Fanciulla, io ti dico: Àlzati!

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Omelia (01-07-2012)
don Alberto Brignoli
Semi di immortalità
(per la prima lettura)
« Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura ». Quindi, l’uomo è stato creato incorruttibile, immortale, come Dio: a sua immagine e somiglianza. Poi però è arrivata l’invidia del diavolo, e la morte è entrata nel mondo.
Insomma, a satana non va giù di non essere figlio prediletto di Dio come è l’uomo, e allora, sin dagli inizi della creazione, mette nel cuore dell’uomo il terribile sentimento dell’invidia, che porta l’uomo a volere essere sempre di più come Dio, conoscitore del bene e del male, usufruttuario dell’albero della vita, che non poteva essere mangiato: e da allora, il male è entrato nel mondo, e con il male la morte.
« Felice colpa », diceva Sant’Agostino, perché a motivo del peccato abbiamo ricevuto la grazia di poter conoscere il nostro Redentore. E io aggiungo: felice colpa, perché a motivo del peccato è entrata nel mondo la morte e noi non siamo più immortali. Almeno, così pare.
Ma ve la immaginate un’esistenza immortale qui sulla terra? È già così faticoso, spesso, vivere fino alla morte?cosa sarebbe vivere anche oltre? Sopportare gente importuna in eterno, trascinarsi malattie e acciacchi per l’eternità, convivere con i nostri difetti lungo tutto il migrare dei giorni della storia?no, sarebbe un supplizio! « Laudato sìì, mio Signore, per sorella nostra morte corporale », cantava già Francesco. E non aveva affatto torto.
Certo, come citiamo i mali sopportati in eterno, per onestà dovremmo dire che sarebbe bello vivere per sempre per tutta un’altra serie di cose belle: l’amore delle persone care, la bellezza delle cose create, la capacità di costruire progetti e realizzare sogni, la gioia e il divertimento?tutte queste cose vorremo senz’altro che non avessero mai fine! Lo stesso autore del libro della Sapienza sembra esprimere questo concetto: le cose create sono limitate, finite, caduche, ma portano dentro di sé dei germi di immortalità per i quali vale davvero la pena vivere! E se uno non vive alla ricerca di questi semi di immortalità perde l’opportunità di essere come il Creatore, come Dio, ad immagine e somiglianza del quale siamo fatti; e siamo talmente grandi e perfetti che effettivamente dimostriamo di essere l’immagine di Dio, ma abbiamo anche talmente tanti difetti che mostrano in maniera evidente che, appunto, siamo solamente fatti a sua somiglianza.
Dove li troviamo questi semi di immortalità e di vita sparsi a piene mani nel nostro esistere? Come ci viene da pensare all’immortalità quando viviamo ripiegati e ricurvi sulle nostre malattie, che ci dissanguano tanto quanto i soldi spesi per curarle, e dalle quali speriamo di essere presto liberati con qualsiasi sistema, a volte anche con quello più drammatico del porre fine a tutto?
C’è sempre nella nostra vita un treno di opportunità che passa, e non sempre si ferma. E non è pure detto che passi un’altra volta: per cui, se avvertiamo che al suo passaggio possiamo trovare vita, non dobbiamo avere paura a gettarvici sopra!
Così è stato per una donna che da un’eternità (dodici anni, nella Bibbia, non è un numero a caso) soffriva di emorragie: sentirsi sfuggire la vita da dentro, certo, ma anche vedere fuggire le persone intorno a lei, in quanto impura, e rendeva impuri gli altri al solo toccarli. E lo sapeva bene che il Maestro stava andando alla sinagoga a guarire la figlia di Giairo, e che non ci sarebbe mai potuto entrare, impuro, se lei la toccava. Eppure lo fa’, tant’è, è l’unica chance che gli resta: « Anche lui resterà impuro, ma io mi salverò! ». E così avviene, perché colui che si fa mortale in mezzo ai mortali, debole in mezzo ai deboli, impuri in mezzo agli impuri, le restituisce vita: e questo, è un seme di immortalità.
E cos’altro è la voglia di vivere e di rinascere di un padre che ha la figlia (dodici anni pure lei) gravemente malata, che lo porta a sperare contro ogni speranza anche quando la figlia non ce l’ha fatta e tutti stanno già piangendo la sua morte, se non la ricerca di un seme di immortalità, che dica « no » alla morte e « sì » alla vita?
La vita (a causa anche di quelle nostre origini poco edificanti) non è eterna: e grazie a Dio, non lo sono nemmeno i dolori e i dispiaceri che si porta con sé. Ma ci sono tante cose che hanno dentro di sé un seme di immortalità, che sanno sfidare la morte e che vanno al di là di ogni metro umano; e la cosa bella è che solo agli umani è dato scovarle e conoscerle.
E così, troveremo semi di immortalità nelle creature del mondo, che per l’autore della Sapienza sono « portatrici di salvezza »; li troveremo in ogni uomo e in ogni donna che sanno affrontare la debolezza del proprio fisico e la fragilità della loro osservanza religiosa per non gettare all’aria l’occasione di guarigione di tutta una vita; li troveremo in un padre che per la figlia malata farebbe qualsiasi cosa, anche qualora si trovasse in condizioni ormai estreme, pur di salvarla.
Li troveremo nella forza d’amore di un Dio che non si cura né dell’impurità rituale di una religione stanca e obsoleta, e nemmeno delle apparenze di morte che circondano l’esistenza umana, pur di mettere nel cuore dell’uomo il seme d’immortalità dell’amore.
E l’amore, è davvero l’unica realtà umana capace di andare oltre la morte.
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Omelia (01-07-2012)
mons. Gianfranco Poma
Non avere paura, solo credi
Nella domenica tredicesima del tempo ordinario la Liturgia ci presenta un intenso brano di Marco (Mc.5,21-43), che chiede a ciascuno di noi, se desideriamo gustarlo e viverlo nella sua ricchezza, una attenta lettura personale: appare in questa pagina, il suo stile preciso, essenziale, e così denso nel descriverci i caratteri delle persone, le loro esperienze interiori, i loro drammi, i loro bisogni, le loro attese e nello stesso tempo il suo entrare sempre più profondamente nel mistero di Gesù di Nazareth. Ma la bellezza del Vangelo è proprio questa capacità di penetrare nella densità del mistero dell’uomo e nella inesauribilità del mistero di Gesù, senza violarlo, senza astrattezze, scoprendo quanto il mistero dell’uomo cerchi il mistero di Cristo e in Lui trovi la verità a cui aspira, non teorica, ma esperienziale, una verità « vera » perché è viva e dà gioia, speranza, motivo per una vita che ha senso.
E’ chiaro che il centro del « lieto annuncio » che questa pagina vuole darci è « la fede », la fede che è l’opposto della paura, è pienezza di vita per chi è povero di tutto, è la relazione libera, personale, pienamente realizzante tra ogni uomo in ricerca e la risposta di Gesù: Marco sta guidando noi, oggi, nel cammino della nostra fede. Per noi formati dal catechismo o dalla teologia, condizionati dalla nostra cultura, Marco lascia aperti i problemi che noi vorremmo fossero chiariti: ma la via che il Vangelo segue, non è quella della « teologia », ma dell’esperienza vissuta: e proprio a questo il Vangelo ci educa, al coraggio della verità interiore che ci fa incontrare la verità di Gesù.
C’è ancora una grande folla attorno a Lui che sta lungo il mare. Dalla folla viene « uno » dei capi della sinagoga, di nome Giairo: è una autorità, nota. « Vedendolo, cade ai suoi piedi e lo supplica molto dicendo: ?La mia figlioletta è in fin di vita; vieni a imporle le mani perché sia salvata e viva’ ». In Marco è l’unico caso in cui un capo religioso rivolge a Gesù una domanda: ma evidentemente in questa situazione in lui prevale l’uomo, l’autenticità del padre angosciato per la condizione della giovane figlia; non lo condiziona il ruolo sociale: « cade ai sui piedi e lo supplica molto ». Prega perché la figlia sia salvata e viva: non solo perché non muoia, ma pure perché possa proseguire una vita che è solo agli inizi. La risposta di Gesù alla supplica del padre, non fatta di parole, sta tutta nell’incamminarsi con Giairo per accompagnarlo verso l’incontro con la figlia.
