte la gioia profonda, pura, semplice che vi regna; sperimenta come dai pugni serrati sulle nostre povere cose sia possibile passare alle braccia aperte di chi sa accogliere perché ha sperimentato la dolcezza dell’essere accolti, dell’essere eternamente amati, come si può passare dalla propria cisterna screpolata e sigillata, gelosa di sé stessa e delle proprie poche gocce di acqua amara, a una brocca versata, a un cuore aperto ai grandi bisogni degli uomini e della storia, aperto a chi cerca l’incontro, la comunione, aperto a tutti gli assetati e gli affamati di Dio e del suo amore.
La loro gioia, intima, profonda, che è purezza e nobiltà di tratto, si manifesta in un sorriso aperto, disponibile, negli occhi e nei volti trasfigurati dall’incontro con Dio, che trasforma poco a poco; si traduce in una comunità dove la volgarità e la falsità non trovano ostello, scalzate da un’atmosfera di verità e sincerità, dove abita un affetto libero da condizionamenti umani.
La clausura, in questo modo, oltre ad essere «il luogo della comunione spirituale con Dio», diventa il luogo della comunione di amore «con i fratelli e le sorelle», dove «la limitazione degli spazi e dei contatti opera a vantaggio dell’interiorizzazione dei valori evangelici» (VC 59).
Come scriveva santa Teresa di Lisieux, il posto dei contemplativi è nel cuore della Chiesa e la loro vocazione è l’amore: «Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore, e sarò tutto». Questi uomini e queste donne offrono la loro vita per la Chiesa, per i vescovi, per i sacerdoti, per quanti sono nel dubbio, per chi soffre, per chi è lontano da Dio e per tutte le tragedie e i bisogni dell’umanità: nonostante le grate – o, in qualche modo misterioso, proprio attraverso di esse – che materialmente le separano dal mondo, attraverso gli angusti e infiniti spazi della loro clausura, sono presenti con la loro vita di nascondimento, di amore e di sacrificio a tutti i drammi del mondo e della Chiesa. Diventano la sorgente a cui ogni uomo e ogni donna può attingere forza, gioia, serenità, coraggio, in una comunicazione continua, fatta di parole semplici, di richieste di preghiere, di vicinanza spirituale, di cui tutti coloro che bussano alla porta del monastero possono fare esperienza concreta.
La clausura è dunque il luogo dove la Chiesa sposa dà gloria al suo Sposo e, mossa dallo Spirito che la abita, grida a Lui: «Vieni!» (Ap 22, 17). Ogni contemplativo ripete, incessantemente e colmo di stupore, la preghiera di santa Maria Maddalena de’ Pazzi: «O Sposo, o Verbo, sempre ti voglio chiamare in questo modo. Deh, ammirate il mio Sposo Verbo, quanto è bello, quanto è grande, quanto è degno, quanto è risplendente la faccia sua. O Sposo, o mio amoroso Verbo! O creature da lui create che state a fare? Tutti vi invito a mirare e considerare la sua grandezza, la sua magnificenza e la gloria».

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L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=4234

(ho conosciuto Spidlik anche se non bene, una persona straordinaria)

