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SANT’ AGNESE VERGINE E MARTIRE – 21 GENNAIO

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SANT’ AGNESE VERGINE E MARTIRE

21 GENNAIO

ROMA, FINE SEC. III, O INIZIO IV

Agnese nacque a Roma da genitori cristiani, di una illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Quando era ancora dodicenne, scoppiò una persecuzione e molti furono i fedeli che s’abbandonavano alla defezione. Agnese, che aveva deciso di offrire al Signore la sua verginità, fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell’attuale piazza Navona. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell’iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall’imperatore Decio, altri nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano. (Avvenire)

Patronato: Ragazze Etimologia: Agnese = pura, casta, dal greco Emblema: Agnello, Giglio, Palma

Martirologio Romano: Memoria di sant’Agnese, vergine e martire, che, ancora fanciulla, diede a Roma la suprema testimonianza di fede e consacrò con il martirio la fama della sua castità; vinse, così, sia la sua tenera età che il tiranno, acquisendo una vastissima ammirazione presso le genti e ottenendo presso Dio una gloria ancor più grande; in questo giorno si celebra la deposizione del suo corpo. In data odierna, 21 gennaio, il Calendario liturgico romano fa memoria della santa vergine Agnese, la cui antichità del culto presso la Chiesa latina è attestata dalla presenza del suo nome nel Canone Romano (odierna Preghiere Eucaristica I), accanto a quelli di altre celebri martiri: Lucia, Cecilia, Agata, Anastasia, Perpetua e Felicita. Nulla sappiamo della famiglia di origine di Sant’Agnese, popolare martire romana. La parola “Agnese”, traduzione dell’aggettivo greco “pura” o “casta”, fu usato forse simbolicamente come soprannome per esplicare le sue qualità. Visse in un periodo in cui era illecito professare pubblicamente la fede cristiana. Secondo il parere di alcuni storici Agnese avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di un anno imprecisato, durante la persecuzione di Valeriano (258-260), ma secondo altri, con ogni probabilità ciò sarebbe avvenuto durante la persecuzione dioclezianea nel 304. Durante la persecuzione perpetrata dall’imperatore Diocleziano, infatti, i cristiani furono uccisi così in gran numero tanto da meritare a tale periodo l’appellativo di “era dei martiri” e subirono ogni sorta di tortura. Anche alla piccola Agnese toccò subire subire una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori. La sua leggendaria Passio, falsamente attribuita al milanese Sant’Ambrogio, essendo posteriore al secolo V ha perciò scarsa autorità storica. Della santa vergine si trovano notizie, seppure vaghe e discordanti, nella “Depositio Martyrum” del 336, più antico calendario della Chiesa romana, nel martirologio cartaginese del VI secolo, in “De Virginibus” di Sant’Ambrogio del 377, nell’ode 14 del “Peristefhanòn” del poeta spagnolo Prudenzio ed infine in un carme del papa San Damaso, ancora oggi conservato nella lapide originale murata nella basilica romana di Sant’Agnese fuori le mura. Dall’insieme di tutti questi numerosi dati si può ricavare che Agnese fu messa a morte per la sua forte fede ed il suo innato pudore all’età di tredici anni, forse per decapitazione come asseriscono Ambrogio e Prudenzio, oppure mediante fuoco, secondo San Damaso. L’inno ambrosiano “Agnes beatae virginia” pone in rilievo la cura prestata dalla santa nel coprire il suo verginale corpo con le vesti ed il candido viso con la mano mentre si accasciava al suolo, mentre invece la tradizione riportata da Damaso vuole che ella si sia coperta con le sue abbondanti chiome. Il martirio di Sant’Agnese è inoltre correlato al suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio soggiungono l’episodio dell’esposizione della ragazza per ordine del giudice in un postribolo, da cui uscì miracolosamente incontaminata. Assai articolata è anche la storia delle reliquie della piccola martire: il suo corpo venne inumato nella galleria di un cimitero cristiano sulla sinistra della via Nomentana. In seguito sulla sua tomba Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece edificare una piccola basilica in ringraziamento per la sua guarigione ed alla sua morte volle essere sepolta nei pressi della tomba. Accanto alla basilica sorse uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate e fu ripetutamente rinnovata ed ampliata. L’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente a partire dal 1865. Il cranio della santa martire fu posto dal secolo IX nel “Sancta Sanctorum”, la cappella papale del Laterano, per essere poi traslato da papa Leone XIII nella chiesa di Sant’Agnese in Agone, che sorge sul luogo presunto del postribolo ove fu esposta. Tutto il resto del suo corpo riposa invece nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura in un’urna d’argento commissionata da Paolo V. Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nella suddetta opera “De Virginibus” scrisse al riguardo della festa della santa: “Quest’oggi è il natale di una vergine, imitiamone la purezza. E’ il natale di una martire, immoliamo delle vittime. E’ il natale di Sant’Agnese, ammirino gli uomini, non disperino i piccoli, stupiscano le maritate, l’imitino le nubili… La sua consacrazione è superiore all’età, la sua virtù superiore alla natura: così che il suo nome mi sembra non esserle venuto da scelta umana, ma essere predizione del martirio, un annunzio di ciò ch’ella doveva essere. Il nome stesso di questa vergine indica purezza. La chiamerò martire: ho detto abbastanza… Si narra che avesse tredici anni allorché soffrì il martirio. La crudeltà fu tanto più detestabile in quanto che non si risparmiò neppure sì tenera età; o piuttosto fu grande la potenza della fede, che trova testimonianza anche in siffatta età. C’era forse posto a ferita in quel corpicciolo? Ma ella che non aveva dove ricevere il ferro, ebbe di che vincere il ferro. […] Eccola intrepida fra le mani sanguinarie dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme, le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno che è il trofeo del vittorioso Signore… Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine lieta della sua sorte, affrettò il passo al luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla divinità lei che per l’età non poteva ancora disporre di sé… Quante domande la sollecitarono per sposa! Ma ella diceva: « È fare ingiuria allo sposo desiderare di piacere ad altri. Mi avrà chi per primo mi ha scelta: perché tardi, o carnefice? Perisca questo corpo che può essere bramato da occhi che non voglio ». Si presentò, pregò, piegò la testa… Ecco pertanto in una sola vittima un doppio martirio, di purezza e di religione. Ed ella rimase vergine e ottenne il martirio”. (tratto da De Virginibus, 1. 1)

ORAZIONE DAL MESSALE Dio onnipotente ed eterno, che scegli le creature miti e deboli per confondere le potenze del mondo, concedi a noi, che celebriamo la nascita al cielo di sant’Agnese vergine e martire, di imitare la sua eroica costanza nella fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

TRIDUO A SANT’AGNESE 1. O singolare esempio di virtù, gloriosa Santa Agnese, per quella viva fede da cui fosti animata fin dalla più tenera età e che ti rese così accetta a Dio da meritare la corona del martirio, ottienici la grazia di conservare intatta la fede e di professarci sinceramente cristiani non a parole, ma con le opere, affinché confessando Gesù innanzi agli uomini, Gesù faccia di noi favorevole testimonianza innanzi all’eterno Padre. – Gloria al Padre 2. O Santa Agnese, martire invitta, per quella ferma speranza che avesti nell’aiuto divino, quando condannata dall’empio preside romano a veder macchiato il giglio della tua purezza, non ti sgomentasti poiché eri fermamente abbandonata alla volontà di quel Dio che manda i suoi Angeli per proteggere quelli che in Lui confidano, con la tua intercessione ottienici da Dio la grazia di custodire gelosamente la purezza affinché ai peccati commessi non aggiungiamo quello abominevole della diffidenza nella Misericordia divina. – Gloria al Padre 3. O Vergine forte, purissima Santa Agnese, per la carità ardente non offesa dalle fiamme della voluttà e del rogo con cui i nemici di Cristo cercavano di perderti, ottienici da Dio che si estingua in noi ogni fiamma non pura e arda soltanto il fuoco che Gesù Cristo venne ad accendere sopra la terra affinché, dopo aver vissuto con purezza, possiamo essere ammessi alla gloria che meritasti con la tua purezza e con il martirio. – Gloria al Padre

PREGHIERA A SANT’AGNESE O ammirabile Sant’Agnese, quale grande esultanza provasti quando alla tenerissima età di tredici anni, condannata da Aspasio ad essere bruciata viva, vedesti le fiamme dividersi intorno a te, lasciarti illesa ed avventarsi invece contro quelli che desideravano la tua morte! Per la grande gioia spirituale con cui ricevesti il colpo estremo, esortando tu stessa il carnefice a conficcarti nel petto la spada che doveva compiere il tuo sacrificio, ottieni a tutti noi la grazia di sostenere con edificante serenità tutte le persecuzioni e le croci con cui il Signore volesse provarci e di crescere sempre più nell’amore a Dio per suggellare con la morte dei giusti una vita di mortificazione e sacrificio. Amen.

Autore: Fabio Arduino 

Publié dans:santi martiri, santi: biografia |on 21 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

SAN MARTINO VESCOVO DI TOURS – 11 NOVEMBRE

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SAN MARTINO VESCOVO DI TOURS – 11 NOVEMBRE                   

Martino nacque in Pannonia, l’odierna Ungheria, nel 316; era figlio di un ufficiale romano e fu educato nella città di Pavia, dove passò la sua infanzia fino all’arruolamento nella guardia imperiale all’età di quindici anni. A scuola Martino prese i primi contatti con i cristiani e, all’insaputa dei genitori, si fece catecumeno e prese a frequentare con assiduità le assemblee cristiane. La sua umiltà e la sua carità hanno dato vita ad alcune leggende tra cui quella in cui Martino incontrò un povero al quale donò metà del suo mantello; oppure quella dell’attendente che Martino considerava come un fratello, tanto da tenergli puliti i calzari. Ottenuto dall’imperatore l’esonero dal servizio militare, Martino si recò a Poitiers presso il vescovo Sant’Ilario, che completò la sua istruzione religiosa, lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornò in Pannonia dove convertì la madre, quindi combatté gli Ariani a Milano, ma venne cacciato. In seguito si ritirò in Liguria, infine di nuovo in patria. Amante della vita austera e del silenzio, eresse il monastero di Ligugè, il più antico d’Europa, e quello di Marmontier, tuttora esistente.                      Essendo vacante la diocesi di Tours, nel 372 venne consacrato vescovo per unanime consenso di popolo. Accettò la carica con grande riluttanza, ma si dedicò con zelo all’adempimento dei suoi doveri episcopali, continuando la sua vita ascetica di preghiere e rinunzie e portando nella sua nuova missione il rigore dei costumi monastici, sempre vicino alla gente, soprattutto ai contadini più poveri.              Resse la diocesi per ben ventisette anni in mezzo a molti contrasti, anche da parte del suo stesso clero. Un certo prete Brizio arrivò persino a querelarlo; ma il vescovo lo perdonò dicendo: « Se Cristo sopportò Giuda perché io non dovrei sopportare Brizio? ». Stremato dalle fatiche e dalle penitenze, pregava il Signore dicendo:  » Se sono ancora necessario non mi rifiuto di soffrire, altrimenti venga la morte. » Morì a Candes e volle essere disteso sulla nuda terra, cosparso di cenere e cinto da un cilicio: era l’ 11 novembre del 397. I suoi funerali furono celebrati alcuni giorni dopo per dare il tempo ai suoi monaci di arrivare: ne erano presenti circa duecento. Sepolto nella cattedrale di Tours, la sua fama si diffuse in tutta la Francia, dove è ancora invocato come primo patrono della nazione. La sua tomba è meta di continui pellegrinaggi da tutto il mondo. Nell’arte San Martino è raffigurato sul cavallo mentre taglia il suo mantello; in Francia, nelle chiese a lui dedicate, è rappresentato come vescovo che distribuisce elemosine ai poveri.

LA LEGGENDA Era l’11 novembre: il cielo era coperto, piovigginava e tirava un ventaccio che penetrava nelle ossa; per questo il cavaliere era avvolto nel suo ampio mantello di guerriero. Ma ecco che lungo la strada c’è un povero vecchio coperto soltanto di pochi stracci, spinto dal vento, barcollante e tremante per il freddo. Martino lo guarda e sente una stretta al cuore. « Poveretto, – pensa – morirà per il gelo! » E pensa come fare per dargli un po’ di sollievo. Basterebbe una coperta, ma non ne ha. Sarebbe sufficiente del denaro, con il quale il povero potrebbe comprarsi una coperta o un vestito; ma per caso il cavaliere non ha con sé nemmeno uno spicciolo. E allora cosa fare? Ha quel pesante mantello che lo copre tutto. Gli viene un’idea e, poiché gli appare buona, non ci pensa due volte. Si toglie il mantello, lo taglia in due con la spada e ne dà una metà al poveretto. « Dio ve ne renda merito! », balbetta il mendicante, e sparisce. San Martino, contento di avere fatto la carità, sprona il cavallo e se ne va sotto la pioggia, che comincia a cadere più forte che mai, mentre un ventaccio rabbioso pare che voglia portargli via anche la parte di mantello che lo ricopre a malapena. Ma fatti pochi passi ecco che smette di piovere, il vento si calma. Di lì a poco le nubi si diradano e se ne vanno. Il cielo diventa sereno, l’aria si fa mite. Il sole comincia a riscaldare la terra obbligando il cavaliere a levarsi anche il mezzo mantello. Ecco l’estate di San Martino, che si rinnova ogni anno per festeggiare un bell’atto di carità ed anche per ricordarci che la carità verso i poveri è il dono più gradito a Dio. Ma la storia di San Martino non finisce qui. Durante la notte, infatti, Martino sognò Gesù che lo ringraziava mostrandogli la metà del mantello, quasi per fargli capire che il mendicante incontrato era proprio lui in persona. —————————– La vita di S. Martino è interessante e da ammirare. Tuttavia credo che per essergli fedeli conviene ammirarlo di meno e imitarlo di più. Certamente anche oggi, a distanza di 1600 anni dalla sua morte, possiamo seguire gli insegnamenti di S. Martino, uomo di preghiera, uomo di condivisione e uomo della Parola. Martino è stato un uomo di preghiera: era un uomo di Dio, nella sua vita la preghiera ha sempre avuto il primo posto. La sua prima preoccupazione, dopo l’arrivo da Poitiers, è stata quella di ritirarsi in un luogo separato, un eremitaggio, per consacrarsi totalmente nella calma e nel silenzio alla meditazione. La preghiera era al centro della vita monastica che egli conduceva con i suoi discepoli a Mamoutier. Sul letto di morte esclamò: « Lasciatemi guardare il cielo, così posso mettere già da adesso la mia anima sulla strada diritta verso il Signore ». Mettendo la preghiera al centro della sua vita, Martino imitò Gesù, il quale passava le notti in preghiera. La sua preghiera lo conformava alla volontà di Dio e gli permetteva di essere sempre in ascolto del prossimo. Questo primo messaggio di Martino è di grande attualità: il cristiano non può incontrare Dio e i suoi fratelli senza mettere la preghiera al centro della sua esistenza.                                           Martino fu uomo della condivisione: non ha mai smesso di praticare la carità. La famosa divisione del suo mantello ad Amiens ne è diventato l’esempio più evidente e più conosciuto. Per Martino la volontà di condivisione, soprattutto con i più poveri e i più miserabili, è radicata nel suo amore per Dio. È Dio stesso che ha inaugurato questa condivisione nascendo tra noi in Gesù suo Figlio. « Dio è amore », ripete S. Giovanni. Il cristiano risponde a questo amore entrando volontariamente nella relazione d’amore che Dio gli propone e cercando, a sua volta di entrare nella reazione d’amore, d’amicizia e di condivisione con tutti i suoi fratelli. Il cristiano non può incontrare Dio e i fratelli senza mettere la condivisione al centro della sua esistenza. Martino, uomo della parola: sia come monaco che come Vescovo di Tours, non ha smesso di annunciare la Parola di Dio con le sue azioni e le sue parole. I suoi uditori rimanevano colpiti nel profondo del loro cuore perché le sue parole si radicavano nell’intimità con Dio che aveva acquisito nella preghiera e nell’autenticità del suo incontro con il prossimo. Per saper annunciare bene la Parola, Martino ha sistematicamente inserito la sua azione nel quadro della vita monastica. Per lui solo la contemplazione può essere il motore efficace dell’azione, ha così privilegiato l’accoglienza di tutti i feriti e gli emarginati della vita e di tutti coloro che erano più lontani dalla Chiesa. Questo terzo messaggio di Martino, nostro patrono, è radicato nei due precedenti ed è anch’esso di attualità per noi. Il Concilio Vaticano II l’ha ricordato: tutti i cristiani sono responsabili e missionari nella Chiesa. La sua fedeltà a Dio e ai fratelli, il suo esempio di condivisione, la sua bontà, la sua carità, il suo amore per i poveri, ne hanno fatto un grande santo. Tuttavia un santo molto vicino a noi e molto umano, un santo che è e rimane per tutti noi un modello da imitare.