A questo punto Marco nota ancora la presenza di una folla tanto che lo comprime. Questo gli permette di inserire nel racconto l’esperienza di un nuovo personaggio: una donna senza nome la cui condizione, descritta da cinque participi, è di soffrire da dodici anni di perdita di sangue, di aver molto sofferto a causa di molti medici, di aver speso tutto quello che possedeva, di non aver tratto nessun giovamento e di essersi anzi piuttosto aggravata. Ancora due participi: avendo sentito parlare di Gesù ed essendo venuta, dietro, tra la folla, preparano il verbo principale di questa lunga frase: toccò il suo mantello. In realtà, con questa frase singolare per Marco che usa sempre frasi semplici, egli descrive la situazione di questa donna senza nome, condannata ad una vita priva di relazioni e priva di mezzi, precipitata in un baratro di solitudine per la quale si apre una imprevedibile speranza. Anche lei emerge dalla folla e si appella ad un salvatore dal quale spera di essere liberata dal suo male e di essere restaurata nella sua femminilità. Senza parlare, ha cercato un contatto con il suo corpo, per avere da Lui l’unica speranza di salvezza: ha rischiato ed ha ottenuto ciò che voleva, « subito la sua perdita di sangue fu inaridita ed essa seppe nel suo corpo che era guarita ». Se nel comportamento della donna c’era ancora qualcosa di magico, adesso tutto si fa nuovo nella parola di Gesù: anche lui ha sentito « dentro di sé » il farsi di una relazione nuova, personale, con una persona che lo ha cercato. Non finisce tutto nella salute fisica sperimentata dalla donna senza nome: adesso Gesù la interpella, la guarda, la chiama ad uscire dall’anonimato della folla: chi ha toccato le mie vesti? Adesso la donna deve riscoprire e ricominciare a vivere la propria identità: in una splendida frase Marco sintetizza tutta l’esperienza che questa donna sta vivendo, l’esperienza della sua vita ricostruita: « Allora la donna, impaurita e tremante, conoscendo ciò che le era accaduto, venne e si prostrò a lui e disse a lui tutta la verità ». Certo, noi vorremmo sapere di più di ciò che sente dentro di sé questa donna, del cammino interiore che la conduce dalla accoglienza della sua povertà, dalla paura, all’accostarsi a Gesù, all’affidarsi a lui, al dire a lui « tutta la verità (quale? cosa?) »: l’importante è che noi riviviamo personalmente questa esperienza ed arriviamo a dire a lui e a noi stessi « tutta la nostra verità ».
« E lui le dice: Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male ». Era sola, emarginata: adesso Gesù l’ha integrata nella « sua » famiglia. La sua fede l’ha salvata: la fiducia nella potenza di Dio presente nella carne di Gesù che le dà il coraggio di non disperare della sua fragilità, la salva, la mette in piedi per vivere una vita che si riscopre piena dei doni di Dio.
Adesso può riprendere il cammino di Gesù con Giairo, verso la casa dove si trova la figlia sofferente: Giairo aveva fretta, l’incontro con la donna sofferente da dodici anni ha rallentato il cammino. Ma Giairo che non ha esitato a spogliarsi della sua immagine di autorità per non perdere la figlia, deve imparare a spogliarsi di tutto se stesso, di ogni progetto su di sé e sulla sua famiglia per ritrovare in pienezza la sua vita, deve imparare a fidarsi di Gesù che cammina con lui.
Il momento più drammatico per Giairo è quando dalla sua casa vengono a dirgli: « Tua figlia è morta », tutto è finito, la sua speranza è ormai senza oggetto e quindi: « Perché disturbare ancora il maestro? » Ma a questo punto entra Gesù: ancora prima che Giairo reagisca, la Parola di Gesù si fa creatrice: « Non avere paura: solo credi ». Anche questa frase, sintetizza in modo mirabile tutto il dramma dell’esistenza umana con la sua fragilità, la sua paura, a cui risponde solo la fede, la fede nuda, il coraggio della fede pura, che, sola, apre alla meraviglia di una vita nuova. E Marco costruisce tutta la scena: da una parte l’umanità che piange, si dispera?e dall’altra parte Gesù solo, che sembra dire cose senza senso, Gesù forte, che caccia via chi lo deride, chi lo blocca (la fede è, nel punto essenziale, rottura), Gesù che prende con sé i tre discepoli testimoni, il padre della bambina e finalmente anche la madre, ed entra dove era la bambina e presa la sua mano le dice: ?Talità kum’ (fanciulla alzati). « E subito la fanciulla si alzò e camminava: aveva infatti dodici anni ». La fede nuda di Giairo ha permesso alla Parola di Gesù di diventare creatrice di una vita nuova: « e subito erano fuori di sé per la meraviglia ». Non rimane che lo stupore di fronte alle meraviglie di Dio. Una donna senza nome, colpita da emorragia da dodici anni, è stata riportata alla normalità della sua vita feconda; una giovane ragazza all’età della pubertà ritrova la vita perduta: la fede in Gesù, nella sua Parola, è l’ingresso in una vita nuova, meravigliosa.
Non per nulla tutto avviene nella casa, avviene nel corpo della donna: tutto è nuovo, vita nuova, relazioni nuove, famiglia nuova. La fede è l’apertura dell’uomo a Dio, perché egli faccia nuove tutte le cose. « Non avere paura: solo credi »: e rimaniamo stupiti di fronte alle meraviglie di Dio.
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Omelia (29-06-2008)
Monaci Benedettini Silvestrini
Pietro apostolo e Paolo dottore delle genti
La festa dei santi Pietro e Paolo ci spinge a dare uno sguardo nel passato, alle origini del cristianesimo, a fermarci alquanto nel presente per spingerci poi nel futuro. Ci si presentano le figure di questi due giganti della santità, con slancio di grande entusiasmo ma anche con momenti di cedimenti e fragilità. Questo fatto non ci scandalizza, anzi ci incoraggia perché le vette non sono tanto per i sani che pretendono di camminare da soli, quanto per le anime fragili: « Quando sono debole, allora sono forte! », ci confida Paolo. Pietro è un uomo tutto d’un pezzo. Appena sente la chiamata del Signore, lascia tutto per mettersi alla sequela del Maestro. Temperamento forte, deciso, aperto e sincero, è sempre Lui che prende la parola nelle interrogazioni del Signore ai discepoli. Lui fa la sua professione di fede: « Tu sei il Cristo, il figlio di Dio! » Questa confessione gli merita di essere costituito capo della Chiesa anche se la sua presuntuosa sicurezza lo porterà a rinnegare il Signore. Esperienza amara che lo costringerà a usare tanta prudenza nella sua vita privata e nella guida della Chiesa. Testimonia il Signore con la sua morte sul colle Vaticano, crocifisso con la testa in giù, reputandosi indegno di morire nella stessa posizione del Signore. Paolo, inizialmente feroce persecutore dei cristiani, viene ammansito sulla via di Damasco. Da quel momento di grazia, diventerà il più coraggioso e attivo apostolo del Vangelo. Sarà a sua volta perseguitato sia dai Giudei sia dai pagani. Avrà il merito di soffrire per il vangelo come nessun altro. Guiderà la Chiesa che si apre ai pagani nella libertà dalle usanze della legge ebraica e questo non senza grande sofferenza. Dopo aver conosciuto in più periodi la prigionia a causa del vangelo, testimonia la sua fedeltà al Signore con la morte, decapitazione, alle Tre Fontane, in Roma. Il messaggio di salvezza da Pietro e Paolo predicato continua il suo espandersi nel mondo mediante il ministero del Papa, dei vescovi, dei presbiteri e diaconi e dei fedeli stessi… perché ogni credente è missionario. Le festa odierna potrebbe offrirci l’occasione per esaminare il nostro apporto alla diffusione del vangelo, secondo la nostra situazione particolare. E’ certo che in ogni circostanza, con l’esempio della vita e con la parola, che rende ragione della nostra fede, si può, anzi si deve rendere testimonianza all’amore che Dio nutre per l’umanità. Credo che tutto questo ci spinga a gettare lo sguardo nel futuro della Chiesa in modo sereno e confidente. Dinanzi a tanta corruzione della società, a scandali… alla mancanza di sacerdoti e di giovani disposti a seguire Cristo per la « via stretta »… si è tentati di cedere alla sfiducia… Vorremmo dire con Giovanni Paolo II e ripetere con Benedetto XVI: « Non abbiate paura! » La navicella di Pietro ha attraversato venti secoli di vita tra continue tempeste… eppure ancora continua la sua corsa… Siamo certi che le porte dell’Inferno non prevarranno. Gesù ha assicurato: « Io sarò con voi fino alla fine dei secoli ». Non c’è da temere per la Chiesa che è bene fondata sulla pietra che è Cristo… semmai temiamo della nostra costanza nel seguire il Signore, soprattutto della nostra presuntuosa sicurezza. Il rinnegamento di Pietro ci sia di ammonimento! Le sue lacrime di pentimento, di conforto nei nostri errori.
