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28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO – BENEDETTO XVI – I: La vita

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080109.html

28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO – BENEDETTO XVI – I: La vita

Sant’Agostino

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 9 gennaio 2008

Cari fratelli e sorelle,

dopo le festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande Santo e Dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché egli ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annata, sulla costa algerina) – la città dell’Africa romana, di cui egli fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430 – e, dall’altra, che da questo luogo si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: «Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi» (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessioni, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessioni agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale (e non solo occidentale) anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell’io, al mistero di Dio che si nasconde nell’io, è una cosa straordinaria, senza precedenti, e rimane per sempre, per così dire, un «vertice» spirituale.
Ma, per venire alla sua vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell’accoglienza nel catecumenato, e rimase sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo. Egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell’Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina. Non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’Hortensius, uno scritto di Cicerone, poi andato perduto, che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessioni: «Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire», tanto che «all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza» (III,4,7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l’altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio, e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant’Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e a chi, come lui, vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di andare avanti nella sua carriera, oltre che continuare la relazione intrecciata con una donna. (Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al Battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei Dialoghi che sant’Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente.) Agostino, a circa vent’anni già insegnante di grammatica nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, egli iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al Vescovo di Milano sant’Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale. Dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato, e non soltanto dalla sua retorica: soprattutto i contenuti toccarono sempre più il suo cuore. Il grande problema dell’Antico Testamento – la mancanza di bellezza retorica e di altezza filosofica – si risolse nelle prediche di sant’Ambrogio grazie all’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento: Agostino capì che tutto l’Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità pure filosofica dell’Antico Testamento e capì tutta l’unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica coltivate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un’altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano, verso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al Battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la Veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il Battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere Pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve, l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua Diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai Vandali invasori, il Vescovo – racconta l’amico Possidio nella Vita di Agostino – chiese di trascrivere a grandi caratteri i Salmi penitenziali «e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime» (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.

 

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BENEDETTO XVI – SANT’AGOSTINO I: LA VITA

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BENEDETTO XVI – SANT’AGOSTINO I: LA VITA

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 9 gennaio 2008

Cari fratelli e sorelle,

dopo le festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande Santo e Dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché egli ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annata, sulla costa algerina) – la città dell’Africa romana, di cui egli fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430 – e, dall’altra, che da questo luogo si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: «Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi» (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessioni, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessioni agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale (e non solo occidentale) anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell’io, al mistero di Dio che si nasconde nell’io, è una cosa straordinaria, senza precedenti, e rimane per sempre, per così dire, un «vertice» spirituale.
Ma, per venire alla sua vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell’accoglienza nel catecumenato, e rimase sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo. Egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell’Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina. Non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’Hortensius, uno scritto di Cicerone, poi andato perduto, che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessioni: «Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire», tanto che «all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza» (III,4,7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l’altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio, e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant’Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e a chi, come lui, vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di andare avanti nella sua carriera, oltre che continuare la relazione intrecciata con una donna. (Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al Battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei Dialoghi che sant’Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente.) Agostino, a circa vent’anni già insegnante di grammatica nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, egli iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al Vescovo di Milano sant’Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale. Dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato, e non soltanto dalla sua retorica: soprattutto i contenuti toccarono sempre più il suo cuore. Il grande problema dell’Antico Testamento – la mancanza di bellezza retorica e di altezza filosofica – si risolse nelle prediche di sant’Ambrogio grazie all’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento: Agostino capì che tutto l’Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità pure filosofica dell’Antico Testamento e capì tutta l’unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica coltivate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un’altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano, verso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al Battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la Veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il Battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere Pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve, l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua Diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai Vandali invasori, il Vescovo – racconta l’amico Possidio nella Vita di Agostino – chiese di trascrivere a grandi caratteri i Salmi penitenziali «e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime» (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.

SANT’AGOSTINO – LA PAZIENZA

http://www.augustinus.it/italiano/pazienza/index2.htm

SANT’AGOSTINO – LA PAZIENZA

La pazienza di Dio.
1. 1. La virtù dell’anima che chiamiamo pazienza è un dono di Dio così grande che noi parliamo di pazienza anche riferendoci a colui che a noi la dona; e vi intendiamo la tolleranza con cui egli aspetta che i cattivi si ravvedano. È vero infatti che il nome « pazienza » deriva da patire, ma pur essendo vero che Dio non può in alcun modo patire, tuttavia noi per fede crediamo, e confessiamo per ottenere la salvezza, che Dio è paziente. Ma questa pazienza di Dio, come essa sia e quanto sia grande, chi potrà descriverlo a parole? Noi possiamo affermare che egli non può patire nulla, eppure non lo diciamo impaziente ma pazientissimo. La sua pazienza è dunque ineffabile, come è ineffabile la sua gelosia, la sua ira e gli altri moti somiglianti, che se noi pensassimo essere uguali ai nostri, dovremmo escluderli tutti. Noi infatti non ne proviamo alcuno che non sia congiunto a turbamento, mentre è assurdo pensare che la natura divina, che è impassibile, provi turbamento. Dio infatti è geloso senza invidia, si adira senza alterarsi, ha compassione senza addolorarsi, si pente senza doversi ravvedere d’un qualsiasi errore. Così è paziente senza patire. Ora dunque, per quanto il Signore me lo concederà e per quanto lo permette la brevità del presente discorso, parlerò sulla natura della pazienza umana, che noi possiamo acquisire e dobbiamo avere.

La vera pazienza.
2. 2. È risaputo che la pazienza retta, degna di lode e del nome di virtù, è quella per la quale con animo equo tolleriamo i mali, per non abbandonare con animo iniquo quei beni, per mezzo dei quali possiamo raggiungere beni migliori. Pertanto chi non ha la pazienza, mentre si rifiuta di sopportare i mali, non ottiene d’essere esentato dal male ma finisce col soffrire mali maggiori. I pazienti preferiscono sopportare il male per non commetterlo piuttosto che commetterlo per non sopportarlo; così facendo rendono più leggeri i mali che soffrono con pazienza ed evitano mali peggiori in cui cadrebbero con l’impazienza. Ma soprattutto non perdono i beni eterni e grandi, quando non cedono ai mali temporanei e di breve durata poiché, come dice l’Apostolo, i patimenti del tempo presente non meritano d’essere paragonati con la gloria futura che si rivelerà in noi 1. Egli dice ancora: La nostra sofferenza, temporanea e leggera, produce per noi in maniera inimmaginabile una ricchezza eterna di gloria 2.

La grande pazienza dei cattivi.
3. 3. Volgiamo ora lo sguardo, o carissimi, alle fatiche, ai dolori e alle asperità che gli uomini sopportano per ciò che amano spinti dai loro vizi, per tutte quelle cose che quanto più si pensa abbiano ad arrecare felicità tanto più si diventa infelici nel desiderarle. Quanti rischi e molestie affrontano con la più grande pazienza per le false ricchezze, i vani onori e le frivole soddisfazioni. Li vediamo avidi di denaro, di gloria e di piaceri lascivi, che per ottenere le cose desiderate e non perderle quando le hanno ottenute, sopportano il calore, la pioggia, il freddo, i flutti e le burrasche più tempestose, le durezze e incertezze delle guerre, i colpi di piaghe crudeli e orribili ferite. E tutto questo sopportano non per una inevitabile necessità, ma per un atto colpevole della loro volontà.

La forza del desiderio rende tollerabili le fatiche e i dolori.
4. 4. In realtà la gente ritiene che l’avarizia, l’ambizione, la dissolutezza, le attrattive per i vari divertimenti rientrano nell’ambito d’una condotta irreprensibile, almeno finché per soddisfarle non si commettono azioni riprovevoli o delitti condannati dalle leggi umane. Ci sono infatti persone che si sottopongono a grandi fatiche e dolori per acquistare o aumentare il proprio capitale, per conseguire o conservare posti onorifici, per partecipare a gare agonistiche o venatorie, per ottenere plauso allestendo spettacoli teatrali. Se questo riescono a fare senza ledere i diritti altrui, è poco dire che dalla vacuità del popolo essi non vengono disapprovati e così se ne astengono. Al contrario vengono esaltati ed inneggiati; proprio come dice la Scrittura: Il peccatore è lodato nei desideri del suo cuore 3. In effetti è la forza dei desideri a farci tollerare fatiche e dolori e nessuno accetta spontaneamente di sopportare ciò che fa soffrire, se non per quello che diletta. Ma, come ho detto, le passioni ora nominate son considerate legittime, autorizzate dalla legge, e quanti ardono dal desiderio di appagarle sopportano con estrema pazienza molti disagi e asperità.

La straordinaria resistenza di Catilina.
5. 4. E che dire di quelle persone che sopportano molti e gravissimi disagi per crimini conclamati, e non per punirli ma per commetterli? Non parlano forse gli storici pagani di quel tale, famigerato assassino della patria, dicendo che era capace di sopportare la fame, la sete, il freddo; il suo corpo era in grado di tollerare digiuni, freddi e veglie oltre ogni immaginazione 4? E che dire dei briganti? Per tendere insidie ai passanti trascorrono notti insonni, e per sequestrare viandanti incolpevoli irrigidiscono sotto ogni genere di intemperie il loro animo e il loro corpo, dediti al male. Si racconta pure che alcuni di loro si torturano l’un l’altro, al segno che l’allenamento per sottrarsi alla pena non si differenzia per nulla dalla pena stessa. È probabile infatti che dal giudice non sarebbero torturati così atrocemente quanto lo si fa dai loro complici per impedire che vengano denunziati dal correo sottoposto a torture. In questi casi tuttavia la pazienza è, se mai, da ammirare, non da lodare; anzi, non è né da lodare né da imitare, poiché non si tratta di pazienza. Si potrà parlare di straordinaria insensibilità, ma non si trova nulla della pazienza; e quindi non c’è niente che possa essere giustamente lodato e niente che possa essere utilmente imitato. E quindi farai bene a giudicare quell’anima degna di tanto maggiore condanna quanto più dedica ai vizi le risorse destinate all’acquisto delle virtù. La pazienza è socia della sapienza, non schiava della concupiscenza; la pazienza è amica della buona coscienza, non avversaria dell’innocenza.

Criterio per distinguere la vera dalla falsa pazienza.
6. 5. Quando vedi qualcuno che soffre qualche male, non metterti subito a lodarne la pazienza, che è messa in luce solo dalla motivazione della pazienza. Se la motivazione è buona, la pazienza è vera. Se la motivazione non è resa impura dalla cupidigia, allora la pazienza si distingue da quella falsa. Quando la motivazione mira a un crimine, si fa un grande errore a chiamarla pazienza. Infatti non tutti coloro che sanno qualcosa posseggono la scienza; così non tutti coloro che patiscono qualcosa posseggono la pazienza. Solo chi della passione si serve per il bene merita l’elogio della vera pazienza e riceve la corona per la virtù della pazienza.

Sopportare i mali della vita per la beatitudine eterna.
7. 6. Gli uomini dunque sopportano con mirabile fortezza molte pene atroci per soddisfare le passioni, per commettere delitti o, quanto meno, per godere vita e salute nel tempo presente. Ciò è per noi un richiamo a sopportare disagi anche gravi per condurre una vita buona, in modo che alla fine conseguiamo la vita eterna: quella che ci assicura una felicità vera, senza scadenza di tempo, senza diminuzione di ciò che è positivo e vantaggioso. Il Signore disse: Con la vostra pazienza possederete le vostre anime 5. Non disse: « Le vostre ville », « i vostri onori », « i vostri piaceri », ma le vostre anime. Se dunque un’anima sopporta tanti disagi per possedere cose che la portano alla rovina, quanti non ne dovrà sopportare per possedere ciò che la sottrae alla rovina? E ora dirò una cosa dove non vi è questione di colpa: se uno soffre tanto per la propria salute fisica quando capita in mano ai medici che lo tagliano o bruciano, quanto non dovrà soffrire per la sua salute [eterna] attaccata da nemici furiosi, qualunque essi siano? I medici infatti facendo soffrire il corpo tentano di sottrarre il corpo alla morte; i nemici minacciando pene e morte al corpo sospingono l’anima e il corpo ad essere uccisi nella geenna.

Sopportando si provvede al bene del corpo stesso.
7. 7. C’è di più. Se per amore della giustizia si sacrifica la salute corporale, si provvede in maniera più efficace al bene del corpo stesso. Ciò vale anche se per amore della giustizia si sopportano con grande pazienza le sofferenze corporali e la stessa morte. Della redenzione finale del corpo parla infatti l’Apostolo quando dice: Noi gemiamo in noi stessi aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. E soggiunge: Noi siamo stati salvati nella speranza. La speranza poi, se la si vede, non è speranza. Ciò che infatti vede, come potrebbe uno sperarlo? Se invece speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con la pazienza 6.

