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SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO E FESTA DEL LAVORO – OMELIA DI PAOLO VI

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SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO E FESTA DEL LAVORO – OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 1° maggio 1968

L’AZIONE MATERNA E REDENTRICE DELLA CHIESA

Diletti Figli e Figlie!

Eccoci a celebrare insieme il primo maggio, la festa del lavoro. È una festa nuova, che ha trovato posto nel calendario religioso in questi ultimi tempi; ed è chiaro che la Chiesa, introducendola nella serie delle sue sacre celebrazioni, manifesta un’intenzione redentrice, quasi un desiderio di ricupero, e certamente uno scopo santificatore. S’era prodotto un distacco in questi ultimi secoli fra la psicologia del lavoro e quella religiosa, un distacco che ha avuto grandi ripercussioni sociali, e che ancora tiene lontane dalla fede tante folle di uomini e di donne, che fanno del lavoro non solo la loro professione, ma altresì la loro qualifica spirituale, l’espressione della loro suprema concezione della vita, in opposizione a quella cristiana. È questo uno dei più grandi malintesi della società moderna, e che tutti oramai dovrebbero sapere risolvere da sé, non solo a lode della verità, ma a tutto vantaggio altresì del lavoro stesso e dei lavoratori, che della fatica e dell’attività produttiva portano nella loro vita l’impronta distintiva.

IL LAVORO COME OGNI ONESTA ATTIVITÀ UMANA È SACRO
Infatti, per ciò che riguarda il lavoro, il pensiero cristiano, e per esso la Chiesa, lo considera come espressione delle facoltà umane, e non soltanto di quelle fisiche, ma altresì di quelle spirituali, che imprimono nell’opera manuale il segno della personalità umana, e perciò il suo progresso, la sua perfezione, e alla fine la sua utilità economica e sociale. Il lavoro è l’esplicazione normale delle facoltà umane, fisiche, morali, spirituali! e riveste perciò la dignità, il talento, il genio perfettivo e produttivo dell’uomo. Ne esplica la sua fondamentale pedagogia, ne segna la statura del suo sviluppo. Obbedisce al disegno primigenio di Dio creatore, che volle l’uomo esploratore, conquistatore, dominatore della terra, dei suoi tesori, delle sue energie, dei suoi secreti. Non è perciò il lavoro, di per sé, un castigo, una decadenza, un giogo di schiavo, come lo consideravano gli antichi, anche i migliori; ma è l’espressione del naturale bisogno dell’uomo di esercitare le sue forze e di misurarle con le difficoltà delle cose, per ridurle al suo servizio; è l’esplicazione libera e cosciente delle facoltà umane, delle mani dell’uomo guidate dalla sua intelligenza. È nobile perciò il lavoro, e, come ogni onesta attività umana, è sacro.

ASSICURARE AL LAVORO UNA SUA GIUSTIZIA CHE GLI RENDA UN VOLTO UMANO FORTE LIBERO E LIETO
Qui, fra le tante, due interrogazioni fermano il facile corso di questi pensieri. E cioè: che cosa dobbiamo dire del lavoro quando esso è pesante, oppressivo, inetto a raggiungere il suo primo risultato, il pane, la sufficienza economica per la vita? quando serve ad accrescere l’altrui ricchezza con lo stento e la miseria propria? quando si manifesta indice, e quasi suggello d’insuperabili e intollerabili sperequazioni economiche e sociali? La risposta teorica è facile, anche se nella pratica è spesso assai difficile; ma è risposta forte della sofferenza umana, una forza alla fine vittoriosa: bisogna rivendicare al lavoro condizioni migliori, progressivamente migliori; bisogna assicurare al lavoro una sua giustizia, che cambi al lavoro il suo volto dolorante e umiliato, e gli renda un volto veramente umano, forte, libero, lieto, irradiato dalla conquista dei beni non solo economici, sufficienti ad una vita degna e sana, ma altresì dei beni superiori della cultura, del ristoro, della legittima gioia di vivere e della speranza cristiana.