29 GIUGNO SANTI PIETRO E PAOLO
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 295, 1-2. 4. 7-8; PL 38, 1348-1352)
Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato
Il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo ha reso sacro per noi questo giorno. Noi non parliamo di martiri poco conosciuti; infatti «per tutta la terra si diffonde la loro voce ai confini del mondo la loro parola» (Sal 18, 5). Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato. Hanno seguito la giustizia. Hanno testimoniato la verità e sono morti per essa.
Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro. Pietro deriva da pietra, come cristiano da Cristo.
Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l’incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l’intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l’intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell’universalità e dell’unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. E` ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un’altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l’incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l’unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell’amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell’amore ciò che avevi legato per timore.
E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.
Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione.
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Sant’ Ireneo di Lione Vescovo e martire
28 giugno
c. 130 – c. 202
Ireneo, discepolo di san Policarpo e, attraverso di lui, dell’apostolo san Giovanni, è una figura di primaria importanza nella storia della Chiesa. Originario dell’Asia, nato con molta probabilità a Smirne, approdò in Gallia e nel 177 succedette nella sede episcopale di Lione al novantenne vescovo san Potino, morto in seguito alle percosse ricevute durante la persecuzione contro i cristiani. Pochi giorni prima delle sommosse anticristiane, Ireneo era stato inviato a Roma dal suo vescovo per chiarire alcune questioni dottrinali. Tornato a Lione, appena sedata la bufera, fu chiamato a succedere al vescovo martire, in una Chiesa decimata dei suoi preti e di gran parte dei suoi fedeli. Si trovò a governare come unico vescovo la Chiesa dell’intera Gallia. Lui, greco, imparò le lingue dei barbari per evangelizzare le popolazioni celtiche e germaniche. E dove non arrivò la sua voce giunse la parola scritta. Nei suoi cinque libri Contro le eresie traspare non solo il grande apologista, ma anche il buon pastore preoccupato di qualche pecorella allo sbando che cerca di condurre all’ovile. (Avvenire)
Etimologia: Ireneo = pace, pacifico, dal greco
Emblema: Bastone pastorale, Palma
Martirologio Romano: Memoria di sant’Ireneo, vescovo, che, come attesta san Girolamo, fu, da piccolo, discepolo di san Policarpo di Smirne e custodì fedelmente la memoria dell’età apostolica; fattosi sacerdote del clero di Lione, succedette al vescovo san Potino e si tramanda che come lui sia stato coronato da glorioso martirio. Molto disputò al riguardo della tradizione apostolica e pubblicò una celebre opera contro le eresie a difesa della fede cattolica.
“Irenoeo Martyri tuo atque Pontifici tribuisti, ut et veritate doctrinae expugnaret haereses, et pacem Ecclesiae feliciter confirmaret”. (Dalla preghiera della festa). Sant’Ireneo è un santo le cui origini, l’esistenza e l’azione, ci interessano particolarmente. Egli è nato a Smirne nel 130, è stato discepolo di San Policarpo, discepolo a sua volta di San Giovanni. La fede di Ireneo e il suo credo fu, quindi, tra i più puri discendendo direttamente dal verbo proferito dagli apostoli. È stato Vescovo di Lione nelle Gallie, attuale Francia. Teologo e scrittore, è restato sempre molto unito al Papa san Vittore I ed ha terminato la sua vita col martirio. La Preghiera liturgica della sua festa lo presenta, a giusto titolo, come un campione della fede e distingue tre aspetti della sua grande figura che si proietta in una luce sfavillante al di sopra dell’Oriente, di Roma e delle Gallie : la verità della sua dottrina, la sua opera evangelizzatrice, il suo martirio. La Verità della sua Dottrina è fatta dalla sua fedeltà alla Tradizione della Chiesa primitiva, della sua scienza teologica e del suo zelo di difendere “contro gli Eretici”, la fede tale come l’ha insegnata Cristo, tale come l’hanno trasmessa gli Apostoli. Questo non è un aspetto secondario dell’esistenza d’Ireneo e della storia religiosa della Francia quello della formazione cristiana del futuro Vescovo di Lione sia stata assicurata da un Policarpo, vescovo di Smirne, lui stesso discepolo dell’Apostolo Amatissimo, San Giovanni. La lunga frequentazione di Maria presso San Giovanni a Gerusalemme, dopo il Calvario, lo scambio di vedute tra la Madre di Gesù ed il suo Apostolo prediletto, danno alla figliolanza spirituale di Ireneo un aspetto d’una tradizione mariana ed evangelica d’un prezzo incomparabile. La Chiesa di Lione, il suo irradiamento sulle prime chiese di Francia saranno state marcate da delle influenze d’un carattere eccezionale.
Opera pacificatrice nella Chiesa, ecco il secondo compito della dottrina d’Ireneo, dei suoi scritti, delle sue predicazioni, di tutto il suo apostolato. La propensione dell’uomo all’errore, le sue discussioni, intorno alla fede non mancano d’impressionare il pensatore sganciato da cattive passioni. In piena persecuzione, di fronte ad una Chiesa che si sta formando in mezzo alla lotta ed alla sofferenza, alcuni spiriti sono alla ricerca di novità, d’interpretazioni strane dai testi, di opposizioni a delle tradizioni vive della Chiesa di Dio, d’indocilità evidente di fronte ai capi religiosi. San Paolo se n’era già lamentato. Verso la fine del II secolo, Ireneo non solo rifiuta le eresie ma s’avvera già un campione dell’unità della fede, il campione del Papato, del Vescovo di Roma.
Il martirio venne a perfezionare, nel 202, ai primi inizi del III secolo, questa bella vita di vescovo e di apostolo, dando alla Chiesa di Lione e, da essa, alle chiese fondate dalle cure dei suoi vescovi, un esempio magnifico della forza e della fedeltà nella fede.
Signore, vi sono nella vita di fede, così costantemente reclamata da voi, da parte dei vostri discepoli, due elementi che ne fanno il profondo e soprannaturale valore : sono la forza e la purezza. Forza della fede in una certezza ed una convinzione che escludono il dubbio, l’esitazione, la minimizzazione delle nude verità. Purezza della fede nel rigetto delle teorie sballate dottrinalmente, dei sentimenti che alterano o corrompono il contenuto divino di queste stesse verità.
La Chiesa conta, tra i più antichi santi dei suoi primi secoli, autentici rappresentanti del suo vero spirito di fede. Sant’Ireneo è certamente uno di questi grandi avi spirituali della Francia, ch’egli ha segnato profondamente col suo sapere, con la sua fedeltà nella dottrina, con la sua santità di vita. Ireneo muore il 28 giugno del 202 durante le persecuzioni che i cristiani subirono sotto l’imperatore Settimio Severo. La Chiesa lo venera come martire in seguito alla testimonianza lasciateci da san Girolamo che per primo nel 410 gli conferì questo titolo.
