Archive pour avril, 2018

San Giuseppe Lavoratore

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SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO E FESTA DEL LAVORO – OMELIA DI PAOLO VI

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SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO E FESTA DEL LAVORO – OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 1° maggio 1968

L’AZIONE MATERNA E REDENTRICE DELLA CHIESA

Diletti Figli e Figlie!

Eccoci a celebrare insieme il primo maggio, la festa del lavoro. È una festa nuova, che ha trovato posto nel calendario religioso in questi ultimi tempi; ed è chiaro che la Chiesa, introducendola nella serie delle sue sacre celebrazioni, manifesta un’intenzione redentrice, quasi un desiderio di ricupero, e certamente uno scopo santificatore. S’era prodotto un distacco in questi ultimi secoli fra la psicologia del lavoro e quella religiosa, un distacco che ha avuto grandi ripercussioni sociali, e che ancora tiene lontane dalla fede tante folle di uomini e di donne, che fanno del lavoro non solo la loro professione, ma altresì la loro qualifica spirituale, l’espressione della loro suprema concezione della vita, in opposizione a quella cristiana. È questo uno dei più grandi malintesi della società moderna, e che tutti oramai dovrebbero sapere risolvere da sé, non solo a lode della verità, ma a tutto vantaggio altresì del lavoro stesso e dei lavoratori, che della fatica e dell’attività produttiva portano nella loro vita l’impronta distintiva.

IL LAVORO COME OGNI ONESTA ATTIVITÀ UMANA È SACRO
Infatti, per ciò che riguarda il lavoro, il pensiero cristiano, e per esso la Chiesa, lo considera come espressione delle facoltà umane, e non soltanto di quelle fisiche, ma altresì di quelle spirituali, che imprimono nell’opera manuale il segno della personalità umana, e perciò il suo progresso, la sua perfezione, e alla fine la sua utilità economica e sociale. Il lavoro è l’esplicazione normale delle facoltà umane, fisiche, morali, spirituali! e riveste perciò la dignità, il talento, il genio perfettivo e produttivo dell’uomo. Ne esplica la sua fondamentale pedagogia, ne segna la statura del suo sviluppo. Obbedisce al disegno primigenio di Dio creatore, che volle l’uomo esploratore, conquistatore, dominatore della terra, dei suoi tesori, delle sue energie, dei suoi secreti. Non è perciò il lavoro, di per sé, un castigo, una decadenza, un giogo di schiavo, come lo consideravano gli antichi, anche i migliori; ma è l’espressione del naturale bisogno dell’uomo di esercitare le sue forze e di misurarle con le difficoltà delle cose, per ridurle al suo servizio; è l’esplicazione libera e cosciente delle facoltà umane, delle mani dell’uomo guidate dalla sua intelligenza. È nobile perciò il lavoro, e, come ogni onesta attività umana, è sacro.

ASSICURARE AL LAVORO UNA SUA GIUSTIZIA CHE GLI RENDA UN VOLTO UMANO FORTE LIBERO E LIETO
Qui, fra le tante, due interrogazioni fermano il facile corso di questi pensieri. E cioè: che cosa dobbiamo dire del lavoro quando esso è pesante, oppressivo, inetto a raggiungere il suo primo risultato, il pane, la sufficienza economica per la vita? quando serve ad accrescere l’altrui ricchezza con lo stento e la miseria propria? quando si manifesta indice, e quasi suggello d’insuperabili e intollerabili sperequazioni economiche e sociali? La risposta teorica è facile, anche se nella pratica è spesso assai difficile; ma è risposta forte della sofferenza umana, una forza alla fine vittoriosa: bisogna rivendicare al lavoro condizioni migliori, progressivamente migliori; bisogna assicurare al lavoro una sua giustizia, che cambi al lavoro il suo volto dolorante e umiliato, e gli renda un volto veramente umano, forte, libero, lieto, irradiato dalla conquista dei beni non solo economici, sufficienti ad una vita degna e sana, ma altresì dei beni superiori della cultura, del ristoro, della legittima gioia di vivere e della speranza cristiana.