OCCORRE PERVENIRE AD UN ORDINE GIUSTO PER TUTTI E ALLA VISIONE CRISTIANA DELLA SOCIETÀ
Molto è già stato fatto in questo senso, ma altro resta ancora da fare. Le grandi encicliche pontificie hanno alzato voce alta e grave a tale riguardo; e così quella dei Pastori e dei Maestri e degli Esponenti del Laicato cattolico. Noi oggi ricordiamo queste magistrali parole, come quelle in cui risuona l’eco dei nostri testi liturgici. La Chiesa così onora il lavoro, e cammina anch’essa, non certo alla retroguardia, sulla via maestra della civiltà del vostro tempo.
L’altra questione, che sorge spontanea parlando del lavoro, è quella relativa alla nuova forma, che ha assunto il lavoro moderno, la forma industriale, quella delle macchine, quella della produzione massiccia, quella che ha trasformato la nostra società, marcando la distinzione e l’opposizione delle classi sociali. Che cosa diremo? si è tanto detto, scritto, operato su questo tema, che non vorremmo apparire semplicisti nelle Nostre risposte. Ma voi conoscete l’elementare semplicità di questo Nostro colloquio. La prima risposta è questa: la Chiesa ammira e incoraggia questa potente espressione del lavoro moderno: perché mira a moltiplicare i beni economici in modo che tutti ne possano, in sufficiente misura, godere; e perché, potenziato dalla macchina, il lavoro è diventato meno gravoso sulle spalle dell’uomo (cfr. Danusso). Potremmo anche dire: perché, organizzato com’è, il lavoro moderno produce nuovi rapporti sociali, nuova solidarietà, nuova amicizia fra chi vi attende, fra i lavoratori specialmente; e ciò è un bene, se davvero la solidarietà dell’amore li unisce e conferisce alla società un tessuto di rapporti umani più compatti e più coscienti, cioè li associa nella confluenza dapprima delle categorie proprie alle indispensabili divisioni funzionali del lavoro compresso e organizzato da compiere, e poi della tutela dei comuni interessi; ma insieme li forma alla concezione organica della società, che non deve risultare dall’urto di contrastanti e irriducibili avidità, ma dall’armonia dialettica della collaborazione ad un ordine giusto per tutti e della partecipazione ad un bene comune razionalmente distribuito. Speranza questa ancora in gran parte, ma anche realtà, che va maturandosi là dove la visione cristiana della società e il concetto sacro della persona umana, quale soltanto il Vangelo può alla fine definire e difendere, guadagnano la mentalità del moderno progresso.

NEL NOME DEL FABBRO DI NAZARETH «SALUTIAMO E BENEDICIAMO TUTTI I LAVORATORI»
Quante cose avremmo ancora da dire! ma questa risulta quasi da sé: la religione sta alla radice e sta al vertice del processo che fa grandeggiare sia il concetto, che la realtà del lavoro. Essa ha una sua dottrina anche per l’aspetto di fatica e di pena, che il lavoro non perde mai, e ricordandone l’infelice origine (cfr. Gen. 3, 19), ne rammenta il felice e sublime epilogo, il suo valore redentivo (cfr. Matt. 5, 6); e quasi l’insegnamento non bastasse a persuaderci dell’onore e dell’amore che al lavoro umano noi dobbiamo, essa, la nostra religione, un esempio e un protettore oggi ci offre, l’umile e grande San Giuseppe, maestro d’opera a quel Cristo dalle cui mani divine l’opera della creazione e della redenzione sortì. Veneriamo Giuseppe, il fabbro di Nazareth; e nel suo nome salutiamo e benediciamo oggi tutti i Lavoratori.
E siccome, in un modo o in un altro, tali siete voi tutti, di cuore tutti vi benediciamo.

Publié dans:Papa Paolo VI, San Giuseppe |on 30 avril, 2018 |Pas de commentaires »

PAOLO VI – AI GIOVANI IN APERTURA DELLA «SETTIMANA SANTA» (1975)

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PAOLO VI – AI GIOVANI IN APERTURA DELLA «SETTIMANA SANTA» (1975)