Autore: Don Marcello Stanzione
Questo Padre della Chiesa occupa un posto preminente tra i teologi del II secolo. E considerato, difatti, il migliore espositore della dogmatica cattolica basata sulla scrittura. Egli nacque nell’Asia Minore, probabilmente a Smirne o nei suoi dintorni perché in gioventù vide e ascoltò S. Policarpo (+155), vescovo di quella città e discepolo di S. Giovanni, nonché altri numerosi presbiteri, discepoli immediati degli Apostoli, il che rende importantissime le sue testimonianze dottrinali.
Ignoriamo quando S. Ireneo si sia trasferito in Occidente con altri missionari desiderosi di portare o di estendere la fede cristiana. Sappiamo soltanto che nel 177 o 178, durante la persecuzione scatenata da Marco Aurelio, egli si trovava a Lione come sacerdote di quella chiesa che il vescovo S. Fotino aveva fondato. I martiri sopravvissuti alla persecuzione in parte originari dell’Asia Minore come Ireneo, informati dell’agitazione prodotta dal movimento del neofita Mentano in Frigia, scrissero una lettera ai fratelli dell’Asia e un’altra al papa Eleuterio affinchè riconducesse la pace nelle comunità turbate dall’eresia che esigeva dai suoi ardenti maggior austerità, penitenza rigorosa per i peccati commessi dopo il Battesimo, digiuni severi e prolungati, rinunzia alle seconde nozze e prontezza assoluta al martirio. S. Ireneo fu incaricato di portare la lettera a Roma, e raccomandato al papa come sacerdote « pieno di zelo per il testamento del Signore ». Probabilmente durante la sua assenza morì martire, nel 178, il quasi nonagenario Potino al quale egli successe per il grande influsso che esercitava in quell’importante centro religioso e politico dell’impero.
Dell’attività del suo episcopato conosciamo soltanto la composizione degli scritti e la parte che egli svolse nella controversia della festa di Pasqua. Mentre le chiese dell’Asia la celebravano come i giudei il quattordici di Nisan (mese di marzo lunare), Roma la rimandava alla domenica seguente. La questione era già stata dibattuta senza successo nel 154 tra il papa Aniceto e S. Policarpo.La discussione riprese verso il 190 sotto il pontificato di Vittore. Quando costui lanciò la scomunica contro quei vescovi che non accettavano la data romana, S. Ireneo, il cui nome significa ‘pace’, intervenne in loro favore. Giudicando quella misura eccessiva, egli scrisse: « Non esiste Dio senza bontà ». Più tardi anche le chiese orientali si conformarono all’uso romano.
S. Ireneo lavorò pure per estendere il cristianesimo nelle province vicine a Lione. Le chiese di Besançon e di Valence gli attribuiscono, infatti, il primo annunzio del Vangelo. Tuttavia l’opera fondamentale di lui è costituita dallo studio di tutte le eresie per combatterle e assicurare il trionfo della fede. Il suo merito principale, e quindi la sua gloria, è soprattutto la lotta da lui fatta allo gnosticismo con l’opera in cinque libri intitolata Contro le Eresie. Fu scritta in greco ed è preziosa non solo dal lato teologico in quanto mostra già formata la teoria sull’autorità dottrinale della Chiesa, ma anche dal lato storico, perché è ben documentata e porge un vivo quadro delle lotte contro le eresie pullulanti.
Secondo gli ideatori di questo gnosticismo, strano sistema, Dio è un essere inaccessibile , incapace di creare. Opposta a lui, eterna, c’è la materia, cattiva per natura. Tra Dio e la materia esiste il mondo intermedio soprasensibile abitato da coni o esseri emanati o generati da Dio, disposti a coppie. Uno degli eoni, il Demiurgo, il Dio dei Giudei, elaborò la materia nella forma attuale del mondo. Una scintilla del mondo superiore cadde un giorno nella materia (l’anima) e vi rimase a soffrire come in una prigione. Un altro degli eoni, Cristo, discese nel mondo con un corpo apparente (docetismo), e visse e morì per liberare lo spirito dalla materia. S. Ireneo avrebbe potuto facilmente far uso dell’ironia a proposito di simili fantastiche generazioni di eoni; preferì invece tendere agli erranti le mani per convertirli. « Dio, scrisse, spinto dall’immenso amore che ci portava, si è fatto ciò che noi siamo per farci ciò che Egli è ».
Senza trascurare la teologia razionale, S. Ireneo confutò i diversi sistemi gnostici basandosi sulla ragione, sui detti del Signore, dei profeti e in modo speciale sull’insegnamento degli Apostoli. « La tradizione apostolica è manifesta nel mondo intero; non c’è che da contemplarla in ogni chiesa per chiunque vuole vedere la verità.
Noi possiamo enumerare i vescovi che sono stati istituiti dagli Apostoli, e i loro successori fino a noi: essi non hanno insegnato nulla, conosciuto nulla che rassomigliasse a queste follie… Essi esigevano perfezione assoluta, irreprensibile, da coloro che succedevano loro e ai quali affidavano, al loro posto, il compito d’insegnare… Sarebbe troppo lungo enumerare i successori degli Apostoli in tutte le Chiese; ci occuperemo soltanto della maggiore e più antica, conosciuta da tutti, della chiesa fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo; noi mostreremo che la tradizione che ricevette dagli Apostoli e la fede che ha annunciato agli uomini sono pervenute fino a noi per mezzo delle regolari successioni dei vescovi… E con questa Chiesa Romana, a motivo dell’autorità della sua origine, che dev’essere d’accordo tutta la Chiesa, cioè tutti i fedeli venuti da ogni parte; ed è in essa che tutti questi fedeli hanno conservato la tradizione apostolica » (Adv. Haer., 1. III, c. III, 1-2).
S. Ireneo ha scritto pure un libriccino intitolato Dimostrazione della predicazione apostolica, scoperto nel 1904 in traduzione armena. E’ un’apologia delle principali verità cristiane basate sull’adempimento delle profezie dell’Antico Testamento. Tuttavia, il centro di tutto il pensiero teologico del Santo è costituito dalla dottrina della ricapitolazione della carne umana e della totalità del mondo materiale nel Cristo, prototipo dell’umanità ed esemplare iniziale della creazione.
Questa grandiosa concezione abbraccia tanto i disegni nascosti di Dio, quanto la loro realizzazione storica per mezzo dell’Incarnazione redentrice del Figlio suo. In essa si inseriscono le tesi care a S. Ireneo del Cristo nuovo Adamo, di Maria novella Eva, della divinizzazione dell’uomo totale mediante la grazia, della sua salvezza finale in un mondo materiale completamente restaurato.
Secondo la tradizione S. Ireneo avrebbe trovato la morte il 28-6-202- 203 in un massacro generale dei cristiani lionesi sotto l’imperatore Settimio Severo. La Chiesa lo onora come martire sulla testimonianza di S. Girolamo il quale, nel 410, per primo gli diede questo titolo. Le reliquie del santo vescovo furono disperse nel 1562 dai calvinisti.
Autore: Guido Pettinati
di S.Eminenza Card. Albert Vanhoye
novembre 2007
Esercizi Spirituali
La vocazione e la conversione di Pietro
Esprimo tutta la mia gioia di stare in mezzo a voi, in Sardegna. È la prima volta che vengo qui dopo aver tanto sentito parlare con ammirazione di questa bella Isola da parte di molta gente. E sono lieto di mettermi al vostro servizio per questi Esercizi Spirituali. Il tema è «Discepoli di Cristo con San Pietro San Paolo»: una preparazione lontana all’anno paolino (con il complemento di san Pietro)
La disposizione principale per cominciare bene gli Esercizi è la fiducia nell’amore personale del Signore. Dovete essere convinti che il Signore vi aspetta qui e ha preparato per ciascuno di voi delle grazie preziose. Grazie di luce, di discernimento. grazie di purificazione, grazie di coraggio, grazie anzitutto di unione con Lui nell’amore e per la missione.
La fiducia deve essere accompagnata dalla disponibilità ad accogliere le grazie, una disponibilità che si manifesta con un impegno serio per accogliere la parola di Dio, l’ispirazione dello Spirito Santo. Per sentire la voce di Dio ci vuole raccoglimento, silenzio… fedeltà ai momenti di preghiera e di meditazione della Parola di Dio.