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 10 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

SANTA TERESA DI LISIEUX – 1 OTTOBRE

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SANTA TERESA DI LISIEUX – 1 OTTOBRE

Biografia

Teresa Martin nacque ad Aleçon (Orne), piccolo villaggio della Normandia francese, il 2 gennaio 1873 da una famiglia borghese agiata di profonda fede cristiana, ultima di otto figli, di cui tre muoiono piccoli, perché in quel tempo la mortalità infantile non era ancora stata vinta. Tuttavia nonostante le tragedie nella famiglia Martin regna una solida fede che le acconsente di scorgere in ogni avvenimento la presenza di Dio.
Il padre Louis Martin nato il 22 Agosto a Bordeaux, era orologiaio aveva imparato il suo lavoro in Svizzera, da bambino aveva seguito suo padre nelle diverse guarnigioni (Avignone, Strasburgo) e conobbe la vita dei campi militari sino al congedo del padre successivamente si ritirarono ad Aleçon nel 1830. Louis a ventidue anni sogna una vita religiosa e si presenta come postulante al monastero del Gran San Bernardo ma non viene accettato perché non conosce il latino, tuttavia per otto anni conduce una vita quasi monastica, tutta dedita al lavoro, alla preghiera, alla lettura.
La mamma Zélie Guérin, nata il 23 Dicembre 1831 in una famiglia di origine contadina, è stata educata da un padre autoritario e da una madre molto severa, anche lei pensa alla vita religiosa, ma la sua domanda di essere accolta presso le suore dell’Hotel-Dieu d’Aleçon viene respinta ed allora si lancia nella fabbricazione del « Punto di Aleçon » apre un negozio diventa un’abile lavoratrice e avrà un pieno successo.
Appena nata Teresa conosce la sofferenza: a soli quindici giorni rischia di morire per un’enterite acuta. A due mesi Teresa supera una crisi però la madre è tuttavia costretta, su parere del medico, a separarsi dalla figlia e affidarla a una nutrice amica.
All’età di quattro anni Teresa perde la mamma, minata da un cancro al seno, tuttavia le sorelle fanno del loro meglio per crescere la piccola Teresa, nello stesso periodo si trasferiscono a Lisieux (Calvados). Ha nove anni quando sua sorella Paolina, la sua «piccola mamma», entra al Carmelo della città, Teresa cade gravemente ammalata. Nessuno sa diagnosticare la malattia. Teresa, familiari e amici pregano moltissimo. Il 13 Maggio 1883, quando ormai sembrava inevitabile la morte. Teresa vede la Vergine sorridente e immediatamente guarisce. La guarigione improvvisa e quel sorriso materno di Maria la rendono ancora più determinata a realizzare il sogno da sempre nutrito ossia consacrarsi totalmente all’Amore. Alla prima comunione (8 Maggio 1884) Teresa sperimentò di sentirsi amata « fu un bacio d’amore, mi sentivo amata, e dicevo anche: Ti amo, mi do a te per sempre ».
Successivamente anche la primogenita Maria entra nel Carmelo. A 14 anni, Teresa annuncia al padre l’intenzione di entrare al Carmelo. A 15 anni (il 9 aprile 1888) varca il cancello della clausura, dopo aver ottenuto – considerata la sua giovane età – un permesso particolare da papa Leone XIII, che incontrò il 20 novembre 1887 a Roma. Nel Carmelo era calmissima e ritrovò la pace, che non l’abbandonò più nemmeno durante la prova. La madre Gonzaga, nonostante la giovane età di Teresa la trattava con severità, tuttavia lei non se ne lamentò mai.
Frattanto le condizioni del padre precipitarono. L’arteriosclerosi devastò il papà di Teresa che fu interdetto e ricoverato per tre anni in una casa di cura. Questo fatto le procurò un terribile dolore.
Ma la prova più grande per lei non fu quella della salute, bensì la « notte » dello spirito che l’avvolse per diciotto mesi. Sperimentò questo non attraverso le frequentazioni di atei, ma nel silenzio incombente di Dio capì la condizione dell’ateo: « Dio ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento ».
La sua salute cagionevole tuttavia non resisterà a lungo al rigore della regola carmelitana e il 30 settembre 1897, all’età di 24 anni, morirà di tubercolosi, vivendo giorno per giorno le sue sofferenze in perfetta unione a Gesù Cristo morto in croce, per la salvezza degli uomini.
Questo periodo di nove anni trascorsi in una vita da religiosa, apparentemente senza rilievo, avranno una meravigliosa portata spirituale, tanto più forte se si considera che da allora molte persone semplici, grazie al suo esempio si sentono di poter imitare e raggiungere lo stesso livello di quest’anima senza pretese né complicazioni, ma tuttavia così terribilmente esigente con se stessa. Quella di Teresa è la «via d’infanzia», o «piccola via» che fa riconoscere la propria piccolezza e si abbandona con fiducia alla bontà di Dio come un bambino nelle braccia di sua madre.
Nella vita di Teresa tutto è in contrasto. Il suo linguaggio è povero e spesso infantile, ma il suo pensiero è geniale. La sua vita apparentemente senza drammi è invece una tragedia della fede. La sua esistenza si è svolta fra le quattro mura del Carmelo, eppure il suo messaggio è universale.
Teresa ha scritto molto. Ha composto tre manoscritti, uno nel 1895, «Storia di un’anima» (chiamato manoscritto A), autobiografia scritta dietro richiesta della sorella Paolina (madre Agnese) un altro nel 1897 (chiamato manoscritto B), anno in cui scrive per obbedire alla sua priora. Le sue sorelle poi hanno raccolto le sue «ultime conversazioni» dal maggio 1897 al giorno della sua morte (questo chiamato manoscritto C). Si rimane poi stupiti dal gran numero di lettere inviate alla famiglia e dalle numerose poesie che ha composto. Teresa ha sofferto molto. Le prove spirituali che ha attraversato nel corso di questa vita nascosta (notte della fede, vuoto spirituale, tentazione di miscredenza) la rendono molto vicina a quelli che dubitano e non credono.
Teresa è sconosciuta quando muore nel 1897, ma quando viene canonizzata ventotto anni più tardi, nel 1925, la fama della sua santità si è sparsa celermente nel mondo intero: Lisieux diventerà uno delle destinazioni più ricercate da grandi masse di fedeli da ogni parte del mondo. Teresa viene proclamata, nello stesso anno sempre da papa Pio XI patrono universale delle Missioni, – per le quali ella ha pregato senza posa – è patrona della Francia, come Giovanna d’Arco.
Nel 1997, centenario della sua morte, Teresa è dichiarata « Dottore della Chiesa », la terza donna che assurge al massimo della considerazione teologica in duemila anni di Cristianesimo, dopo santa Caterina da Siena e santa Teresa d’Avila.
Il santo è visto come un prototipo che polarizza le energie e indica come realizzare il Vangelo in una data epoca. S. Teresa di Lisieux è profondamente moderna perché aiuta lo spirito ed il cuore a fondere le cose della terra a quelle del cielo e intendere le cose di Dio, del suo Amore, ai comportamenti più concreti.
Nel linguaggio odierno si parla spesso di tensione, per esprimere la difficoltà che ha l’uomo a vivere coscientemente a livello spirituale. S. Teresa ci offre un equilibrio armonioso. Per questo motivo può essere facilmente presa come modello di vita spirituale.

28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO

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28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO

Agostino nacque il 13 novembre 354 a Tagaste (Souk-Ahras) nella Numidia. Non sappiamo se i suoi genitori fossero di pura origine romana. Il padre, Patrizio, impiegato municipale, entrò nella Chiesa come catecumeno solo nei suoi ultimi anni e fu battezzato poco prima della morte (371). La madre, Monica, era invece cristiana zelante. Agostino ricevette a Tagaste la prima istruzione, e poiché, per volontà del padre, era destinato a diventare rètore, proseguì i suoi studi nella vicina Madaura. Di qui passò nel 371 a Cartagine per seguirvi i corsi di retorica e diritto. Là da una relazione irregolare – durata fino al 384 – ebbe nel 372 un figlio, Adeodato. Disprezzava, in quel tempo, la religione di sua madre, quasi fosse, lo dice egli stesso, un insieme di « leggende da vecchierelle ». Allorché, nel 373, lesse, secondo il programma degli studi, il dialogo « Hortensius » di Cicerone, cominciò a sentire l’anelito verso una concezione del mondo fondata su basi filosofiche. Poco dopo si iscrisse come esterno (auditor) al Manicheismo, che a lui, superbo della sua scienza, appariva, in opposizione al Cristianesimo insegnato dalla Chiesa, come la religione dei lumi, libera da ogni autorità, vera forma di Cristianesimo. Nel 374/75, terminati gli studi, Agostino si stabilì a Tagaste come insegnante delle arti liberali, ma trasferì poco dopo la sua scuola a Cartagine (375/83). Sul finire di questo periodo della sua vita, i dubbi sulla verità del sistema manicheo andarono aumentando sempre più: quella cosmologia gli sembrò inconciliabile con la dottrina insegnata dalla filosofia greca, e si avvide che il dualismo insegnato dai Manichei era in contraddizione con il loro concetto della divinità.

Finì di disilluderlo un’intervista che ebbe col famoso vescovo manicheo Fausto di Milevi, nel quale egli non trovò che un parolaio poco dotto. Tuttavia anche a Roma, dove si era portato nel 383 contro la volontà della madre, avvicinò gli amici manichei. Agli inzi del 384, per i buoni uffici del prefetto pagano di Roma Simmaco, ottenne un posto di insegnante di retorica a Milano messo a concorso dallo Stato. Malgrado questa situazione sicura e onorata, e benché la madre ed altri prossimi parenti abitassero allora con lui, Agostino si sentiva nel suo interno più tormentato ed infelice che mai. Ma ascoltando i sermoni di S. Ambrogio, vescovo di Milano, che per lo più spiegava allegoricamente il testo biblico corrente, trovò una luce nuova. Nel decisivo 386, Agostino, che lottava per una nuova concezione del mondo, avrebbe conosciuto per la prima volta le dottrine neoplatoniche. La lettura dei trattati di Plotino già tradotti in latino, attraverso i quali incominciò a concepire Dio come sostanza puramente spirituale e il male come un nulla, gli recò un grande progresso intellettuale. Il sacerdote Simpliciano, di orientamento neoplatonico, che poi succederà ad Ambrogio nella sede vescovile di Milano, gli dimostrò come la speculazione sul Logos del prologo giovanneo completasse la dottrina di Plotino intorno al Nous. Così, attraverso la filosofia, gli si schiuse una via verso la fede nell’eterno Logos-Dio. Lo stesso Simpliciano attirò l’attenzione di Agostino sull’importanza della lettura delle lettere di Paolo. In esse capì che l’uomo, soltanto attraverso la grazia divina, riesce a raggiungere il fine cui tende: l’unione con Dio mediante la fede, che egli, come neoplatonico, aveva sperato di raggiungere con l’aiuto della meditazione filosofica.

In un’ora in cui la lotta tumultuava più violenta che mai nel suo spirito, gli fu additato da Simpliciano, con quale fermezza e risolutezza il celebre rètore Mario Vittorino avesse superato, alla fine, tutti gli impedimenti che si erano frapposti alla sua entrata nella Chiesa, e un’altra volta un amico gli narrò la vita di austero ascetismo dell’anacoreta Antonio e di altri monaci e romiti.Quella fu per lui l’ora della decisione. Pervaso da un’emozione profonda, si precipitò nel giardino e sentì ripetutamente una voce infantile che gli diceva: « Tolle, Lege ». Aperse il libro delle epistole di S. Paolo e lesse il tratto di quella ai Romani 13, 13 s. D’improvviso « svanì ogni nebbia di dubbio » (Conf. 8, 12). Poche settimane più tardi, nell’autunno del 386, rinunziò all’insegnamento e si ritirò in campagna, a Cassiciacum, nel podere di un amico, in attesa di iscriversi, all’inizio della prossima quaresima, tra i catecumeni che si preparavano al battesimo. Chiari indizi ci dicono che Agostino già qualche tempo prima della suddetta « scena del giardino » era fermamente deciso a farsi cristiano e sottomettersi all’autorità della Chiesa, come quella che rappresentava la verità cui egli da molto tempo aspirava. Dalla commovente descrizione della sua conversione (Conf. 8, 6-12) noi apprendiamo anzitutto che il rètore, già intimamente credente, era pervenuto, rinunciando a ricchezza ed onori, a scegliere la via, che allora giudicava la più perfetta, della castità e della rinuncia al matrimonio. Con lo spirito libero dai ceppi della sensualità e della passione, volle poi dedicarsi tutto e per sempre alla ricerca della verità e così conseguire la felicità. Agostino ricevette il battesimo il Sabato santo, 23 aprile, del 387, assieme al figlio e all’amico Alipio, per mano di S.Ambrogio.

Alcuni mesi dopo intraprese il viaggio di ritorno in Africa, passando per Roma. Ad Ostia, poco prima di imbarcarsi, Monica si ammalò e dopo nove giorni morì. Allora Agostino tornò a Roma e qui si trattenne circa un anno, occupato in lavori letterari. Nell’autunno del 388 rientrò a Tagaste ove visse nella casa paterna per tre anni con alcuni amici, in claustrale ritiro. La fama della sua dottrina e della sua pietà era già così grande, che nel 391, durante un suo soggiorno ad Ippona, mentre assisteva, senza alcun sospetto, all’ufficio divino, il vescovo Valerio, su richiesta dei presenti, nonostante la sua resistenza, lo ordinò prete. Così ha inizio un nuovo periodo della sua evoluzione spirituale. L’interesse che portava agli studi filosofici e alla cultura delle arti liberali cedette il posto a un orientamento puramente teologico e all’attività apostolica inerente alla sua dignità nuova. Anche ad Ippona, come già a Tagaste, fondò un monastero ove viveva in comune con i vecchi amici e le nuove reclute. Nel 395 il vescovo Valerio lo fece consacrare suo ausiliare, cosicché alla sua morte (396) Agostino ne occupò il posto. Continuò col suo clero a condurre vita cenobitica. Si occupò con zelo particolare della predicazione e fu instancabile nella cura dei poveri. L’attività di scrittore impegnò sempre una gran parte delle sue forze, e furono soprattutto le questioni e controversie religiose del suo tempo ad assorbirlo. S.Agostino morì a Ippona il 28 agosto del 430, mentre i Vandali tenevano assediata la città. Dopo la caduta di questa, i suoi resti furono trasportati in Sardegna e, nel 722, da Liutprando a Pavia. 