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

«Dominica Palmarum», 23 marzo 1975

A voi giovani, invitati a questo rito, tanto significativo, il nostro saluto particolare! A tutti i Fedeli, che con voi vi partecipano, esprimiamo la nostra spirituale e cordiale accoglienza. È un momento importante questo, non solo nel disegno celebrativo della Settimana Santa, che oggi iniziamo, ma altresì nella ripercussione ideale e religiosa, che esso deve assumere nei vostri, nei nostri animi, per la decisione del giorno d’oggi. Ancora una volta noi commemoriamo, noi riviviamo il mistero pasquale. Il grande dramma, tragico e trionfante, della passione, della morte e quindi della vittoriosa risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, si riflette nel mondo, nella storia, e proprio in questo Anno, che chiamiamo santo, per le ragioni speciali da noi enunciate, che vi rendono presente Colui che costituisce il centro del tempo (Cfr. Gal. 4, 4): come il sole lontano, egli è qui, con la sua luce, con la sua azione, con la sua perenne assistenza (Cfr. Matth. 28, 20).
Ascoltateci adesso, voi Giovani specialmente. Si tratta, innanzitutto di avere coscienza, primo, di quello che voi siete, della vostra identità, come oggi si dice. Voi siete qui proprio come giovani, perché giovani. Siete qui come tipici rappresentanti del nostro tempo, come protagonisti della vostra generazione; non tanto come spettatori, invitati e assistenti passivi, ma come attori e fattori del fenomeno caratteristico della vostra gioventù, il fenomeno della novità. Secondo: persuasi della ragione, che giustifica la vostra presenza a questa liturgia rievocatrice, cioè della vostra gioventù, voi assumete un aspetto rappresentativo della vostra generazione; voi rappresentate, nelle vostre persone, la categoria umana a cui appartenete; rappresentate la gioventù del nostro tempo, qualunque ne sia la patria, la classe, la formazione d’origine. Siete qui, perché siete giovani; e come tali noi vi abbiamo invitati, perché vogliamo vedere in voi la età giovanile, nelle sue tipiche espressioni, prescindendo dalle distinzioni differenziali che pure esistono fra di voi e fra le file dei vostri coetanei, di cui tuttavia questa cerimonia affida a voi la funzione qualificante.
Perché noi vi abbiamo qua invitati? Per due motivi: uno riguarda il rito religioso, il quale vuole riprodurre in modo simbolico e sacro la scena evangelica, che voi conoscete, quella cioè dell’ingresso, modesto nella forma, ma clamoroso nelle intenzioni (Cfr. Luc. 19, 40), di Gesù in Gerusalemme, ch’era in quei giorni gremita di popolo per la Pasqua imminente, affinché Egli, Gesù, fosse finalmente e pubblicamente riconosciuto ed acclamato come il Cristo, come il Messia, come il prodigioso Salvatore, atteso da secoli, inviato da Dio, e finalmente arrivato e presente. Momento storico, momento solenne, momento misterioso, di cui, fra tutti, i ragazzi ed i giovani di quella folla, delirante di gioia, meglio intuirono il significato rinnovatore e festivo; e non sapendo come dare all’improvvisata manifestazione lo splendore che meritava, essi principalmente proruppero in acclamazioni bibliche e popolari: «Hosanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele» (Io. 12, 13); e strappati dei rami dalle palme e dagli olivi del luogo, era quello il monte Oliveto, si dettero ad agitarli festosamente, gridando: «Pace in cielo e gloria nell’alto» (Luc. 19, 38).
Ecco; ripensate bene la scena evangelica. I fanciulli, i giovani, riconoscono il Cristo e pur nell’ambiente infido ed ostile dei Farisei e degli scribi della Gerusalemme giudaica di quel tempo (Cfr. Io. 12, 19), essi lo acclamano, essi lo glorificano. Così ora, con questo rito. Secondo motivo. Giovani, voi lo intuite. Noi vorremmo che la fede e la gioia della gioventù, che inneggiò a Gesù Signore, riconosciuto per il vero Cristo, centro della storia e della speranza di quel Popolo, fossero oggi e fossero per sempre le vostre: fede e gioia. Perché ciò sia, noi abbiamo dapprima in silenzio, personalmente pregato; poi vi abbiamo invitato. Ce ne rendiamo conto: il nostro invito è provocante! come un invito d’amore! L’invito a questa festiva cerimonia vuole entrare nei vostri cuori, con una incalzante domanda: Giovani del nostro tempo, volete riconoscere che Gesù è il Salvatore? È il Maestro? È il Pastore, è la guida, è l’amico della nostra vita?