OCCORRE PERVENIRE AD UN ORDINE GIUSTO PER TUTTI E ALLA VISIONE CRISTIANA DELLA SOCIETÀ
Molto è già stato fatto in questo senso, ma altro resta ancora da fare. Le grandi encicliche pontificie hanno alzato voce alta e grave a tale riguardo; e così quella dei Pastori e dei Maestri e degli Esponenti del Laicato cattolico. Noi oggi ricordiamo queste magistrali parole, come quelle in cui risuona l’eco dei nostri testi liturgici. La Chiesa così onora il lavoro, e cammina anch’essa, non certo alla retroguardia, sulla via maestra della civiltà del vostro tempo.
L’altra questione, che sorge spontanea parlando del lavoro, è quella relativa alla nuova forma, che ha assunto il lavoro moderno, la forma industriale, quella delle macchine, quella della produzione massiccia, quella che ha trasformato la nostra società, marcando la distinzione e l’opposizione delle classi sociali. Che cosa diremo? si è tanto detto, scritto, operato su questo tema, che non vorremmo apparire semplicisti nelle Nostre risposte. Ma voi conoscete l’elementare semplicità di questo Nostro colloquio. La prima risposta è questa: la Chiesa ammira e incoraggia questa potente espressione del lavoro moderno: perché mira a moltiplicare i beni economici in modo che tutti ne possano, in sufficiente misura, godere; e perché, potenziato dalla macchina, il lavoro è diventato meno gravoso sulle spalle dell’uomo (cfr. Danusso). Potremmo anche dire: perché, organizzato com’è, il lavoro moderno produce nuovi rapporti sociali, nuova solidarietà, nuova amicizia fra chi vi attende, fra i lavoratori specialmente; e ciò è un bene, se davvero la solidarietà dell’amore li unisce e conferisce alla società un tessuto di rapporti umani più compatti e più coscienti, cioè li associa nella confluenza dapprima delle categorie proprie alle indispensabili divisioni funzionali del lavoro compresso e organizzato da compiere, e poi della tutela dei comuni interessi; ma insieme li forma alla concezione organica della società, che non deve risultare dall’urto di contrastanti e irriducibili avidità, ma dall’armonia dialettica della collaborazione ad un ordine giusto per tutti e della partecipazione ad un bene comune razionalmente distribuito. Speranza questa ancora in gran parte, ma anche realtà, che va maturandosi là dove la visione cristiana della società e il concetto sacro della persona umana, quale soltanto il Vangelo può alla fine definire e difendere, guadagnano la mentalità del moderno progresso.

NEL NOME DEL FABBRO DI NAZARETH «SALUTIAMO E BENEDICIAMO TUTTI I LAVORATORI»
Quante cose avremmo ancora da dire! ma questa risulta quasi da sé: la religione sta alla radice e sta al vertice del processo che fa grandeggiare sia il concetto, che la realtà del lavoro. Essa ha una sua dottrina anche per l’aspetto di fatica e di pena, che il lavoro non perde mai, e ricordandone l’infelice origine (cfr. Gen. 3, 19), ne rammenta il felice e sublime epilogo, il suo valore redentivo (cfr. Matt. 5, 6); e quasi l’insegnamento non bastasse a persuaderci dell’onore e dell’amore che al lavoro umano noi dobbiamo, essa, la nostra religione, un esempio e un protettore oggi ci offre, l’umile e grande San Giuseppe, maestro d’opera a quel Cristo dalle cui mani divine l’opera della creazione e della redenzione sortì. Veneriamo Giuseppe, il fabbro di Nazareth; e nel suo nome salutiamo e benediciamo oggi tutti i Lavoratori.
E siccome, in un modo o in un altro, tali siete voi tutti, di cuore tutti vi benediciamo.