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SANT’AGOSTINO – 28 AGOSTO

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SANT’AGOSTINO – 28 AGOSTO

Vita e opere principali

Aurelio Agostino nasce nel 354 a Tagaste, l’attuale Souk Ahras, in Algeria. Il padre, Patrizio, è pagano, mentre la madre, Monica, è cristiana ed esercita sul figlio una profonda influenza. Agostino compie i suoi studi a Madaura, Tagaste e Cartagine, dove trascorre l’adolescenza: un periodo molto disordinato e privo di limiti morali, come egli stesso lo definirà nelle Confessioni molti anni più tardi.
L’interesse per la filosofia cominca quando, a diciannove anni, ha modo di leggere l’Hortensius di Cicerone: un’esortazione alla filosofia con elementi vicini al Protrettico aristotelico. Insegna retorica 373 a Tagaste dal 373 e poi dal 374 fino al 383 a Cartagine, per poi muoversi prima a Roma e successivamente a Milano, dove ottiene la cattedra municipale sempre della stessa disciplina. Proprio durante il soggiorno milanese nel filosofo, legato dal 374 alla setta dei manichei, matura la volontà di convertirsi al cristianesimo. Sempre a Milano ha modo di conoscere il vescovo Ambrogio, la cui frequentazione gli permette di avere accesso a un’esegesi allegorica della Sacra Scrittura e di approfondire le conoscenze filosofiche neoplatoniche. Tra i ventisei e i ventisette anni Agostino compone il suo primo libro, intitolato De pulchro et apto (Sul bello e sul conveniente), di cui non sono rimasti frammenti.
In seguito si ritira nella villa di Verecondo, dove diviene animatore di dibattiti filosofici tra una cerchia ristretta formata da amici e parenti. Da queste riflessioni nascono quattro opere: Contra academicos (Contro gli accademici), De beata vita (Sulla beatitudine), De ordine (Sull’ordine) e Soliloquia (Soliloqui). Nel 387 riceve il battesimo da Ambrogio e sviluppa il desiderio di diffondere il pensiero cristiano. Dopo aver intrapreso un progetto enciclopedico incentrato sulle arti liberali (ma di cui Agostino compone solo il De grammatica e il De musica), decide di soffermarsi sul rapporto tra la natura e l’uomo, analizzando attentamente l’anatomia dell’esperienza interiore, sulle orme della filosofia di Plotino. Nascono, in questo periodo, il De quantitate animae, nel quale studia l’origine dell’anima e i motivi per cui è legata al corpo; e il De libero arbitrio, nel quale affronta il problema del male e le sue conseguenze. Nel 388 ritorna in Africa dove compone il De magistro, opera in cui discute sulle conseguenze dell’insegnamento e dell’educazione alla verità nel campo della pedagogia.
Con il trascorrere del tempo, la filosofia di Agostino si interseca sempre più strettamente con le religione cristiana, come si nota nel De Genesi contra manichaeos e, nel 390, nel De vera religione, dove si conclude che la vera filosofia coincide nella sua ricerca e nei suoi obiettivi con la vera religione. L’anno seguente Agostino viene ordinato sacerdote e, nel 395, è eletto vescovo di Ippona, decidendo di concentrare la propria azione rivolta contro quei movimenti religiosi o quelle questioni teologiche in aperto contrasto con le posizioni di Roma. Dopo la composizione del De civitate Dei (La città di Dio), in cui elabora il concetto di storia, lo raggiunge la morte, durante l’invasione vandalica del 430 a Ippona.
Centrali per comprendere il pensiero agostiniano sono le Confessioni (in tredici libri, e composte tra il 397 e il 401), scritto autobiografico strutturato come preghiera e ringraziamento a Dio, che si conclude con un commento sui primi capitoli della Genesi, e il De Trinitate, che segna l’inizio delle riflessioni sulla Trinità all’interno della patristica latina.

Ragione e Fede
Agostino inaugura una nuova tradizione filosofica cristiana, che pone al centro della riflessione il rapporto tra fede e ragione: strettamente unite, sia la fede che la ragione sono divine e necessarie ai fini della fede. La teoria agostiniana si potrebbe sintetizzare nella duplice formula credo ut intelligam (credo per capire) eintelligo ut credam (capisco per credere); tale formula implica:
- che la ragione, senza la fede, non possa comprendere la realtà (come si potrebbe altrimenti spiegare lo scopo del nostro essere nel mondo, o la nostra esistenza?)
- che la fede, senza la ragione, non riesca a comprendere i dogmi religiosi (come la Trinità o la transustanziazione)
Scrive Agostino nel De vera religione:
Con l’armonia del creato [...] s’accorda anche la medicina dell’anima, somministrata a noi per ineffabile bontà della divina Provvidenza. Questa medicina agisce in base a due principi: l’autorità e la ragione. L’autorità esige la fede e avvia l’uomo alla ragione; la ragione conduce all’intendimento consapevole. [...] i motivi d’ossequio all’autorità sono più che mai evidenti quand’essa sancisce una verità inoppugnabile anche per la ragione; e, nella Trinità, facendo riferimento alla citazione di Isaia se non avete fede, non potrete intendere, afferma che l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.

Dio e l’uomo
Agostino identifica il problema dell’uomo con il problema del singolo. Estremamente innovativa è la concezione di uomo, immagine di Dio e della Trinità, che presenta interiormente una struttura trinitaria e ha conseguentemente insita in sé la possibibilità di conoscere Dio.
L’essere umano è quindi composto da tre facoltà:
- L’Essere, poiché possiede la memoria che è esistenza
- L’Intelletto, poiché ha la capacità di comprendere
- L’Amore, o la Volontà
Come scrive Agostino: “noi esistiamo, sappiamo di esistere e amiamo il nostro essere e la nostra conoscenza”; come nota a questo proposito Etienne Gilson:
[...] il nostro pensiero è il ricordo di Dio, la conoscenza che ve lo ritrova è l’Intelligenza di Dio, e l’amore che procede dall’uno e dall’altro è amore di Dio.
Se, dunque, nell’anima si rispecchia Dio occorre raggiungere il nostro nucleo più profondo per rintracciare al di là di questo la verità e Dio:
[...] non cercare fuori di te, ritorna in te stesso, la verità abita nell’interno dell’uomo; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso 1.
Il processo di conoscenza della verità inizia con l’eliminazione del dubbio scettico, il quale si autoelimina poiché, nel momento in cui pretende di negare la verità, la riafferma. Secondo questo ragionamento infatti, chi dubita della verità è certo di dubitare, e se dubita, è certo anche di esistere e di pensare; dunque, nel dubbio c’è una certezza che sottrae l’uomo dallo stesso dubbio e lo pone in rapporto con la verità.
Successivamente, Agostino espone nache una teoria del processo conoscitivo. La sensazione, innanzitutto, viene definita come la rappresentazione di un oggetto tratta dall’anima all’interno di sè, nel momento in cui i nostri sensi vengono colpiti da oggetti sensoriali. Questa, tuttavia, è solo il primo grado di conoscenza: l’anima, infatti, mostra la sua autonomia rispetto agli enti sensibili, giudicandoli, con la ragione, sulla base di criteri immutabili e perfetti. Ciò nonostante essendo la nostra ragione suscettibile di mutamento e di errore, dobbiamo concludere che al di sopra della nostra mente vi è un criterio o una legge che si chiama Verità. Essa è colta dal puro intelletto – più precisamente dalla mens, ossia dalla parte più elevata dell’anima – ed è costituita dalle Idee, diverse dalle realtà intellegibili platoniche, in quanto derivate da Dio, il quale illumina la mente umana (secondo la cosiddetta teoria dell’illuminazione).
Raggiunta la Verità, l’uomo ha raggiunto anche Dio. Infatti, prerogativa di Dio è la capacità di rendere intellegibili tutte le cose e la Verità si identifica proprio con l’essere che illumina la ragione umana. Essa, in particolare, coincide con il Logos di Dio, ossia con la Seconda persona della Trinità. Ma Dio possiede anche l’attributo dell’Essere, in quanto egli è colui che è, ovvero il sommo essere, la somma essenza, è colui che ha dato l’essere alle cose da Lui create. L’altro attributo è quello dell’Amore o del Bene, in quanto egli non riceve la sua bontà da un altro bene, bensì è il Bene di ogni bene. Infine, se la Verità si identifica con il Figlio, l’Essere si identifica con il Padre, mentre l’Amore si identifica con lo Spirito Santo.

La concezione della Storia
Nella Citta di Dio, Agostino sostiene che l’alternativa tra il vivere “secondo la carne” e il vivere “secondo lo spirito”, presente in ogni individuo, si ritrovi nella storia. Essa è dominata da un’eterna lotta tra la Città Terrena e la Città Celeste. La Città Terrena, nata dopo la caduta di Adamo e fondata da Caino, ospita gli uomini“dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri”, e quelli che aspirano alla gloria; la Città Celeste, invece, ha origine con gli angeli e con la comunità di quegli uomini giusti che hanno scoperto Dio e che “si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità”. L’impero Romano, nato dal fratricidio di Romolo (che richiama quello di Caino), è la più alta espressione della Città Terrena. Lo Stato, tuttavia, non viene considerato un male poiché mira a garantire il bene temporale dei suoi membri; ciò nonostante, i beni materiali non devono diventare il fine ultimo da perseguire. Le due città al momento sono unite e insieme confuse, ma con il Giudizio Universale saranno finalmente divise. Per quanto riguarda la storia, Agostino la dividein sei epoche, in riferimento ai sei giorni della creazione: la prima va da Adamo al diluvio universale, la seconda da Noè ad Abramo, la terza da Adamo a Davide, la quarta da Davide sino alla cattività Babilonese, la quinta arriva alla natività di Cristo e la sesta comincia con la nascita di Cristo e si concluderà con il suo ritorno e la fine del mondo.
Nell’opera, come ha sostenuto Karl Lowith, viene presentato uno sviluppo a posteriori della storia: infatti secondo Agostino il tempo storico, cambiando e procedendo cronologicamente, favorisce il progresso. Agostino con questa nozione sostituisce la visione ciclica precendente con una lineare, a indicare lo sviluppo progressivo: il punto iniziale è l’Eden, segue la caduta e infine vi sarà la redenzione con il Giudizio Universale. Questa concezione ha avuto molta fortuna nei secoli successivi ed è stata oggetto di critica solo dal Settecento in poi con Vico, Nietzsche e Heidegger.

Il problema del male
Un altro problema nodale nella riflessione agostiniana è quello inerente al male, inteso come problema metafisico, fisico e morale. La questione nasce dalla domanda “Si deus est, unde malum?” Ossia da dove deriva il male se Dio esiste? Perché Dio, infinitamente buono, ammette il male? Agostino, nel tentativo di rispondere a questa domanda, critica:
- Il Manicheismo, che ammette l’esistenza di due principi opposti nel mondo in eterna lotta tra loro: il Bene e il Male. A questa tesi egli oppone una nozione del male quale “deficienza” e privazione di bene. Inoltre rivendica, in contrapposizione alla passività dell’uomo di fronte allo scontro tra principi trascendenti sostenuta dai manichei, l’attività e l’unità della coscienza consapevole di aderire al bene o al male.
- Il Pelagianesimo, che, partendo da una critica sulla dottrina del peccato originale, sostiene che l’uomo sia in grado di raggiungere la salvezza senza l’ausilio della grazia divina. A questa tesi, Agostino reagisce difendendo il traducianesimo, secondo cui l’anima viene trasmessa di padre in figlio, che con Adamo e in Adamo aveva peccato tutta l’umanità, trasformandosi in una massa dannata. Dopo il peccato originale, dunque, solo l’infinita bontà di Dio può salvare alcuni predestinati, concedendo loro la forza di infrangere il peccato originale.
- Il Donatismo, che, fondato sul principio di assoluta intransigenza della Chiesa di fronte allo Stato, prevede che il clero non abbia contatti con le autorità civili, poiché perderebbe la sua capacità di amministrare i sacramenti. Contro il donatismo Agostino afferma allora la validità dei sacramenti indipendentemente dalla persona che li amministra, spiegando che è Dio che opera attraverso il sacerdote.

 

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26 MAGGIO: FILIPPO NERI, TESTIMONE DELLA GIOIA E DELLA SANTITÀ CRISTIANA

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26 MAGGIO: FILIPPO NERI, TESTIMONE DELLA GIOIA E DELLA SANTITÀ CRISTIANA

Tratto da: G.P. PACINI, Filippo Neri: Testimone della Gioia e della Santità Cristiana, in Attualità del messaggio di Filippo Neri, Éditions du Signe, Strasbourg 1995, 6-17. Le finalità di questa pubblicazione sono esclusivamente quelle dell’insegnamento e della discussione: ogni proprietà circa gli scritti appartiene alla Casa editrice Èditions du Signe (Strasbourg). Cfr. Legge 22/04/1941, n. 663, art. 70 (Gazz. Uff. 16/07/1941, n. 166).