È Lui, e solo Lui, che conosce in profondità il nostro essere, il nostro destino (Io. 2, 25); è Lui, Lui solo che può estrarre dalla nostra oscura coscienza la nostra vera personalità (Cfr. Io. 3, 7; 4, 29; etc.); Lui, Lui solo, che autorizza con efficacia beatificante, ad aprire il dialogo trascendente col mistero religioso ed a rivolgere al Dio infinito e inaccessibile il confidente discorso di figli ad un dolcissimo e verissimo «Padre nostro», che stai nei cieli; Lui, Lui solo, diciamo, che sa tradurre il nostro rapporto religioso in rapporto sociale autentico, cioè a fare dell’amore a Dio il fondamento incomparabile e fecondo dell’amore al nostro prossimo, cioè agli uomini; e ciò tanto più, quanto più questo nostro interesse per il bene altrui è gratuito e universale, e quanto più gli uomini, ormai in Cristo qualificati fratelli, sono nel bisogno, nella sofferenza, e perfino nell’ostilità. Cioè il nostro invito a questa caratteristica cerimonia, nel cuore dell’Anno Santo, si risolve in una domanda decisiva: volete anche voi, Giovani di questo critico momento storico e spirituale, come quelli del giorno delle Palme a Gerusalemme, riconoscere Gesù come il Messia, come il Cristo Signore, centro e cardine della vostra vita? Lo volete davvero porre al vertice della vostra fede e della vostra gioia?
Si tratta di uscire da quello stato di dubbio, d’incertezza, di ambiguità, in cui si trova e si agita spesso tanta parte della gioventù contemporanea. Si tratta di superare la fase di crisi spirituale, caratteristica dell’adolescenza che passa alla giovinezza, e poi dalla giovinezza alla maturità; crisi di idee, crisi di fede, crisi di orientamento morale, crisi di sicurezza circa il significato e il valore della vita. Quanti giovani crescono con gli occhi chiusi, o miopi almeno, circa la direzione spirituale e sociale del loro cammino verso il futuro; la freschezza delle forze giovanili e gli stimoli degli istinti vitali imprimono, sì, una energia al loro libero movimento, una vivacità ai loro comportamenti; ma sanno essi dove vanno, dove valga la pena di impegnare la propria esistenza? L’inquietudine giovanile non supplisce spesso la mancanza di uno stile elegante ed energico d’una vita illuminata da coscienti e superiori ideali? E non scopriamo noi spesso in fondo all’anima giovanile oggi una strana tristezza, che accusa un suo vuoto interiore? E che cosa significa l’incantesimo di qualche barlume spirituale in tanti giovani insoddisfatti e quasi delusi di tutto quanto il mondo moderno loro apre davanti? Un richiamo alla coscienza interiore, alla preghiera, alla fede?
Non prolunghiamo ora questa diagnosi, e accogliamo la conclusione che quest’ora benedetta ci suggerisce. La conclusione è Cristo delle Palme. Un Cristo riscoperto. Un Cristo acclamato. Un Cristo umilmente e fermamente creduto, non nella perpetua e pigra penombra del dubbio, ma nella limpida luce della dottrina, che la Chiesa maestra di verità ci propone. Un Cristo incontrato nell’adesione esultante alla sua parola e alla sua misteriosa presenza ecclesiale e sacramentale. Un Cristo vissuto nella fedeltà semplice e lineare al suo vangelo, sì esigente fino al sacrificio, ma solo fonte di inesausta speranza e di vera beatitudine. Un Cristo, velato e trasparente in ogni volto umano del collega, del fratello bisognoso di giustizia, di aiuto, di amicizia e di amore. Un Cristo vivo. Il «sì» della nostra scelta; il «sì» della nostra esistenza. Giovani, sappiate così comprendere l’ora vostra. Il mondo contemporaneo vi apre nuovi sentieri, e vi chiama portatori di fede e di gioia. Portatori delle palme, che oggi avete nelle mani, simbolo d’una primavera nuova, di grazia, di bellezza, di poesia, di bontà e di pace. Non indarno, non indarno: è Cristo per voi; è Cristo con voi! Oggi e domani; Cristo per sempre.