La pazienza interessa l’anima e il corpo.
8. 7. Quando dunque ci affliggono mali che non ci inducono a commettere il peccato, esercitando la pazienza l’anima acquista il dominio di se stessa; non solo, ma se lo stesso corpo viene per qualche tempo colpito dal dolore o anche dalla morte, attraverso la pazienza lo si recupera per una salute stabile, anzi eterna, e così attraverso il dolore e la morte gli si procura una salute perfetta e un’immortalità felice. Al riguardo il Signore Gesù, volendo esortare i suoi martiri alla pazienza, promise loro che avrebbero ottenuto l’integrità del corpo senza subire la perdita non dico d’un qualche membro ma nemmeno di un capello. Diceva: Ve lo dico in verità: un solo capello della vostra testa non andrà perduto 7. E siccome son vere le parole dell’Apostolo: Nessuno ha mai odiato la sua carne 8, ne segue che il cristiano provvede al bene del suo corpo più con la pazienza che con l’intolleranza, e con il guadagno inestimabile dell’incorruttibilità futura compensa le tribolazioni della vita presente, per quanto grandi possano essere.
8. 8. Sebbene la pazienza sia una virtù dell’anima, tuttavia l’anima la esercita in parte su se stessa, in parte nei riguardi del corpo. La esercita in se stessa quando, senza che il corpo venga leso e toccato, l’anima è spinta dagli stimoli di avversità o da brutture reali o verbali a fare o a dire cose sconvenienti o indecorose; ma lei sopporta con pazienza tutti i mali per non commettere nulla di male con azioni o parole.

La pazienza dell’anima.
9. 8. In virtù di questa pazienza dell’anima noi, sani di corpo, sopportiamo che ci venga rinviata la nostra beatitudine e che ci tocchi di vivere fra gli scandali del tempo presente. A ciò si riferiscono le parole or ora menzionate: Se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con la pazienza. Per questa pazienza il santo [re] Davide sopportò le ingiurie di chi lo svillaneggiava e, sebbene potesse facilmente vendicarsi, non solo non si vendicò, ma trattenne dalla vendetta quell’altro che, addolorato, s’era fatto prendere dall’ira 9, e del suo potere regale si servì più per proibire che per esercitare la vendetta. In quel frangente non era il suo corpo che veniva tormentato da malattie o ferite, ma era il suo animo che, riconoscendo il momento dell’umiliazione, la sopportava per fare la volontà di Dio e per questo ingoiava con somma pazienza l’amara bevanda della contumelia. Questa pazienza ci insegnò il Signore quando disse che ai servi irritati per la mescolanza della zizzania [con il buon grano] e desiderosi di estirparla il padrone di casa rispose: Lasciate che [le due piante] crescano fino al tempo della mietitura 10. Infatti occorre sopportare con pazienza ciò che non si può eliminare con fretta. Di questa pazienza ci ha offerto un esempio palese lui stesso tollerando quel discepolo, che era ladro, vicino a sé fino al tempo della passione, cioè finché non lo denunziò come traditore 11. Prima di esperimentare le funi, la croce e la morte, non rifiutò il bacio di pace a quelle labbra menzognere 12. Tutti questi esempi, e i tanti altri che sarebbe lungo ricordare, rientrano in quel genere di pazienza dove l’anima non soffre per i suoi peccati, ma dentro di sé sopporta pazientemente quei mali che le provengono dal di fuori senza che il corpo ne venga minimamente colpito.

La pazienza dei martiri.

10. 8. C’è un altro campo per esercitare la pazienza: quello in cui l’anima tollera gli affanni e i dolori derivanti dai patimenti del corpo: non certo quelli che soffrono gli uomini stolti o perversi per raggiungere vani ideali o per perpetrare delitti ma, com’ebbe a determinare il Signore, per la giustizia 13. L’uno e l’altro combattimento sostennero i santi martiri. Vennero infatti coperti di contumelie da parte degli empi, e in quel caso l’animo rimanendo saldo sosteneva come delle sue proprie ferite, mentre il corpo ne era esente; per quanto poi riguarda il loro corpo, essi furono legati, incarcerati, affamati e assetati, torturati, segati, squartati, bruciati, uccisi barbaramente. Con incrollabile fedeltà sottomisero il loro spirito a Dio, mentre nel corpo soffrivano tutto ciò che la crudeltà dei persecutori seppe immaginare.

La pazienza nella lotta contro il diavolo.
10. 9. È più grande la lotta che sostiene la pazienza quando non si tratta d’un nemico visibile che perseguitando con ferocia ti spinge al male (esso è allo scoperto, e chi non gli consente lo vince in maniera palese), ma si tratta del diavolo stesso che, servendosi magari di gente incredula come di suoi strumenti, perseguita i figli della luce ovvero, rimanendo occulto li assale e con ferocia li stimola a fare e a dire cose che dispiacciono a Dio.

La pazienza di Giobbe.
11. 9. L’ira di questo nemico ebbe ad esperimentare il santo Giobbe: da lui fu aspramente provato con le due specie di tentazione, ma in tutt’e due riuscì vincitore con l’immutabile forza della pazienza e le armi della pietà. In principio, rimanendo illeso il corpo, soffrì la perdita di tutto ciò che aveva; e così, prima che il suo corpo subisse tormenti, il suo animo fu lacerato dalla perdita di quei beni che gli uomini hanno più a cuore, e, siccome si pensava che egli servisse Dio in vista di quei beni, ne doveva seguire che perdendoli avrebbe bestemmiato contro di lui. Fu colpito anche dalla morte improvvisa di tutti i figli: li aveva avuti uno dopo l’altro, li perse tutti in una volta; e se erano stati numerosi, questo non fu per accrescere la sua gioia ma per aumentare la sventura. Quando gli toccò di soffrire tutti questi mali, egli rimase fermo nella fedeltà a Dio, sempre unito alla volontà di colui che non avrebbe potuto perdere se non per una scelta della sua propria volontà; e, a posto di tutto quello che perse, gli rimase colui che glielo toglieva, colui nel quale avrebbe trovato ciò che era imperituro. A togliergli i beni infatti non era stato il maligno che l’aveva voluto danneggiare, ma colui che aveva dato a lui il potere di farlo.

Giobbe più avveduto di Adamo.
12. 9. Il nemico lo aggredì anche nel corpo, e lo colpì non solo nei beni che sono al di fuori dell’uomo ma anche nella sua stessa persona, in ogni parte dove gli fu possibile. Dalla testa ai piedi dolori di fuoco, vermi che uscivano, putridume che colava; ma in quel corpo in disfacimento l’animo restava integro e sopportava con pietà inalterata e pazienza invitta gli orribili tormenti d’una carne imputridita. Accanto a lui c’era la moglie, ma al marito non dava alcun aiuto, anzi lo esortava a bestemmiare Dio. Il diavolo, che a Giobbe aveva rapito i figli, nel lasciargli la moglie non si comportò da inesperto nell’arte del nuocere, avendo imparato già in Eva quanto una donna può rendersi utile al tentatore 14. Solo che questa volta non s’imbatte in un altro Adamo, da poter prendere al laccio tramite la donna. Fra i dolori, costui fu più accorto che non quell’altro fra gli allori: quello era nel godimento e fu vinto, questi era nella sofferenza e vinse; quello credette alle lusinghe, questo non si piegò di fronte ai tormenti. E c’erano anche gli amici: non per confortarlo nella sventura, ma per avanzare sospetti sulla sua colpevolezza. Non credevano infatti che un uomo colpito da tanti mali potesse essere innocente, e la loro lingua pronunziava accuse di colpe che erano estranee alla sua coscienza. E così mentre il corpo soffriva atroci dolori, anche l’anima era flagellata da infondate rampogne. Ma ecco Giobbe sopportare nel corpo i propri dolori, nel cuore le calunnie altrui. Rimproverava alla moglie la stoltezza, agli amici insegnava la sapienza, in tutto conservava la pazienza.

Deprecabile l’impazienza dei donatisti.
13. 10. Guardino a Giobbe quei tali che si danno la morte quando sono ricercati perché vivano. Togliendosi la vita presente essi si escludono anche da quella futura. Quand’anche li si costringesse a rinnegare Cristo o a commettere peccati contro la giustizia, come succedeva ai veri martiri, essi dovrebbero sopportare tutto con pazienza anziché darsi la morte per impazienza. Se infatti ci si potesse suicidare lecitamente per schivare le sofferenze, il santo Giobbe si sarebbe ucciso senz’altro per sottrarsi ai mali così gravi che la crudeltà del diavolo gli aveva causato negli averi, nei figli e nelle membra del corpo. Ma egli non lo fece. Impensabile infatti che un uomo sapiente come lui compisse su se stesso un gesto che nemmeno la moglie insipiente aveva osato suggerirgli. E se gliel’avesse suggerito, si sarebbe anche in tal caso buscata la risposta che ascoltò quando suggerì la bestemmia: Hai parlato come una donna stupida. Se dalla mano di Dio abbiamo ricevuto i beni, perché non dovremmo accettare anche i mali? 15 Quanto a lui, avrebbe perduto la pazienza sia che fosse morto bestemmiando, come voleva la moglie, sia che fosse morto uccidendosi, come nemmeno lei aveva osato proporgli. In ogni caso sarebbe stato del numero di coloro di cui è stato detto: Guai a chi perde la pazienza! 16 Invece di sottrarsi alle pene, le avrebbe accresciute in quanto, dopo la morte del corpo, sarebbe incorso nei supplizi riservati ai bestemmiatori, o agli omicidi, o a chi è peggio dei parricidi. Il parricida infatti è colpevole più d’ogni altro omicida, poiché uccide non solo un uomo ma un consanguineo, e fra gli stessi parricidi uno è ritenuto tanto più crudele quanto più prossimo è il congiunto che uccide. Ora chi uccide se stesso è peggiore di tutti i parricidi, perché nessuno è vicino a noi più di noi stessi. Quanto dunque non sarà grave la colpa di quei miseri che si infliggono da se stessi delle pene in questa vita e di là debbono scontare non solo quelle dovute alla loro empietà verso Dio ma anche quelle dovute alla crudeltà verso se stessi? Ma essi, per di più, presumono gli onori dei martiri! Anche se avessero sostenuto la persecuzione per una vera testimonianza a Cristo e si fossero uccisi per sfuggire ai persecutori, giustamente si applicherebbero ad essi le parole: Guai a chi perde la pazienza! In che modo infatti si potrebbe concedere loro con giustizia il premio della pazienza se questo andasse a coronare un martirio dovuto all’impazienza? Ovvero, uno che si è sentito dire: Amerai il prossimo tuo come te stesso 17, come può essere giudicato innocente se commette omicidio contro se stesso, quando è proibito commetterlo contro il prossimo?

La pazienza dei buoni.
14. 11. Vogliano dunque i santi ascoltare dalla Sacra Scrittura alcuni precetti di pazienza: Figlio, se ti presenti a servire Dio, sta’ saldo nella giustizia e nel timore e prepara la tua anima alla tentazione. Umilia il tuo cuore e sii coraggioso: così alla fine si accrescerà la tua vita. Accogli tutto ciò che ti sopraggiunge, e nel dolore sopporta e nella umiliazione sii paziente. Poiché l’oro e l’argento si provano col fuoco, gli uomini accetti [a Dio] nella fornace dell’umiliazione 18. In un altro testo si legge: Figlio, non venir meno sotto la disciplina del Signore e non stancarti quando da lui sei rimproverato. Egli infatti rimprovera colui che ama e usa i flagelli con il figlio che gli è caro 19. Quanto qui si dice e cioè: Il figlio che gli è caro corrisponde a gli uomini accetti del testo di prima. È giusto infatti che noi, scacciati dalla originaria felicità del paradiso per un’ostinata voglia di piaceri, vi siamo riammessi mediante l’umile sopportazione delle nostre sventure. Fuggimmo facendo il male, torniamo sopportando il male; lassù operatori di ingiustizia, quaggiù coraggiosi nella prova per amore della giustizia.

La sorgente della pazienza.
15. 12. Dobbiamo ora chiederci da dove procede la vera pazienza, degna del nome di virtù. Ci sono infatti di quelli che l’attribuiscono alle forze della volontà umana, non a quelle che ricevono dall’aiuto divino, ma a quelle che hanno dal libero arbitrio. Ora questo errore nasce dalla superbia ed è l’errore di coloro che abbondano, secondo le parole del salmo: Obbrobrio per quelli che abbondano e disprezzo per i superbi 20. Non è quindi questa la pazienza dei poveri, che non perisce in eterno 21. Quei poveri che la ricevono da quel ricco al quale si dice: Sei tu il mio Dio, perché non hai bisogno dei miei beni 22; dal quale viene ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto 23; a lui grida il bisognoso e il povero che loda il suo nome, e chiedendo, cercando e bussando dice: Mio Dio, liberami dalla mano del peccatore, dalla mano di chi trasgredisce la legge e dell’uomo iniquo, perché tu sei, Signore, la mia pazienza, la mia speranza fin dalla mia giovinezza 24. Ma questa gente stracolma [di sé] non si degna di presentarsi mendicante dinanzi a Dio per ricevere da lui la vera pazienza. Vantandosi della loro falsa pazienza, vogliono confondere il proposito dell’indigente, la cui speranza è il Signore 25. Non pensano che, essendo uomini, coll’attribuire un risultato così grande alla propria volontà, che è volontà umana, incorrono nella condanna della Scrittura: Maledetto ogni uomo che ripone nell’uomo la sua speranza 26. Ma ecco che costoro in forza della stessa loro volontà accecata dalla superbia sopportano stenti ed asperità per non dispiacere alla gente o per evitare mali maggiori o per compiacere se stessi o per amore del loro orgoglio presuntuoso. In tal caso, riguardo alla [loro] pazienza bisognerebbe dire quel che l’apostolo san Giacomo dice della sapienza: Questa sapienza non proviene dall’alto, ma è sapienza terrena, animalesca, diabolica 27. Perché infatti non equiparare la falsa pazienza dei superbi alla loro falsa sapienza? In realtà la vera pazienza viene a noi da colui dal quale ci deriva la vera sapienza. A lui canta quel povero di spirito che dice: A Dio è soggetta la mia anima, perché da lui è la mia pazienza 28.