Trascorsi ormai quattrocento anni dalla sua morte, Filippo rimane di straordinaria attualità con il suo invito, ch’egli amava ripetere a tutti, ma in particolare ai giovani: « State buoni! ». E’ un uomo di grande e profonda interiorità: vive gran parte della sua vita, prima di farsi prete a 36 anni, in mezzo alla gente ma come fosse un eremita tanto è capace di difendere la sua intimità e trascorre il suo tempo nella frequenza alle funzioni religiose nelle varie chiese di Roma e, nella notte, passa lunghe ore in preghiera nelle catacombe di S. Sebastiano.
In quegli anni, infatti, si recava spesso in questo luogo per trascorrervi la notte in contemplazione, finché nella Pentecoste del 1544, mentre era in preghiera estatica, un globo di fuoco gli penetrò il petto spezzando le due costole vaghe dal lato del cuore, che s’ingrossò talmente da creare una protuberanza nel torace.
In realtà, qualcosa di straordinario constatarono i medici in quel cuore dopo la morte, scoprendo che era insolitamente grande e che, effettivamente, due costole si erano rotte per permetterne l’espansione.
Filippo nasce a Firenze il 21 luglio 1515. La madre, Lucrezia da Mosciano, era figlia di un semplice falegname, mentre il padre Francesco apparteneva a gente di modesta nobiltà provinciale. Entrambe le loro famiglie si erano trapiantate .a Firenze da un paio di generazioni, provenienti da Castelfranco di sopra nel Valdarno.
Per questo Filippo vede la luce nel rione di S. Pier Gattolino, in Oltrarno, dove la famiglia rimarrà pochi anni, trasferendosi in diverse abitazioni prima di sistemarsi sulla Costa di S. Giorgio.
Francesco Neri è notaio ma non ha molto lavoro anche se, con il suo mestiere, potrebbe mantenere con decoro la sua famiglia, preso com’è dal pallino per l’alchimia dietro la quale si perde quasi fosse la sua principale occupazione.
Lucrezia poteva contare su una piccola proprietà terriera a Montespertoli e su una dote di 50 fiorini d’oro ricevuta dalla madre Lena.
Oltre queste, si hanno poche notizie sulla infanzia e l’adolescenza di Filippo a Firenze. Si sa che conobbe appena la madre, morta probabilmente di parto del quarto figliolo, Antonio, 1’8 settembre del 1520, nemmeno lui sopravvissuto. Delle due sorelle, Caterina ha due anni più di Filippo (è nata il 25 gennaio del 1513), Lisabetta è più piccola di tre, essendo nata infatti il 7 febbraio del 1518, gli sopravviverà e deporrà al primo processo d’indagine sulla vita e le opere del fratello. Francesco Neri si risposa presto, forse proprio preoccupato di dover crescere i tre figli ancora piccoli e, fortuna volle, che la matrigna, stando alla scarna testimonianza di Lisabetta, fosse donna dal carattere gioviale e abbia saputo compensare, in qualche modo, quello berbero e originale del marito, nonché il vuoto lasciato dalla madre.
Anzi, quando a diciotto anni Filippo lascerà Firenze, sarà proprio lei a sentirne più forte il distacco e qualche anno più tardi, sul letto di morte, lo chiamerà più volte e spererà di vederlo arrivare per poterlo riabbracciare e salutare per l’ultima volta.
Filippo era ancora fanciullo quando cominciò a frequentare il convento fiorentino dei domenicani di S. Marco, dove era stata introdotta da tempo l’osservanza e gran parte della comunità viveva ancora nel culto del grande Savonarola.
Probabilmente proprio qui, nella confraternita della Purificazione o, meglio ancora, in quella schola cantorum composta da ragazzi che la Congregazione della Vergine educava e formava a sue spese per il canto della laude, il Neri ebbe la sua educazione non solo religiosa e la sua prima formazione.
Sta di fatto che la lauda sarà una delle caratteristiche dell’oratorio di Filippo ed egli, volendo esprimere la sua riconoscenza ai domenicani della Minerva (Roma), dirà : « Tutto quello che ho di buono, lo devo ai vostri padri di S. Marco ».
Intorno ai primi anni trenta del Cinquecento (certamente dopo l’assedio del 1529-30), Filippo lascia Firenze, e lo farà per sempre (solo ormai molto anziano la ricorderà con l’appellativo di patria), per recarsi a S. Germano (l’attuale Montecassino), presso uno zio che faceva il mercante.
La decisione doveva nascere non tanto per imparare un mestiere quanto perché in casa ci fosse una bocca in meno da sfamare.
Ma il suo soggiorno nella piccola cittadina vicino alla grande abbazia benedettina durò non più di due o tre anni; verso il 1535 si trasferisce a Roma dalla quale non si allontanerà più nemmeno per brevi periodi. Non si conoscono le ragioni di questa decisione: probabilmente fu lo spirito d’indipendenza del suo carattere a suggerirgli che, nella grande città, sarebbe riuscito a trovare di che vivere potendo tuttavia impostare la propria vita come meglio avrebbe voluto. Questo è almeno quanto si può logicamente dedurre dai fatti della vita di Filippo fino al tempo della sua decisione di farsi prete.
A Roma, egli riesce ad inserirsi presto nella numerosa « nazione » dei fiorentini, che occupa un posto notevole nella città per la presenza di numerosi prelati, di professionisti, di commercianti e banchieri. La sua indole aperta e gioviale, la sua onestà, gli permettono di attirarsi le simpatie di tutti.
Così le prime notizie sul Neri lo dicono ospite presso Galeotto Caccia, un fiorentino appunto, gestore della dogana pontificia, il quale, in compenso per l’educazione dei figli, dà al giovane compatriota vitto e alloggio. Filippo si accontentava di poco: una stanzetta sopra la dogana era tutta la sua abitazione, una corda tesa fra due pareti gli serviva come armadio e per stendere i suoi panni ad asciugare.
I suoi pasti si riducevano a « pane e olive, olive e pane », come dirà la serva del Caccia, ch’egli consumava quasi sempre nel cortile vicino al pozzo. Ma era libero d’impostare, come voleva, la sua giornata senza orari né programmi stabiliti.
Dovette frequentare in questo periodo, come uditore, alcuni corsi di teologia e di filosofia alla Sapienza, ma forse, dopo un paio d’anni, abbandonò anche questi per darsi ad un apostolato di strada, accompagnando un gioviale saluto con una buona esortazione a chi gli capitava d’incontrare, specialmente coloro che lavoravano presso i « banchi », andando ad assistere e servire gli ammalati negli ospedali, dedicando molto tempo alla preghiera.
A Filippo procurano gioia dello spirito le funzioni liturgiche, specialmente se si svolgono presso chiese di regolari, perché più curate e devote, e ne è assiduo frequentatore, spesso accompagnato da chi è riuscito a trascinarsi dietro.
Ma la frequenza ai sacramenti e la meditazione personale restano la fonte cui attinge forza e insegnamenti per il suo progredire nella vita spirituale.
Per una di quelle circostanze che nella vita di Filippo segnano non un episodio contingente, ma un mutamento, egli incontra, probabilmente proprio all’ospedale di S. Giacomo, uno zelante sacerdote, Persiano Rosa, che dimora presso l’ex convento dei minori osservanti di S. Girolamo della Carità.
Convento e chiesa erano stati assegnati alla confraternita della Carità (dopo la partenza dei frati), con l’impegno per il sodalizio di far continuare il servizio religioso: ma i sacerdoti non dovevano appartenere a ordini o congregazioni di regolari!
In breve, si era formato così un gruppo qualificato e scelto di preti, ma senza un superiore gerarchico: non dovevano recitare l’ufficio in comune, né consumare i pasti insieme. Ognuno di loro, in cambio del servizio religioso alla chiesa, riceveva dalla confraternita un modesto compenso mensile e due stanze come abitazione.
Era libero di organizzare il suo impegno d’apostolato come meglio riteneva.
Una esperienza questa da tenere presente e che, almeno in parte, spiega la diffidenza verso lo stato religioso dei primi preti filippini.
Filippo sceglie dunque Persiano Rosa come suo confessore ed entra nella cerchia dei dodici laici che danno vita con lo stesso Rosa (come prete questi è un po’ il leader del gruppo), alla confraternita della Trinità dei Pellegrini (16 agosto 1548).
Come le antiche compagnie medievali (ne ripete la forma anche nella scelta dei dodici soci – duodenario – in ricordo dei XII apostoli), il sodalizio si proponeva lo scopo di alloggiare e assistere coloro che venivano in pellegrinaggio a Roma ed erano di disagiate condizioni economiche.
Nello stesso tempo, Filippo continua a visitare ed assistere i malati a S. Giacomo affidato alle cure dei confratelli del Divino Amore. Era questo un gruppo formato da laici devoti e chierici ferventi che si proponeva, sulla scia di Ettore Vernazza e di Caterina Fieschi Adorno, di condurre una vita quasi da « religiosi » pur rimanendo nel mondo, con l’obbligo assoluto della segretezza perché gli aderenti non venissero riconosciuti, né alcuno di loro cadesse in superbia per il bene che personalmente e dal sodalizio viene compiuto.
Al gruppo romano aderisce, fra gli altri, anche Gaetano Thiene, fondatore dei Chierici Regolari, indicati presto come modello esemplare di preti post-tridentini, che giocheranno un ruolo importante nella formazione di un nuovo clero e nella diffusione della Riforma Cattolica.
A questo periodo risale anche l’incontro del giovane Neri con Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, e Francesco Xavier, una delle sue prime più belle conquiste, il grande missionario delle Indie.
Sembra ci sia stata qualche indecisione di Filippo di unirsi al loro gruppo: è certo ch’egli manterrà non solo ottimi rapporti coi padri della Compagnia, ma le lettere che i suoi missionari invieranno a Roma, diventeranno materia di devota lettura fra i discepoli di Filippo.
Tuttavia, pur avvertendo già un forte impulso di maggiore e più completa donazione, rimane in lui un certo spirito d’indipendenza, una « perseverante ripugnanza a far parte di qualsiasi ordine religioso », come afferma uno dei suoi biografi.
Tutto il suo comportamento, tra i 18 e i 35 anni, dall’adolescenza cioè alla maturità, è caratterizzato da questa gioia della solitudine, dalla libertà senza obblighi, dalla indipendenza che gli viene dalla povertà.
La frequenza di gruppi in cui ormai si vive il clima fervente della riforma cattolica, di comunità religiose tutte volte ad una più scrupolosa osservanza, il suo amore verso il prossimo, la discreta direzione del Rosa, portano lentamente il Neri a maturare la decisione di farsi prete. Siamo nel 1550. Finalmente il confessore riesce a vincere le ultime resistenze di Filippo.
Nei primi mesi dell’anno successivo egli intensifica la sua preparazione e, nel mese di marzo, Giovanni Lunel, Vescovo di Sebaste, gli conferisce la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato. Il 28 dello stesso mese, riceve il diaconato in S. Giovanni in Laterano e il 23 maggio è consacrato prete nella chiesa di S. Tomaso in Parione. E’ ancora il Rosa a far accogliere il neo sacerdote nella casa di S. Girolamo, dove del resto il Neri è già conosciuto, e qui egli trascorrerà ben 32 anni, per passare alla Vallicella (sede della sua congregazione) solo nel 1583 (12 novembre), e dopo l’invito pressante del Papa.
La mancanza di vita comune fra i cappellani di S. Girolamo, molto diversi fra loro per indole e per doti, risponde proprio a quanto cerca Filippo: gli permette tempo a disposizione, libertà di apostolato e, tuttavia, il vivere sotto lo stesso tetto accomuna questi preti nell’azione di riforma che, pur in diversi modi, tutti indistintamente perseguono.
Comincia per il Neri quella che sarà la caratteristica del suo ministero : la sua disponibilità ad ogni ora della giornata per ricevere le confessioni dei suoi penitenti e di quanti vogliono avvicinarlo per avere consigli e la sua direzione spirituale.
Mentre, nello stesso periodo, preti zelanti si sforzano per inculcare la pratica della comunione frequente, come faceva Bonsignore Cacciaguerra (altra figura importante di prete nel collegio di S. Girolamo), Filippo privilegia il sacramento della confessione, come mezzo principale della conversione personale, della direzione spirituale per la formazione delle coscienze.
Giovanni Francesco Bordini (uno dei primi seguaci del Neri, prete dell’Oratorio, poi vescovo di Cavaillon), scriverà in proposito: « Gli bastò quella sola stanza ignuda et quivi si diede all’esercizio del confessare, nel quale poi consumò il restante della vita sua, talmente che ancora nell’ultima vecchiezza giammai il tralasciò… Et era così assiduo nell’udire le confessioni, che la mattina avanti il giorno molti, che erano occupati, andavano a trovarlo e confessavansi. Da poi levatosi, andava in chiesa et quivi sino all’ultima messa, la quale per lo più egli soleva celebrare, stava sempre fermo, non partendo mai se non per qualche urgente necessità o carità del prossimo, sì che chiunque lo vedeva, sempre lo trovava apparecchiato ».
E Cesare Baronio (successore di Filippo, per sua volontaria insistente rinuncia alla carica di Preposito della giovane congregazione, cardinale prefetto della Biblioteca apostolica, iniziatore, coi suoi Annali, della Storia della Chiesa), dà quasi identica testimonianza, riferendosi al mezzo più importante di cui si serve il Neri nel suo apostolato: « … non avrebbe generato così numerosi figli in Cristo, se non li avesse circondati con un abbraccio di stima e di affetto e, avendo nutrito ciascuno con la parola di Dio, non avesse condotto ognuno di loro ad essere uomo perfetto ».
Certamente nell’avvicinare gli altri Filippo era naturalmente aiutato dal suo carattere estroverso e gioviale accompagnato da una costante serenità, dalla battuta pronta e adatta a ciascuno. Il colloquio, iniziato nel confessionale, proseguiva poi passeggiando nel piccolo cortile che separava la chiesa dalle stanze di Filippo e continuava in camera sua, nella quale accoglieva quei pochi che lo spazio, permetteva.
Questo incontro semplice, informale, del Neri con pochi giovani che, con il tempo, diventa più frequente e si allarga fino. a formare un gruppo, costituisce l’inizio dell’Oratorio. Un incontro nel quale si parla « del disprezzo del mondo, della bellezza della virtù, del premio dei buoni » si fanno spontanei interventi su letture spirituali.
Ma anche per questa sua « intuizione », l’Oratorio, Filippo non vuole delle regole: tutto deve essere improntato alla spontaneità e alla semplicità, perché ognuno che partecipa si senta a suo agio, circondato d’amicizia e d’affetto, nello sforzo comune di essere sempre più « buoni ». Egli non prepara i suoi fervorini, ma lascia che il suo animo si apra liberamente, come pure quello dei suoi giovani.
E’ importante sottolineare che Filippo non si occupa di ragazzi: oggetto particolare delle sue cure sono giovani la cui età oscilla dai sedici-diciotto anni in su, hanno una certa preparazione, appartengono a ceti che, tutto sommato, non hanno preoccupazioni economiche. E quando, per la notevole affluenza di partecipanti, si vedrà costretto a trasferire gli incontri – prima nella soffitta sopra la chiesa, adibita a deposito di granaglie, e infine in chiesa -, e a dare un certo ordine allo svolgimento dell’Oratorio (lettura devota, in attesa di chi non può abbandonare il proprio lavoro, discorsi esortatori, canto della lauda ecc.), anche allora c’è lo sforzo costante perché dall’eminente cardinale, al mercante, dal giovane al vecchio, dal letterato all’ignorante ognuno si senta a suo agio, senza soggezione alcuna: sono laici e giovani gli animatori dell’adunanza!
Gli interventi di Filippo saranno sempre brevi e misurati: mai parlerà dalla cattedra! Certo, un simile apostolato è tutto legato al carisma della sua persona, anche se ormai i suoi primi sacerdoti sono tutti impegnati nell’oratorio e a fare esperienza per continuarlo nel tempo.
E’ stato giustamente osservato dal Cistellini (al quale si deve la fondamentale biografia sul Neri) che « lo stile affettivo e familiare del ragionamento spirituale nell’Oratorio, solo in apparenza può sembrare di facile applicazione. Richiede una buona dizione, un parlare sciolto, e una continua attenzione a non cadere nel banale o addirittura nel grottesco », E queste non sono certo qualità da tutti.
Tanto che, ancora vivo Filippo, la pratica si affievolì per mancanza di soggetti capaci.
Poté essere ripresa, saltuariamente, per iniziativa dei padri quando, nella cerchia di chi frequentava questi incontri si ritrovò chi ne era idoneo.
Filippo aveva anche inventato un originale pellegrinaggio per Roma: la visita alle Sette Chiese che si svolgeva ogni anno al giovedì grasso in contrapposizione al carnevale. Si cominciava al mercoledì sera, con la visita a S. Pietro, per continuare poi il giorno seguente, dopo la pausa notturna, riprendendo l’itinerario da S. Paolo fuori le mura e terminando, dopo un lungo giro che giungeva fino a S. Sebastiano sulla via Appia, a S. Maria Maggiore. A mezza strada ci si fermava a Villa Celimontana per far merenda, conversare e riposarsi della camminata.
Proprio durante questo pellegrinaggio del 1563 avviene un altro incontro, importante per ambedue, quello fra Filippo Neri e il giovane cardinale nipote Carlo Borromeo. Ne nasceranno una forte amicizia e stima reciproca: sarà proprio Padre Filippo a convincere l’amico ad accettare il peso della grande diocesi ambrosiana, convinto com’è della necessità di un vescovo santo, in grado davvero di attuare la riforma ; ma causa anche di qualche cruccio per il Neri, quando le richieste dell’arcivescovo di Milano si faranno sempre più pressanti (e dureranno anni, con trattative e nuovi rinvii di Filippo) perché trasferisca l’Oratorio a Milano.
Intanto, nel 1564, dietro forti insistenze dei governatori della potente Nazione dei fiorentini – alle quali dovettero aggiungersi anche quelle di qualche ambiente di curia – Filippo era stato nominato responsabile della loro, chiesa di S. Giovanni (detta appunto dei fiorentini), che, fin dal 1519 per una disposizione di Leone X (Giovanni de’ Medici), fungeva da loro chiesa parrocchiale.
I tentennamenti e le resistenze. del Neri ad accettare, nascevano dal fatto che, proprio all’interno di questa Nazione, in anni non lontani, si erano originati intrighi e beghe legati alla situazione politica di Firenze dopo il ritorno dei Medici alla guida della città, inoltre, Filippo che aveva sempre rifiutato la dipendenza da altri, ancor più ora rifuggiva quella da un gruppo così potente in Roma.
Alla fine dovette cedere perché, contrariamente a quanto forse si aspettava, vennero accolte tutte le sue condizioni che, in realtà, andavano contro gli statuti della Nazione fiorentina. Prima di tutto richiese l’esonero della residenza (ch’egli continuò a mantenere a S. Girolamo), l’allontanamento del clero prima in servizio a S. Giovanni, l’affidamento, della cura parrocchiale ai suoi primi preti e chierici.
Mandarono Cesare Baronio, Giovanni Francesco Bordini e Alessandro Fedeli che furono, per una speciale dispensa papale, tutti ordinati fra il maggio e il settembre dello stesso 1564. Già tre anni dopo la comunità di S. Giovanni contava ben 18 soggetti che mantengono forti legami con S. Girolamo; al mattino vi si recano tutti per la confessione quotidiana a Filippo, e 4 vi tornano al pomeriggio per l’Oratorio. Si dovette presto cercare una casa in affitto vicina all’alloggio loro destinato, perché non più sufficiente ad ospitare tutti.
Già dal 1568 è presente nella comunità Francesco Maria Tarugi (futuro arcivescovo di Avignone e cardinale) che,- in breve, diventa per gli altri punto di riferimento, dato che è il più anziano del gruppo e del quale ha grande stima il Neri. Il genere di vita ch’essi conducono (a parte la naturale, spontanea soggezione a Filippo) non si discosta molto da quello che regnava a S. Girolamo. I cappellani contribuiscono, secondo le loro entrate, alle spese; qui però consumano i -pasti in comune e nessuno disdegna di compiere anche umili mansioni come pulire la casa e attendere alla cucina: anzi, il Baronio si fregerà del titolo di coquus perpetuus, cuoco stabile! e lo scriverà col carbone sulla cappa del focolare.
Nel 1574 intanto, i fiorentini, orgogliosi dei loro preti che con il loro zelo hanno reso S. Giovanni un punto di riferimento nella vita religiosa di Roma, costruiscono un edificio per ospitare l’aumentata, notevole affluenza di persone alle pratiche dell’Oratorio.
Filippo però, desidera una chiesa finalmente tutta sua. Così, con una discreta e silenziosa preparazione (alla quale contribuì non poco il Tarugi che consegna materialmente al papa la supplica del Neri perché gli venga assegnata), fu superata ogni aspettativa. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), il 15 luglio dell’anno santo 1575, indirizza a Filippo la bolla Copiosus in misericordia Dominus, con la quale non solo gli assegna la chiesa parrocchiale di S. Maria in Vallicella, ma riconosce canonicamente la comunità di chierici secolari, formatasi attorno a lui, e della quale il Neri è stabilito Preposito.
Una Congregazione che si distingue fra le contemporanee approvate dopo il Concilio di Trento e che porta tutta l’impronta di padre Filippo, come ormai tutti lo chiamano. Riflette più il vivere in comunità dei chierici addetti alle canoniche dell’alto medioevo (canonici), che quello di una congregazione religiosa come ormai la si intende secondo i canoni.
Il Neri non aveva mai pensato di dar vita ad una nuova congregazione: esisteva già una varietà di forme di vita consacrata (antichi ordini monastici, ordini mendicanti – minori, predicatori, carmelitani, agostiniani, servi di Maria), le nuove famiglie religiose e, per chi voleva seguire i consigli evangelici, lo ripeteva spesso, non c’era che l’imbarazzo della scelta.
Ma, dimostrando ancora una volta una piena fiducia e obbedienza alla volontà del papa (che sa essere strumento di un volere ben superiore), ne accetta le disposizioni: forse intende che solo coti possa tramandarsi nel tempo la sua esperienza, anche se certamente essa non potrà ricreare lo stesso clima che si respira attorno a lui.
E’ il travaglio del passaggio da una felice intuizione alla istituzione. Eppure la Curia ha colto l’essenza della comunità oratoriana: i chierici verranno ordinati con il titolo della mensa comune (per loro cioè risponde Filippo come superiore), ma non pronunciano voti come gli altri religiosi: il fine del loro vivere in comunità è di essere al servizio dell’Oratorio.
Solo nel 1588 la comunità di Filippo stenderà delle costituzioni (spinta forse anche dai problemi di rapporti con la case filiali di S. Severino e di Napoli) e, dopo una riflessione interna durata un trentennio, con conseguenti correzioni e modificazioni, nel febbraio del 1612, ad opera ormai di una maggioranza della seconda generazione di oratoriani (sono scomparsi, oltre Filippo, anche figure eminenti come il Baronio e il Tarugi) e con la mediazione del cardinale Bellarmino, vengono definitivamente approvate le costituzioni con il Breve solenne Christifidelium quorumlibet di papa Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621).
Ma a Filippo mancarono prove e tribolazioni, bagaglio immancabile nella vita di ciascuno?
No di certo, anche se, come s’è visto, fino all’età in cui si fa prete, di lui non si sa poi molto (lo si conosce solo dalle testimonianze dei pochi superstiti interrogati al primo processo), e la cosa si spiega visto che il Neri era ben lontano dal parlare di sé, né lasciò scritti autobiografici.
Anzi, egli rifuggiva dallo scrivere, e si servi sempre di altri anche per la stesura Però non occorrono voli di fantasia per capire che una vita alla giornata, come s’era, imposto, non doveva poi essere tanto facile.
Certamente quando sappiamo delle persecuzioni che ad opera del cardinale Virginio Rosari, Vicario di Roma, nella primavera del 1559 si abbatterono sul Neri allora non fatichiamo a comprenderne la sofferenza. Il potente prelato arriva, per motivi politici – siamo durante il difficile pontificato di Paolo IV (Giampero Caraffa, 1555-1559) – a proibirgli il pellegrinaggio alle basiliche, l’Oratorio e il confessionale; inoltre Filippo è citato a comparire davanti alle autorità imputato di alimentare una setta e di tenere conventicole.
In pratica, si sospettava della sua fede… allora, non si andava tanto per il sottile! Altre amarezze e difficoltà si abbatterono su Filippo dieci anni dopo, nel 1569, in seguito ad una serie di lutti e al rarefarsi dei collaboratori. Inoltre, negli ultimi trent’anni della sua vita, fu spesso tormentato da malattie (sbocchi di sangue, debilitazione generale) tanto che, più volte, la sua ripresa parve dovuta ad un miracolo.
Senza contare le amarezze interiori che dovevano procurargli gli atteggiamenti d’indipendenza, se non di ribellione del Talpa, responsabile della fondazione di Napoli, che, morto Filippo, portò alla rottura dell’unità coi confratelli della Vallicella. E le costituzioni non prevederanno più una gerarchia unitaria degli oratoriani: ogni fondazione, pur adottandone le consuetudini, sarà autonoma.
Nella primavera del 1595 le crisi di salute di Filippo si fanno più frequenti.
Non può far nemmeno un cenno di saluto al cardinale Agostino Valier (che dalla sua esperienza con il Neri aveva scritto il bel dialogo Philippus sive de laetitia christiana), venuto a trovarlo e salutarlo per l’ultima volta.
La mattina del 12 maggio gli venne amministrata l’estrema unzione dal fedele Baronio, ma il Neri è così stremato che non dà reazione.
E’ presente il cardinale Borromeo che trepida per le condizioni del caro amico. C’è un lieve miglioramento e il porporato ne approfitta per amministrargli il Viatico.
I testimoni narrano di una scena commovente: Filippo, alla vista dell’ostia, parve riacquistare le forze; con un tono di voce che meravigliò i presenti egli invocò: « Questo è l’amor mio! Questo è l’amor mio, dammelo subito! ».
Trascorrono ancora altri giorni fra riprese e ricadute, speranze di un ristabilimento che Filippo invece dice chiaramente non ci sarà.
Sono le 23 del 26 maggio 1595, festa del Corpus Domini. Il Gallonio (autore di una preziosa Vita sul fondatore), uno dei padri che dorme sopra la stanza del Neri, lo sente battere con la mazza sul pavimento.
Al suo arrivo, padre Filippo, con un fil di voce gli dice: « Aiutatemi, Antonio, me ne vado ». Accorre, in breve avvertita, tutta la comunità.
Il Baronio, a nome di tutti, chiede al Padre che dia loro l’ultima benedizione; ma Filippo, aperti gli occhi per qualche istante e rivoltili al cielo, piegò la testa emettendo un sospiro più forte, si addormentò nel Signore, perché, più che un trapasso dovuto alla morte, il suo sembrò davvero l’inizio di un lungo sonno. Erano, circa, le tre del mattino.
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Publié dans:Santi, santi: biografia |on 26 mai, 2015 |Pas de commentaires »