 

Publié dans:Papa Paolo VI, SETTIMANA SANTA |on 26 mars, 2018 |Pas de commentaires »

PAOLO VI – IIL NATALE: UNA FONDAMENTALE LEZIONE DI UMILTÀ 1976

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PAOLO VI – IIL NATALE: UNA FONDAMENTALE LEZIONE DI UMILTÀ 1976

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 29 dicembre 1976

Il Natale è passato. Ma il Natale rimane. Rimane come fatto storico intorno al quale si organizza e si sviluppa successivamente il cristianesimo, che, tutt’altro che superato ed estenuato, arriva fino a noi. Rimane come concezione della storia, che vede secoli passati, come un momento del tempo iniziato col Natale di Cristo, e vede secoli futuri come logico svolgimento di quell’umile e sommo avvenimento che fu la venuta del Verbo di Dio sulla terra e nel tempo, e che guida i destini dell’umanità fino alla fine dei secoli. Ma rimane come filosofia della vita, come scuola che ci insegna il disegno della nostra esistenza nel tempo, come modello esemplare di ciò che dobbiamo essere e di ciò che dobbiamo fare: dobbiamo essere cristiani e dobbiamo comportarci come tali. Quest’ultimo aspetto del Natale, quello filosofico-morale, è ora per noi tema di questa breve riflessione, nella quale potrebbero confluire i contributi enciclopedici dell’ascetica cristiana sul Natale.
Limitiamoci ad una domanda riassuntiva: qual è l’insegnamento fondamentale e sommario che la nascita di Cristo raccomanda all’umanità, a ciascuno di noi? Noi ci atterremo ancora alla parola di S. Agostino; ma mille maestri ci possono ripetere nel repertorio della letteratura sacra la medesima lezione. Del resto il quadro del presepio parla da sé: se questo è il modo scelto dal Verbo di Dio per farsi uomo, che cosa c’insegna il Signore se non l’umiltà? «Cum esset altus humilis venit» (S. AUGUSTINI Enarr. in Ps. 31, 18: PL 36, 270). E S. Paolo non ha lui racchiuso in una memorabile sintesi il disegno dell’Incarnazione: «Abbiate – egli scrive ai Filippesi – in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso (annientò se stesso) assumendo la condizione di servo, e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Phil. 2, 5-8). E sarà questo pensiero che alimenterà alla radice la cristologia di Sant’Agostino; egli narra nelle «Confessioni» d’aver compreso la missione di Cristo quando capì che l’umiltà era stata scelta da Cristo come via della sua mediazione per condurre l’uomo dalla sua decaduta umanità all’altezza della divinità (Cfr. S. AUGUSTINI Confessiones, VII, c. 28, 24: PL 32, 745). Il florilegio delle citazioni non avrebbe più termine a volerlo raccogliere dalle opere del santo Dottore. (Cfr. E. PORTALIÉ Dict. Théol. Cath., II, 2372)
L’umiltà, di cui si tratta, non è la virtù specifica che S. Tommaso cataloga nella sfera della temperanza, pur riconoscendole un posto principale in una classifica più ampia, quella d’un ordinamento generale della vita morale (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, II-IIæ, 161, 5); ma è quella relativa alla verità fondamentale del rapporto religioso, alla realtà essenziale delle cose, che mette al primo e sommo livello l’esistenza di Dio, personale, onnipotente, onnipresente, al momento in cui Egli viene a confronto con l’uomo: è l’umiltà della Madonna nel «Magnificat», che dà alla creatura il senso di se stessa nella totale dipendenza da Dio, nella sproporzione incolmabile fra l’infinita grandezza di lui e la misura, sempre infima, di chi tutto deve a Dio, nell’avvertenza d’una assoluta necessità della sua provvidenza, che per noi peccatori vuol essere misericordia.Scaturisce da questo punto centrale del Natale, l’umiltà di Cristo-Dio e Uomo, la logica del Vangelo, nel quale sentiamo risuonare le parole del Signore: «imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Matth. 11, 29), e ne ascolteremo l’insegnamento ripercuotersi sui seguaci del Vangelo: «beati i poveri di spirito (cioè gli umili), perché di essi è il regno dei cieli» (Ibid. 5, 3).
Qui occorrono due fugaci, ma importanti osservazioni. La prima ci ricorda che questa fondamentale lezione di umiltà non annulla né la grandezza di Cristo, né curva nel nulla la nostra pochezza. L’umiltà è una attitudine morale che non distrugge i valori ai quali essa si applica; essa è una via per riconoscerli e per ricuperarli (Cfr. Phil. 2, 9 ss.; Eph. 3, 2; Matth. 23, 12). La seconda presenta un confronto fra la mentalità cristiana, tutta imbevuta di umiltà, e la mentalità profana che non apprezza l’umiltà, e la giudica come offesa alla dignità dell’uomo, come criterio debilitante al volontarismo creativo dell’uomo, e come, al più (come già gli Stoici), una saggezza rassegnata alla mediocrità umana. Non staremo a discutere la debolezza di queste posizioni; potremmo piuttosto ricordarne i pericoli (come quelli del superuomo, della sopraffazione di potenza, della cecità dell’infatuazione orgogliosa, del disorientamento pedagogico quando non sia più diretto dalla verità del Vangelo). Ma ci limiteremo a ricordare il premio che accompagna una sapiente umiltà: la grazia, come ci ammoniscono gli Apostoli Pietro (1 Petr. 5, 5) e Giacomo (Iac. 4, 6).