L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE

DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

“Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano…
Nelle scuole dell’antico impero romano c’era anche un programma di insegnamento morale. Lo si faceva in modo molto concreto. Si proponevano ai giovani esempi da seguire: dei saggi, degli eroi morti per la patria, dei grandi strateghi, e degli uomini di governo. Quando dopo la pace di Costantino l’impero divenne ufficialmente cristiano, questo programma non corrispondeva più alle esigenze dei tempi. Si cercarono quindi di sostituire questi esempi pagani con esempi cristiani, cioè con i santi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dei martiri e dei cristiani perfetti apparsi nella storia della Chiesa. Essi furono commemorati anche nella liturgia. Si è formato anche un calendario che propone l’esempio di un determinato santo quel giorno o quell’altro dell’anno.
Nello stesso tempo i fedeli furono convinti che i santi sono come “un riflesso del sole e dell’acqua”. Qui si può osservare la luce senza essere accecati dallo splendore. Ma resta pur vero che il primo esempio ad essere contemplato e seguito è lo stesso Gesù Cristo.I suoi primi discepoli non avevano altro libro da imparare che tenere davanti ai loro occhi ciò che avevano veduto nel loro Maestro. Perciò nella storia della spiritualità il tema della imitazione di Cristo occupa un posto importante. “Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”.
Eppure ogni tanto venne qualche dubbio e qualche obiezione contro questo ideale. Lo espresse presempio Martin Lutero. Pensava che uno che imita un altro finisce per vederlo davanti a sè, separato da sè. In tal modo Cristo appare un ideale così sublime che l’uomo non può pretendere di essere capace imitarlo. Bisogna quindi che Cristo sia non “davanti a noi”, ma “dentro di noi”. In altre parole si dice, dobbiamo vivere non “secondo Cristo”, ma “in Cristo”, identificarci con Lui. Così si esprime già San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
La risposta a queste obiezioni è facile. E’ certo che Cristo non si può imitare come qualche eroe umano. Non ne abbiamo la forza. Ma i cristiani sono consapevoli che Cristo vive in loro per mezzo del suo Spirito ricevuto nel battesimo ed è in forza di questo Spirito che possiamo imitarlo secondo le nostre possibilità, lasciando che Lui stesso compia la sua opera in noi. I predicatori amano illustrare questo aspetto con un esempio. Si racconta che un giovane pittore sia stato un grande ammiratore del famoso maestro Domenichino. Decise di imitare uno dei suoi quadri in una chiesa. Lavorava con successo fino a quando doveva riprodurre il volto della persona. Per quanti sforzi facesse, il risultato era sempre negativo, usciva fuori sempre un volto differente. Disperato, buttò il pannello per terra. In quel momento si avvicinò un vecchio signore che già da lungo lo osservava, prese il pennello e con poca fatica finì il quadro. E questa volta era la vera riproduzione del grande maestro. Il giovane lo gurdò sbalordito: “Signore, lei è un angelo!”. Il vecchio sorrise: “No non sono un angelo, sono Domenichino”.
I santi hanno una simile esperienza. Dopo tanti fallimenti e dopo tante debolezze, sentono che Cristo vive in loro e che Lui stesso dipinge la sua immagine nel loro cuore. I pittori umani insegnano ai loro discepoli il metodo da seguire, il Mestro divino comunica a loro anche il suo talento.
Allora la via della imitazione di Cristo diventa facile. Lo si può illustrare con un altro esempio. La leggenda racconta che il santo principe Venceslao portava ai poveri legna e cibo nel duro inverno e in questa occasione andava a piedi nudi attraverso la neve. Il paggio che lo seguiva non sopportava il freddo e si lamentava. Allora il santo gli consigliò di mettere i suoi piedi accuratamente nelle sue tracce, nelle impronte sulla neve. Facendo così il paggio si sentì meravigliosamente riscaldato.
Frequentemente nei luoghi di pellegrinaggio è costruita una Via Crucis in forma vistosa. Ad ogni “stazione” è consacrata una cappella speciale. Le preghiere cor­rispondenti esortano i fedeli a meditare sui diversi mo­menti della passione del Salvatore e a riflettere sulla pro­pria vita, perché anch’essa è un cammino doloroso, ad imitazione di Gesù. Del resto una Via crucis si osserva in tutte le chiese cattoliche di rito latino.
Ma si sentono anche voci contrarie. Alcuni fanno obiezioni contro questo ‘dolorismo’ medievale e porta­no l’esempio delle icone delle Chiese orientali dove Cri­sto è rappresentato come glorioso, cioè come colui che ha vinto il male e tutte le sue conseguenze. Vederlo so­lo nella nella sua sofferenza diminuisce il suo valore e dissua­de dalla gioia di seguirlo. Inoltre vi si nota un modo di pensare troppo analitico che separa due aspetti di per sé indivisibili. Nella vita di Cristo vi è una “umiliazione fino alla morte’ e insieme la ‘glorificazione’ infinita. Sa­rebbero una ‘dopo’ l’altra, o vanno piuttosto insieme?
Nella prima metà di questo secolo il teologo orien­tale Sergej Bulgakov propose la sua spiegazione della ke­nosi di Cristo interpretando il testo fondamentale di San Paolo ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo di na­tura divina… spogliò se stesso (in greco ekenosen, lette­ralmente: evacuò se stesso), facendosi obbediente fino alla morte e alla morte della croce; per questo Dio l’ha esaltato…» (Fil 2,5 ss). L’autore non vuol negare 1′inse­gnamento tradizionale secondo il quale Cristo ha sof­ferto eroicamente come uomo. Tuttavia, per compren­dere la sofferenza dell’uomo, si deve partire da Cristo Dio, non vi può essere una incoerenza fra l’atteggiamento umano e l’atteggiamento divino.
Anche nella vita divina in seno alla SS. Trinità il Fi­glio si ‘spoglia’, non tiene niente come proprio, rice­vendo tutto il pensiero, tutta la volontà dal Padre. Ma questa ‘umiliazione celeste’ costituisce la sua gloria e la sua beatitudine infinita, senza qualsiasi traccia di sof­ferenza. Incarnandosi, facendosi uomo, Cristo trasferi­sce questo stesso atteggiamento nella realtà del mondo peccaminoso che si ribella al Padre.
Ed a causa di que­sta resistenza del mondo peccaminoso, l’umiliazione del Figlio di Dio comporta la sofferenza che è insepara­bile da ogni situazione peccaminosa. Ma con questo non dobbiamo immaginarci che la beatitudine di Cristo Dio non esista più. In modo misterioso, la sofferenza e la beatitudine sono unite. La beatitudine è come un fuo­co che progressivamente brucia la sofferenza per arri­vare allo stato glorioso anche nell’umanità.
Questo vale solo per il Cristo individuale o anche per il Cristo mistico, per i suoi santi? I diari dei mistici ci insegnano che anche nella loro vita le grandi sofferen­ze si trasformavano in una gioia indicibile. Solo così poteva scrivere santa Teresa d’Avila: «O patire o mori­re», cioè senza la sofferenza la vita non mi interessa più. In altro luogo attesta che soffriva molto, ma che Dio non l’ha mai lasciata patire senza una consolazione particolare.
I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano con la ferma convinzione che questo viene progressivamente superato dal fuoco divino, dalla luce splendente dello Spirito che risiede nei nostri cuori.