27 AGOSTO: SANTA MONICA – MADRE DI TANTE LACRIME

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/07-Luglio/Santa_Monica.html

27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387)

MONICA: MADRE DI TANTE LACRIME

Molte mamme di oggi non vivono tempi facili.
Non è stato facile nemmeno per Monica, la santa che ricordiamo nel mese di agosto. Anche lei ha dovuto tribolare non poco per il figlio Agostino.
Con un figlio adolescente in casa è difficile dormire sempre sonni tranquilli. Questo perché alcuni comportamenti dei figli sono fonte di apprensione e di preoccupazioni, di angoscia e di lacrime.
Educare un figlio o una figlia adolescente nella civiltà contadina e pre-industriale riservava meno problemi di oggi. La nostra società post-moderna (e qualcuno aggiunge anche post-cristiana) si qualifica per la sua forte connotazione consumistica. E nel grande mare del consumismo i giovani nuotano molto bene, grazie al sostegno finanziario dei genitori, spesso acriticamente generosi. Con i soldi facili (talvolta troppo facili) a portata di mano e con una personalità ancora non strutturata in quanto a valori e forza di volontà, l’adolescente cade più facilmente vittima dell’uso e dell’abuso del fumo, dell’alcol e della droga, dei divertimenti aggressivi e pericolosi, dei comportamenti devianti sfocianti, talvolta, nella prostituzione e nell’Aids. E i primi a essere angosciati e distrutti da queste tragedie sono i genitori.
Alcune mamme versano lacrime per i figli persi perché vittime delle sette pseudo religiose, o schiavi dei giochi d’azzardo, o diventati succubi delle cattive compagnie che li porteranno alla devianza sociale e ai guai con la legge. Altre piangono per i figli in carcere per propria colpa o all’ospedale per malattie incurabili di cui non hanno colpa.
Aspettate il prossimo fine settimana con la cosiddetta “febbre del sabato sera”, e ci sarà qualche mamma che in ansia aspetterà il ritorno del figlio o della figlia dalla discoteca (lo “sballo” settimanale). Purtroppo qualcuna cambierà la propria ansia in lacrime e dolore: il figlio che aspetta non tornerà più perché è già entrato nelle statistiche delle “vittime del sabato sera”.
A tutte queste mamme in difficoltà Monica, madre anche lei, può essere di aiuto e di conforto, di speranza e di esempio. Il figlio Agostino riconobbe che grande merito della propria conversione era della madre, grazie alle sue continue preghiere e alle tante lacrime versate. Si riferiva a questo fatto quando, nelle famose Confessioni, scrisse: “Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca”. E le tante lacrime erano di Monica e quel figlio che non poteva perire era lui stesso, Agostino.

MONICA VINSE IL VINO E CONVERTÌ IL MARITO
Monica nacque a Tagaste nell’odierna Algeria del nord, nell’anno 331, da genitori cristiani, ma che non erano eccessivamente preoccupati di dare una seria educazione cristiana ai figli (come molti genitori oggi). Se nel caso di Agostino l’educatrice alla fede e alla vita cristiana di ogni giorno fu la madre Monica, per quest’ultima fu invece la nutrice di famiglia, che aveva già tenuto in braccio suo padre.
Questa donna era quindi parte della famiglia, ben voluta, di ottima condotta e saggezza. E possiamo immaginare anche un po’ anziana. Agostino fa un grande elogio di lei: “Era energica nel punire con santa severità quando era opportuno e ricca di saggezza nell’istruire”. La dottrina del permissivismo in educazione, seguita da non pochi genitori ed educatori di oggi, non faceva parte del bagaglio di questa nutrice: era severa ma con saggezza, correggeva ma con tatto, sapeva anche punire ma con giustizia. Nei migliori trattati di pedagogia non deve mancare un capitolo sui “castighi” e giustamente. Questo anche perché il peccato originale e le sue conseguenze sono una verità di fede, e non è stato ancora cancellato (o superato) dalla tecnologia moderna. Del resto di castighi ne parlava un super educatore come Don Bosco, che di ragazzi se ne intendeva. Dice Agostino che la nutrice di sua madre era saggia nell’istruire e coscienziosa quando doveva correggerla.
Monica non era nata santa, lo diventò con pazienza, con costanza ed umiltà. Nella sua vita non riscontriamo, come in altre sante, una partenza bruciante sulla strada della perfezione evangelica fin da fanciulla. Aveva i propri difetti e difficoltà che seppe superare. Un esempio: a Monica piaceva il vino. E non poco. L’aveva raccontato lei stessa, nella sua grande umiltà, al figlio Agostino. Questo è segno di santità: “Quando i genitori credendola sobria, le ordinavano secondo i costumi, di andare ad attingere vino, ella, prima di versare il vino nel fiasco… ne beveva un pochino”. Solo un po’, naturalmente. All’inizio. Ma bevi oggi, bevi domani, la debolezza era diventata un’abitudine negativa, una schiavitù (oggi si direbbe una dipendenza).
La nutrice, alla quale non sfuggiva nulla e che aveva intuito tutto, ebbe il coraggio di intervenire. Un giorno, bisticciando con la ragazza le rinfacciò quella debolezza chiamandola “ubriacona”. Qualche “padroncina” di oggi avrebbe minacciato rappresaglie feroci o addirittura il licenziamento per quella “vecchia domestica” che osava tanto e non si faceva gli affari suoi. Monica invece accettò la verità anche se le faceva male, riconobbe l’abitudine non lodevole, e se ne liberò. Anche questo è santità.

TANTE PREGHIERE E LACRIME PER IL FIGLIO AGOSTINO
Nel 353 Monica andò sposa ad un certo Patrizio, romano, dal quale avrà tre figli. Questi non era cristiano, aveva un carattere un po’ violento e non era nemmeno un buon esempio di fedeltà. Una donna meno forte e convinta nella fede cristiana avrebbe invocato subito la separazione o il divorzio. Monica no, voleva rimanere fedele al proprio matrimonio (“nella buona e nella cattiva sorte”) ma senza chiudere gli occhi sulle “malefatte” del suo compagno di vita.
E così la seconda battaglia che lei vinse, dopo il vino, fu quella del marito. Battaglia paziente, dolorosa, lunga, ma vittoriosa: riuscì infatti a guadagnare al Signore anche lui. Questi morirà nel 371, dopo essere diventato buon cristiano grazie alla preghiera incessante, alle lacrime e alla pazienza della moglie Monica. Scrisse Agostino: “Così non ebbe più da piangere quelle sue infedeltà che aveva dovuto tollerare quando egli non era ancora credente”. Anche questo è santità.
Ma la più grande sofferenza e nello stesso tempo la più grande gioia a Monica arriveranno dal figlio Agostino. Lei stessa l’aveva educato cristianamente, con la parola e con l’esempio, gli aveva messo nel cuore e sulle labbra fin da bambino il nome di Gesù, che nonostante tutte le peripezie filosofiche ed esistenziali, non dimenticherà mai.
Già qualche anno prima della morte del marito, quel figlio tanto intelligente le dava molte preoccupazioni. Sarà lei stessa che nel 371 lo manderà a Cartagine a proseguire gli studi. E sarà nello stesso anno che Agostino incomincerà la convivenza (come si vede era molto “moderno”) con una donna, dalla quale, l’anno dopo, avrà anche un figlio, Adeodato. Questa scelta fuori dal matrimonio fu per Monica un duro colpo: vedeva infatti il figlio allontanarsi dagli insegnamenti che gli aveva dato e anche dalle regole della propria fede cristiana (era nel frattempo passato all’eresia manichea). Per questi motivi, tornato a Tagaste lei, pur tra le lacrime, in un primo tempo non volle riaverlo in casa, finché confortata da un sogno, lo riammise presso di sé.