Pazienza e volontà umana.
16. 13. Essi rispondono facendo questi ragionamenti: Se la volontà umana senza alcun aiuto di Dio ma con le sole forze del libero arbitrio sopporta tanti mali gravi e orribili, sia nell’animo che nel corpo, per godere del piacere di questa vita mortale e dei peccati; perché allo stesso modo la medesima volontà con le stesse forze del libero arbitrio e senza aspettarsi alcun aiuto da parte di Dio, ma sufficiente a se stessa per la naturale possibilità, non sopporta pazientemente per la giustizia e la vita eterna qualunque fatica o dolore dovesse capitare? Dicono ancora: La volontà dei malvagi è capace, senza l’aiuto divino, di far loro affrontare tormenti per l’iniquità anche prima che altri vengano a torturarli; la volontà di coloro che amano i passatempi della vita terrena, senza l’aiuto di Dio, riesce a far sì che essi perseverino nella menzogna, pur in mezzo a tormenti quanto mai atroci e prolungati, affinché non abbiano a confessare i loro delitti ed essere puniti con la morte. E non sarà in grado la volontà dei giusti, senza l’aiuto d’una forza che le venga dall’alto, di sopportare qualsiasi pena per la bellezza che è propria della giustizia e per amore della vita eterna?

Pazienza, carità e aiuto divino.
17. 14. Quelli che dicono queste cose non comprendono che tra i malvagi uno è tanto più resistente a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore del mondo, mentre tra i giusti uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio. Ma l’amore del mondo ha la sua origine dall’arbitrio della volontà, il suo progresso dal diletto del piacere e la sua fermezza dal vincolo dell’abitudine, mentre la carità di Dio è diffusa nei nostri cuori, non certamente da noi, ma dallo Spirito Santo che ci è stato dato 29. Perciò la pazienza dei giusti viene da colui per mezzo del quale è diffusa la loro carità. Lodando e inculcando questa carità l’Apostolo dice che essa, fra gli altri pregi, possiede anche quello di sopportare ogni cosa. La carità, dice, è longanime, e dopo un poco: La carità sopporta tutto 30. Quanto maggiore è dunque nei santi la carità di Dio tanto più facile è per loro sopportare ogni cosa per ciò che amano. Parimenti è dei peccatori: quanto più è grande in loro la cupidigia mondana tanto più riescono a sopportare tutto per soddisfare le loro voglie disordinate. Pertanto la vera pazienza dei giusti deriva da quella sorgente da cui deriva la carità divina; la falsa pazienza dei malvagi deriva dalla sorgente da cui proviene la cupidigia mondana. Ecco quanto dice al riguardo l’apostolo Giovanni: Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, non c’è in lui l’amore del Padre, poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione secolaresca, e questo non proviene dal Padre ma dal mondo 31. E questa concupiscenza, che non proviene dal Padre ma dal mondo, quanto più è forte e ardente nell’uomo, tanto più quest’uomo diviene paziente di fronte ai disagi e ai dolori che deve affrontare per ciò che desidera. Ne segue, come abbiamo già detto, che una tale pazienza non discende dall’alto, mentre viene dall’alto la pazienza dei santi, che scende dal Padre della luce. Pertanto l’una è terrena, l’altra celeste; l’una animale, l’altra spirituale; l’una diabolica, l’altra divinizzatrice. E la ragione di ciò è che la concupiscenza per la quale i peccatori sopportano tenacemente ogni male deriva dal mondo, mentre deriva da Dio la carità per la quale i buoni sopportano con fortezza tutti i loro mali. Va quindi da sé che l’uomo con la sua volontà, senza l’aiuto di Dio, ha risorse sufficienti per avere la pazienza falsa; e questo uomo diviene tanto più ostinato quanto più cupido, tanto più resistente di fronte ai mali quanto più cresce in malvagità. Quanto alla vera pazienza invece, la volontà umana non è in grado di conseguirla senza l’aiuto divino che la infiammi. Ora questo fuoco è lo Spirito Santo; e finché questo Spirito non viene ad infiammarla d’amore per il Bene inalterabile, la volontà non sarà mai capace di sopportare il male che l’affligge.

Doni di Dio, la carità e la pazienza.
18. 15. Come attestano gli autori divinamente ispirati, Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui 32. Chi pretende di poter avere la carità di Dio senza l’aiuto di Dio, che altro pretende se non che si possa avere Dio senza Dio? Ora, quale cristiano oserebbe dire questo, se non lo direbbe nessuno che sia soltanto sano di mente? Nell’Apostolo invece ecco come esulta la pazienza vera, pia, fedele, che per bocca dei santi dice: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Dunque non per merito nostro ma per virtù di colui che ci ha amati. Poi prosegue aggiungendo: Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né potenze, né presente né avvenire, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore 33. È questa la carità di Dio che è stata diffusa nei nostri cuori: non conquistata da noi ma diffusa dallo Spirito Santo che ci è stato donato 34. Viceversa è della concupiscenza dei cattivi, che è all’origine della loro falsa pazienza: essa non proviene dal Padre, come dice l’apostolo Giovanni, ma dal mondo 35.

Volontà umana e mondo presente.
19. 16. A questo punto qualcuno potrà obiettare: « Se la concupiscenza per la quale i cattivi tollerano ogni sorta di mali per ottenere quanto da loro desiderato deriva dal mondo, come si fa a dire che essa deriva dalla loro volontà? ». Quasi che essi stessi non siano nel mondo quando amano il mondo abbandonando il Creatore del mondo! Essi infatti si pongono al servizio delle creature e non del Creatore che è benedetto nei secoli 36. Se quindi Giovanni col nome di mondo ha voluto indicare coloro che amano il mondo, la volontà di gente come questa appartiene senz’altro al mondo; se invece col nome di mondo ha voluto indicare il cielo, la terra e le cose che vi si trovano, ha cioè voluto abbracciare tutto l’insieme del mondo creato, la volontà della creatura, in quanto diversa da quella del creatore, senza alcun dubbio appartiene al mondo. E per questo a tali persone dice il Signore: Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo 37. E agli apostoli diceva: Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Quindi li ammoniva a non attribuire a se stessi quanto oltrepassava i confini della loro umanità e a non pensare che il non appartenere al mondo, di cui aveva parlato, fosse risorsa della natura e non dono della grazia. Diceva così: Poiché voi non siete del mondo ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia 38. Essi dunque erano del mondo, e se non erano più mondo ciò dipendeva dal fatto che egli li aveva scelti di fra mezzo al mondo.

Grazia divina e meriti dell’uomo.
20. 17. Non ci sono opere buone antecedenti che meritino questa elezione: che è una elezione di grazia. Lo asserisce l’Apostolo quando scrive: Anche in questo tempo un resto è stato salvato attraverso una elezione di grazia. Ora, se è grazia, non deriva dalle opere; altrimenti la grazia non sarebbe grazia 39. È dunque, questa, una elezione della grazia, cioè una elezione per la quale gli uomini vengono eletti con un dono della grazia di Dio. È, dico, una elezione della grazia che previene tutti i meriti dell’uomo. Se infatti fosse concessa per un qualche merito di opere buone, non sarebbe più una grazia donata ma un debito che viene retribuito, e quindi non sarebbe esatto chiamarlo grazia. Lo dice lo stesso Apostolo: Dove c’è una ricompensa, questa non viene concessa per grazia, ma come compenso di un debito 40. Per essere quindi una vera grazia, cioè dono gratuito, essa non deve trovare nell’uomo nulla per cui gli sia dovuta; e questo, come ben si comprende, è detto anche nelle parole: Tu li salverai senza alcunché 41. È infatti la grazia che dona i meriti; non è essa che viene donata per i meriti. Essa precede la stessa fede, che segna l’inizio di ogni opera buona, come sta scritto: Il giusto vive per la fede 42. È poi questa grazia che non solo dà l’aiuto ai giusti ma anche la giustizia agli empi: per cui anche quando sostiene i giusti, e sembrerebbe accordata per i loro meriti, nemmeno allora cessa d’essere grazia, poiché è lei che viene in aiuto a quanto essa stessa aveva elargito. Per meritarci questa grazia che precede tutti i meriti di opere buone compiute dall’uomo, Cristo non solo fu ucciso per mano di empi ma morì per gli empi 43. Egli prima di morire si scelse gli apostoli: i quali certamente non erano giusti ma dovevano essere giustificati da lui, se a loro poteva dire: Io vi ho scelti dal mondo. Diceva dunque loro: Voi non siete del mondo, ma affinché non pensassero che non erano stati mai del mondo subito aggiunse: Io vi ho scelti dal mondo 44. Evidentemente il non essere del mondo fu un dono ad essi accordato nella elezione fatta dal Signore. E pertanto, se fossero stati scelti per la loro giustizia e non per un dono della sua grazia, non sarebbero stati scelti dal mondo, poiché se erano giusti, essi già non erano del mondo. Ma c’è di più. Se fossero stati scelti perché erano giusti, erano stati loro stessi a scegliersi per primi il Signore. Infatti chi può essere giusto senza scegliersi la giustizia? Ecco però che fine della legge è Cristo per la giustizia di quanti credono 45 [in lui]. Egli infatti per opera di Dio è diventato per noi e giustizia e santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto, chi si vanta si vanti nel Signore 46. Quindi la nostra giustizia è lui.

Anche nel V. Testamento la giustizia era dono di Dio.
21. 18. Da questo si conclude che anche i giusti dell’Antico Testamento, nati cioè prima dell’incarnazione del Verbo, furono giustificati per questa fede in Cristo e per quella giustizia vera che per noi è Cristo, avendo essi creduto che si sarebbe realizzato in futuro ciò che noi crediamo essersi già realizzato. Anch’essi furono salvati mediante la fede ad opera della grazia: quindi non per loro iniziativa ma per un dono di Dio, non in virtù delle opere perché non si inorgoglissero 47. Le loro opere buone infatti non prevennero la misericordia di Dio ma la seguirono. Tant’è vero che essi udirono [queste parole], anzi essi stessi le scrissero tanto tempo prima che Cristo si incarnasse: Io farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò pietà di chi vorrò aver pietà. Da queste parole di Dio molto tempo dopo l’apostolo Paolo concludeva: Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre ma da Dio che usa misericordia 48. È anche loro quella voce risuonata tanto tempo prima dell’incarnazione di Cristo: Il mio Dio, la sua misericordia mi previene 49. Ebbene, come potevano essere senza la fede in Cristo coloro per la cui carità Cristo è stato preannunziato anche a noi, se è vero che senza la fede in lui nessun mortale ha potuto mai essere giusto, né lo può ora, né lo potrà in seguito? Se dunque gli apostoli furono scelti da Cristo quando erano giusti, sarebbero stati loro a scegliersi per primi Cristo, e successivamente, siccome erano giusti, poterono essere da lui scelti.Senza di lui infatti non potevano essere giusti. Ma le cose non sono andate così. Infatti egli disse loro: Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. Per questo dice l’apostolo Giovanni: Non siamo stati noi ad amare [per primi] Dio, ma Dio per primo ha amato noi 50.

Prima che la grazia ci scegliesse eravamo tutti peccatori.
22. 19. Se le cose stanno così, l’uomo che in questa vita agisce facendo leva sulla propria volontà, prima che Dio l’abbia scelto e l’abbia amato, cos’è se non un peccatore e un empio? Cos’è, dico, l’uomo creatura fuorviata e lontana dal Creatore 51, se il Creatore non si ricordasse di lui e venisse a sceglierlo gratuitamente e gratuitamente lo amasse? Se scelto e amato [da Dio] egli non viene antecedentemente risanato, egli non può scegliersi [Dio] né amarlo, poiché per la sua cecità non può vedere ciò che deve scegliere e per la sua malattia ha nausea per ciò che deve amare. Qualcuno però potrebbe obiettare: Come fa Dio a scegliersi antecedentemente e ad amare gli iniqui per renderli giusti se è stato scritto: Tu, Signore, hai in odio tutti gli operatori di iniquità 52? Come crederemo che avvenga questo se non in maniera ineffabile, che ci lascia pieni di stupore? Vien da pensare a un medico buono, che insieme odia e ama il malato: odia il fatto che sia malato, ama la persona da cui vuol allontanare la malattia.