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San Marco Evangelista

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Publié dans:immagini sacre |on 24 avril, 2018 |Pas de commentaires »

SAN MARCO EVANGELISTA – 25 APRILE – SEC. I

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SAN MARCO EVANGELISTA – 25 APRILE – SEC. I

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l’apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l’ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L’evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un’altra come martire, ad Alessandria d’Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell’828 nella città della Venezia. (Avvenire)

Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino
Emblema: Leone

Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.

La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio: fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

Il Vangelo
Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

Le vicende delle sue reliquie – Patrono di Venezia
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi Evangelisti |on 24 avril, 2018 |Pas de commentaires »

Coro di Angeli

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Publié dans:immagini sacre |on 23 avril, 2018 |Pas de commentaires »

PACE NELLA LETTERATURA CRISTIANA ANTICA.

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PACE NELLA LETTERATURA CRISTIANA ANTICA.

I testi della letteratura cristiana primitiva confermano e sviluppano ulteriormente questo insegnamento. Nei padri apostolici i Cristiani sono chiamati « figli dell’amore e della pace » (ep. Barn. 21, 9) e la pace è indicata come scopo della vita cristiana nella prima lettera che Clemente, terzo papa di Roma, indirizza alla Chiesa di Corinto (I Clem. 19, 2):
essendo dunque partecipi di numerosi fatti grandi e gloriosi, affrettiamoci allo scopo che ci è stato trasmesso fin dall’inizio, quello della pace, e volgiamo lo sguardo verso il Padre e Creatore di tutto quanto l’universo e abbracciamo i doni eccelsi e sovrabbondanti di Lui e i benefici della pace.
Lo stesso autore in altro passo ci dice che la pace è conseguenza dell’operare bene (II Clem. 10, 2). Anche la correzione fraterna, secondo quanto ammonisce la Didaché (15, 3), deve essere operata nella pace:
biasimatevi reciprocamente non con ira, ma in pace, come avete nel Vangelo
La distinzione fra la pace umana (cioè l’eirene nel senso greco-ellenistico) e la pace divina (cioè l’eirene nel senso biblico e soprattutto cristiano) è netta, e viene esplicitamente sottolineata per esempio nel seguente passo di Giovanni Crisostomo (hom. in Col. 8, 3, PG 62, 354)
Dio è pace, in quanto ci ha messi in pace … non la pace umana: infatti la pace umana discende dal difendersi, dal non subire niente di male: ma io non considero questa, bensì quella che lui stesso (Cristo) ci ha trasmesso.
Che la vera pace sia solo quella che viene da Dio è detto dallo stesso Crisostomo in altri passi (hom. 1, 1 in I Cor., PG 10, 5) e da numerosi altri autori: a questa pace dunque, e soltanto a questa, occorre tenere fissi gli occhi, come insegna Basilio (hom. in Ps. 28, PG 29, 305 A):
in alto infatti è la pace vera … cerca dunque la pace, rottura delle confusioni di questo mondo … per conquistare la pace di Dioxxx
Come diretta conseguenza di tutto ciò, una pace che sia tale solamente in apparenza, in quanto è in realtà il semplice non emergere all’esterno di contraddizioni latenti, non è più un valore: e questo vale anche per la pace all’interno della Chiesa: così si esprime Gregorio di Nazianzo (or. 6, 20, PG 35, 748 B):