AGOSTINO CONVERTITO: MISSIONE COMPIUTA
Nel 375 Agostino si trasferì a Cartagine per insegnarvi eloquenza, mentre dopo l’incontro col vescovo manicheo Fausto, cominciava la sua crisi filosofica. Monica continuò sempre a invitarlo al ritorno alla vera fede, e non cesserà mai di pregare, tra le lacrime, per la conversione del figlio.
Questi invece, con uno stratagemma, riuscì a sfuggirle, imbarcandosi nottetempo per Roma (383), dove, dopo aver superato una lunga malattia, cominciò ad insegnare eloquenza e retorica. Finché ottenne un posto, tramite il prefetto di Roma Simmaco, a Milano.
Forse Agostino credeva che più andava verso nord, più la madre rimaneva… lontana. E si sbagliava di grosso. Monica non aveva ormai nessun interesse, nessuna preoccupazione, nessun obiettivo terreno che la sua conversione. E questo amore, anche se tra le lacrime, non si lasciava spaventare dalle distanze e dai disagi che comportavano i viaggi di allora. E così Monica, per amore del figlio prodigo, fuggito lontano, dopo aver viaggiato con il mare in tempesta, arrivò nell’anno 385 a Milano, accompagnata da Navigio, fratello di Agostino.
Qui la Mano Provvidenziale di Dio li aspettava entrambi con l’incontro con il vescovo della città, Ambrogio “un uomo di Dio”, e un “vescovo noto in tutto il mondo”. Tutti e due seguirono le sue omelie, tutte e due rimasero molto bene impressionati (anche se Agostino all’inizio badava più alla forma retorica che alla sostanza). Ambrogio predicava, Monica pregava (e faceva opere di carità), Agostino pensava, e passava di crisi in crisi e di filosofia in filosofia, dal manicheismo allo scetticismo, dai neo accademici e ai neoplatonici. La grazia di Dio intanto, per vie misteriose come sempre, lavorava su tutti.
La tanto sospirata conversione di Agostino arrivò alla fine del 386, e con il battesimo suo (e del figlio Adeodato) per mano del vescovo Ambrogio nella Pasqua del 387. Questo era il sigillo sul grande travaglio di Agostino nella sua ricerca della verità, e la fine delle tante preghiere e lacrime di Monica per lui. Missione compiuta. Non aveva altri obiettivi terreni. Il Paradiso, questa volta, non poteva più attendere.
Alcuni mesi dopo il battesimo infatti progettarono di tornare in patria. Arrivati ad Ostia tutti e due, madre e figlio convertito, ebbero la famosa estasi di cui si parla nelle Confessioni. Era un piccolo saggio (di Dio) e assaggio per loro di vita eterna, che cambiò la prospettiva di vita per entrambi. Così Agostino riferisce le ultime parole della madre: “C’era una cosa sola per la quale desideravo rimanere un poco su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto a fare qui?”. Infatti moriva poco dopo, sempre a Ostia, all’età di 56 anni, mentre Agostino ne aveva 33, e stava per cominciare la sua prodigiosa opera. Grazie alla perseveranza, alla pazienza, al coraggio, alle preghiere e alle “tante lacrime” di una grande donna e di una grande madre, Monica.
MARIO SCUDU, sdb

NULLA È LONTANO DA DIO
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).

MONICA E AGOSTINO IN ESTASI A OSTIA
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).
Pochi giorni prima che lei morisse… accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli… C’era un grande silenzio… Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X). 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 26 août, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: SANTA CHIARA D’ASSISI – 11 AGOSTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100915_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 15 settembre 2010

SANTA CHIARA D’ASSISI – 11 AGOSTO

Cari fratelli e sorelle,

una delle Sante più amate è senz’altro santa Chiara d’Assisi, vissuta nel XIII secolo, contemporanea di san Francesco. La sua testimonianza ci mostra quanto la Chiesa tutta sia debitrice a donne coraggiose e ricche di fede come lei, capaci di dare un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa.

Chi era dunque Chiara d’Assisi? Per rispondere a questa domanda possediamo fonti sicure: non solo le antiche biografie, come quella di Tommaso da Celano, ma anche gli Atti del processo di canonizzazione promosso dal Papa solo pochi mesi dopo la morte di Chiara e che contiene le testimonianze di coloro che vissero accanto a lei per molto tempo.

Nata nel 1193, Chiara apparteneva ad una famiglia aristocratica e ricca. Rinunciò a nobiltà e a ricchezza per vivere umile e povera, adottando la forma di vita che Francesco d’Assisi proponeva. Anche se i suoi parenti, come accadeva allora, stavano progettando un matrimonio con qualche personaggio di rilievo, Chiara, a 18 anni, con un gesto audace ispirato dal profondo desiderio di seguire Cristo e dall’ammirazione per Francesco, lasciò la casa paterna e, in compagnia di una sua amica, Bona di Guelfuccio, raggiunse segretamente i frati minori presso la piccola chiesa della Porziuncola. Era la sera della Domenica delle Palme del 1211. Nella commozione generale, fu compiuto un gesto altamente simbolico: mentre i suoi compagni tenevano in mano torce accese, Francesco le tagliò i capelli e Chiara indossò un rozzo abito penitenziale. Da quel momento era diventata la vergine sposa di Cristo, umile e povero, e a Lui totalmente si consacrava. Come Chiara e le sue compagne, innumerevoli donne nel corso della storia sono state affascinate dall’amore per Cristo che, nella bellezza della sua Divina Persona, riempie il loro cuore. E la Chiesa tutta, per mezzo della mistica vocazione nuziale delle vergini consacrate, appare ciò che sarà per sempre: la Sposa bella e pura di Cristo.

In una delle quattro lettere che Chiara inviò a sant’Agnese di Praga, la figlia del re di Boemia, che volle seguirne le orme, parla di Cristo, suo diletto Sposo, con espressioni nunziali, che possono stupire, ma che commuovono: “Amandolo, siete casta, toccandolo, sarete più pura, lasciandovi possedere da lui siete vergine. La sua potenza è più forte, la sua generosità più elevata, il suo aspetto più bello, l’amore più soave e ogni grazia più fine. Ormai siete stretta nell’abbraccio di lui, che ha ornato il vostro petto di pietre preziose… e vi ha incoronata con una corona d’oro incisa con il segno della santità” (Lettera prima: FF, 2862).

Soprattutto al principio della sua esperienza religiosa, Chiara ebbe in Francesco d’Assisi non solo un maestro di cui seguire gli insegnamenti, ma anche un amico fraterno. L’amicizia tra questi due santi costituisce un aspetto molto bello e importante. Infatti, quando due anime pure ed infiammate dallo stesso amore per Dio si incontrano, esse traggono dalla reciproca amicizia uno stimolo fortissimo per percorrere la via della perfezione. L’amicizia è uno dei sentimenti umani più nobili ed elevati che la Grazia divina purifica e trasfigura. Come san Francesco e santa Chiara, anche altri santi hanno vissuto una profonda amicizia nel cammino verso la perfezione cristiana, come san Francesco di Sales e santa Giovanna Francesca di Chantal. Ed è proprio san Francesco di Sales che scrive: “È bello poter amare sulla terra come si ama in cielo, e imparare a volersi bene in questo mondo come faremo eternamente nell’altro. Non parlo qui del semplice amore di carità, perché quello dobbiamo averlo per tutti gli uomini; parlo dell’amicizia spirituale, nell’ambito della quale, due, tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito” (Introduzione alla vita devota III, 19).

Dopo aver trascorso un periodo di qualche mese presso altre comunità monastiche, resistendo alle pressioni dei suoi familiari che inizialmente non approvarono la sua scelta, Chiara si stabilì con le prime compagne nella chiesa di san Damiano dove i frati minori avevano sistemato un piccolo convento per loro. In quel monastero visse per oltre quarant’anni fino alla morte, avvenuta nel 1253. Ci è pervenuta una descrizione di prima mano di come vivevano queste donne in quegli anni, agli inizi del movimento francescano. Si tratta della relazione ammirata di un vescovo fiammingo in visita in Italia, Giacomo di Vitry, il quale afferma di aver trovato un grande numero di uomini e donne, di qualunque ceto sociale che “lasciata ogni cosa per Cristo, fuggivano il mondo. Si chiamavano frati minori e sorelle minori e sono tenuti in grande considerazione dal signor papa e dai cardinali… Le donne … dimorano insieme in diversi ospizi non lontani dalle città. Nulla ricevono, ma vivono del lavoro delle proprie mani. E sono grandemente addolorate e turbate, perché vengono onorate più che non vorrebbero, da chierici e laici” (Lettera dell’ottobre 1216: FF, 2205.2207).

Giacomo di Vitry aveva colto con perspicacia un tratto caratteristico della spiritualità francescana cui Chiara fu molto sensibile: la radicalità della povertà associata alla fiducia totale nella Provvidenza divina. Per questo motivo, ella agì con grande determinazione, ottenendo dal Papa Gregorio IX o, probabilmente, già dal papa Innocenzo III, il cosiddetto Privilegium Paupertatis (cfr FF, 3279). In base ad esso, Chiara e le sue compagne di san Damiano non potevano possedere nessuna proprietà materiale. Si trattava di un’eccezione veramente straordinaria rispetto al diritto canonico vigente e le autorità ecclesiastiche di quel tempo lo concessero apprezzando i frutti di santità evangelica che riconoscevano nel modo di vivere di Chiara e delle sue sorelle. Ciò mostra come anche nei secoli del Medioevo, il ruolo delle donne non era secondario, ma considerevole. A questo proposito, giova ricordare che Chiara è stata la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta, sottoposta all’approvazione del Papa, perché il carisma di Francesco d’Assisi fosse conservato in tutte le comunità femminili che si andavano stabilendo numerose già ai suoi tempi e che desideravano ispirarsi all’esempio di Francesco e di Chiara.

Nel convento di san Damiano Chiara praticò in modo eroico le virtù che dovrebbero contraddistinguere ogni cristiano: l’umiltà, lo spirito di pietà e di penitenza, la carità. Pur essendo la superiora, ella voleva servire in prima persona le suore malate, assoggettandosi anche a compiti umilissimi: la carità, infatti, supera ogni resistenza e chi ama compie ogni sacrificio con letizia. La sua fede nella presenza reale dell’Eucaristia era talmente grande che, per due volte, si verificò un fatto prodigioso. Solo con l’ostensione del Santissimo Sacramento, allontanò i soldati mercenari saraceni, che erano sul punto di aggredire il convento di san Damiano e di devastare la città di Assisi.

Anche questi episodi, come altri miracoli, di cui si conservava la memoria, spinsero il Papa Alessandro IV a canonizzarla solo due anni dopo la morte, nel 1255, tracciandone un elogio nella Bolla di canonizzazione in cui leggiamo: “Quanto è vivida la potenza di questa luce e quanto forte è il chiarore di questa fonte luminosa. Invero, questa luce si teneva chiusa nel nascondimento della vita claustrale e fuori irradiava bagliori luminosi; si raccoglieva in un angusto monastero, e fuori si spandeva quanto è vasto il mondo. Si custodiva dentro e si diffondeva fuori. Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava” (FF, 3284). Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità!

La spiritualità di santa Chiara, la sintesi della sua proposta di santità è raccolta nella quarta lettera a Sant’Agnese da Praga. Santa Chiara adopera un’immagine molto diffusa nel Medioevo, di ascendenze patristiche, lo specchio. Ed invita la sua amica di Praga a riflettersi in quello specchio di perfezione di ogni virtù che è il Signore stesso. Ella scrive: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro connubio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quarta: FF, 2901-2903).

Grati a Dio che ci dona i Santi che parlano al nostro cuore e ci offrono un esempio di vita cristiana da imitare, vorrei concludere con le stesse parole di benedizione che santa Chiara compose per le sue consorelle e che ancora oggi le Clarisse, che svolgono un prezioso ruolo nella Chiesa con la loro preghiera e con la loro opera, custodiscono con grande devozione. Sono espressioni in cui emerge tutta la tenerezza della sua maternità spirituale: “Vi benedico nella mia vita e dopo la mia morte, come posso e più di quanto posso, con tutte le benedizioni con le quali il Padre delle misericordie benedisse e benedirà in cielo e in terra i figli e le figlie, e con le quali un padre e una madre spirituale benedisse e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen” (FF, 2856).

IL «GRIGIO», IL CANE CHE VEGLIAVA SU DON BOSCO

http://www.tanogabo.it/religione/Grigio.htm

IL «GRIGIO», IL CANE CHE VEGLIAVA SU DON BOSCO

Per quanti insulti e minacce dovesse subire, e per quanto terribili fossero le insidie cui andava soggetto, don Bosco non portò mai armi né mai adoperò la sua forza per respingere gli assalti.
Chi lo vegliava in ogni pericoloso incontro fu sempre la Provvidenza, la quale si servì anche del « Grigio ».
Chi era il « Grigio »? Un cane portentoso, alto più di un metro, che più volte salvò don Bosco in circostanze veramente strane.
Una sera del 1852 don Bosco tornava a casa solo, quando, giungendo da piazza Emanuele Filiberto al Rondò, sente qualcuno corrergli dietro. Si volta di botto, e veduto a pochi passi un tale armato di un nodoso ran­dello, si mette anche lui a correre, nella speranza di poter arrivare a casa prima di essere raggiunto.
Era ormai in fondo alla via che mette all’Oratorio, quando scorge, sul crocicchio di quella con la via Cottolengo, parecchi altri che stanno per prenderlo in mezzo.
Visto il pericolo, pensa di liberarsi prima da colui che lo insegue e, fermandosi d’improvviso, gli punta in petto i gomiti con tanta destrezza, che il misero rimbalza a terra gridando: – Sono morto! sono morto!!!
Il buon esito di quella ginnastica lo salva da uno, ma gli altri, coi bastoni, sono lì li per circondarlo.
In quell’istante, eccoti lì il « Grigio » provvidenziale che, saltando di qua e di là a fianco di don Bosco, manda latrati ed urli formidabili, e si agita con tanta furia, che quei ribaldi, temendo di essere fatti a brani, pregano don Bosco di ammansirlo e tenerlo presso di sé, mentre l’uno dopo l’altro si eclissano, lasciando che il prete faccia la sua strada.
Don Bosco, scortato dal « Grigio » che lo festeggia, giunse tranquillamente a casa.

******************
Sul finir del dicembre 1854, in una notte scura e nebbiosa, ritornava dal centro della città, e discendeva dalla Consolata alla Casa del Cottolengo. A un certo punto s’accorse che due uomini lo precedevano a poca distanza, e acceleravano o rallentavano il passo secondo che lo accelerava o lo rallentava lui.
Non c’era più dubbio: erano male intenzionati. Il Santo pensò di tornare indietro per mettersi in salvo in qualche casa vicina; ma non ebbe più il tempo. Voltatisi improvvisamente, essi gli furono addosso, e gli gettarono un mantello sulla faccia.
Don Bosco, abbassandosi con rapidità, liberò per un istante il capo e prese a dibattersi chiedendo aiuto; ma gli assalitori, avvolgendolo ancor più, gli turarono la bocca con un fazzoletto.
Proprio in quel momento, ecco comparire il « Gri­gio » che, ruggendo come un leone, si slancia con le zampe su quei due, sbattendoli di qua e di là nel fango.
Poi fermo, accanto a don Bosco, ringhia e fissa quei due con aria di trionfo e di sfida.
Quei poveretti, luridi di fango e tremanti di spavento, si alzano alla meglio e gridano:
- Don Bosco, per carità, ci liberi da questo cane! Chiediamo scusa e perdono!

*******************
Un’altra volta ancora il « Grigio », invece d’accompagnarlo a casa, gli impedì di varcare la soglia.
Era notte. Don Bosco doveva uscire per una commissione. Mamma Margherita cercava di dissuaderlo; ma egli, esortatala a non temere, prende il cappello, e si avvia accompagnato da alcuni dei suoi giovani.
Giunti al cancello, trovano il « Grigio » sdraiato.
- Oh! il « Grigio »! – esclamò don Bosco. – Tanto meglio! Saremo in buona compagnia. Alzati, dunque, e vieni con noi.
Ma il « Grigio », invece di obbedire, manda un cupo ringhio e resta al suo posto.
Qualcuno dei giovani lo tocca col piede per farlo alzare, ma esso risponde con un ringhio più forte e cupo. Mamma Margherita che era accorsa, volgendosi a don Bosco, gli dice: – Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane… non uscire!
Il Santo, per contentare la madre, rientra in casa. E subito sopraggiunge un vicino, tutto ansante e trafelato, a raccomandargli di non uscire di casa, perché quattro individui armati si aggirano nei dintorni, decisi a fargli la pelle. Così era difatti, come si seppe poi da altre persone degne di fede.