La carità radice della vera pazienza.
23. 20. Questo sia detto riguardo alla carità, senza la quale ci è impossibile acquisire la vera pazienza. In effetti chi nei buoni tutto sopporta è la carità di Dio, come nei cattivi è la cupidigia mondana. Ora questa carità è in noi ad opera dello Spirito Santo che ci è stato donato: per cui, come da lui abbiamo la carità, così da lui abbiamo anche la pazienza. Quanto alla cupidigia mondana invece, quando sopporta con pazienza il peso di qualsiasi sventura può attribuirlo alle forze della volontà umana e vantarsene, ma è come un vantarsi della paralisi d’una malattia, non del vigore della salute. È, questo, un vanto pazzesco: non di chi è paziente ma dissennato. Questa tale volontà infatti tanto più si presenta paziente nel sopportare mali anche atroci quanto maggiore è l’avidità con cui cerca i beni temporali. Così facendo però si mostra priva dei beni eterni.

La volontà perversa e lo spirito del male.
24. 21. Può accadere che lo spirito del male, e chi è con lui associato, con aspirazioni peccaminose a volte renda la volontà umana o delirante nell’errore o ardente nella brama dei diversi piaceri mondani, sconvolgendola e infiammandola con vane fantasie e suggestioni immonde. Tuttavia, quando vediamo che tale volontà cattiva sopporta in modo sorprendente cose intollerabili, non per questo dobbiamo dire che essa sopporti il male per istigazione d’uno spirito immondo estraneo a lei, come accade per la volontà buona, la quale non può essere buona senza l’aiuto dello Spirito Santo. Che la volontà umana può esser cattiva senza che venga a sedurla o a stimolarla un qualche spirito appare assai chiaramente nella storia del diavolo stesso, il quale non risulta che sia diventato diavolo per la spinta d’un altro diavolo ma per colpa della sua volontà. Lo stesso è della volontà cattiva dell’uomo quando la cupidigia l’attira o il timore la frena, quando la gioia la dilata o la tristezza la raggela, eppure essa, nonostante che sia turbata da tutti questi moti dell’anima, affronta sprezzante quanto ad altri o a lei stessa in altri momenti sarebbe oltremodo gravoso. Senza lo stimolo di alcuno spirito esterno essa stessa può traviarsi e scivolare in basso, abbandonando le cose superiori per quelle inferiori. E quanto maggiore ritiene che sia il piacere derivante dalle cose che vuol possedere o teme di perdere, o da ciò che, possedendo, le dà gioia o che, perduto, la addolora, tanto più le sarà facile sopportare, in vista di quel piacere, ciò che le risulta meno gravoso a sopportare in confronto con ciò che ritiene più allettante a possedere. Ad ogni buon conto però, qualunque sia questo piacere, esso deriva dalla creatura, di cui conosciamo le propensioni. Quando infatti si ama una cosa creata, questa è vicina alla creatura che la ama con un contatto e rapporto in certo qual modo familiare, poiché se ne può assaporare direttamente la dolcezza.

Dio ci dona la buona volontà.
25. 22. La delizia che si ha nel possesso del Creatore, della quale dice la Scrittura: E tu li disseterai al torrente della tua delizia 53, è di tutt’altra natura. Dio infatti non è creatura, come lo siamo noi. Se quindi l’amore per lui non ci viene dato da lui stesso, non c’è altra sorgente da cui possiamo attingerlo. E pertanto la buona volontà, con cui si ama Dio, non può essere nell’uomo se Dio non opera in lui il volere e l’agire 54. Or eccola questa volontà buona: una volontà soggetta fedelmente a Dio, una volontà accesa da un santo fuoco celeste, una volontà che ama Dio e il prossimo per amore di Dio. È animata dall’amore per il quale l’apostolo Pietro poté rispondere: Signore, tu sai che io ti amo 55; è animata dal timore, di cui l’apostolo Paolo diceva: Operate la vostra salvezza con timore e trepidazione 56; è animata dalla gioia, di cui si dice: Gioiosi nella speranza, pazienti nella tribolazione 57; è animata anche dalla tristezza, che l’Apostolo dice d’aver provato, e grande, per i suoi fratelli 58. Se dunque questa volontà sopporta amarezze e disagi, è perché la carità di Dio è stata effusa nei nostri cuori 59, e questo non da altri all’infuori dello Spirito Santo che ci è stato donato 60.

Dono di Dio la carità di chi ama santamente.
26. 22. È una verità di cui nessun’anima fedele dubita: come è dono di Dio la carità di chi ama santamente, così lo è anche la pazienza di chi sopporta [i mali] con abbandono filiale. Non vuole infatti ingannarci né si inganna la Scrittura, la quale già nei libri dell’Antico Testamento attesta questa verità quando dice a Dio: Tu sei la mia pazienza 61, e ancora: Da lui viene a me la mia pazienza 62, mentre un altro profeta afferma che noi riceviamo da lui lo Spirito di fortezza. Negli scritti degli apostoli poi si legge: Per quanto riguarda Cristo, è stato fatto a voi il dono non solo di credere in lui ma anche di patire per lui 63. Sentendo che si tratta di cosa ricevuta in dono, l’anima non se ne inorgoglisca come se si trattasse di conquista propria.

La pazienza degli scismatici.
26. 23. Ora parliamo di uno che non ha quella carità di Cristo per cui si partecipa all’unità dello spirito e al vincolo della pace con cui la congregazione della Chiesa cattolica è tenuta insieme, ma si trova nello scisma. Se costui per non rinnegare Cristo sopporta con pazienza, spinto dal timore dell’inferno e delle pene eterne, le tribolazioni, le privazioni, la fame, la nudità, la persecuzione, i pericoli, le carceri, le catene, le torture, la spada, il fuoco, le belve o la stessa croce, non dovremo fargli una colpa quando soffre tutto ciò, anzi dobbiamo lodarne la pazienza. Non si potrà mai dire infatti che sarebbe stato meglio per lui se, rinnegando Cristo, avesse evitato tutti quei patimenti che ha subìto per confessarlo. Probabilmente dovremo ritenere che per lui ci sarà un giudizio meno severo che se fosse sfuggito agli stessi patimenti rinnegando Cristo. Nel quale caso le parole dell’Apostolo: Se consegnerò alle fiamme il mio corpo ma non avrò la carità non mi giova a nulla 64 debbono essere intese nel senso che ciò non mi gioverà a nulla per ottenere il regno dei cieli, non che non mi renderà più tollerabile la pena nel giudizio finale.

È dono di Dio anche la pazienza degli scismatici.
27. 24. È giusto indagare se sia dono di Dio o non si debba piuttosto attribuire alle forze della volontà umana la pazienza per la quale lo scismatico, temendo le pene eterne, sopporta dolori temporali non per l’errore che lo portò alla separazione ma per la verità del sacramento o della parola che in lui si è conservata. Occorre essere cauti. Se infatti diciamo che tale pazienza è dono di Dio, si potrebbe anche ritenere che quanti la posseggono fan parte del regno di Dio; se invece diciamo che non è dono di Dio, dovremmo necessariamente concludere che anche senza l’aiuto di Dio e senza un suo dono ci possa essere nella volontà dell’uomo qualcosa di buono. Non è infatti cosa cattiva credere che l’uomo sarà punito con il castigo eterno se rinnega Cristo e per una tal fede sopportare con animo risoluto tutti i supplizi umani.
27. 25. Pertanto non si deve negare che anche questo è dono di Dio, ma occorre precisare che di tutt’altro genere sono i doni concessi ai figli di quella Gerusalemme celeste, che è libera ed è la nostra madre.

Eredi e diseredati nel regno di Dio.
28. 25. Alcuni infatti di questi doni sono, per così dire, beni ereditari per noi che siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo; altri invece li possono ricevere anche i figli delle concubine, ai quali vogliamo paragonare i giudei increduli, gli scismatici e gli eretici. È vero infatti che si trova scritto: Scaccia la serva e suo figlio, poiché il figlio della serva non potrà essere erede insieme con il mio figlio Isacco 65. È vero anche che ad Abramo Dio disse: Da Isacco prenderà nome la tua discendenza 66, testo che l’Apostolo interpreta dicendo: Cioè non sono figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza son considerati i figli della promessa. Con questo egli ci fa comprendere che le parole « figli di Abramo in Isacco » si riferiscono, a motivo di Cristo, a quei figli di Dio che sono corpo e membra di Cristo, cioè che sono la Chiesa di Dio, una, vera, fraterna, cattolica, saldamente ancorata nella santa fede. Non colei che agisce per orgoglio o per timore ma colei che è mossa dall’amore 67. Nonostante questo, però, rimane vero che anche ai figli delle concubine Abramo, quando li allontanò dal suo figlio Isacco, diede dei doni affinché non restassero del tutto a mani vuote, sebbene non fossero accolti come eredi. Così infatti leggiamo: Abramo diede ogni suo avere al figlio Isacco, ma anche ai figli delle concubine fece dei doni quando li allontanò dal figlio Isacco 68. Se dunque noi siamo i figli della Gerusalemme che è la donna libera, rendiamoci conto che anche per i diseredati ci sono doni, sebbene diversi da quelli degli eredi. Eredi poi sono coloro ai quali è detto: Voi non avete ricevuto uno spirito da servi per ricadere di nuovo nel timore, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi nel quale gridiamo: Abbà, Padre 69.

L’eterna ricompensa dei fedeli pazienti.
29. 26. Gridiamo dunque [a Dio] mossi dallo Spirito di carità; e finché non arriviamo al possesso di quell’eredità dove vivremo per sempre, esercitiamo la pazienza animati da amore filiale, non da timore servile. Finché siamo poveri, gridiamo attendendo d’essere arricchiti dell’eredità celeste. Da lassù abbiamo ricevuto grandi pegni quando Cristo si è fatto povero per arricchirci, e da lui, elevato al possesso delle ricchezze eterne, è stato inviato lo Spirito Santo, che suggerisce ai nostri cuori santi desideri. Noi infatti ora siamo dei poveri, che credono e non contemplano ancora, che sperano e non posseggono ancora; che sospirano col desiderio e ancora non regnano felici; hanno fame e sete e ancora non sono sazi: di questi poveri è la pazienza che non perisce in eterno 70, non perché anche lassù seguiterà ad esserci la pazienza dove non ci saranno mali da sopportare, ma, se si dice che non perisce in eterno, è perché non resterà infruttuosa. Non andrà perduta in eterno perché eterno sarà il suo frutto. Chi infatti lavorando consegue risultati inconsistenti, deluso nella speranza per la quale lavora, dice giustamente: « Ho sprecato tutto il mio lavoro ». Il contrario è di chi giunge a conseguire quanto si riprometteva con il suo lavoro.Tutto allegro dice: « Non ho sprecato il mio lavoro ». Si dice dunque di un lavoro che non è andato perduto non perché esso dura per sempre ma perché non è stato fatto invano. Così è della pazienza dei poveri di Cristo, degli eredi di Cristo che [da lui] saranno fatti ricchi. Essa non perisce in eterno non perché anche nell’aldilà ci sarà comandato di tollerare pazientemente qualcosa, ma perché godremo della beatitudine eterna in premio di ciò che ora abbiamo sopportato con pazienza. Colui che nel tempo ha dato alla volontà di essere paziente non permetterà che abbia fine la felicità, che è eterna. Pazienza e felicità sono infatti frutto della carità, che è anch’essa un dono [divino].

Publié dans:Sant'Agostino, santi scritti |on 7 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

SE MI AMI NON PIANGERE – SANT’AGOSTINO (preghiera)

http://www.papaboys.org/notizia-che-non-troverete-sui-giornaloni-gesu-ha-sconfitto-la-morte-per-sempre/

SE MI AMI NON PIANGERE – SANT’AGOSTINO (preghiera)

Non piangere per la mia dipartita.
Ascolta questo messaggio.
Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo
dove ora vivo;
se tu potessi vedere e sentire
ciò che io vedo e sento in questi orizzonti senza fine,
e in quella luce che tutto investe e penetra,
non piangeresti.
Sono ormai assorbito dall’incanto di Dio,
dalla sua sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo
sono così piccole e meschine al confronto.
Mi è rimasto l’affetto per te, una tenerezza
che non hai mai conosciuto.
Ci siamo visti e amati nel tempo:
ma tutto era allora fugace e limitato.
Ora vivo nella serena speranza
e nella gioiosa attesa del tuo arrivo tra noi.
Tu pensami così.
Nelle tue battaglia, orièntati a questa meravigliosa casa
dove non esiste la morte e dove ci disseteremo insieme,
nell’anelito più puro e più intenso,
alla fonte inestinguibile della gioia e dell’amore.
Non piangere, se veramente mi ami.

 

Publié dans:preghiere, Sant'Agostino |on 2 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO OMELIA 34 – LA LUCE DEL MONDO.

http://www.augustinus.it/italiano/commento_vsg/omelia_034.htm

SANT’AGOSTINO OMELIA 34 – LA LUCE DEL MONDO.