Nessuno pensi che io dica che qualunque pace deve essere amata: so infatti che come un certo tipo di dissenso è ottimo, così vi è anche una concordia dannosissima
Una concordia apparente dunque, che non consente all’errore di manifestarsi in tutta la sua portata, non può essere definita pace. La pace come virtù umana è in stretta correlazione con altre virtù, come la giustizia, che viene definita sorella di essa da Severiano di Gabala nel seguente passo (hom. de pace 4, 20, 30 – 21, 2):
(la pace) reca con sé la sua sorella, la giustizia
Sempre Severiano si pone il problema della duplice terminologia usata da Gesù nel donare la pace, e conclude che il primo dei due verbi (dídwmi « do ») è usato secondo la carne, il secondo (Þfíhmi « lascio ») secondo la divinità.
Infine, poste tutte queste premesse, la pace può risiedere solamente nella Chiesa: su quest’affermazione insiste, fra gli altri, Origene (hom. 9, 2 in Jer., PG 13, 349 D):
in essa (nella Chiesa) si compie e si contempla la pace che Egli ci ha dato, se veramente siamo figli della pace
Tanto eirene nel mondo greco quanto pax nel mondo romano vengono usati per indicare semplicemente la comunità cristiana (cfr. p.es. Origene, Contra Cels. V 33; Tertulliano, de cor. 11, 2). In Agostino la pace vera è identificata con la vita eterna: cfr. civ. Dei XIX 20, 648 Quam ob rem summum bonum civitas Dei cum sit aeterna pax atque perfecta, non per quam mortales transeant nascendo atque moriendo, sed in qua immortales maneant nihil adversi omnino patiendo; quis est qui illam vitam vel beatissimam neget, vel in eius comparatione istam, quae hic agitur, quantislibet animi et corporis externarumque rerum bonis plena sit, non miserrimam iudicet? … Res vero ista sine spe illa, beatitudo falsa et magna miseria est: non enim veris animi bonis utitur. Può esservi pace anche fra i non cristiani, ma non per virtù di questi, bensì come semplice dono che Dio fa agli uomini al di là dei loro meriti, al pari del sole o della pioggia (ibid. III 9, 84): Modo autem quia de beneficiis eorum quaestio est, magnum beneficum est pax: sed Dei veri beneficium est, plerumque etiam sicut sol, sicut pluvia vitaeque alia subsidia, super ingratos et nequam
Questo tipo di dottrina viene ulteriormente accentuata in alcuni autori, fino a definire la pace tra i non cristiani come vera e propria congregazione vòlta verso il male: nasce così la contrapposizione fra una pace buona (quella della Chiesa) e una pace perniciosa e nociva (quella dei non credenti): così leggiamo per esempio nel vescovo ginevrino Salonio, autore di un commento al Vangelo di Matteo (ed. Curti, 142 ss.):
RESP. Videntur quidem haec exempla (scil. Mt. 10, 34 et Ioh. 14, 27) esse contraria, sed nulla est contrarietas quia est pax mala et noxia, est et bona et salutaris. De bona pace dicit dominus: Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis, de mala vero pace mox subiungit: Non qualem mundus dat ego do vobis Ostendit enim quia mundus, id est mundi amatores et carnales homines habent pacem suam. INT. Quae est pax mundi? RESP. Societas et concordia malorum hominum; de hac pace dicit dominus: Non veni pacem mittere in terram, hoc est non veni dare malis concordiam et societatem ut in malo perseverent, sed veni mittere gladium qui eos separet.

 

Publié dans:STUDI |on 23 avril, 2018 |Pas de commentaires »

IL Buon Pastore

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Publié dans:immagini sacre |on 20 avril, 2018 |Pas de commentaires »

QUARTA DOMENICA DI PASQUA – ANNO B – OMELIA

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QUARTA DOMENICA DI PASQUA – ANNO B – OMELIA

“ECCO IO SONO CON VOI TUTTI I GIORNI”