Cominciamo meditando sulla vocazione di Pietro, per rinnovarci nel senso della nostra vocazione, grazia fondamentale, manifestazione bellissima dell’amore di Dio per voi.
LA VOCAZIONE DI PIETRO
Troviamo un bel racconto della vocazione di Pietro e dei primi 4 apostoli nel Vangelo di Luca, al capitolo 5.
La cornice è quella del ministero di Gesù: un ministero che suscitava già l’entusiasmo delle folle, perché, come dirà più tardi Pietro, Gesù «passava beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo» (Atti degli Apostoli 10, 38). Luca ricorda che Gesù «insegnava nelle sinagoghe, tutti ne facevano grandi lodi» (Luca 4, 15). Egli proclamava la Buona Novella anche in altri luoghi, come è il caso nel capitolo 5: «Un giorno, mentre, levato in piedi Gesù stava presso il lago di Genesaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, [Gesù] vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca» (Luca 5, 13). Potete contemplare questa scena suggestiva, e desiderare anche voi di essere ammaestrati da Cristo.
Segue poi l’episodio della vocazione dei 4 primi apostoli, in cui è Gesù a prendere l’iniziativa: «Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: « Prendi il largo, e calate le reti per la pesca »» (v. 4). È una strana richiesta da parte di Gesù.
I pescatori hanno appena terminato il loro lavoro, sono tornati dalla pesca «e lavavano le reti». Sono stanchi, e anche scoraggiati, perché hanno faticato tutta la notte senza prendere nulla. Non è proprio il momento di rimettersi a pescare. Eppure Gesù dice a Simon Pietro: «Prendi il largo». È una parola dinamica, Gesù comunica un dinamismo. Come risponde Pietro? Per prima cosa gli fa constatare a situazione: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». È una situazione di stanchezza e di amara delusione. Poi però Pietro.ha un’ispirazione che viene chiaramente da Dio,un’ispirazione di fede in Gesù: «Ma sulla tua parola, getterò le reti». È uno splendido atteggiamento di fede. Pietro si fida della parola di Gesù: «Sulla tua parola, getterò le reti». Tutte le circostanze vanno in senso contrario: dopo una notte intera di sforzi inutili, non era ragionevole ripartire. malgrado la stanchezza e senza vera speranza; il solo risultato umanamente prevedibile era un esaurimento completo, nient’altro. Pietro però non esita. (Un bell’esempio per noi, per la nostra missione: unione a Cristo nella fede e missione). lI miracolo dimostra poi la validità e la fecondità di questo atteggiamento di fede cieca: «Avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci, e le reti si rompevano; allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero, e riempirono tutte e due le barche, al punto che quasi affondavano». Vediamo la sovrabbondanza data da Dio ai pochi sforzi umani quando sono basati sulla fede. Il contrasto è fortissimo, tra la sterilità degli sforzi umani durante tutta una notte e la fecondità dell’attività basata sulla fede. (Chiedetevi se la vostra attività per il ministero è veramente basata sulla fede. Sicuramente avrete avuto esperienze analoghe di iniziative…)
L’episodio ha chiaramente un valore simbolico, educativo: Gesù ha fatto l’educazione dell’apostolo Pietro, dandogli due lezioni che ribadirà più tardi: «Senza di me non potete fare nulla», dirà Gesù nel discorso dopo la cena (Giovanni 15, 6); invece «chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto» (ib.).
«Grande stupore infatti l’aveva preso…»
Pietro è impressionato, si capisce. Luca parla in proposito di thambos. Questa parola greca non designa un semplice «stupore», come dice la traduzione, ma uno spavento religioso, lo spavento che prova l’uomo nel contatto con il sacro, con il divino. Non è una qualsiasi paura, ma un sentimento specifico, un fremito religioso, come quello di Mosè nell’episodio del roveto ardente. Mosè si velò la faccia, (Esodo 3, 6) per non vedere. O, ancora meglio, come Isaia, quando ebbe la sua visione di Dio e dei serafini nel tempio (Isaia 6). Pietro ha proprio una reazione simile a quella di Isaia, cioè si sente indegno, si sente peccatore di fronte alla santità divina manifestata dal prodigio.
«Ahimé, esclamava Isaia, io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono!». In modo analogo, Pietro dice: «Signore, allontánati da me perché sono un peccatore!». L’autenticità del contatto personale con Dio e con Cristo si manifesta in questa reazione, cioè nella viva percezione della propria indegnità, della propria impurità.
Ci dobbiamo chiedere se abbiamo questa percezione, o se siamo forse diventati troppo familiari, in senso peggiorativo, con le realtà divine, cioè se abbiamo perso il rispetto profondo di Dio, perché questo è un pericolo nella vita sacerdotale e spirituale: le cose abituali perdono di rilievo, assueta vilescunt, e quindi si ricevono quasi con indifferenza. Ogni giorno il Signore ci offre il suo Corpo e il suo Sangue, e, poiché lo fa ogni giorno, noi non siamo più impressionati, è una cosa quotidiana. Rischiamo di essere insensibili al contatto con il Signore, e quindi incapaci di una relazione profonda con Lui. Mi pare che dobbiamo riflettere molto su questa parola di Pietro: «Signore, allontànati da me,perché sono un peccatore». La Chiesa ci educa in questo senso, perché prima della Comunione ci fa sempre dire: «Signore, non sono degno…». Però anche questo diventa una formula consueta che passa come tante altre cose, senza lasciare più un segno. (Gli EE. sono fatti per ridarci una coscienza, un’occasione di riprendere coscienza più viva del nostro contatto con la santità di Dio. È una grazia fondamentale da chiedere).
Per Pietro questa percezione della propria indegnità, della propria impurità, era allo stesso tempo una condizione perché egli potesse ricevere in modo giusto la grazia della vocazione, cioè senza essere tentato di attribuirla alle proprie qualità, ai propri meriti, ma riconoscendo che essa era un puro dono di grazia, una manifestazione della generosità gratuita del Signore.
Soltanto una parola divina può mettere fine allo spavento religioso. Gesù dice a Pietro: «Non temere», proprio per mettere fine a questo spavento, come l’arcangelo Gabriele disse: «Non temere» a Zaccaria, che provava lo stesso sentimento, e poi anche a Maria, che era turbata dal saluto dell’angelo. «Non temere»… Quando abbiamo una impressione profonda del contatto con Dio il Signore non manca mai di intervenire per metterci nella pace, una pace profonda, che non può essere ricevuta senza il passaggio attraverso la fiducia e il seguire nel nostro cammino spirituale. E poi, Gesù definisce la vocazione di Pietro: «D’ora in poi sarai pescatore di uomini» (in greco: “di uomini sarai pescatore”) – un cambiamento di livello, un cambiamento di prospettive… Pietro riceve una vocazione analoga al suo mestiere umano, però Gesù lo mette a un altro livello, associandolo alla propria opera divina di salvezza: prendere uomini, non per opprimerli, ma al contrario per liberarli, per metterli nella libertà dello Spirito Santo. Per questa nuova missione, Pietro avrà più che mai bisogno della fede, dell’unione con Gesù nella fede: questa è la condizione assolutamente essenziale.
Ogni vocazione fa passare ad un altro livello di esistenza e di attività; siete chiamati a fare con Cristo la sua opera di amore, un’opera divina, non lo dovete dimenticare. Non avete il diritto di ridurre le vostre ambizioni, perché esse sono state definite dal Signore: fare un’opera divina di amore, in unione e conformità al suo Cuore. Condizione fondamentale, la fede, l’adesione di fede che vi unisce a Cristo e gli consente di far passare attraverso di voi la sua forza divina per la salvezza del mondo odierno. Chiedete con insistenza la grazia di corrispondere pienamente alla vostra vocazione personale con più profonda adesione di fede a Cristo e con accettazione delle ambizioni divine su di voi, accettazione piena della missione.