Rimanendo presso il Padre, Cristo è la verità e la vita; rivestendosi di carne, è diventato la via. Alzati, la via stessa è venuta a te. Alzati e cammina!

1. Certamente, tutti ci siamo sforzati di capire ciò che adesso abbiamo ascoltato e con attenzione abbiamo accolto dalla lettura del santo Vangelo, e ciascuno di noi, secondo la sua capacità, ha preso ciò che ha potuto da una ricchezza così grande; e sono certo che nessuno dovrà rammaricarsi di non aver potuto gustare in qualche modo il pane della Parola che ci è stato messo davanti. Ma non posso credere che qualcuno sia riuscito a capire tutto. Perciò, anche ammesso che ci sia qualcuno che ha compreso sufficientemente tutte le parole di nostro Signore Gesù Cristo, che adesso sono state proclamate, ci consenta di esercitare il nostro ministero, destinato, con l’aiuto del Signore e attraverso il commento del sacro testo, a far comprendere, se non a tutti, almeno a molti, ciò che ora solo pochi sono contenti di aver compreso. [Cristo luce del mondo, e fonte della vita.]

2. L’affermazione del Signore: Io sono la luce del mondo (Gv 8, 12), ritengo sia chiara a quanti hanno occhi che consentono loro di venire a contatto con questa luce; chi invece possiede soltanto gli occhi della carne, rimane sorpreso di fronte all’affermazione del Signore Gesù Cristo: Io sono la luce del mondo. Probabilmente non manca chi tra sé dice: forse Cristo Signore è questo sole che, sorgendo e tramontando, segna il giorno? Non sono mancati infatti degli eretici che così hanno pensato. I Manichei hanno creduto che Cristo Signore fosse questo sole, visibile agli occhi di carne, che apertamente compare alla vista non solo degli uomini, ma anche degli animali. Ma la retta fede della Chiesa cattolica riprova tale invenzione e sa che è un insegnamento del diavolo. E non soltanto lo sa per fede, ma lo dimostra anche, a chi può, con argomenti di ragione. Respingiamo, dunque, tale errore, che la santa Chiesa condannò fin dall’inizio. Non dobbiamo pensare che il Signore Gesù Cristo sia questo sole che vediamo nascere in oriente e tramontare in occidente, al cui corso segue la notte, i cui raggi vengono coperti dalle nubi e che con determinati movimenti si sposta da un luogo ad un altro. Non è questo Cristo Signore! Non è Cristo Signore un sole creato, ma colui per mezzo del quale il sole è stato creato. Tutto – infatti – per mezzo di lui è stato creato, e senza di lui niente è stato creato (Gv 1, 3). 3. Egli è, dunque, la luce che ha creato quella che vediamo Amiamola, questa luce, aneliamo alla sua comprensione, siamone assetati, affinché, sotto la sua guida, possiamo finalmente pervenire ad essa e vivere in essa, così da non morire mai più. Questa è la luce di cui un’antica profezia in un salmo ha cantato: Salverai gli uomini e gli animali, o Signore; secondo l’abbondanza della tua misericordia, o Dio (Sal 35, 7-8). Son parole del salmo ispirato. E notate come l’antico Testamento si esprime a proposito di questa luce: Tu salverai, o Signore, gli uomini e gli animali; secondo l’abbondanza della tua misericordia, o Dio. Siccome tu sei Dio e la tua misericordia è molteplice, questa tua misericordia si estende, non solo agli uomini che hai creato a tua immagine, ma anche agli animali che hai sottomesso agli uomini. Da chi dipende la salute degli uomini, dipende anche la salute degli animali. Non vergognarti di pensare così del Signore Iddio tuo; anzi sii sicuro, fidati, e guardati dal pensare in modo diverso. Chi dà la salute a te, la dà anche al tuo cavallo, alla tua pecora e, giù giù, fino alla tua gallina. Dal Signore viene la salvezza (Sal 3, 9), e Dio dà la salute anche a queste cose. Vedo che sei perplesso, che hai dei dubbi, ed io mi stupisco dei tuoi dubbi. Disdegnerà di salvare, colui che si è degnato di creare? Dal Signore viene la salvezza degli angeli, degli uomini, degli animali: dal Signore viene la salvezza. Come nessuno ha l’essere da sé, così nessuno si salva da sé; per cui con piena verità e ottimamente il salmo dice: Salverai, o Signore, gli uomini e gli animali. E perché? Perché molteplice è la tua misericordia, o Dio. Siccome tu sei Dio e mi hai creato, tu mi salvi; tu che mi hai dato l’essere, mi dài di essere sano.

[Bevi e vivi!] 4. Se dunque, nella sua molteplice misericordia, Dio salva gli uomini e gli animali; forse gli uomini non hanno qualcosa di particolare che Dio creatore concede ad essi e non concede agli animali? Forse che non esiste alcuna differenza tra il vivente creato ad immagine di Dio e il vivente sottomesso all’immagine di Dio? Certamente sì! Oltre questa salute che hanno anche gli animali, c’è qualcosa che Dio concede a noi e non concede ad essi. Che cos’è? Continua la lettura del salmo: I figli degli uomini, però, si rifugeranno all’ombra delle tue ali (Sal 35, 8). I figli degli uomini, che hanno già in comune la salute con i propri animali, si rifugeranno all’ombra delle tue ali. Possiedono una salute nella realtà presente, un’altra nella speranza: c’è una salute del tempo presente che gli uomini hanno in comune con gli animali, e ce n’è un’altra che gli uomini sperano, e la ricevono quelli che sperano, non quelli che disperano. I figli degli uomini – dice infatti il salmo – spereranno all’ombra delle tue ali. Coloro, dunque, che perseverano nella speranza, godono la tua protezione e il diavolo non può allontanarli dalla speranza: spereranno all’ombra delle tue ali. Ma che cosa spereranno se non ciò di cui sono privi gli animali? Saranno inebriati dall’abbondanza della tua casa, e li disseterai al torrente della tua dolcezza (Sal 35, 9). Che vino è questo di cui è bello inebriarsi? che vino è questo che non perturba ma illumina la mente, che anziché privarti della coscienza inebriandoti ti rende sapiente per sempre? Saranno inebriati. Di che cosa? Dell’abbondanza della tua casa, e li disseterai al torrente della tua dolcezza. In che modo? Perché presso di te è la fonte della vita (Sal 35, 10). La fonte stessa della vita camminava in terra e diceva: Chi ha sete venga a me e beva! (Gv 7, 37). Ecco la fonte. Ma noi si parlava della luce, si trattava il tema della luce propostoci dal Vangelo. Abbiam sentito l’affermazione del Signore: Io sono la luce del mondo. Donde la preoccupazione che qualcuno, guidato dalla sapienza carnale, identificasse questa luce con il sole: siamo giunti poi al salmo, con la guida del quale abbiamo trovato nel Signore la fonte piena della vita. Dunque, bevi e vivi. Presso di te – dice – è la fonte della vita e perciò i figli degli uomini spereranno all’ombra delle tue ali desiderosi di inebriarsi a questa fonte. Ma noi si parlava della luce Ebbene, prosegui la lettura del salmo, che dopo aver detto: Presso di te è la fonte della vita, aggiunge: E nella tua luce vedremo la luce (Sal 35, 10): Dio da Dio, luce da luce. Per mezzo di questa luce è stata creata la luce del sole; e la luce che ha creato il sole, sotto il quale ha creato anche noi, è diventato luce per noi sotto il sole. Sì, è diventato luce per noi sotto il sole colui che ha creato il sole. Non disprezzare la nube della carne: essa copre la luce, non per oscurarla ma per temperarne lo splendore. 5. Parlando, dunque, attraverso la nube della carne, la luce che non conosce tramonto, la luce della sapienza, dice agli uomini: Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita (Gv 8, 12). In che modo ti ha distolto dagli occhi della carne per richiamarti agli occhi del cuore? Non si è accontentato di dire: Chi segue me, non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce, ma ha aggiunto della vita, in linea col salmo che dice: Presso di te è la fonte della vita. Notate, fratelli, come concordano le parole del Signore con la verità del salmo: nel salmo la luce si trova unita alla fonte della vita, e il Signore parla di luce della vita. Nel linguaggio ordinario e commensurato alle cose d’ogni giorno, una cosa è la luce e un’altra è la fonte: la bocca cerca la fonte, gli occhi cercano la luce; quando abbiamo sete cerchiamo la fonte, quando siamo al buio cerchiamo la luce; e se abbiamo sete di notte, accendiamo la luce per cercare la fonte. In Dio non è così: luce e fonte sono la medesima cosa: colui che ti illumina perché tu veda, egli stesso è la fonte cui puoi dissetarti. 6. Guardate dunque, fratelli miei, guardate, se sapete guardare profondamente, la luce di cui parla il Signore dicendo: Chi segue me, non cammina nella tenebra. Segui questo sole materiale e vediamo se davvero non camminerai nelle tenebre. Eccolo che sorge e avanza verso di te; seguendo il suo corso si dirige verso occidente, e tu probabilmente sei diretto in oriente; se tu non vai in senso contrario al suo, seguendo la sua direzione senz’altro sbaglierai andando in occidente anziché in oriente. Sbaglierai tu che lo segui in terra, sbaglierà il marinaio che lo segue in mare. Insomma, se credi di dover seguire il corso del sole e ti dirigi anche tu verso occidente, al quale esso tende, vedremo, quando sarà tramontato, se tu non camminerai nelle tenebre. Ecco dunque che, anche se tu farai di tutto per non abbandonarlo, sarà lui ad abbandonarti, obbligato com’è a compiere ogni giorno, a nostro servizio, il suo corso. Invece nostro Signore Gesù Cristo, anche quando non si mostrava a tutti, avvolto com’era nella nube della carne, aveva tutto in mano con la potenza della sua sapienza. Il tuo Dio è tutto dappertutto; se tu non ti allontani da lui, egli non tramonterà mai per te.