IL VANGELO DI OGGI: GESÙ BUON PASTORE

Ogni anno in questa domenica la Chiesa nella Liturgia della Parola spezzetta – nei tre anni A – B – C – il decimo capitolo di Giovanni, il capitolo di Gesù Buon Pastore.
Parlando di questo meraviglioso capitolo di Giovanni così ricco di messaggio spirituale penso che sia prima di tutto opportuno mettere in risalto come questa analogia del BUON PASTORE non sia un’originalità di Gesù, ma sia una Sua appropriazione e sviluppo di quella commuovente figura biblica del Buon Pastore che sia i Salmi (23,1; 80,2) che Isaia (40,11), Geremia (31,10), Zaccaria (1,9) e – soprattutto – Ezechiele (34) avevano già proclamato nel VT.
Quando gli apostoli e ogni ebreo che ascoltava Gesù Lo sentì parlare di sé come il “Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore” non poteva non pensare a questi Scritti Sacri – in particolare a Ez 34 – in cui il profeta parla di Dio d’Israele come un Buon Pastore che ama le sue pecore, le raccoglie, le difende, le cura con affetto e va in cerca di quelle smarrite.
Autoproclamandosi il “Buon Pastore” Gesù quindi implicitamente proclama di essere il Dio di Israele, non a caso proprio in questa circostanza Egli affermerà solennemente che nessuno può toglierGli la vita, ma che è Lui che la offre per poi riprendersela quando vuole.
Detto questo vediamo, con l’aiuto dello Spirito Santo, di entrare in profondità in questa parte del capitolo decimo di Giovanni che la Chiesa oggi ci dona come cibo spirituale per la nostra anima.
Gesù ci dice che Lui è il “Buon Pastore” perché dà la vita per le sue pecore e si contrappone quindi alla figura del “mercenario” a cui importa poco delle pecore, non dà la vita per esse, mentre Lui sì.
Com’è bello soffermarsi in preghiera, in contemplazione davanti a Gesù che fa a ciascuno di noi questa solenne dichiarazione d’amore: “Io offro la mia vita per te” perché “ti amo di amore eterno” (Ger 31,3), “non c’è un amore più grande di questo: dare la vita per chi si ama”(Gv 15,13).
Vedete, se un semplice uomo può conquistare il cuore di una donna a tal punto che questa lasci tutto per seguirlo, non potrà il Signore Gesù, che è Dio, conquistare ancora oggi il cuore di tanti, uomini e donne, con la forza di questa sua dichiarazione d’amore, affascinarli e sedurli con la forza di un amore che è troppo grande per poter essere ricambiato abbastanza?
Carissimi fratelli e sorelle, bisogna che poniamo attenzione a questa dichiarazione d’amore di Gesù tutti, tutti. Il nostro essere cristiani infatti non può spiegarsi semplicemente come un fatto culturale o sociale o come l’assenso del nostro giudizio ad una tavola di valori e di criteri di vita. L’esser cristiano non può avere altre motivazioni che la risposta a questa dichiarazione d’amore di Dio in Gesù rivolta a tutti e ciascuno.
È in questo orizzonte di risposta che poi si innesterà quella risposta totale, assoluta e piena che alcuni sono chiamati a dare nella donazione sacerdotale o religiosa.
Gesù, è chiaro: “Io conosco le mie pecore ed esse mi conoscono, come il Padre conosce me e io conosco Lui”, vedete, non si tratta di una conoscenza intellettuale e esteriore, Lui ci conosce e si fa conoscere di una conoscenza intima, amorosa. Perché non ci siano equivoci Gesù paragona la conoscenza reciproca nostra con Lui con quella che Lui stesso ha con il Padre. Qui si apre un campo di contemplazione ricchissimo: come Gesù conosce il Padre? Tutti i Vangeli non sono che una solenne dichiarazione d’amore del Figlio al Padre, al Padre che Lui ama (cfr. Gv 4,31), dal Quale tutto riceve (cfr. Gv 13,3) e con il Quale è una cosa sola (cfr. Gv 10,30) e dichiarazione d’amore del Padre al Figlio che Egli ama (cfr. Gv 3,35), al quale ha dato ogni cosa e ogni potere (cfr. Gv 3,35; 5,27; 17,2) del quale Egli si compiace (cfr. Mc 1,11; Mt 12,18; 17,5).