(L’ultima frase esprime una perfetta risposta alla vocazione: «Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Bella generosità. Questa l’avete avuta…)
Un’ultima osservazione: potete notare come in questo Vangelo Gesù s’interessi specialmente di Pietro: questi non era il solo presente; il Vangelo parla di pescatori al plurale e dice che c’erano due barche. Alla fine vengono nominati anche Giacomo e Giovanni; Gesù, però, dall’inizio alla fine si rivolge soltanto a Pietro (vv. 3. 4. 10). A Pietro dice di scostarsi un poco da terra, a Pietro dice: «Prendi il largo», e a Pietro alla fine dice: «D’ora in poi sarai di uomini sarai pescatore». È chiaro che Gesu voleva dare a Pietro una posizione di primato nell’opera di salvezza. Così questo vangelo contribuisce a confermare la nostra fede cattolica, e la nostra fedeltà al successore di Pietro. La nostra vocazione sacerdotale, per essere pienamente vissuta nella fede, deve essere in comunione ecclesiale con il successore di Pietro.
CONVERSIONE Dl SAN PIETRO
Dopo aver meditato sulla vocazione di san Pietro, meditiamo sulla sua conversione. A prima vista Pietro non aveva bisogno di conversione. La situazione di Pietro è stata molto diversa da quella di Paolo: non ha mai perseguitato la Chiesa, ma ne è stato il primo capo. Pietro ha seguito Gesù sin dall’inizio della sua vita pubblica;; non ebbe bisogno di una manifestazione folgorante di di Cristo risorto per diventare suo discepolo. Però da un altro punto di vista la situazione di Pietro era simile a quella di Paolo, nel senso che Pietro, come Paolo, era un uomo generoso che voleva fare molto per Dio. Quando Gesù lo chiamò, Pietro lasciò tutto e lo seguì. Poi si mostrò sempre generoso, come possiamo leggere nel Vangelo. Quando c era qualche risposta da dare, qualcosa da fare, vediamo che Pietro subito si presenta come il più premuroso per agire. Quando Gesù chiede ai Dodici: «Voi chi dite che io sia?», è Pietro a rispondere, con una magnifica professione di fede. Dopo il discorso sul pane di vita, quando parecchi vanno via, e Gesù chiede ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?», è Pietro a rispondere: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». Quando Gesù nella notte cammina suI mare e si avvicina alla barca, i discepoli sono spaventati poiché credono di vedere un fantasma, Pietro dice: «Se sei tu, Signore, dimmi di venire a Te sull’acqua». Gesù dice di sì e Pietro scende dalla barca. Alla Trasfigurazione Pietro vuol rendersi utile e propone di fare tre tende, per Gesù, Mosè ed Elia. Al Getsemani sguaina la spada per difendere Gesù. Anche dopo Pasqua, nell’apparizione in riva al lago, Pietro si butta nell’acqua per raggiungere Gesù píù presto. La generosità di Pietro è evidente. Spesso la conversione viene intesa come il passaggio da una vita mediocre, poco generosa, a una vita veramente generosa. Molti hanno bisogno di questo genere di conversione. Pietro non ne aveva bisogno. Al contrario, la sua conversione dovette consistere,in un certo senso, nel rinunciare alla propria generosità. Potete pensare che sia una strana conversione, ma è una conversione necessaria: rinunciare alla propria generosità per fondare tutto sulla grazia di Dio, sull’amore gratuito di Dio. Una conversione fondamentale per ciascuno di noi, che dobbiamo sempre rifare. Per Pietro, la conversione non è stata istantanea. I Vangeli riferiscono parecchie tappe successive, che percorreremo rapidamente adesso. Nell’orazione potete benissimo fermarvi a una di queste tappe, quella che per voi sarà la più suggestiva.
La prima tappa è quella descritta in Matteo 16, oppure in Marco 8; viene dopo la professione di fede di Pietro fatta nelle vicinanze di Cesarea di Filippo. Pietro ha detto: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» e Gesù: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei Cieli». Quindi Pietro ha ricevuto una rivelazione divina. Gesù prosegue dicendo: «Io ti dico: tu sei roccia, e su questa roccia edificherò la mia Chiesa». «Roccia» è una traduzione più esatta della parola aramaica usata da Gesù «Kefa»; Gesù ha preso questo nome di cosa e ne ha fatto un nome di persona, che ha ha Simone. La parola aramaica, grecizzata con una esse finale, si trova nel IV vangelo (Gv 1, 42) e più volte nelle lettere di san Paolo. In greco è stata tradotta con il maschile Pétros (che significa sasso), perché la parola femminile pietra non conveniva come nome per un uomo. Pietro e pietra originariamente era la stesa parola: «Tu sei roccia, il tuo nome sarà roccia, e su questa roccia edificherò la mia Chiesa». ( S.Agostino ne ha fatto una conclusione, dicendo che la pietra non è l’apostolo, ma la sua fede in Cristo. Conclusione sbagliata: la roccia è Pietro).
Quindi Pietro è stato così stabilito in una dignità molto alta. Subito dopo Gesù comincia ad annunciare la sua passione. Dovrà soffrire molto, e venire ucciso. Pietro non è d’accordo, prende Gesù in disparte e comincia «a rimproverarlo». Gli dice (in Mt «protesta», in Mc «rimprovera»): «Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai!» (Mt 16, 22).
Qual è il motivo di Pietro? È un motivo generoso, un motivo di amore. Pietro vuol bene a Gesù immensamente, e per questa ragione non accetta l’eventualità che Gesù sia umiliato, condannato e ucciso. Non vuole questo perché ama Gesù. Pietro è pronto a combattere per risparmiare a Gesù le umiliazioni e le sofferenze. Quindi, il suo atteggiamento è generoso. Però questa generosità, per quanto sincera, non è buona perché non è sottomessa alla grazia di Dio, al disegno divino di salvezza: è una generosità umana che non corrisponde all’amore che viene da Dio.
Di conseguenza Gesù deve dichiarare a Pietro che egli ha bisogno di conversione. Gesù esprime questa esigenza di conversione con parole molto dure. Dice: «Vai via da me (vattene via, dietro a me) Satana! Tu mi sei d’intralcio, perché non hai i pensieri di Dio, ma quelli degli uomini». Che contrasto con le parole anteriori: «Beato te, Simone…», «I1 Padre mio te l’ha rivelato…», «Tu sei roccia, e su questa roccia edificherò la mia Chiesa». Satana in ebraico significa «avversario», un nome dato al diavolo. Vediamo dunque che una stessa persona può avere successivamente ispirazioni divine e poi pensieri completamente privi di validità spirituale. Non perché uno ha ricevuto e trasmesso un’ispirazione divina, il suo valore personale è garantito… Il valore personale dipende da una conversione, non dipende da un carisma. È possibile fare miracoli e non essere personalmente graditi a Dio. Gesù lo dice chiaro e tondo in Matteo 7, 22. La conversione personale è necessaria, e la conversione è più difficoltosa dell’esercizio dei carismi straordinari. (cfr «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, noi abbiamo profetato nel tuo nome e cacciato i demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome. Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuto. Allontanatevi da me, voi operatori di iniquità»: l’unione a Cristo…). Pietro aveva bisogno di conversione, doveva cambiare mentalità radicalmente. Stava a livello umano, un livello che ha il suo valore. Però, quando si tratta di entrare nella vita spirituale e apostolica, il livello umano non è adeguato; la vita spirituale e la missione richiedono un altro livello.
Pietro aveva pensieri umani di grandezza. Non era il solo: gli evangelisti riferiscono due volte che tra i Dodici sorse una discussione su chi di essi fosse il più grande: la prima volta in Matteo 18, 14, e brani paralleli in Marco 9,33-37 e Luca6 9,46-48. Gesù allora aveva espresso la necessità di una conversione: prendendo un bambino aveva detto: «Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli». Diventare bambini ripugna a noi adulti, però è indispensabile. Nel corso dell’Ultima Cena c’è di nuovo :questa discussione (Luca 22, 24). L’evangelista non dice se Pietro ci abbia preso parte in modo speciale. Pietro era più incline a difendere Gesù che non a difendere il proprio posto. Lui l’aveva, il primo posto, ma non insisteva su questo punto. Tuttavia nel Vangelo di Luca vediamo che Gesù, dopo questa discussione, fa una. dichiarazione speciale a Simon Pietro. Egli gli dice: «Simone, Simone, ecco, Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Luca 22, 3132). Gesù di nuovo accenna alla necessità di una conversione, e prevede che questa conversione avrà luogo, di modo che Simon Pietro possa poi confermare i suoi fratelli.