Publié dans:NATALE 2016, Papa Paolo VI |on 18 décembre, 2016 |Pas de commentaires »

OMELIA DI PAOLO VI – FESTIVITÀ DI SAN GIUSEPPE

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OMELIA DI PAOLO VI – FESTIVITÀ DI SAN GIUSEPPE

Venerdì, 19 marzo 1965

Dopo il Vangelo, il Santo Padre desidera dire una parola in onore di San Giuseppe, Sposo purissimo di Maria Vergine, e Patrono della Chiesa Universale. Non intende tessere il panegirico, come si suole in onore dei santi, e ricordare le cose grandi che si possono ammirare in questi uomini superiori, tante volte favoriti dalla natura e sempre favoriti dalla Grazia; ma piuttosto guardare a una fondamentale caratteristica, alla piccolezza, alla paradossale, minima statura che di San Giuseppe offre la narrazione evangelica. Che cosa di più umile, di più semplice, di più silenzioso, di più nascosto ci poteva offrire il Vangelo da mettere accanto a Maria e a Gesù? La figura di Giuseppe è proprio delineata nei tratti della modestia la più popolare, la più comune, la più – si direbbe, usando il metro dei valori umani – insignificante, giacché non troviamo in lui alcun aspetto che ci possa dare ragione della sua reale grandezza e della straordinaria missione che la Provvidenza gli ha affidato, e che forma, a buon diritto, il tema di tante considerazioni, anzi di tanti panegirici in onore di San Giuseppe. Guardandolo nello specchio del racconto evangelico, Giuseppe ci si presenta con i tratti più salienti di estrema umiltà: un modesto e povero, oscuro, piccolo, primitivo operaio che nulla ha di singolare, che non lascia, nel Vangelo stesso, verun accento della sua voce. Nessuna parola di lui ci è ricordata: vi si parla unicamente del suo contegno, della sua condotta, di quanto ha fatto: e tutto in silenzioso nascondimento e in obbedienza perfetta. Era il Padre putativo di Cristo; lo Sposo della Vergine Immacolata; colui che ha dato stato civile in terra a Nostro Signore; che gli ha tributato l’assistenza più devota e necessaria, quella di cui hanno bisogno i pargoli, i fanciulli, gli adolescenti; quella di cui necessitano anche coloro che lavorano ed incominciano a sperimentare le angustie della vita e quel ch’è inerente alla grave fatica e al quotidiano sudore della fronte. Giuseppe è stato, in ogni momento ed in maniera esemplare, insuperabile custode, assistente, maestro. È stato quindi, in tale sua completa, sommessa dedizione, di una grandezza sovrumana che incanta. Fermiamo, perciò, il nostro sguardo, nella odierna ricorrenza, su questa sua umiltà. Come ci pare fraterna, e, si direbbe, vicina a tante nostre stature fragili, mediocri, trascurabili, peccatrici! Come si fa presto a entrare in confidenza con un Santo che non sa dare soggezione, che non vanta nessuna distanza da noi; anzi, con una degnazione che ci confonde, quasi quasi si mette ai nostri piedi per dire: vedi il livello che è stato a me assegnato! Ebbene, proprio a tale livello, a questa inesprimibile sottomissione, il Signore del Cielo e della terra si è curvato, ed ha voluto rendere onore; facendone oggetto della sua scelta, e preferendola a tutti gli altri valori umani. Gesù ha eletto Giuseppe. Ci chiediamo perché Cristo, che aveva libertà di scelta, e, più ancora, aveva possibilità di crearsi un piedistallo di grandezza, nobiltà, potenza, splendore per dominare il mondo e così predicare, e salvare l’umanità, ha invece voluto, come esempio e come tipo a Lui gradito, un santo così piccolo e così umile? A noi sembra che ciò sia per due ragioni. La prima, che è documentabile con molte citazioni della Sacra Scrittura, potrebbe riferirsi, per così dire, a una certa gelosia di Dio. Il Signore è venuto decidendo la cooperazione umana. È venuto a salvarci mediante un sistema composto di due attività: la sua e la nostra. Ha quindi stabilito che la sua infinita potenza, la sua trascendente grandezza, la sua misericordia incommensurabile, venendo in contatto con l’attività umana, non fossero diminuite, o quasi confuse, o anche paragonate alla nostra capacità di bene, alla nostra potenzialità di salute. Ha voluto essere solo, pur accogliendo la nostra collaborazione; ha voluto far emergere tanto di più la sua maestà, la sua provvidenza, da farci ben comprendere che Egli solo è la causa della nostra salvezza. Perciò ha prescelto quale collaboratore lo strumento più umile e più semplice che dimostrava, in un certo senso, questa sua esclusiva onnipotenza di redenzione. La seconda ragione sembra debba riconnettersi proprio ad un atto di affabile condiscendenza e gentilezza verso di noi; ad una cortesia verso la maggior parte, possiamo pur dire la totalità, del genere umano. Poiché Iddio scende dal Cielo e si fa uomo, noi, ancor prima di sentire l’attrattiva verso di Lui, se abbiamo fede, quasi avvertiamo un sentimento di fuga, un bisogno di ritirarci: «Exi a me, quia homo peccator sum»: Allontanati da me, o Signore, perché io sono uomo peccatore. Chi è consapevole della divina presenza, avverte l’impulso ad allontanarsi da Dio prima ancora che l’attrattiva di avvicinarsi a Lui. Come mai? Perché la trascendenza di Dio, resa vicina ed accessibile a noi, resta sempre infinita superiorità e annienta, si può dire, la nostra miseria e la nostra sproporzione. Il Signore, invece, per venire a colloquio con noi, ed essere davvero nostro fratello; per non intimorirci ma chiamarci; per darci confidenza ed aprire con noi il dialogo di tutte le più intime, profonde, salutari confidenze, si è fatto immensamente piccolo. «Humilis Deus», continua a ripetere S. Agostino. Il grande Dottore, tutte le volte che illustra il mistero dell’Incarnazione, non lascia di considerare tale aspetto dominante: un Dio che si abbassa, e lo fa per avvicinarsi e togliere quel senso di lontananza, di estraneità che sarebbe troppo naturale in noi, i quali riconosciamo chi Egli è, pur se desideroso di divenire nostro collega, socio, collocutore. Il Signore è disceso all’ultimo gradino della scala sociale. Come divengono gioiosi gli umili, i poveri, i peccatori, i diseredati; quelli che hanno la piena coscienza della miseria umana – e dovremmo essere tutti -; come esultano d’essere introdotti a Cristo da un Custode, da un Patrocinatore qual è San Giuseppe! Egli, proprio con la sua umiltà – che sembra un invito a noi rivolto nelle espressioni: venite, perché tutti vi chiamo; venite, ché il Signore vi aspetta -, documenta, nell’intera sua vita, il grido, che dovremmo sempre sentire come uno dei più forti ed espressivi del Santo Vangelo, e che riassume la tenerezza amorosa di Cristo per noi: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e addolorati, e io vi consolerò».