[Cercare Dio da Dio.] 7. Chi segue me – dice – non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita. Ciò che ha promesso lo esprime con un verbo al futuro; non dice, infatti, « ha », ma dice avrà la luce della vita. E tuttavia non dice: chi mi seguirà, ma chi mi segue. Usa il presente per indicare ciò che dobbiamo fare, il futuro per indicare la promessa riservata a chi fa: Chi segue me, avrà. Adesso deve seguirmi, poi avrà; adesso deve seguirmi credendo, poi avrà; vedendo faccia a faccia. Finché siamo nel corpo – dice l’Apostolo – siamo esuli, lontani dal Signore; camminiamo infatti al lume della fede e non della visione (2 Cor 5, 6-7). Quando vedremo faccia a faccia? Quando avremo la luce della vita, quando saremo pervenuti alla visione, quando questa notte sarà trascorsa. Proprio di quel giorno che dovrà spuntare, è detto: Al mattino starò davanti a te, e ti contemplerò (Sal 5, 5). Perché al mattino? Perché sarà trascorsa la notte di questo mondo, saranno finiti gli incubi delle tentazioni, sarà vinto il leone che di notte va attorno ruggendo in cerca di chi divorare (cf. 1 Pt 5, 8). Al mattino starò davanti a te, e ti contemplerò. Adesso però, o fratelli, non credete che questo sia il tempo di fare quanto ancora si dice nel salmo: Vo bagnando ogni notte il mio letto, rigando di lacrime il mio giaciglio (Sal 6, 7)? Ogni notte, dice il salmista, piango; brucio dal desiderio della luce. Il Signore vede il mio desiderio; per questo in un altro salmo gli si dice: Ogni mio desiderio ti sta davanti, non ti è nascosto alcun mio gemito (Sal 37, 10). Cerchi l’oro? Non puoi tener nascosto il tuo desiderio: se cerchi l’oro, tutti se ne accorgeranno. Desideri del grano? Ti rivolgi a chi ce l’ha, manifestandogli il desiderio che hai di averlo. Desideri Dio? Chi vede questo desiderio se non Dio? A chi puoi chiedere Dio, così come chiedi il pane, l’acqua, l’oro, l’argento, il grano? A chi ti rivolgerai per avere Dio, se non a Dio? Si chiede Dio a Dio, che ha promesso se stesso. Si dilati la tua anima per il grande desiderio, si protenda in avanti e sempre più si renda capace di accogliere ciò che l’occhio non vede, ciò che l’orecchio non ode, e di cui il cuore umano non ha esperienza (cf. 1 Cor 2, 9). Dio puoi desiderarlo, puoi appassionatamente cercarlo, puoi anelare a lui con tutta l’anima; ma non puoi concepirlo in maniera adeguata e tanto meno esprimerlo a parole. 8. Dunque, fratelli miei, dato che il Signore dice in breve: Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nella tenebra, ma avrà la luce della vita, e con queste brevi parole comanda una cosa e ne promette un’altra, facciamo ciò che comanda in modo da non far cattiva figura quando desideriamo ciò che promette, e non dover temere che nel giudizio debba dirci: Hai fatto ciò che ti ho comandato, per esigere ciò che ti ho promesso? Cosa mi hai dunque comandato, Signore Dio nostro? Di seguirmi, ti risponde. Tu hai chiesto un consiglio per avere la vita; ma quale vita, se non quella di cui è stato detto: Presso di te è la fonte della vita? Un tale si sentì dire: Va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi (Mt 19, 21). Quel tale se ne andò triste e non lo seguì. Era andato a cercare il maestro buono, lo aveva interrogato come dottore e non lo ascoltò come maestro. Si allontanò triste, legato ancora alle sue cupidigie, carico del pesante fardello della sua avarizia. Era affaticato, non ce la faceva più; ma anziché seguire colui che voleva liberarlo dal suo pesante fardello, preferì allontanarsi e abbandonarlo. Ma dopo che il Signore fece sentire la sua voce per mezzo del Vangelo: Venite a me voi tutti che siete stanchi e aggravati, e io vi ristorerò; prendete sopra di voi il mio giogo, e imparate da me che sono mite ed umile di cuore (Mt 11, 28-29), quanti, ascoltando il Vangelo, si misero a fare ciò che non fece quel ricco che aveva raccolto l’invito direttamente dalle labbra del Signore? Mettiamoci a farlo anche noi adesso, seguiamo il Signore, liberandoci dalle catene che ci impediscono di seguirlo. Ma chi potrà liberarsi da tali catene senza l’aiuto di colui al quale è detto: Hai spezzato le mie catene (Sal 115, 16)?, del quale un altro salmo dice: Il Signore scioglie i prigionieri, il Signore raddrizza i curvati (Sal 145, 8)? 9. Cosa seguono coloro che sono stati liberati e raddrizzati, se non la luce dalla quale si sentono dire: Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nella tenebra? Sì, perché il Signore illumina i ciechi. Noi veniamo ora illuminati, o fratelli, con il collirio della fede. Egli dapprima mescolò la sua saliva con la terra per ungere colui che era nato cieco (cf. Gv 9, 6). Anche noi siamo nati ciechi da Adamo, e abbiamo bisogno di essere da lui illuminati. Egli mescolò la saliva con la terra: Il Verbo si è fatto carne, e abitò fra noi (Gv 1, 14). Mescolò la saliva con la terra, perché era stato predetto: La verità è uscita dalla terra (Sal 84, 12), ed egli dice: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Noi godremo pienamente della verità quando lo vedremo faccia a faccia. Anche questo, infatti, ci è stato promesso. E chi oserebbe sperare ciò che Dio non si fosse degnato promettere o dare? Lo vedremo faccia a faccia. Dice l’Apostolo: Adesso conosco in parte, adesso vedo in modo enigmatico come in uno specchio, allora invece faccia a faccia (1 Cor 13, 12). E l’apostolo Giovanni nella sua epistola aggiunge: Carissimi, già adesso noi siamo figli di Dio, ma ancora non si è manifestato ciò che saremo; sappiamo infatti che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è (1 Io 3, 2). Che grande promessa è questa! Se lo ami, seguilo! Io lo amo, – tu dici – ma per quale via debbo seguirlo? Vedi, se il Signore tuo Dio ti avesse detto soltanto: Io sono la verità e la vita, il tuo desiderio della verità e il tuo anelito per la vita ti spingerebbero a cercare la via per poter giungere all’una e all’altra, o diresti a te stesso: che grande cosa la verità, che grande cosa la vita, oh se l’anima mia sapesse come giungervi! Cerchi la via? Ascolta il Signore; è la prima cosa che egli ti dice. Ti dice: Io sono la via; la via per arrivare dove? e sono la verità e la vita. Prima ti dice che via devi prendere, poi dove devi arrivare: Io sono la via, io sono la verità, io sono la vita. Dimorando presso il Padre, egli è la verità e la vita; rivestendosi di carne, è diventato la via. Non ti è detto: sforzati di cercare la via per giungere alla verità e alla vita; non ti è stato detto questo. Pigro, alzati! la via stessa è venuta a te e ti ha scosso dal sonno; e se è riuscita a scuoterti, alzati e cammina! Forse tenti di camminare e non riesci perché ti dolgono i piedi; e ti dolgono perché, forse spinto dall’avarizia, hai percorso duri sentieri. Ma il Verbo di Dio è venuto a guarire anche gli storpi. Ecco, dici, io ho i piedi sani, ma non riesco a vedere la via. Ebbene, egli ha anche illuminato i ciechi. 10. Fintantoché, dimorando nel corpo, siamo esuli dal Signore, ci tocca camminare nella fede; ma quando avremo percorso la via e saremo giunti in patria, gusteremo la più grande letizia, godremo la più completa beatitudine. Sarà perfetta pace, perché cesserà ogni contrasto. Frattanto, o fratelli, è difficile che riusciamo a vivere senza contesa. Siamo chiamati a vivere nella concordia, ci è comandato di essere in pace con tutti; dobbiamo sforzarci e impegnare tutte le nostre energie nell’intento di giungere finalmente alla pace più completa; e tuttavia litighiamo per lo più con quelli stessi che sono oggetto delle nostre premure. C’è chi sbaglia e tu vuoi ricondurlo sulla retta via; egli ti oppone resistenza e tu litighi; ti oppone resistenza il pagano, e tu polemizzi contro gli errori degli idoli e dei demoni; ti oppone resistenza l’eretico, e tu attacchi altre dottrine diaboliche; il cattivo cattolico non vuole vivere bene e tu rimproveri anche questo tuo fratello che vive con te: è con te sotto il medesimo tetto ed è sulla via della perdizione; ti struggi nel tentativo di correggerlo, dovendo rendere conto di lui al Signore tuo e suo. Quanti motivi di contese d’ogni parte! Qualche volta, stanco di lottare, uno dice: chi me lo fa fare, di continuare a sopportare quelli che mi contrariano e quelli che mi rendono male per bene? Io voglio aiutarli, ma essi vogliono perdersi; passo la mia vita a litigare, non sono mai in pace; inoltre mi faccio nemici quelli stessi che dovrei avere amici, se tenessero conto della mia premura per loro; perché devo sopportare tutto questo? Voglio ritirarmi da tutto, starmene solo, badare a me stesso e invocare il mio Dio. Sì, rifugiati dentro di te, e anche in te troverai la lotta. Se hai cominciato a seguire Dio, in te ci sarà la lotta. Quale lotta? La carne ha desideri contrari a quelli dello spirito, e lo spirito desideri contrari a quelli della carne (cf. Gal 5, 17). Ora eccoti, sei solo, solo con te stesso; non devi sopportare nessuno; ma vedi nelle tue membra un’altra legge in contrasto con la legge del tuo spirito, e che tende a renderti schiavo della legge del peccato che è nelle tue membra. Alza, dunque, la tua voce e, in mezzo alla lotta che è dentro di te, grida verso Dio, affinché egli ti metta in pace con te stesso: Infelice uomo che io sono! Chi mi libererà da questo corpo che mi vota alla morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (Rm 7, 24-25). Perché chi segue me – dice il Signore – non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. Una volta risolto ogni contrasto, si conseguirà l’immortalità, perché la morte, ultima nemica, sarà distrutta (1 Cor 15, 26). E quale pace sarà? E’ necessario che questo corpo corruttibile rivesta l’incorruttibilità, e questo corpo mortale rivesta l’immortalità (1 Cor 15, 53). Per giungere a questo, che sarà allora una realtà posseduta, seguiamo ora nella speranza colui che dice: Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.

28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO

http://www.monasterovirtuale.it/la-patristica/breve-profilo-biografico-di-s.-agostino.html

28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO

Agostino nacque il 13 novembre 354 a Tagaste (Souk-Ahras) nella Numidia. Non sappiamo se i suoi genitori fossero di pura origine romana. Il padre, Patrizio, impiegato municipale, entrò nella Chiesa come catecumeno solo nei suoi ultimi anni e fu battezzato poco prima della morte (371). La madre, Monica, era invece cristiana zelante. Agostino ricevette a Tagaste la prima istruzione, e poiché, per volontà del padre, era destinato a diventare rètore, proseguì i suoi studi nella vicina Madaura. Di qui passò nel 371 a Cartagine per seguirvi i corsi di retorica e diritto. Là da una relazione irregolare – durata fino al 384 – ebbe nel 372 un figlio, Adeodato. Disprezzava, in quel tempo, la religione di sua madre, quasi fosse, lo dice egli stesso, un insieme di « leggende da vecchierelle ». Allorché, nel 373, lesse, secondo il programma degli studi, il dialogo « Hortensius » di Cicerone, cominciò a sentire l’anelito verso una concezione del mondo fondata su basi filosofiche. Poco dopo si iscrisse come esterno (auditor) al Manicheismo, che a lui, superbo della sua scienza, appariva, in opposizione al Cristianesimo insegnato dalla Chiesa, come la religione dei lumi, libera da ogni autorità, vera forma di Cristianesimo. Nel 374/75, terminati gli studi, Agostino si stabilì a Tagaste come insegnante delle arti liberali, ma trasferì poco dopo la sua scuola a Cartagine (375/83). Sul finire di questo periodo della sua vita, i dubbi sulla verità del sistema manicheo andarono aumentando sempre più: quella cosmologia gli sembrò inconciliabile con la dottrina insegnata dalla filosofia greca, e si avvide che il dualismo insegnato dai Manichei era in contraddizione con il loro concetto della divinità.

Finì di disilluderlo un’intervista che ebbe col famoso vescovo manicheo Fausto di Milevi, nel quale egli non trovò che un parolaio poco dotto. Tuttavia anche a Roma, dove si era portato nel 383 contro la volontà della madre, avvicinò gli amici manichei. Agli inzi del 384, per i buoni uffici del prefetto pagano di Roma Simmaco, ottenne un posto di insegnante di retorica a Milano messo a concorso dallo Stato. Malgrado questa situazione sicura e onorata, e benché la madre ed altri prossimi parenti abitassero allora con lui, Agostino si sentiva nel suo interno più tormentato ed infelice che mai. Ma ascoltando i sermoni di S. Ambrogio, vescovo di Milano, che per lo più spiegava allegoricamente il testo biblico corrente, trovò una luce nuova. Nel decisivo 386, Agostino, che lottava per una nuova concezione del mondo, avrebbe conosciuto per la prima volta le dottrine neoplatoniche. La lettura dei trattati di Plotino già tradotti in latino, attraverso i quali incominciò a concepire Dio come sostanza puramente spirituale e il male come un nulla, gli recò un grande progresso intellettuale. Il sacerdote Simpliciano, di orientamento neoplatonico, che poi succederà ad Ambrogio nella sede vescovile di Milano, gli dimostrò come la speculazione sul Logos del prologo giovanneo completasse la dottrina di Plotino intorno al Nous. Così, attraverso la filosofia, gli si schiuse una via verso la fede nell’eterno Logos-Dio. Lo stesso Simpliciano attirò l’attenzione di Agostino sull’importanza della lettura delle lettere di Paolo. In esse capì che l’uomo, soltanto attraverso la grazia divina, riesce a raggiungere il fine cui tende: l’unione con Dio mediante la fede, che egli, come neoplatonico, aveva sperato di raggiungere con l’aiuto della meditazione filosofica.

In un’ora in cui la lotta tumultuava più violenta che mai nel suo spirito, gli fu additato da Simpliciano, con quale fermezza e risolutezza il celebre rètore Mario Vittorino avesse superato, alla fine, tutti gli impedimenti che si erano frapposti alla sua entrata nella Chiesa, e un’altra volta un amico gli narrò la vita di austero ascetismo dell’anacoreta Antonio e di altri monaci e romiti.Quella fu per lui l’ora della decisione. Pervaso da un’emozione profonda, si precipitò nel giardino e sentì ripetutamente una voce infantile che gli diceva: « Tolle, Lege ». Aperse il libro delle epistole di S. Paolo e lesse il tratto di quella ai Romani 13, 13 s. D’improvviso « svanì ogni nebbia di dubbio » (Conf. 8, 12). Poche settimane più tardi, nell’autunno del 386, rinunziò all’insegnamento e si ritirò in campagna, a Cassiciacum, nel podere di un amico, in attesa di iscriversi, all’inizio della prossima quaresima, tra i catecumeni che si preparavano al battesimo. Chiari indizi ci dicono che Agostino già qualche tempo prima della suddetta « scena del giardino » era fermamente deciso a farsi cristiano e sottomettersi all’autorità della Chiesa, come quella che rappresentava la verità cui egli da molto tempo aspirava. Dalla commovente descrizione della sua conversione (Conf. 8, 6-12) noi apprendiamo anzitutto che il rètore, già intimamente credente, era pervenuto, rinunciando a ricchezza ed onori, a scegliere la via, che allora giudicava la più perfetta, della castità e della rinuncia al matrimonio. Con lo spirito libero dai ceppi della sensualità e della passione, volle poi dedicarsi tutto e per sempre alla ricerca della verità e così conseguire la felicità. Agostino ricevette il battesimo il Sabato santo, 23 aprile, del 387, assieme al figlio e all’amico Alipio, per mano di S.Ambrogio.