P. Tomáš Špidlík, insigne gesuita,cardinale dal 2003, nasce il 17 dicembre 1919 a Boskovice, in Moravia. I suoi studi vengono più volte interrotti a causa del lavoro giovanile forzato, imposto prima dai soldati tedeschi, poi dai soldati romeni, quindi dai russi.Nel 1949 Špidlík è ordinato sacerdote a Maastricht. Nel 1951 viene chiamato a Roma alla Radio Vaticana. I programmi di quella emittente, specie per i Paesi d’oltre cortina, erano un prezioso aiuto ad una libertà in pericolo di essere soffocata lentamente ma inesorabilmente. Dal suo impegno alla Radio Vaticana scaturirà una speciale missione che l’accompagnerà sempre e che lo farà conoscere in patria nonostante il dominio comunista. Le prediche domenicali in lingua ceca di p. Špidlík hanno suscitato un tale interesse da essere pubblicate e tradotte in varie lingue dell’Europa dell’Est, come in ceco, polacco, romeno., ma anche in italiano. L’opera di p. Špidlík è frutto di anni e anni di diligente ricerca e riflessione, insieme ad una grande, artistica sensibilità per la cultura contemporanea.Riportiamo una meditazione che parla del giusto rapporto con il Dio di Gesù Cristo che rifugge da ogni tipo di dolorismo, e non si accontenta di imitare la santità, ma cerca di viverla con la forza dello Spirito che opera dentro ognuno di noi.

FONTE: Tomas Spidlik, Conosci il Padre,Cristo e lo Spirito?, Edizioni Lipa, Roma, 2005, pp. 106-110.
(L’autore) Špidlík, scritti vari – autore: Tomáš Špidlík

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