Pietro però non vedeva la necessità di convertirsi, non ne sentiva il bisogno. Era convinto di essere un discepolo sincero, generoso. Pietro allora disse «Signore, con Te sono pronto ad andare in prigione e alla morte» (Luca 22, 33). Pietro manifesta la propria generosità, che sembra perfetta. Che cosa potrebbe essere più perfetto dell’essere pronto ad andare in prigione con Gesù e a morire con Lui? Gesù pero risponde: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi». Ecco dove conduceva questa generosità umana. Tutto questo è molto sconcertante.
Possiamo capire meglio il problema spirituale leggendo il Vangelo di san Giovanni. Vediamo in esso la generosità di Pietro e il genere di conversione di cui aveva bisogno. Nel capitolo tredici del racconto dell’ultima cena, Gesù si alza da tavola, depone le vesti e, preso un asciugamano, se lo cinge intorno alla vita e comincia a lavare i piedi dei suoi discepoli. Viene dunque da Simon Pietro, ma Pietro non è d’accordo. Domanda con stupore: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Gesù risponde: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Giovanni 13,7). Pietro, invece, dice: «Non mi laverai mai i piedi». Pietro non vuole che il Signore si abbassi davanti a lui. Non vuole questa umiliazione. Per lui Gesù deve essere il Signore, il Messia glorioso, vittorioso. Per amore nei suoi confronti, Pietro vorrebbe Gesù al di sopra di tutti. Pietro non capiva l’ordine dell’amore. Egli voleva salvare Cristo, invece di accettare di essere salvato da Cristo. «In questo sta l’amore, dice san Giovanni: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ci ha amati, e ha mandato il suo Figlio come strumento di perdono per i nostri peccati» (1Giovanni 4, 10). Chi non accetta questo, si chiude all’amore che viene da Dio.. Per motivi che sembrano nobili, si chiude alla grazia. Lo dice Gesù, in maniera molto risoluta: «Gli rispose Gesù: « Se non ti laverò, non avrai parte con me »» (Giovanni 13, 8). È veramente una minaccia tremenda per Pietro, che vuole tanto bene a Gesù, sentire questo: «Se non ti laverò, non avrai parte con me…». Sarà la separazione, sarà la rottura… Allora Pietro si rassegna, ma si rassegna facendo di nuovo il generoso, perché non ha ancora capito. Dice: «Signore, allora non solo i piedi, ma anche le mani, e il capo» (13,9). Di nuovo si mette avanti, fa il generoso – è quasi divertente -questa generosità è sbagliata. Non ha capito, e lo si vede più avanti nel Vangelo, nello stesso capitolo, quando Gesù dice, dopo la partenza di Giuda: «Figlioli, ancora per poco sono con voi. Voi mi cercherete, ma come ho già detto ai giudei lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire» (13,33). Gesù deve tracciate la via da solo. Nessuno lo può precedere, perché è Lui che deve salvare, nessuno può andare con Lui sulla croce. «Dove vado io, voi non potete venire». Simon Pietro è contrariato: egli vuol bene a Gesù, vuole andare con Lui. E dunque gli chiede: «Signore dove vai?». Gesù risponde: «Dove io vado,per ora tu non puoi seguirmi. Mi seguirai più tardi» (13,36). C’è un calendario nella vita spirituale, tappe che si devono percorrere successivamente, e che non è possibile anticipare. «Tu non puoi seguirmi ora. Mi seguirai più tardi»: quando Gesù avrà tracciato la via, allora sarà possibile seguirlo (e Gesù dirà a Pietro due volte: «seguimi» Gv 19,22). Ma Pietro di nuovo esprime il suo dissenso: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per Te». Di nuovo la sua generosità: dare la propria vita per Gesù. Un ideale bellissimo, ma Gesù deve rispondere, come negli altri Vangeli: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte» (Giovanni 13, 38). La generosità sbagliata, che è una forma sottile di superbia, conduce al rinnegamento.
Pietro non ha capito, e perciò nel Getsemani continua nel suo progetto: Pietro vuole proteggere Gesù, lo vuole salvare. Quando vengono a prenderlo, Pietro sguaina la spada e comincia a combattere: è il suo modo di capire le cose, di intendere il destino di Gesù: Gesù deve essere il Messia glorioso, il Messia vittorioso, e quindi occorre combattere per Lui. È il modo umano di concepire il Messia, un modo molto radicato nella mentalità giudaica: e ancora oggi i giudei non accettano Gesù come il Messia perché un Messia crocifisso non si accorda con le loro idee. Nel Quarto Canto del «Servo di YHWH» (Isaia 55), il Targum, cioè la traduzione aramaica, ha cambiato il testo per escludere tutte le cose umilianti per il Messia. Applica questo canto al Messia; il testo ebraico di Isaia non parla del Messia, mentre la traduzione aranaica mette all’inizio il nome del Messia, dicendo: «Ecco il mio servo il Messia avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente» (Isaia 52, 13).
Questa frase gloriosa viene applicata al Messia, invece le cose umilianti annunciate poi dal profeta vengono applicate ad altri personaggi. Così la pensava Pietro nel suo amore per Gesù. Da che cosa proviene il rinnegamento? Da una mancanza di generosità? No, esso proviene dal fatto che Pietro è stato completamente sconcertato. Egli era pronto a dare la vita per Gesù, però combattendo. Un uomo non si lascia morire in modo passivo. Questo non è degno di un uomo. Un uomo deve combattere. Se muore combattendo, è ancora una cosa gloriosa. Pietro non poteva capire perché Gesù non si difendesse, e quindi era completamente sconcertato, e in un certo senso poteva dire senza mentire: «Non conosco questo uomo».
Non riconosceva più Gesù… Gesù, tanto «potente in opere e in parole» (Luca 24, 19), era diventato un uomo apparentemente incapace di resistenza, un uomo che si lascia prendere e umiliare. Pietro non lo conosceva più, e quindi l’ha rinnegato. Questa situazione umanamente molto penosa è stata necessaria per la sua conversione. San Luca dice che dopo il triplice rinnegamento, quando Pietro entrò nel cortile, dopo che aveva detto: «O uomo, non so quello che dici», in quell’istante, scrive san Luca, mentre ancora parlava, «un gallo cantò». Allora il Signore, voltandosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». Quindi Pietro riconobbe la verità della predizione di Gesù, «e uscito, pianse amaramente», dice il Vangelo. Lo sguardo di Gesù ha cambiato il cuore di Pietro. Pietro allora ha abbandonato per forza i pensieri umani, l’ambizione umana di salvare Gesù, per accettare la grazia che veniva in questa maniera sconcertante ma profonda. Pietro è stato convertito da questo sguardo del Signore… Ha colto il messaggio della Passione… Ha accettato i pensieri divini, ha accettato di non essere il primo in amore, ma che Gesù fosse il primo. E ha messo la sua generosità al secondo posto, molto umilmente.