Come non possiamo stupirci e commuoverci per il fatto che Gesù assimili la nostra reciproca conoscenza con Lui con quella che Egli ha con il Padre? Ma interroghiamoci seriamente su questo punto: “Io conosco le mie pecore ed esse mi conoscono”. Vedete Giovanni ha scritto il suo Vangelo non per coloro che non conoscevano Gesù. Marco e Luca scrivono il Vangelo per far conoscere Gesù ai pagani, Matteo per aiutare la catechesi di chi veniva battezzato, Giovanni scrive il suo Vangelo perché coloro che sono già stati catechizzati e vivono nella Chiesa entrino in un rapporto più intimo con Gesù e in Lui con il Padre. Questa è la finalità di Giovanni, farci entrare in intimità con Gesù, con Gesù che ci conosce intimamente (cfr. Gv 2,25) e che si offre alla nostra conoscenza come Amico nostro (cfr. Gv 15,15).
Interroghiamoci dunque sul livello di intimità che viviamo con Gesù, solo nel Quale abbiamo la salvezza (Ia lettura) e nel Quale siamo diventati veri figli di Dio (IIa lettura). Sarà proprio nell’incontro intimo con Gesù, nell’esperienza esistenziale del Suo donarmi la vita che non potrò non sentire il fascino e la bellezza di un amore che sa donare la vita, di un amore che sa assumere la morte per dare la vita.
Gesù Maestro d’Amore questo ci insegna nell’intimo, ci insegna ad amare donando la vita. Dopo il peccato originale non è possibile alla persona umana amare nella verità senza donare la vita. In seguito al peccato originale la persona umana era incapace di amare nella verità perché incapace di donare la vita, Gesù ci salva dandoci la sua capacità di donare la vita e quindi di amare nella verità.
La tentazione che incalza sempre l’umanità di tutti i tempi è quella di credere possibile la realizzazione della persona umana nella felicità e nella gioia ricercando e vivendo un amore senza donare la vita, un amore senza fatica, senza responsabilità, senza sacrificio, senza donazione, un amore dove solo si riceve senza dare.
A questa grande illusione Gesù risponde insegnandoci a donare la vita. Per far questo Lui, Dio, ha voluto farsi uomo per poter morire. In quanto Dio non poteva insegnarci ad amare dando la vita, allora ha voluto assumere la nostra natura umana per insegnarci come si ama e si ama dando la vita.
Giustamente Gesù, nel brano evangelico odierno, ci fa notare che “nessuno poteva togliergli la vita”, nessuno poteva e può uccidere Dio, ma che è Lui che “offre la vita per riprendersela di nuovo”.
No, – lo abbiamo già detto nelle omelie precedenti – non furono i chiodi ad uccidere Gesù, ma l’Amore che porta per noi, quello Lo fece morire, morì d’Amore! Per questo le guardie non gli spezzarono le gambe come agli altri due (cfr. Gv 19,32-34) e Pilato se ne stupì fortemente (cfr. Mc 15,44). Chi avrebbe potuto infatti uccidere Dio?
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, noi che abbiamo conosciuto Gesù, noi che siamo stati istruiti da Gesù, noi che abbiamo conosciuto il suo amore, siamo chiamati a testimoniare a questo mondo che non sa amare, la forza, la bellezza, il fascino, il profumo di un amore che sa donare la vita, come? È molto semplice. Come Lui ha assunto la nostra natura umana per poterci donare la vita, così noi – per amore Suo e nel Suo Amore – siamo chiamati per la gloria del Padre e per la salvezza delle nostre persone ad assumere tutte le pesanti realtà della nostra esistenza quotidiana, le nostre impotenze, le nostre fatiche e i pesi della vita, le solitudini, malattie, dolori, disgrazie, incomprensioni, prove, per donare la vita e quindi AMARE.
Qui è tutta la forza del Risorto, forza che Egli ci comunica nei sacramenti, la capacità di trasformare le nostre situazioni di morte in vita donata e quindi in AMORE. Non esiste, dunque, né può esistere nella concretezza della nostra esistenza di figli di Dio, una situazione di morte tale, una prova così grande, una croce così pesante che possa schiacciarci, infatti quello stesso e identico Amore che ha tenuto stretto Gesù alla croce “è stato riversato nei nostri cuori”(Rm 5,5) e quindi è data a tutti noi la possibilità di amare come Gesù, dando la vita per amore sulla croce e senza scendere da essa.
Carissimi fratelli e sorelle, concludo, a questa concretezza di Amore il Padre chiama ciascuno di noi in Cristo perché il mondo creda, e il mondo crederà, sì crederà, quando ci vedrà amare come ci amò Gesù dando la vita, il mondo aspetta solo questo per credere, non lasciamolo aspettare troppo!