Alcuni mesi dopo intraprese il viaggio di ritorno in Africa, passando per Roma. Ad Ostia, poco prima di imbarcarsi, Monica si ammalò e dopo nove giorni morì. Allora Agostino tornò a Roma e qui si trattenne circa un anno, occupato in lavori letterari. Nell’autunno del 388 rientrò a Tagaste ove visse nella casa paterna per tre anni con alcuni amici, in claustrale ritiro. La fama della sua dottrina e della sua pietà era già così grande, che nel 391, durante un suo soggiorno ad Ippona, mentre assisteva, senza alcun sospetto, all’ufficio divino, il vescovo Valerio, su richiesta dei presenti, nonostante la sua resistenza, lo ordinò prete. Così ha inizio un nuovo periodo della sua evoluzione spirituale. L’interesse che portava agli studi filosofici e alla cultura delle arti liberali cedette il posto a un orientamento puramente teologico e all’attività apostolica inerente alla sua dignità nuova. Anche ad Ippona, come già a Tagaste, fondò un monastero ove viveva in comune con i vecchi amici e le nuove reclute. Nel 395 il vescovo Valerio lo fece consacrare suo ausiliare, cosicché alla sua morte (396) Agostino ne occupò il posto. Continuò col suo clero a condurre vita cenobitica. Si occupò con zelo particolare della predicazione e fu instancabile nella cura dei poveri. L’attività di scrittore impegnò sempre una gran parte delle sue forze, e furono soprattutto le questioni e controversie religiose del suo tempo ad assorbirlo. S.Agostino morì a Ippona il 28 agosto del 430, mentre i Vandali tenevano assediata la città. Dopo la caduta di questa, i suoi resti furono trasportati in Sardegna e, nel 722, da Liutprando a Pavia. 

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SANT’AGOSTINO, LE CONFESSIONI, LIBRO XI: LA PAROLA CREATRICE DI DIO

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SANT’AGOSTINO, LE CONFESSIONI, LIBRO XI: LA PAROLA CREATRICE DI DIO

Ricorso a Dio per comprendere le Scritture
3. 5. Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra 44. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole, presterei le orecchie del mio corpo ai suoni sgorganti dalla sua bocca. Se parlasse in ebraico, invano busserebbe ai miei sensi 45 e nulla di lì giungerebbe alla mia mente. Se invece in latino, saprei che dice; ma come saprei se dice il vero? E anche se lo sapessi, da lui lo saprei? Dentro di me piuttosto, nell’intima dimora del pensiero la verità, non ebraica né greca né latina né barbara, mi direbbe, senza strumenti di bocca e di lingua, senza suono di sillabe: « Dice il vero ». E io subito direi sicuro, fiduciosamente a quel tuo uomo: « Dici il vero ». Invece non lo posso interrogare; quindi mi rivolgo a te, Verità 46, Dio mio, da cui era pervaso quando disse cose vere; mi rivolgo a te: perdona i miei peccati 47. E tu, che concedesti al tuo servo di enunciare questi veri, concedi anche a me di capirli 48.

Esistenza e creazione del mondo
4. 6. Ecco che il cielo e la terra esistono, proclamano con i loro mutamenti e variazioni la propria creazione. Ma tutto ciò che non è stato creato e tuttavia esiste, nulla ha in sé che non esistesse anche prima, poiché questo sarebbe un mutamento e una variazione. Ancora proclamano di non essersi creati da sé: « Esistiamo, per essere stati creati. Dunque non esistevamo prima di esistere, per poterci creare da noi ». La voce con cui parlano è la loro stessa evidenza. Tu dunque, Signore, li creasti, tu che sei bello, poiché sono belli; che sei buono, poiché sono buoni; che sei, poiché sono. Non sono così belli, né sono così buoni, né sono così come tu, loro creatore, al cui confronto non sono belli, né son buoni, né sono. Lo sappiamo, e ne siano rese grazie a te, sebbene il nostro sapere paragonato al tuo sia un ignorare.

Attività umana e creazione divina
5. 7. Ma come creasti il cielo e la terra 49? quale strumento impiegasti per un’operazione così grande? Non ti accadde certamente come a un uomo, che, artista, riproduce in un corpo le forme di un altro corpo seguendo i cenni dello spirito, capace d’imporre entro certi limiti le immagini che vede dentro di sé con l’occhio interiore: e come sarebbe capace di tanto, se non per essere stato creato da te? Lo spirito impone le sue immagini su qualcosa che già esiste e possiede quanto basta per esistere, come la terra o la pietra o il legno o l’oro o qualsiasi altro materiale di tale genere. Ora, fuori dalla tua azione, da dove potrebbero derivare queste materie? Tu desti all’artista un corpo, tu uno spirito, che comanda le membra, tu la materia, con cui attua l’opera, tu l’ingegno, con cui acquistare l’arte e vedere dentro ciò che attuerà fuori di sé; tu i sensi del corpo, per il cui mezzo trasferire dallo spirito alla materia l’opera e ragguagliare poi lo spirito sulla sua attuazione, affinché quest’ultimo consulti in se stesso la verità che lo governa, sulla bontà dell’opera attuata. Tutte queste cose ti lodano come creatore di tutte le cose. Ma tu come le crei? come creasti, o Dio, il cielo e la terra? Non certo in cielo e in terra creasti il cielo e la terra; nemmeno nell’aria o nell’acqua, che pure appartengono al cielo e alla terra. Nemmeno creasti l’universo nell’universo, non esistendo lo spazio ove crearlo, prima di crearlo perché esistesse. Né avevi fra mano un elemento da cui trarre cielo e terra: perché da dove lo avresti preso, se non fosse stato creato da te, per crearne altri? ed esiste qualcosa, se non perché esisti tu? Dunque tu parlasti, e le cose furono create 50; con la tua parola le creasti 51.

Parola umana e Verbo divino
6. 8. Ma come parlasti? Forse così, come uscì la voce dalla nube e disse: « Questo è il Figlio mio diletto » 52? Fu, quella, una voce che si produsse e svanì, ebbe un principio e una fine; le sue sillabe risuonarono e trapassarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda e così via, ordinatamente, fino all’ultima dopo tutte le altre, e al silenzio dopo l’ultima. Ne risulta chiaramente che venne prodotta dal moto di una cosa creata, ministra temporale della tua verità eterna; e queste tue parole formate temporaneamente furono trasmesse dall’orecchio esteriore alla ragione intelligente, il cui orecchio interiore è accostato alla tua parola eterna. Ma la ragione, confrontando queste parole risuonate nel tempo, con la tua parola silenziosa nell’eternità, disse: « È cosa assai diversa, assai diversa. Queste parole sono assai più in basso di me, anzi neppure sono, poiché fuggono e passano. La parola del mio Dio invece permane sopra di me eternamente 53″. Se dunque con parole sonore e passeggere ti esprimesti per creare il cielo e la terra, e così creasti il cielo e la terra, esisteva già prima del cielo e della terra una creatura corporea, i cui movimenti, avvenendo nel tempo, trasmettevano temporaneamente quella voce. Ma prima del cielo e della terra non esisteva alcun corpo, o, se esisteva, l’avevi creato certamente senza una voce passeggera, per trarne una voce passeggera con cui dire che fossero creati il cielo e la terra. Qualunque fosse l’elemento necessario a formare una tale voce, non sarebbe affatto esistito fuori dalla tua creazione; ma per creare il corpo necessario a tali parole, con quali parole avresti parlato?

Eternità del Verbo
7. 9. Così ci chiami a comprendere il Verbo, Dio presso te Dio 54, proclamato per tutta l’eternità e con cui tutte le cose sono proclamate per tutta l’eternità. In esso non finiscono i suoni pronunciati, né altri se ne pronunciano perché tutti possano essere pronunciati, ma tutti insieme ed eternamente sono pronunciati. In caso diverso vi si troverebbe già il tempo, e mutamenti, e non vi sarebbe vera eternità né vera immortalità. Lo so, Dio mio, e ti ringrazio 55; lo so, te lo confesso, Signore, e lo sa con me, e ti benedice, chiunque non è ingrato verso la verità sicura. Noi sappiamo, Signore, sì, sappiamo che una cosa muore e nasce in quanto cessa di essere ciò che era, e comincia a essere ciò che non era. Nulla dunque nella tua parola scompare o appare, poiché davvero è immortale ed eterna. Con questa parola coeterna con te enunci tutto assieme e per tutta l’eternità ciò che dici, e si crea tutto ciò di cui enunci la creazione. Non in altro modo, se non con la parola, tu crei; ma non per questo si creano tutte assieme e per tutta l’eternità le cose che con la parola crei.

Il Verbo nel tempo
8. 10. Perché ciò, di grazia, Signore Dio mio? Lo vedo in qualche modo, ma come esprimerlo non so. Forse così: ogni essere che comincia e finisce, comincia e finisce quando la tua ragione eterna riconosce che doveva cominciare o finire, la tua ragione, ove nulla comincia né finisce. Questa ragione appunto è il tuo Verbo, che è anche il principio, perché anche ci parla 56. Parlò nel Vangelo mediante la carne e risuonò esteriormente alle orecchie degli uomini, affinché credessero in lui e lo cercassero in sé e lo trovassero nella verità eterna, ove il buono e unico Maestro 57 istruisce tutti i suoi discepoli. Ivi odo la tua voce, Signore, la quale mi dice che chi ci parla ci istruisce, chi non ci istruisce, per quanto parli, non ci parla. Ora, chi ci istruisce, se non la verità immutabile? Anche quando siamo ammoniti da una creatura mutabile, siamo condotti alla verità immutabile, ove davvero impariamo, ascoltando immoti. Ci prende la gioia alla voce dello sposo 58, che ci restituisce a Colui da cui veniamo. Perciò è il principio. Se non fosse stabile, mentre noi erriamo, non avremmo dove ritornare. Invece quando torniamo dai nostri errori, torniamo appunto perché conosciamo, e conosciamo perché lui ci insegna, in quanto è il Principio e ci parla 59.

Il lume della Sapienza
9. 11. In questo principio, o Dio, creasti il cielo e la terra 60: cioè nel tuo Verbo, nel tuo figlio, nella tua virtù, nella tua sapienza, nella tua verità, con una parola straordinaria compiendo un atto straordinario. Chi potrà comprenderlo? chi descriverlo? Cos’è, che traspare fino a me e mi colpisce il cuore senza ferirlo? Timore e ardore mi scuotono: timore, per quanto ne sono dissimile; ardore, per quanto ne sono simile. La Sapienza, la vera Sapienza traspare fino a me, squarciando le mie nubi, che mi ricoprono, quando nuovamente mi allontano da lei, entro l’alta foschia del mio castigo. Il mio vigore si è indebolito nell’indigenza 61 tanto da non poter tollerare il mio bene; finché tu, Signore, divenuto benigno verso tutte le mie malvagità, guarisca ancora tutte le mie debolezze. Riscatterai dalla corruzione la mia vita, m’incoronerai di commiserazione e misericordia, sazierai nei beni il mio desiderio, perché la mia giovinezza si rinnoverà come quella dell’aquila 62. Nella speranza fummo salvati e con pazienza attendiamo 63 le tue promesse. Chi può, ascolti la tua parola dentro di sé; io fiducioso griderò col tuo oracolo: « Quale magnificenza, Signore, le tue opere; tu creasti tutto nella tua sapienza » 64. Essa è il principio, e in quel principio creasti il cielo e la terra.

CIÒ CHE MARIA CREDETTE DIVENNE IN LEI REALTÀ – SANT’AGOSTINO, SERMONE 215, 4

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20011223_agostino_it.html

CIÒ CHE MARIA CREDETTE DIVENNE IN LEI REALTÀ

SANT’AGOSTINO, SERMONE 215, 4.

4. « Perciò crediamo in Gesù Cristo nostro Signore, nato da Spirito Santo e da Maria Vergine. La Vergine Maria partorì credendo quel che concepì credendo. Infatti quando le fu promesso il figlio, essa domandò come questo sarebbe successo, dato che non conosceva uomo (e naturalmente le era noto quale fosse il solo modo di conoscere e partorire, ossia che l’uomo nasce dall’unione del maschio e della femmina, modo che essa non aveva sperimentato, ma che aveva appreso dalla normale frequentazione delle altre donne).
E l’angelo le rispose: «Lo Spirito Santo scenderà su di te; su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo; colui dunque che nascerà da te sarà santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1, 35). E dopo che l’angelo ebbe detto così, essa, piena di fede e concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me secondo la tua parola» (Lc 1, 38). Ossia avvenga la concezione nella Vergine senza seme di uomo; nasca da Spirito Santo e da una donna integra colui per il quale integra possa rinascere da Spirito Santo la Chiesa.
Il santo che nascerà dalla parte umana della madre senza l’apporto umano del Padre si chiami Figlio di Dio; colui che è nato da Dio Padre senza alcuna madre, doveva in modo meraviglioso diventare figlio dell’uomo, e così, nato in quella carne, poté uscire piccolo attraverso viscere chiuse, e grande, risuscitato, poté entrare attraverso porte chiuse. Sono cose meravigliose, perché divine; indescrivibili, perché inscrutabili; non è in grado di spiegarlo la bocca dell’uomo, perché non è in grado di esprimerlo il cuore dell’uomo. Maria credette e in lei quel che credette si avverò.
Crediamo anche noi, perché quello che si avverò possa giovare anche a noi. Per quanto infatti anche questa nascita sia ammirabile, tuttavia, o uomo, tu puoi pensare che cosa il tuo Dio si è fatto per te, il Creatore per la creatura; il Dio che è sempre in Dio, l’Eterno che vive con l’Eterno, il Figlio uguale al Padre non ha disdegnato di rivestirsi della condizione di servo per dei servi empi e peccatori. E questa non è stata ricompensa per dei meriti umani; per le nostre iniquità semmai noi meritavamo delle pene; ma se egli avesse tenuto conto delle colpe, chi avrebbe potuto sussistere? (cf. Sal 129, 3). È quindi per dei servi empi e peccatori che il Signore si è degnato di nascere servo e uomo dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. »

PREGHIERA

Ave Maria e Sub tuum – Madre di Dio Vergine, salve, piena di grazia, il Signore è con te (Lc 1, 28); benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo (Lc 1, 42), perché tu hai generato il Salvatore delle nostre anime.
Sotto la tua misericordia ci rifugiamo, o Madre di Dio: non disprezzare le nostre suppliche nelle tentazioni, ma liberaci dai pericoli, o sola pura, sola benedetta.