 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 24 juin, 2014 |Pas de commentaires »

1 OTTOBRE: S. TERESA DEL BAMBINO GESÙ DEL VOLTO SANTO

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1 OTTOBRE: S. TERESA DEL BAMBINO GESÙ DEL VOLTO SANTO

Biografia
Nacque ad Alençon, piccolo paese della Normandia francese,  il 2 gennaio 1873, da Luigi Giuseppe Stanislao Martin (22 agosto 1823 – 29 luglio 1894) e Maria Zelia Guérin (23 dicembre 1831 – 28 agosto 1877), ultima di nove bimbi. Battezzata nel pomeriggio del giorno 4 nella chiesa di Notre – Dame, la bambina ricevette i nomi di Maria Francesca Teresa. L’ambiente familiare era tutto pervaso di fede e di pietà.
I genitori, che nella loro giovinezza avevano aspirato ambedue alla vita religiosa, formarono poi una famiglia, animati dalla preoccupazione principale del bene spirituale delle figlie. Teresa scriverà: «Avevo soltanto buoni esempi intorno a me, naturalmente volevo seguirli» (MA 32). Ebbero nove figli, tra i quali quattro morti in tenera età:

Maria (Suor Maria del Sacro Cuore, carmelitana a Lisieux, 22 febbraio 1860 – 19 gennaio 1940); Paolina (Suor Agnese di Gesù, carmelitana a Lisieux, 7 settembre 1861 – 28 luglio 1951); Leonia (Suor Francesca Teresa, visitandina, 3 giugno 1863 – 16 giugno 1941); Elena (1864 – 1870), Giuseppe Luigi (1866 – 1867), Giuseppe Giovanni Battista (1867 – 1868); Celina (Suor Genoveffa del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 28 aprile 1869 – 25 febbraio 1959); Melania Teresa (16 agosto – 8 ottobre 1870); Teresa (Suor Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 2 gennaio 1873 – 30 settembre 1897).
Il padre aveva imparato l’orologeria in Svizzera mentre la madre dirigeva merlettaie che a domicilio facevano i celebri pizzi di Alençon. Teresa, nata quando la mamma aveva 42 anni ed era sofferente e affaticata, aveva ereditato una salute precaria.
 Da piccina soffriva facilmente di bronchiti, infiammazioni polmonari con febbre alta e oppressione. Di indole e intelligenza precoce, era affettuosissima: «Per tutta la vita è piaciuto a Dio circondarmi d’amore: i primi ricordi sono sorrisi e carezze tenerissime…» (MA 14), ma non era una bambina mite e mansueta: la stessa madre, nei suoi scritti, affermava che quella sua piccola figlia era vivace, fiera e testarda. «…,è di una ostinazione quasi invincibile; quando dice “no”, niente da fare; la metti in cantina tutta la giornata, lei ci dorme piuttosto che dire “sì”» (Lettera della mamma a Paolina 5.12.1875).
 Alla morte della madre (per un male di natura cancerogena), avvenuta il 28 agosto 1877, Teresa aveva solo quattro anni. Il giorno delle esequie della mamma «il buon Dio volle darmene un’altra sulla terra e volle che scegliessi liberamente». E così se Celina si gettò nelle braccia della sorella maggiore, Maria, Teresa si buttò in quelle di Paolina (cfr. MA 44). Il grave lutto le procurò una ferita profonda e il suo carattere cambiò: diventò timida, dolce, sensibile.
Ebbe, nel padre, un valido supporto materiale ma soprattutto spirituale. Egli la chiamava scherzosamente « piccola Regina di Francia e di Navarra », o anche « l’orfanella della Beresina », quasi prevedendo il freddo che la piccola Teresa avrebbe sofferto senza mai un lamento, nel Convento del Carmelo. 
 In famiglia, Teresa fu oggetto della tenerezza più delicata del padre e delle sorelle, per cui non provò alcun dispiacere nel lasciare Aleçon per la nuova residenza a Lisieux, nella bella villa dei Buissonnets dove vivevano zii e cugini. «Non soffrii lasciando Alençon. I bimbi gradiscono i cambiamenti; e venni a Lisieux con piacere» (MA 46). Il trasferimento si era reso quasi necessario a papà Martin per trovare un sostegno nell’ educazione delle cinque figlie.
«Potrei dire che fu durante il mio soggiorno ad Alençon che feci il mio primo ingresso nel mondo. Tutto era gioia, felicità attorno a me, ero festeggiata, coccolata, ammirata, in una parola la mia vita per quindici giorni fu cosparsa soltanto di fiori. Confesso che quella vita aveva un fascino per me… perciò considero una grande grazia non essere rimasta ad Alençon; gli amici che avevamo là erano troppo mondani,… non pensavano abbastanza alla morte…
Quanto ringrazio Gesù di avermi fatto trovare solo «amarezza nelle amicizie della terra». Con un cuore come il mio, mi sarei lasciata prendere e tarpare le ali, … Come può un cuore dedito all’affetto delle creature unirsi intimamente a Dio? … Senza aver bevuto alla coppa avvelenata dell’amore troppo ardente per le creature, io sento che non posso sbagliarmi… Ah, lo sento, Gesù mi sapeva troppo debole per espormi alla tentazione! … Quindi non ho alcun merito per non essermi abbandonata all’amore delle creature, dal momento che ne fui preservata solo per la grande misericordia del buon Dio!»
Paolina, come sua seconda mamma, le era vicina da quando si svegliava: l’aiutava a vestirsi, a recitare le preghiere; più tardi, con l’aiuto delle sorelle, imparò a leggere e a scrivere.
Verso la fine del 1879 Teresa si accostò per la prima volta al sacramento della penitenza. Educata dalle Benedettine di Lisieux, l’8 maggio 1884 ricevette la prima Comunione che fu per lei una « fusione d’amore ».
«Il giorno bello tra tutti finalmente arrivò… come fu dolce il primo bacio di Gesù alla mia anima! Fu un bacio d’amore, mi sentivo amata, e perciò dicevo: «Ti amo, mi do a te per sempre» …da molto tempo, Gesù e la povera piccola Teresa si erano guardati e si erano capiti… Quel giorno non era più uno sguardo, ma una fusione, non erano più due: Teresa era scomparsa, come la goccia d’acqua che si perde in seno all’oceano…» (MA 109).
Poche settimane più tardi, il 14 giugno, ella ricevette il sacramento della Cresima.
L’entrata nel Carmelo di Lisieux della sorella Paolina nel 1882 consentì a Teresa di capire come la vita fosse sofferenza e separazione continua. Pur nel grande dolore per la partenza della sorella cominciò ad avvertire la certezza di una chiamata di Dio. Infelice a scuola, nonostante la pronta e non comune intelligenza, si ammalò di una malattia grave e misteriosa. Un’insistente preghiera a Maria la salvò il 13 maggio 1883: aveva 10 anni. La « Vergine del sorriso » diventò sua Madre.
Nel 1885, Teresa affrontò un’altra dolorosa separazione in quanto la sorella Maria, colei che sapeva tutto quello che passava nella sua anima, decise di farsi anche lei carmelitana.
La notte del 25 dicembre del 1886 ottenne la “grazia di Natale”: la grazia della sua trasformazione, della sua completa conversione. Ricevette la forza di Cristo e la guarigione da una specie di nevrosi (timidezza eccessiva, ipersensibilità, fragilità emotiva, scrupoli, paure…) che la paralizzava, recuperando la sua serenità.
Ormai rassicurata, si aprì a grandi interessi ed intensi desideri, dedicandosi alla conversione dei peccatori. Avendo sentito parlare di un grande criminale, il Pranzini, appena condannato a morte, volle ad ogni costo impedirgli di ricevere il castigo eterno e pose questa intenzione in tutte le sue preghiere. La sua fiducia nella misericordia divina fu appagata e il criminale  salì al patibolo baciando il crocifisso. Fu il suo primo figlio… Intanto il desiderio e la determinazione di entrare anche lei al Carmelo si fecero sempre più forti. «Gesù mi istruiva in segreto delle cose che riguardavano il suo amore». «Tutte le grandi verità della religione… immergevano l’anima mia in una felicità che non era di questa terra. Presentivo ciò che Dio riserva a coloro che lo amano» (MA 138).
Il 29 maggio del 1887 (solennità della Pentecoste), Teresa chiese al padre il permesso di entrare al Carmelo: «Soltanto nel pomeriggio, tornando dai vespri, trovai l’occasione per parlare al mio babbo carissimo; era andato a sedersi sul bordo della vasca, e, con le mani giunte, contemplava le meraviglie della natura… Il bel volto di Papà aveva un’espressione celeste, sentivo che la pace gl’inondava il cuore. Senza dire una parola mi sedetti accanto a lui, gli occhi pieni di pianto. Mi guardò con tenerezza, mi prese la testa, l’appoggiò sul suo cuore, dicendomi: “Che cos’hai, reginetta? Confidamelo”. Poi, alzandosi come per nascondere la propria emozione, camminò lentamente tenendomi sempre la testa appoggiata sul suo cuore. Tra le lacrime gli confidai che desideravo entrare nel Carmelo. Allora le lacrime sue si unirono alla mie, ma non disse una parola per distogliermi dalla mia vocazione… egli fu subito convinto che il mio desiderio era quello di Dio stesso, e nella sua fede profonda esclamò che il buon Dio gli faceva un grande onore a domandargli così le sue figlie. Continuammo a lungo la nostra passeggiata; il mio cuore, sollevato dalla bontà con la quale il mio incomparabile padre aveva accolto le sue confidenze, si riversava dolcemente nel suo. Papà sembrava godere di quella gioia tranquilla che dà il sacrificio consumato…» (MA 143).
 Al Carmelo le monache non erano contrarie al suo ingresso, ma il canonico Delatroette, delegato del Vescovo per il monastero, oppose un veto risoluto, motivandolo con la sua giovane età. Ma «ero risoluta a raggiungere il mio scopo… sarei andata perfino al Santo Padre se Monsignore non mi avesse permesso d’entrare nel Carmelo a quindici anni…  » (MA, 146).
Un pellegrinaggio diocesano a Roma, in occasione delle nozze d’oro sacerdotali di Leone XIII, rese immediatamente possibile quel passo. La accompagnarono il papà e Celina. Dopo varie tappe, giunsero a Roma, al grande giorno, domenica 20 novembre.
«Prima di entrare nell’appartamento pontificio ero ben decisa a parlare, ma mi sentii mancare il coraggio quando vidi alla destra del Santo Padre “Monsignore Révérony!”… “Santo Padre – dissi – in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni”. L’emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre, volgendosi al Monsignore Révérony, il quale mi guardava meravigliato e scontento, disse: “Non capisco bene”… “Beatissimo Padre – rispose il Vicario generale – è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione”. “Ebbene, figlia – rispose il Santo Padre guardandomi con bontà – fate ciò che vi diranno i superiori”. Allora, appoggiando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: “Oh! Beatissimo Padre, se voi diceste ‘sì’, tutti sarebbero d’accordo”. Mi guardò fissamente, e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna parola: “Bene…, bene… Entrerete se Dio lo vorrà» (MA 173-174).
Finalmente il 9 aprile 1888 Teresa, dopo tre mesi di attesa, entrò al Carmelo di Lisieux, varcò la soglia della clausura in preda ad un emozione così profonda che a causa dei battiti del proprio cuore temette di morire.
La mattina del gran giorno, dopo aver dato un ultimo sguardo ai Buissonnets, «partii al braccio del mio caro Re per salire la montagna del Carmelo» (MA 192). «La mia emozione non mi tradì all’esterno. Dopo aver abbracciato tutti i miei, m’inginocchiai dinanzi al mio incomparabile Padre, chiedendogli la benedizione, Per darmela, si mise in ginocchio e mi benedisse piangendo… Dopo qualche istante le porte dell’arca santa si chiusero dietro di me, e là ricevetti gli abbracci delle consorelle… Sentivo nell’animo una pace così dolce e profonda che non posso esprimerla, e da sette anni e mezzo questa intima pace mi è rimasta e non mi ha mai abbandonata, neppure tra le più grandi prove» (MA 193).
 Al Carmelo incontrò « più spine che rose », ma ella tutto offrì per la salvezza delle anime e per i sacerdoti in particolare. Aveva quindici anni, e più delle altre patì il rigore del freddo: andava al refettorio come ad un supplizio per il cibo non adatto – ma era così paziente che le consorelle le passavano i cibi avanzati dalle altre – e poi le penitenze prescritte dalla Regola: astinenza perpetua dalle carni, frequenti e prolungati digiuni, tre flagellazioni settimanali, recita notturna di una parte della liturgia delle Ore, abito di panno rozzo, biancheria di ruvida tela, il pagliericcio. Ma soffriva anche per altro. Scrisse della madre Superiora, Maria di Gonzaga: «… il buon Dio permetteva che, senz’accorgersene, fosse molto severa; non potevo incontrarla senza baciar terra e lo stesso accadeva nei rari colloqui di direzione che avevo con lei» (MA, 197).
La Comunità religiosa era la sua nuova famiglia e lei non doveva avere preferenze, non doveva avere delle confidenti privilegiate, neppure le sorelle Maria e Paolina. Trasformò in stimoli di santificazione maltrattamenti, mediocrità, storture, restituendo gioia in cambio delle offese.
Cercò, con semplicità evangelica e con il sorriso, espressione di quella gioia ultraterrena che la animava, di trasmettere ciò che sentiva e ciò a cui anelava alle sue consorelle, con la parola e con l’esempio. «Non c’è che una cosa da fare per provarti il mio amore, o Gesù, – ella scriveva nel suo libro – : gettare sotto i vostri passi i fiori dei piccoli sacrifici». E altrove: «lo voglio insegnare i piccoli modi che mi sono riusciti»; oppure «0 mio Ben amato, ti supplico d’abbassare il tuo sguardo divino su un gran numero di piccole anime; ti supplico di sceglierti in questo mondo una legione di piccole anime, degne del tuo amore».
Spesso però questi gesti, la sua umiltà e le sue parole furono incomprese. Ma ella non se ne curò e accettò e sopportò pazientemente tutto, non rifiutò alcun lavoro e offrì risolutamente e serenamente tutti i sacrifici, come disse con parole che sono diventate il suo segno distintivo, «per gettare rose su tutti, giusti o peccatori» o «l’indulgenza plenaria, che tutti possono acquistare, non è forse quella della Carità che copre la moltitudine dei peccati?».Teresa «senza illusioni» aveva trovato «la vita religiosa così come se l’era immaginata»; «nessun sacrificio mi ha meravigliato»; «la sofferenza mi ha teso le braccia, e mi sono gettata con amore» (MA 195).
E in sé compì la riforma del monastero.
Il 23 giugno ebbe una prova quale forse mai avrebbe pensato le accadesse: il signor Martin – il suo «re» – sparì da casa per quattro giorni; il 12 agosto poi fu colpito da paralisi. «O Madre, quanto abbiamo sofferto!… ed era soltanto l’inizio della nostra prova. Tuttavia il tempo della mia vestizione era giunto; fui accolta dal capitolo, ma come pensare a fare una cerimonia? Già si parlava di darmi il santo abito senza farmi uscire, quando si decise di aspettare. Contro ogni speranza il nostro diletto papà si riprese dal suo secondo attacco e Monsignore fissò la cerimonia al 10 gennaio» .
 Il giorno della vestizione il papà era presente alla cerimonia, e lei, in abito da sposa, uscì dalla clausura per assistere in mezzo alla famiglia alla cerimonia. Aveva desiderato la neve per quel giorno, e, nonostante il clima mite, nevicò. In quel giorno al nome di Suor Teresa del Bambino Gesù aggiunse anche quello del Volto Santo. «Che bella festa!… niente mancò, niente, nemmeno la neve… e il fiore più bello, più incantevole, era il mio diletto Re … quel giorno fu il suo trionfo, la sua ultima festa quaggiù. Aveva dato tutti i suoi figli al buon Dio… Dopo aver abbracciato per l’ultima volta il mio diletto Re, rientrai in clausura:… subito dopo il mio sguardo si posò sui fiocchi di neve… il cortile era bianco come me. Che delicatezza di Gesù! Prevenendo i desideri della sua piccola fidanzata, le donava la neve…»