                                              

Publié dans:Papa Paolo VI, San Giuseppe |on 16 mars, 2016 |Pas de commentaires »

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PAOLO VI PER LA QUARESIMA 1974

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MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PAOLO VI PER LA QUARESIMA 1974

Diletti Figli e Figlie,

Sono trascorsi circa dieci mesi da quando annunciammo l’Anno Santo. «Rinnovamento» e «riconciliazione» rimangono i motivi chiave di questa celebrazione: essi assommano le speranze che noi poniamo nel Giubileo; ma, come notavamo, essi non sortiranno l’effetto desiderato se non si opererà in noi una certa «rottura» (Cfr. Allocuzione del 9 maggio 1973). Eccoci ora in Quaresima, nel tempo più opportuno per il nostro rinnovamento in Cristo, e per la nostra riconciliazione con Dio e con i nostri fratelli. In Quaresima, infatti, ci associamo alla morte ed alla risurrezione di Cristo, mediante una rottura col peccato, con l’ingiustizia e con gli egoismi. Desideriamo pertanto insistere oggi sulla «rottura» che lo spirito di Quaresima postula: rottura con un attaccamento troppo esclusivo ai beni materiali, siano essi abbondanti, come nel caso del ricco Zaccheo (Cfr. Luc. 19, 8), o scarsi, come nel caso della povera vedova elogiata da Gesù (Cfr. Marc. 12, 43). Nel linguaggio colorito del suo tempo, San Basilio così predicava ai ricchi: «Il pane che a voi sopravanza, è il pane dell’affamato; la tunica appesa al vostro armadio, è la tunica di colui che è nudo; le scarpe che voi non portate, sono le scarpe di chi è scalzo; il denaro che tenete nascosto, è il denaro del povero; le opere di carità che voi non compite, sono altrettante ingiustizie che voi commettete» (Homilia VI in Luc., XII, 18: PG XXXI, Col. 275). Tali parole ci fanno riflettere, in un tempo in cui odio e conflitti sono provocati dall’ingiustizia di coloro che accumulano, mentre altri non possiedono nulla; di coloro che sono più solleciti del proprio domani che dell’oggi altrui; di coloro i quali, o per ignoranza o per egoismo, rifiutano di privarsi del superfluo, a beneficio di quanti sono privi dello stretto necessario (Cfr. Litt. Encycl. Mater et Magistra). E come non ricordare a questo punto, il rinnovamento e la riconciliazione richiesti e assicurati dalla pienezza dell’unico pasto eucaristico? Per comunicare insieme al Corpo del Signore, bisogna sinceramente volere che nessuno sia privo del necessario, fosse pure a prezzo di sacrifici personali, altrimenti noi copriremmo di insulti la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, del quale siamo membra. San Paolo, nella sua ammonizione ai Corinzi, mette in guardia contro il pericolo di una condotta biasimevole a tale riguardo (Cfr. 1 Cor. 11, 17 ss.). Noi peccheremmo contro questa unità di mente e di cuore, se oggi negassimo a milioni di nostri fratelli quanto è necessario al loro umano sviluppo. In questo tempo di Quaresima, la Chiesa e le sue istituzioni caritative sempre più esortano i cristiani a favorire questa immensa impresa. Predicare il Giubileo significa predicare quell’intima e gioiosa rinuncia di sé che ci restituisce alla verità di noi stessi ed alla verità dell’umana famiglia, quale Dio la vuole. In tal modo, la presente Quaresima può rendere anche in questa vita, oltre al pegno della ricompensa celeste, il centuplo promesso da Cristo a coloro che donano con generosità. Sappiate udire, in questo nostro appello, una duplice eco: l’eco della voce del Signore che vi parla e vi esorta, e quella dei gemiti dell’umanità che piange e invoca aiuto. Tutti noi, Vescovi e sacerdoti, religiosi, laici giovani e anziani, sia come individui che membri della comunità, siamo chiamati a contribuire all’opera di ripartizione nella carità, perché questo è un comandamento del Signore. A ciascuno di voi impartiamo la nostra Benedizione Apostolica: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

                     

IL LAICO È ESSENZIALMENTE UN TESTIMONIO – PAPA PAOLO VI * (1968)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_n.htm#DALLA CROCE ADORATA ALLA CROCE VISSUTA

IL LAICO È ESSENZIALMENTE UN TESTIMONIO – PAPA PAOLO VI * (1968)