A cura della Pontificia Facoltà Teologica «Marianum»

LA QUARESIMA CON SANT’AGOSTINO

http://www.augustinus.it/varie/quaresima/

LA QUARESIMA CON SANT’AGOSTINO

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto
per essere tentato dal diavolo.
(Mt 4, 1)
Come per la disobbedienza di uno solo sono stati costituiti peccatori,
così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
(Rom 5, 19)

INTRODUZIONE
Dai tempi di Adamo l’uomo è chiamato a dar prova della sua fedeltà a Dio di fronte alle tentazioni del maligno. La capacità di scegliere Dio al posto di Satana è messa sempre in discussione. Ecco allora ci viene in aiuto l’insegnamento di Cristo tentato nel deserto: « se Egli non avesse vinto il tentatore, in qual modo tu avresti imparato a combattere contro il tentatore? ». Le tre tentazioni diaboliche riassumono i tre lati deboli della vita dell’uomo: il possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali (le pietre da trasformare in pane); la ricerca di un potere egoistico ed oppressivo (il possesso dei regni della terra); il desiderio di onnipotenza (rifiuto di adorare Dio). Per vincere queste prove l’uomo dispone di uno strumento infallibile: la Parola di Dio. Riscriviamo allora un detto di Agostino: quando sei colto dai morsi della fame – e noi aggiungiamo anche della tentazione – lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita.

 

DALLE « ESPOSIZIONI SUI SALMI » DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (En. in Ps. 90, d. 2, 6-7)

La tentazione di Cristo è di grande ammaestramento per il cristiano

Il Signore fu battezzato; dopo il battesimo fu tentato e infine digiunò per quaranta giorni, per adempiere un mistero di cui spesso vi ho parlato. Non si possono dire tutte le cose in una volta per non sciupare del tempo prezioso. Dopo quaranta giorni il Signore ebbe fame. Avrebbe potuto anche non provare mai la fame; ma, se cosìavesse fatto, in qual modo sarebbe stato tentato? E se egli non avesse vinto il tentatore, in qual modo avresti tu imparato a combattere contro il tentatore? Ebbe fame, ho detto; e subito, il tentatore: Di’ a queste pietre che diventino pani, se sei il Figlio di Dio (Mt 4, 3). Era forse una gran cosa per il Signore Gesù Cristo cambiare le pietre in pane? Non fu lui che con cinque pani saziò tante migliaia di persone? (cf. Mt 14, 17-21). Quella volta creò il pane dal nulla. Donde fu presa infatti una così grande quantità di cibo che bastò a saziare tante migliaia di persone? Le fonti del pane erano nelle mani del Signore. Non c’è niente di strano in questo: infatti, colui che di cinque pani ne fece tanti da saziare tutte quelle migliaia di persone, è lo stesso che ogni giorno trasforma pochi grani nascosti in terra in messi sterminate. Anche questi sono miracoli del Signore ma, siccome avvengono di continuo, noi non diamo loro importanza. Ebbene, fratelli, era forse impossibile al Signore fare dei pani con le pietre? Con le pietre egli fa degli uomini, come diceva lo stesso Giovanni Battista. Dio è capace di suscitare da queste pietre figli per Abramo (Mt 3, 9). Perché dunque non operò il miracolo? Per insegnarti come devi rispondere al tentatore. Poni il caso che ti trovi nell’afflizione. Ecco venire il tentatore e suggerirti: Tu sei cristiano e appartieni a Cristo; perché ti avrà ora abbandonato? Perché non ti manda il suo aiuto? Ricordati del medico. Talora egli taglia e per questo sembra che abbandoni; ma non abbandona. Come capitò a Paolo, il quale non fu esaudito proprio perché doveva essere esaudito. Paolo dice infatti che non fu esaudita la preghiera con cui chiedeva gli fosse tolto il pungiglione della carne, l’angelo di satana che lo schiaffeggiava, e aggiunge: Per questo pregai tre volte il Signore affinché me lo togliesse. In risposta egli mi disse: Ti basta la mia grazia, infatti la virtù si perfeziona nella debolezza (2 Cor 12, 8-9). Siate perciò forti, fratelli! Se talvolta siete tentati da qualche strettezza, è Dio che vi flagella per mettervi alla prova: egli che vi ha preparato e vi conserva l’eredità eterna. E non lasciate che il diavolo vi dica: Se tu fossi giusto, non ti manderebbe forse Dio il pane per mezzo di un corvo, come lo mandò ad Elia (1 Re 17, 6)? Non hai forse letto le parole: Mai ho visto il giusto abbandonato né la sua discendenza mendicare il pane (Sal 36, 25)? Rispondi al diavolo: È vero quello che dice la Scrittura: Mai ho visto il giusto abbandonato né la sua discendenza mendicare il pane; ho infatti un mio pane che tu non conosci. Quale pane? Ascolta il Signore: Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola di Dio (Mt 4, 4). Non credi che la parola di Dio sia pane? Se non fosse pane il Verbo di Dio, per cui mezzo sono state fatte tutte le cose, il Signore non direbbe: Io sono il pane vivo, io che sono disceso dal cielo (Gv 6, 41). Hai dunque imparato che cosa devi rispondere al tentatore quando sei colto dai morsi della fame.

E che dirai se il diavolo ti tenta dicendoti: Se tu fossi cristiano faresti miracoli come ne fecero, molti antichi cristiani? Ingannato da questo malvagio suggerimento, ti potrebbe venire la voglia di tentare il Signore Dio tuo, dicendogli: Se sono cristiano, se lo sono dinanzi ai tuoi occhi e tu mi annoveri nel numero dei tuoi, concedimi di fare anch’io qualcuna delle gesta che compirono i tuoi santi. Hai tentato Dio pensando che non saresti cristiano se non facessi tali cose. Molti sono caduti proprio per il desiderio di tali gesta portentose… Ebbene, che cosa devi rispondere per non tentare Dio se il diavolo ti tentasse dicendoti: Fa’ miracoli? Rispondi ciò che rispose il Signore. Il diavolo gli disse: Gettati giù, perché sta scritto che egli ha comandato ai suoi angeli di occuparsi di te, di sollevarti nelle loro mani perché tu non inciampi con il piede nella pietra (Mt 4, 6). Voleva suggerirgli: Se ti butterai giù gli angeli ti sosterranno. Poteva certamente accadere, fratelli, che, se il Signore si fosse buttato nel vuoto, gli angeli devotamente avrebbero sostenuto la sua carne. Invece egli che cosa rispose? Sta scritto anche: Non tenterai il Signore Dio tuo (Mt 4, 7). Tu mi credi un uomo, rispose. Per questo infatti il diavolo gli si era avvicinato, per provare se fosse o no Figlio di Dio. Egli vedeva solo la carne, mentre la maestà si palesava attraverso le opere, e gli angeli gliene avevano reso testimonianza. Il diavolo dunque lo vedeva mortale e per questo lo tentò; ma la tentazione di Cristo è stata di grande ammaestramento per il cristiano. Che cosa è dunque ciò che sta scritto? Non tenterai il Signore Dio tuo! Non tentiamo perciò il Signore dicendo: Se apparteniamo a te, concedici di fare miracoli.

IN BREVE…
(Cristo) si è fatto per noi via in questo esilio, in modo che noi camminando in lui non ci smarriamo, non veniamo meno, non ci imbattiamo nei ladroni, non cadiamo nelle trappole. (En. in Ps. 90, d. 2, 1)

 

Sant’Agostino, L’amore di Dio e amore del mondo,6-7

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PERDERE LA VITA PER SALVARE L’ANIMA.

Sant’Agostino, L’amore di Dio e amore del mondo,6-7

6. Vedi come ti vuole saggio chi ti ha detto: Prendi la tua croce e seguimi. Egli dice: Chi avrà trovato la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà (11). Dunque, chi ha trovato perderà; chi avrà perduto troverà. Per perdere bisogna prima aver trovato; e una volta perso, alla fine troverai ancora.
I ritrovamenti sono due e in mezzo passa una sola perdita. Nessuno può perdere la sua vita per Cristo, se prima non l’ha avuta. E nessuno può trovare la sua vita in Cristo se prima non l’ha perduta. Cerca dunque di trovare per perdere; di perdere per trovare.
Qual è il modo di trovarla prima, per averla onde perderla poi? Quando pensi che tu sei per un aspetto mortale, quando pensi a Colui che ti ha creato, e ti ha dato col suo Spirito l’anima, quando rifletti che la devi a lui che te l’ha data, che devi restituirla a lui, che l’ha adattata a te, che dev’essere custodita da lui che le ha dato inizio, allora hai trovato la tua vita, l’hai trovata nella fede.
In quanto hai avuto fede in queste cose hai trovato la tua vita. Prima di credere eri perso. Ora hai trovato la tua vita. Infatti senza la fede eri morto: sei risuscitato nella fede. Sei come colui di cui si può dire: Era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (12).
Dunque hai trovato la tua vita nella fede della verità, se sei risuscitato dalla morte della mancanza di fede. Questo significa aver trovato la vita. Ora perdila ed essa sarà come il seme. Anche il contadino infatti, trebbiando e ventilando, trova il frumento; poi, seminandolo, lo riperde. Si ritrova sull’aia quello che si era perduto nella semina; si perde nella semina ciò che si trova nella mietitura.
Dunque, chi avrà trovato la sua vita, la perderà. Ma chi è pigro a seminare può raccogliere poi tanto da far fatica a raccogliere?
In favore di chi dobbiamo perdere la vita.
7. Ma ora osserva dove trovi e perché perdi. Non potresti trovare se non ti facesse luce Colui a cui viene detto: Tu, o Signore, dài luce alla mia lampada (13).
E` lui che ti accende la lampada: ormai hai trovato.
Vedi per quale ragione puoi perdere. Non si deve perdere a poco a poco ciò che è stato ritrovato con tanta diligenza. Perché Dio non ha detto: ” Chi ha perso la vita la troverà “, ma: Chi l’ha persa per me.
Se tu per caso vedi sulla spiaggia il corpo di un naufrago che era mercante, lo compiangi, mosso a compassione e dici: ” Oh, pover’uomo, per il denaro ha perso la sua vita! “. Fai bene a compiangerlo e a commiserarlo; gli dài almeno il pianto, non potendogli dare aiuto; per il denaro infatti ha potuto perdere la sua vita, ma col denaro non la potrà ritrovare. Fu capace di recar danno alla sua vita, non capace di salvarla. Bisogna riflettere infatti non tanto su che cosa ha perduto, ma perché l’ha perduto. Se è per l’avidità, ecco lì ora dove è la sua umana carne, dove è ciò che gli era caro. E tuttavia è stata l’avidità a spingerlo: per l’oro ha perso la vita. E invece per Cristo la vita non perisce, non succede che si perda.
O uomo stolto, non dubitare: ascolta il consiglio del tuo Creatore. Egli ti ha fatto in modo tale che tu lo puoi capire; egli che ti ha fatto, prima che fossi tu uno che può capire. Ascoltami, non esitare a perdere la vita per Cristo. Affida al fedele Creatore quello che vien detto perduto. Quello che tu perdi egli lo accoglie; in lui nulla va perduto.
Se ami la vita perdila per trovarla, e quando l’avrai ritrovata non ci sarà più nulla da perdere, nessuna ragione di perdere. Quella che si trova infatti è la vita appunto che non si può in nessun modo perdere. Poiché Cristo, nascendo, morendo e risorgendo per te, te ne ha dato l’esempio: Risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui (14).

11. Mt 10, 38-39
12. Lc 15, 32.
13. Sal 17, 29
14. Rm 6, 9.

Publié dans:meditazioni, Sant'Agostino |on 26 février, 2015 |Pas de commentaires »
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