San Giovanni nel suo ultimo capitolo ci mostra l’atteggiamento di Pietro dopo la Risurrezione Gesù risorto è apparso in riva al lago, ha procurato ai discepoli una pesca miracolosa e li ha invitati a mangiare. Dopo che ebbero mangiato, dice il Vangelo, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro». Il verbo in greco è il yerbo agapan, che significa proprio amore generoso; è il verbo abituale nel Nuovo Testamento, perché l’amore di Dio è un amore generoso, l’amore di Gesù è un amore generoso, e Gesù ci comunica questo amore generoso. Noi non lo possediamo da noi stessi, ma se lo riceviamo da Lui allora lo abbiamo. Gesù fa questa domanda: «Mi ami tu generosamente più di costoro?». La risposta di Pietro è molto modesta: «Sì, Signore, Tu lo sai che ti amo teneramente». In questa risposta ci sono tre tratti significativi. Il primo è che Pietro non pretende di amare più degli altri, non risponde a questa parte della domanda, prima l’aveva preteso, quando Gesù aveva annunciato «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte e Pietro aveva allora dichiarato «Anche se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai» (Mt 26,31-33); adesso non ha più questa pretesa. Il secondo tratto: Pietro non usa il verbo agapan, ma un altro verbo, filein, che esprime amicizia, amore tenero, un verbo greco che ha anche il senso di baciare; Pietro dichiara soltanto di provare affetto tenero verso Gesù. Il terzo tratto: egli si affida perché Gesù sa: «Tu sai meglio di me qual’è la qualità del mio amore per te». Allora Gesù gli dice: «Pasci i miei agnelli». Perché Pietro non conta più su se stesso, Gesù gli può affidare una missione pastorale. Poi di nuovo gli domanda: «Simone di Giovanni mi ami tu generosamente?». Questa volta Gesù ha abbandonato il paragone. E Pietro di nuovo dice: «Sì, Signore, tu sai che io ti amo teneramente». La terza volta Gesù riprende il verbo usato da Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami teneramente?». Il Vangelo ci dice che Pietro rimase allora addolorato per il fatto che in questa terza domanda Gesù gli avesse chiesto se egli lo amava teneramente, sembrando mettere in dubbio questa prova di amore. È significativo che nondimeno nella sua risposta Pietro non insiste sulla propria convinzione bensì sulla conoscenza che Gesù possiede: «Signore, tu sai tutto. Tu sai che ti amo teneramente». E Gesù gli dice: «Pasci le mie pecorelle». Pietro ha preso un atteggiamento di uomo convertito, che non mette al primo posto le proprie certezze, la propria generosità, ma si sottomette alla grazia divina, e si affida al Signore anche per le proprie affermazioni. Non dice: «Io so che ti amo generosamente», bensì dice: «Tu lo sai che ti amo teneramente» .
Mi pare che ci sia molto utile meditare su questa conversione di Pietro e chiedere al Signore la grazia di una tale conversione, che è indispensabile per il nostro vero progresso spirituale e per la nostra autentica fecondità apostolica.
Nella sua Prima Lettera, Pietro manifesta lo stesso atteggiamento, perché comincia con il ringraziare Dio: «Benedetto Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo». Dire «Benedetto Dio» è un modo di ringraziare Dio. Pietro mette il rendimento di grazie come prima disposizione fondamentale. «Nella sua grande misericordia, Egli ci ha fatto rinascere mediante la risurrezione di Gesù Cristo» (1 Pietro 1,3). Pietro si riconosce oggetto della misericordia divina, grazie alla quale è potuto rinascere nel mistero pasquale. Alla fine di questa lettera bellissima, raccomanda a tutti l’umiltà. Dice: «Rivestitevi tutti di umiltà, gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché Egli vi esalti al tempo opportuno, gettando in Lui ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di voi» (1 Pietro 5, 57).
È il frutto della conversione di Pietro, un frutto soave, un frutto saporito, un frutto di umiltà e di riconoscenza, amore riconoscente, non più pretesa superba di generosità – salvare Gesù – ma accoglienza umile, gioiosa e riconoscente della salvezza offerta dal Signore.
http://liturgiadomenicale.blogspot.it/2008/06/san-leone-magno-san-pietro-e-san-paolo.html
San Leone Magno. San Pietro e San Paolo
Sermo LXXXII, 2-5. PL 54, 423-425.
Il Signore, buono e giusto e onnipotente, mai aveva negato la sua misericordia al genere umano, sempre anzi con la generosità stessa dei suoi doni aveva parlato a tutti gli uomini, senza eccezione, perché lo conoscessero. Egli ebbe compassione della loro colpevole cecità, della loro malizia sicuramente peggiorativa, dei loro errori.
A tal fine, secondo un disegno misterioso e profondo, con un atto di sublime pietà, inviò loro il suo Verbo, a lui uguale e coeterno. Ed il Verbo incarnandosi congiunse la natura divina alla natura umana in modo tale che il suo abbassamento estremo si risolse nella nostra elevazione suprema. Perché poi gli effetti di questa grazia ineffabile potessero diffondersi in tutto il mondo, la divina Provvidenza predispose l’impero romano e ne favorì lo sviluppo, dilatando i suoi confini fino a raggiungere tutte quante le genti.
Rispondeva perfettamente al piano dell’azione divina l’associazione dei diversi regni in un unico impero, in quanto più rapida e facile sarebbe riuscita l’opera universale di evangelizzazione tra i popoli, grazie all’unità del regime politico di Roma.
Sennonché questa città, ignorando il vero autore della sua grandezza, quantunque avesse esteso il suo dominio su quasi tutte le genti, si era in realtà resa schiava dei loro stessi errori; pensava di possedere addirittura una grande religione, perché non aveva mai rifiutato nessuna falsa dottrina. Perciò quanto più tenaci erano i vincoli con cui l’aveva legata il demonio, tanto più magnifica fu la liberazione che le ottenne il Cristo Signore.
Quando, infatti, i dodici Apostoli, dopo aver ricevuto dallo Spirito Santo il dono delle lingue (cf At 2,4), cominciarono la loro missione per educare il mondo al vangelo e a questo scopo si divisero la terra in settori particolari, ecco che san Pietro come capo del collegio apostolico viene destinato alla prima sede dell’impero romano.
In questo modo la luce della verità, la cui manifestazione era in funzione della salvezza universale delle genti, si sarebbe più efficacemente diffusa come dal capo in tutto l’organismo mondiale.
Non c’erano forse allora in questa città uomini di ogni nazione? C’erano forse in qualche luogo popoli che ignoravano quel che Roma conosceva? Era qui che bisognava schiacciare certe teorie filosofiche e spazzar via le frivolezze della sapienza terrena e abbattere il culto dei demoni e distruggere l’irriverenza sacrilega di tutti i sacrifici; proprio qui, infatti, si ritrovava raccolto ad opera della superstizione più diligente tutto quanto altrove avevano elaborato gli errori più disparati.
Tu dunque, o santissimo apostolo Pietro, non hai paura di metter piede in questa nostra città; mentre l’apostolo Paolo, colui che avrai compagno nella gloria, è ancora occupato nell’opera di organizzazione delle altre chiese, fai il tuo ingresso in questa giungla di animali ruggenti, in quest’oceano agitato e profondo, certo con più coraggio di quando camminasti sopra le acque (Cf Mt 14, 28-31). E non hai timore di Roma, la dominatrice del mondo, tu che nel palazzo di Caifa provasti spavento dinanzi alla serva del sacerdote (cf Mt 26,69-70).
Che forse il potere di un Claudio e la crudeltà di un Nerone erano minori in confronto del giudizio celebrato da Pilato o dal furore dimostrato dai Giudei? Era dunque la forza del tuo amore a vincere tutto quel che poteva alimentare la paura, e non pensavi certo di dover temere coloro che già avevi accolto nella corrente del tuo affetto.
Non c’è dubbio che tale sentimento di carità a tutta prova si destò nel tuo cuore, o Pietro, fin da quando ti fu rivolta la triplice e arcanamente significativa interrogazione; che ti confermò nel dichiarare il tuo amore al Signore. E se questo fu allora l’atteggiamento del tuo spirito, ti fu chiesto solo che nel pascere il gregge di colui che amavi procurassi loro quel cibo, di cui eri ricchissimo.
A darti maggiore fiducia c’erano anche i tanti prodigi e miracoli, i tanti doni e carismi, i tanti poteri di cui avevi dato prova. In precedenza avevi catechizzato i fedeli provenienti dall’ambiente giudaico; avevi fondato la Chiesa di Antiochia, dove per la prima volta fu usato il nome glorioso di cristiano; avevi poi iniziato alle leggi proprie del messaggio evangelico le regioni del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia.
Proprio così, sicuro del buon esito della tua fatica, ma cosciente anche dei limiti della tua età, tu portavi l’emblema trionfale della croce di Cristo nella roccaforte della potenza romana. Ti precedevano per disposizione provvidenziale di Dio, l’onore dell’alto potere e la gloria del santo martirio.