Amen.

 

Battesimo di Gesù

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Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – CATECHESI SUL BATTESIMO. 2. IL SEGNO DELLA FEDE CRISTIANA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20180418_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – CATECHESI SUL BATTESIMO. 2. IL SEGNO DELLA FEDE CRISTIANA

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 aprile 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo, in questo Tempo di Pasqua, le catechesi sul Battesimo. Il significato del Battesimo risalta chiaramente dalla sua celebrazione, perciò rivolgiamo ad essa la nostra attenzione. Considerando i gesti e le parole della liturgia possiamo cogliere la grazia e l’impegno di questo Sacramento, che è sempre da riscoprire. Ne facciamo memoria nell’aspersione con l’acqua benedetta che si può fare la domenica all’inizio della Messa, come pure nella rinnovazione delle promesse battesimali durante la Veglia Pasquale. Infatti, quanto avviene nella celebrazione del Battesimo suscita una dinamica spirituale che attraversa tutta la vita dei battezzati; è l’avvio di un processo che permette di vivere uniti a Cristo nella Chiesa. Pertanto, ritornare alla sorgente della vita cristiana ci porta a comprendere meglio il dono ricevuto nel giorno del nostro Battesimo e a rinnovare l’impegno di corrispondervi nella condizione in cui oggi ci troviamo. Rinnovare l’impegno, comprendere meglio questo dono, che è il Battesimo, e ricordare il giorno del nostro Battesimo. Mercoledì scorso ho chiesto di fare i compiti a casa e ognuno di noi, ricordare il giorno del Battesimo, in quale giorno sono stato battezzato. Io so che alcuni di voi lo sanno, altri, no; quelli che non lo sanno, domandino ai parenti, a quelle persone, ai padrini, alle madrine… domandino: “Qual è la data del mio battesimo?” Perché è una rinascita il Battesimo ed è come se fosse il secondo compleanno. Capito? Fare questo compito a casa, domandare: “Qual è la data del mio Battesimo?”.
Anzitutto, nel rito di accoglienza, viene chiesto il nome del candidato, perché il nome indica l’identità di una persona. Quando ci presentiamo diciamo subito il nostro nome: “Io mi chiamo così”, così da uscire dall’anonimato, l’anonimo è quello che non ha nome. Per uscire dall’anonimato subito diciamo il nostro nome. Senza nome si resta degli sconosciuti, senza diritti e doveri. Dio chiama ciascuno per nome, amandoci singolarmente, nella concretezza della nostra storia. Il Battesimo accende la vocazione personale a vivere da cristiani, che si svilupperà in tutta la vita. E implica una risposta personale e non presa a prestito, con un “copia e incolla”. La vita cristiana infatti è intessuta di una serie di chiamate e di risposte: Dio continua a pronunciare il nostro nome nel corso degli anni, facendo risuonare in mille modi la sua chiamata a diventare conformi al suo Figlio Gesù. E’ importante dunque il nome! E’ molto importante! I genitori pensano al nome da dare al figlio già prima della nascita: anche questo fa parte dell’attesa di un figlio che, nel nome proprio, avrà la sua identità originale, anche per la vita cristiana legata a Dio.