«Che io cerchi e non trovi mai che te solo… Che le cose della terra non possano mai turbare la mia anima… Gesù, non ti domando che l’amore, l’amore infinito, senza altro limite che te… l’amore che non sia più io ma Tu»: questa fu la preghiera formulata da Teresa nel giorno della sua professione, l’8 settembre 1890. «Finalmente il bel giorno delle mie nozze arrivò: fu senza nubi, ma la sera prima si alzò nella mia anima una tempesta come mai ne avevo viste. Mai il minimo dubbio sulla mia vocazione mi era venuto in mente; bisognava che conoscessi questa prova». Il Signore sembrava “dormire” nella sua anima. Erano i primi segni della “notte oscura” della fede: «… La sera, mentre facevo la via Crucis dopo mattutino, la mia vocazione mi apparve come un sogno, una chimera: trovavo bellissima la vita del Carmelo, ma il demonio mi ispirava la certezza che non era fatta per me, che avrei ingannato le superiore procedendo per una strada alla quale non ero chiamata. Le mie tenebre erano così grandi che vedevo e capivo una cosa sola: Non avevo la vocazione! Ah, come descrivere l’angoscia della mia anima? Mi sembrava, cosa assurda che dimostra che quella tentazione veniva dal demonio, che se dicevo i miei timori alla maestra questa mi avrebbe impedito di pronunciare i Santi Voti; … piena di smarrimento le raccontai lo stato della mia anima… appena ebbi finito di parlare i miei dubbi scomparvero… La mattina dell’8 settembre, mi sentii inondata da un fiume di pace e fu in questa pace «che sorpassa ogni sentimento» che pronunciai i Santi Voti… Quante grazie ho chiesto in quel giorno! …»(MA 217).
Ebbe in quel periodo una grande consolazione. Era di gusti raffinati anche nello spirito e non trovava facilmente dei “buoni” predicatori, ma le piacquero gli esercizi predicati da padre Alexis Prou che le disse che «le sue colpe non addoloravano il Signore, e aggiunse come suo rappresentante e a nome suo, che Dio era molto contento» di lei (MA 227).
Il suo maestro di preghiera era Gesù, e il suo libro: il Vangelo. «Quando leggo certi trattati spirituali… il mio povero spirito è ben presto affaticato. Chiudo il dotto libro che mi spacca la testa e mi secca il cuore, e apro la S. Scrittura. Basta una sola parola perché scopra al mio animo orizzonti infiniti e la perfezione mi sembra facile» (LT 226). «Senza mostrarsi, senza far sentire la propria voce, Gesù mi istruisce segretamente, non attraverso i libri, poiché io non capisco ciò che leggo» (MB 241).
Il 12 maggio 1892 Teresa ricevette l’ultima visita al Carmelo del signor Martin, che riuscì a dire soltanto: «Al Cielo». Dopo la morte del padre, il 29 luglio 1894, la vita di Teresa fu ancora attraversata da prove interiori, ma fu sollevata dall’incontro con il proprio padre spirituale che la spinse a vele spiegate sulle onde della fiducia e dell’amore.
 Venne affidata a Teresa la formazione delle novizie e anche la sorella Celina, il 14 settembre, fece il suo ingresso fra le suore del Carmelo di Lisieux prendendo il nome di suor Genoveffa del Volto Santo. Le due sorelle si ritrovarono ed ebbero modo di aiutarsi reciprocamente nel loro cammino verso la perfezione.
Verso al fine del 1894, un giorno, proprio durante l’orazione, due versetti dell’Antico Testamento la illuminarono. In San Paolo e nel Vangelo trovò conferma. Anche lei, che si sentiva così piccola, fragile, debole e impotente, incapace di cose grandi, poteva aspirare alla santità: l’ascensore che le avrebbe permesso di salire così in alto sarebbero state « le braccia di Gesù ». Sarebbe bastato aver confidenza totale in Lui, abbandonarsi, restare piccola e divenirlo sempre più. «Il buon Dio non può ispirare desideri inattuabili, perciò posso, nonostante la mia piccolezza, aspirare alla santità; diventare più grande mi è impossibile: debbo sopportarmi tale quale sono con tutte le mie imperfezioni. Nondimeno voglio cercare il mezzo di andare in Cielo per una via ben diritta, molto breve, una piccola via tutta nuova» (MC 271). Teresa ebbe la gioia di scoprire nei Proverbi (9,4) queste parole: «Chi è molto piccolo venga a me»; ed anche la gioia di apprendere da Isaia (66,13) quel che Dio avrebbe preparato al piccolissimo che fosse andato da Lui: «Come una madre accarezza il suo bambino, così io vi consolerò, vi porterò sul seno e vi cullerò sulle ginocchia». La via tutta nuova, breve, diritta era quella dei “piccoli” del Vangelo: «Se non diventerete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,13).
Scoprì così la « piccola via » dell’infanzia spirituale ispirata alla semplicità e all’umile confidenza nell’amore misericordioso del Padre. Non riusciva a rendersi ragione di come alcune sue consorelle avessero « paura di Dio » e si sentiva un po’ sola nella ricerca della santità, perché il suo padre spirituale era andato missionario in Canada. La sua «piccola via » aveva in sé una potenza di dedizione senza limiti e trasformò la sua vita: «Non ho mai rifiutato nulla al buon Dio! ».
Il 9 giugno 1895 Teresa ricevette l’ispirazione di offrirsi quale olocausto all’Amore misericordioso e compì questa offerta di sé insieme alla sorella Celina: 
 «Pensavo alle anime che si offrono come vittime alla Giustizia di Dio allo scopo di stornare e di attirare su di sé i castighi riservati ai colpevoli; questa offerta mi sembrava grande e generosa, ma io ero lontana dal sentirmi portata a farla. «O mio Dio! esclamai in fondo al cuore, ci sarà solo la tua Giustizia a ricevere anime che si immolano come vittime? Il tuo Amore Misericordioso non ne ha bisogno anche lui? … O mio Gesù! che sia io questa felice vittima, consuma il tuo olocausto con il fuoco del tuo Amore Divino!». Madre diletta, lei che mi ha permesso di offrirmi così al buon Dio, lei conosce i fiumi o meglio gli oceani di grazie che sono venuti ad inondare la mia anima. Ah, da quel giorno felice, mi sembra che l’Amore mi penetri e mi circondi, mi sembra che ad ogni istante questo Amore Misericordioso mi rinnovi, purifichi la mia anima e non vi lasci nessuna traccia di peccato…».
Ella accompagnò con la preghiera un giovane seminarista che si preparava a divenire missionario, incoraggiandolo ad affrontare con coraggio e fiducia il suo impegno.
Proprio in quell’anno la Priora, madre Agnese di Gesù (Paolina),  le domandò di scrivere i suoi appunti, quasi un diario. Su di un piccolo quaderno di scuola, cominciò a « Cantare le Misericordie del Signore » nella sua vita. Scisse la prima parte della «Storia di un’anima» (Manoscritto A). I suoi pensieri furono la cronaca quotidiana del suo cammino di identificazione con l’Amore. Scrisse pure dei poemi e delle scene teatrali per le ricreazioni nei giorni di festa particolare per la comunità.
Né la malattia – una grave forma di tubercolosi la stava divorando! – né una tremenda prova interiore contro la fede e la speranza (e qui arrivò a comprendere e com-patire gli increduli del suo tempo!) riuscirono ad arrestare la sua audace fiducia in Gesù Salvatore.
Nella corrispondenza con i suoi due fratelli spirituali sacerdoti missionari, maturò una mentalità ed una passione missionaria per tutta la Chiesa.
«Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome e piantare sul suolo infedele la tua Croce gloriosa! Ma, o mio Amato, una sola missione non mi basterebbe: vorrei al tempo stesso annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino nelle isole più lontane. Vorrei essere missionaria non solo per qualche anno, ma vorrei esserlo stata dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla consumazione dei secoli…Da molto tempo avevo un desiderio che mi pareva veramente irrealizzabile, quello di avere un fratello sacerdote … ed ecco che Gesù non solo mi ha fatto la grazia che desideravo, ma mi ha unita con i vincoli dell’anima a due dei suoi apostoli, …poiché «lo zelo di una carmelitana deve incendiare il mondo», spero con la grazia del buon Dio di essere utile a più di due missionari …».
Il 3 aprile 1896, durante la notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ebbe una prima manifestazione della malattia che l’avrebbe condotta alla morte: «Dopo essere rimasta al “sepolcro” fino a mezzanotte, rientrai nella nostra cella; ma avevo appena posto la testa sul cuscino che sentii un fiotto salire, salire quasi bollendo fino alle mie labbra» (MC, 275).
Nel corso del suo ultimo ritiro (nel settembre 1896), Teresa scrisse il Manoscritto B. Ella scoprì la sua vocazione: « Nel cuore della Chiesa, mia Madre, io sarò l’amore! » e offrì la sua vita per la salvezza delle anime e per l’edificazione della Chiesa.
«Essere tua sposa, Gesù, essere carmelitana, essere, grazie all’unione con te, madre di anime, dovrebbe bastarmi. Non è così! Certo, questi tre privilegi sono la mia vocazione: Carmelitana, Sposa e Madre; ma io sento in me altre vocazioni: mi sento la vocazione di Guerriero, di Sacerdote, di Apostolo, di Dottore, di Martire; insomma, sento il bisogno, il desiderio di compiere per te, Gesù, tutte le opere più eroiche…Sento in me la vocazione di Sacerdote: con quanto amore, o Gesù, ti porterei nelle mie mani … Con quanto amore ti darei alle anime! … vorrei illuminare le anime come i Profeti, i Dottori! Ho la vocazione d’essere Apostolo. Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome …Ma vorrei soprattutto, o mio Amato Salvatore, vorrei versare il sangue per te fino all’ultima goccia! Il Martirio: ecco il sogno della mia giovinezza! … O mio Gesù, cosa risponderai a tutte le mie follie? Esiste un’anima più piccola, più impotente della mia? … Durante l’orazione i miei desideri mi facevano soffrire un vero e proprio martirio. Aprii le epistole di San Paolo per cercare qualche risposta. Mi caddero sotto gli occhi i capitoli XII e XIII della prima lettera ai Corinzi. Nel primo lessi che non tutti possono essere apostoli, profeti, dottori, ecc…, che la Chiesa è composta da diverse membra e che l’occhio non potrebbe essere al tempo stesso la mano. La risposta era chiara ma non appagava i miei desideri, non mi dava la pace… continuai la lettura e questa frase mi rincuorò: «Cercate con ardore i doni più perfetti; ma io vi mostrerò una via ancora più eccellente». E l’Apostolo spiega come tutti i doni più perfetti non sono niente senza l’Amore. Che la Carità è la via eccellente che conduce sicuramente a Dio. Finalmente avevo trovato il riposo! … Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue. Capii che l’Amore racchiudeva tutte le vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi! Insomma che è eterno! Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore, la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore! Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, sei tu che me l’hai dato: nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore! Così sarò tutto, così il mio sogno sarà realizzato!!!».
Teresa ricevette il dono di comprendere davvero il mistero dell’infanzia di Cristo: una infanzia che si estendeva fin sulla Croce, là dove Egli diventò totalmente il Bambino del Padre celeste, abbandonato nelle Sue mani, prima di essere nuovamente deposto sul grembo della Vergine Addolorata. A Teresa – nell’ultimo anno e mezzo di sua vita – fu chiesto di immedesimarsi nella passione di Gesù. Morendo in Croce, Egli si caricò di tutti i nostri peccati, di tutto il nostro rifiuto di Dio, di tutta la nostra maledizione. Perfino il mondo si coprì di tenebra. Ma contemporaneamente il Suo cuore bruciava di amore per il Padre e per tutti gli uomini. Così Cristo esperimentava assieme tutta la tenebra del nostro male e tutto il fuoco luminoso del Suo amore. Così pure Teresa – in quegli ultimi mesi di vita – si sentiva avvolta da tenebre fittissime e da pensieri angoscianti, ma i suoi insegnamenti più caldi sull’amore di Dio e del prossimo, i suoi desideri più travolgenti, le sue espressioni più tenere e delicate appartengono tutte a questo periodo. Fu allora che ella divenne compiutamente «Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo».
L’8 luglio 1897, date le sue gravi condizioni, Teresa venne trasferita in infermeria e madre Agnese di Gesù (Paolina), giorno dopo giorno, ne annotò gli Ultimi colloqui. «Sento di avviarmi al riposo. Ma soprattutto sento che la mia missione sta per cominciare: la mia missione di fare amare il Signore come io l’amo… Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra. Dopo la mia morte farò cadere una pioggia di rose. Nessuno m’invocherà invano. Lavorerò fino alla fine del mondo per i miei fratelli che sono sulla terra fino a che non li vedrò tutti in Paradiso. Quando l’Angelo del Signore dirà: « Il tempo non è più! » allora riposerò perché il numero degli eletti sarà completo» (NV, 17 luglio 1897). I dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificarono; Teresa, comunque, completò il racconto della propria vita scrivendo il Manoscritto C. Il 30 luglio ricevette l’Estrema Unzione e il Santo Viatico. Il 19 agosto l’ultima Comunione. 
«Se questa è l’agonia, che cosa sarà la morte?». «Sì, Dio mio, tutto quello che vorrete, ma abbiate pietà di me!». «Sì, mi pare di aver cercato sempre la verità. Sì, ho capito l’umiltà del cuore».  «Non mi pento di essermi offerta all’Amore». E più tardi: «Non avrei mai creduto possibile soffrire tanto! Mai! Mai! Non posso spiegarmelo se non con i desideri ardenti che ho avuto di salvare la anime» (NV, 30 settembre 1897). Ogni respiro divenne un tormento. Pregò la Madonna: «Mamma!… l’aria della terra mi manca… quand’è che il buon Dio mi darà l’aria del Cielo?» (Ultimi Colloqui, 28,9,1). E, alla fine, fissando gli occhi sul suo Crocifisso: «Oh… l’amo!… Dio mio… Vi… amo!…».
Dopo aver pronunciato queste parole cadde dolcemente indietro, la testa reclinata a destra. Morì il 30 settembre 1897, all’età di ventiquattro anni, con i polmoni quasi completamente consumati. Il 4 ottobre Suor Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo fu sepolta nel cimitero di Lisieux, nel recinto riservato alle Carmelitane Scalze. 
La sua fama, dopo la pubblicazione dei suoi scritti, attraversò velocemente la Francia, l’Europa e il mondo. Venne dichiarata beata da Pio XI il 29 aprile 1923, e dopo appena due anni, il 17 maggio del 1925, lo stesso Pontefice procedette alla solenne canonizzazione in S. Pietro a Roma. Il 14 dicembre del 1927 Santa Teresa fu proclamata « Patrona delle missioni cattoliche universali » insieme a San Francesco Saverio; nel 1932 « Protettrice della Russia » e nel 1944 Pio XII la affiancò a Santa Giovanna d’Arco quale « Patrona di Francia ». Giovanni Paolo II, nella XII Giornata Mondiale della Gioventù a Parigi (1997), volle riproporne la testimonianza additandola come esempio a tutti giovani del mondo. Il 19 ottobre 1997 lo stesso Pontefice proclamò Santa Teresa di Lisieux Dottore della Chiesa (terza « eccezione » dopo Caterina da Siena e Teresa d’Avila).
Teresa Martin è una Santa cattolica amata e venerata anche da ortodossi e protestanti e onorata perfino nel mondo arabo. Un privilegio che condivide solo con S. Francesco d’Assisi.

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 1 octobre, 2013 |Pas de commentaires »
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