Certo, diventare cristiani è un dono che viene dall’alto (cfr Gv 3,3-8). La fede non si può comprare, ma chiedere sì, e ricevere in dono sì. “Signore, regalami il dono della fede”, è una bella preghiera! “Che io abbia fede”, è una bella preghiera. Chiederla in dono, ma non si può comprare, si chiede. Infatti, «il Battesimo è il sacramento di quella fede, con la quale gli uomini, illuminati dalla grazia dello Spirito Santo, rispondono al Vangelo di Cristo» (Rito del Battesimo dei Bambini, Introd. gen., n. 3). A suscitare e a risvegliare una fede sincera in risposta al Vangelo tendono la formazione dei catecumeni e la preparazione dei genitori, come l’ascolto della Parola di Dio nella stessa celebrazione del Battesimo.
Se i catecumeni adulti manifestano in prima persona ciò che desiderano ricevere in dono dalla Chiesa, i bambini sono presentati dai genitori, con i padrini. Il dialogo con loro, permette ad essi di esprimere la volontà che i piccoli ricevano il Battesimo e alla Chiesa l’intenzione di celebrarlo. «Espressione di tutto questo è il segno di croce, che il celebrante e i genitori tracciano sulla fronte dei bambini» (Rito del Battesimo dei Bambini, Introd., n. 16). «Il segno della croce esprime il sigillo di Cristo su colui che sta per appartenergli e significa la grazia della redenzione che Cristo ci ha acquistata per mezzo della sua croce» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1235). Nella cerimonia facciamo sui bambini il segno della croce. Ma vorrei tornare su un argomento del quale vi ho parlato. I nostri bambini sanno farsi il segno della croce bene? Tante volte ho visto bambini che non sanno fare il segno della croce. E voi, papà, mamme, nonni, nonne, padrini, madrine, dovete insegnare a fare bene il segno della croce perché è ripetere quello che è stato fatto nel Battesimo. Avete capito bene? Insegnare ai bambini a fare bene il segno della croce. Se lo imparano da bambini lo faranno bene dopo, da grandi.
La croce è il distintivo che manifesta chi siamo: il nostro parlare, pensare, guardare, operare sta sotto il segno della croce, ossia sotto il segno dell’amore di Gesù fino alla fine. I bambini sono segnati in fronte. I catecumeni adulti sono segnati anche sui sensi, con queste parole: «Ricevete il segno della croce sugli orecchi per ascoltare la voce del Signore»; «sugli occhi per vedere lo splendore del volto di Dio»; «sulla bocca, per rispondere alla parola di Dio»; «sul petto, perché Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori»; «sulle spalle, per sostenere il giogo soave di Cristo» (Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, n. 85). Cristiani si diventa nella misura in cui la croce si imprime in noi come un marchio “pasquale” (cfr Ap 14,1; 22,4), rendendo visibile, anche esteriormente, il modo cristiano di affrontare la vita. Fare il segno della croce quando ci svegliamo, prima dei pasti, davanti a un pericolo, a difesa contro il male, la sera prima di dormire, significa dire a noi stessi e agli altri a chi apparteniamo, chi vogliamo essere. Per questo è tanto importante insegnare ai bambini a fare bene il segno della croce. E, come facciamo entrando in chiesa, possiamo farlo anche a casa, conservando in un piccolo vaso adatto un po’ di acqua benedetta – alcune famiglie lo fanno: così, ogni volta che rientriamo o usciamo, facendo il segno della croce con quell’acqua ci ricordiamo che siamo battezzati. Non dimenticare, ripeto: insegnare ai bambini a fare il segno della croce.

 

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