Ogni fedele dovrebbe rendersi conto della propria definizione e della propria funzione nel quadro del disegno divino della salvezza. Basti a Noi richiamare alla vostra considerazione una parola, che ha molta fortuna nel discorso spirituale moderno: la parola «testimonianza». E’ una bella parola, molto densa di significato, apparentata con quell’altra, più grave e specifica, che suona «apostolato», di cui la testimonianza sembra essere una forma subalterna, ma assai estesa, che va dalla semplice professione cristiana, silenziosa e passiva, fino al vertice supremo, che si chiama martirio e che significa appunto testimonianza. Questo già dice come il termine, oggi tanto usato, di testimonianza nasconda, anzi manifesti molti aspetti della mentalità cristiana… Nel senso che ora ci interessa, la testimonianza è la trasmissione del messaggio cristiano; una trasmissione per via di esempio, per via di parola, per via di opere, per via di vita vissuta, di sacrificio in omaggio alla verità posseduta come valore; valore superiore al proprio stesso benessere e talvolta alla propria stessa incolumità. E’ una verità professata, con intenzione di comunicarla ad altri. Il che suppone tre cose fondamentali: la convinzione propria, personale dapprima; il che esige, a sua volta, una coscienza istruita e convinta: quale testimonianza cristiana può dare chi non ha sufficiente cognizione di Cristo? Chi non vive della sua parola e della sua grazia? La testimonianza non è una semplice professione esteriore, convenzionale; non è un mestiere abituale; è una voce della propria coscienza, è un frutto di vita interiore, è nel suo caso migliore (assicurato al discepolo fedele) il dono d’una ispirazione, che sorge limpida e imperiosa dal fondo dell’anima. Ed è un atto di maturità e di coraggio, al quale il cristiano dovrebbe essere sempre preparato; ce lo insegna San Pietro: dovete essere sempre pronti a dar soddisfazione a chiunque vi chieda ragione della speranza che è in voi (1 Pt. 3, 15). La seconda cosa fondamentale, riguardante la testimonianza cristiana, è la funzione ch’essa esercita nell’economia religiosa cristiana: questa economia, cioè questo disegno, questo piano che regge tutto il sistema dei nostri rapporti con Dio e con Cristo, si fonda sulla testimonianza. Una testimonianza a catena: Cristo è il primo grande testimonio di Dio, Verbo lui stesso di Dio, il Maestro che domanda fede nella sua Persona, nella sua parola, nella sua missione. Poi vengono gli Apostoli, i testimoni oculari e auricolari; ricordate l’incisiva parola dell’evangelista Giovanni: Noi abbiamo veduto e lo attestiamo (1 Gv. 1, 2). E S. Agostino che commenta «Dio ha voluto avere uomini per testimoni» (In Ep. ad Parthos, P.L. 35, 1979). E Gesù, congedandosi dai suoi Apostoli: Voi mi sarete testimoni (Atti 1, 8). E questo ci insegna finalmente una terza cosa: il fine della testimonianza. A che cosa tende; e nella pratica nostra, a che cosa deve tendere: a produrre la fede. Il testimonio è un operatore di fede. Il Concilio ne parla continuamente (cfr. Lumen Gentium, 10-12; Ad Gentes 21; etc.). La testimonianza cristiana è il servizio alla verità che Cristo ha lasciato al mondo; è la trasmissione di questa eredità di salvezza. Ora la conclusione, figli carissimi, è questa: «Il laico – il fedele cristiano – è per essenza un testimonio. Il suo stato è quello della testimonianza». Non è un maestro qualificato, non è un ministro sacerdotale. E’ teste di ciò che la Chiesa insegna e che lo Spirito Santo gli fa accettare e in certo modo sperimentare, vivere. Ma quale grande missione quella di essere testimoni di Cristo! Ciascuno di voi lo può e lo deve essere!

* Udienza generale del 10 gennaio 1969. Osservatore Romano dell’11 gennaio 1968.

SINTESI DELLA FEDE DI UN UMILE CRISTIANO – PAPA MONTINI

http://www.30giorni.it/articoli_id_13604_l1.htm

SINTESI DELLA FEDE DI UN UMILE CRISTIANO – PAPA MONTINI

Montini esprime nel suo testamento la fede in quella forma in cui gli era stata insegnata. Lo riproponiamo ai nostri lettori in occasione del ventunesimo anniversario della sua morte

di Paolo Mattei

Paolo VI a Venezia il16 settembre 1972. Durante quella visita il Papa si tolse la stola rossa e la pose sulle spalle di monsignor Luciani che non era neanche cardinale
Paolo VI a Venezia il16 settembre 1972. Durante quella visita il Papa si tolse la stola rossa e la pose sulle spalle di monsignor Luciani che non era neanche cardinale
Il pontificato di Paolo VI può essere riassunto in queste parole: una difesa della Tradizione apostolica. Un esempio, semplice e comprensibile, di questa difesa della Tradizione degli apostoli è il testamento di papa Montini. Può apparire una cosa un po’ insolita prendere spunto, per indicare il cuore di tutto un pontificato, da uno scritto così personale qual è un testamento. Ma in questo testo tutta la fede cristiana di Montini è espressa con una semplicità fedele e con una bellezza uniche.
Il pericolo più grave per la Tradizione della Chiesa in epoca moderna non viene da una negazione di singoli contenuti della fede. Il pericolo più grave per la Tradizione della Chiesa viene da uno snaturamento dei contenuti della fede. Se non si comprende questo, non si capisce la vera grandezza di Paolo VI. Il pericolo non era la negazione diretta dei contenuti della dottrina della fede, quindi non era, per esempio, l’ateismo marxista. Il pericolo era lo svuotamento dall’interno o, più precisamente, lo snaturamento dall’interno dei contenuti della fede. Il termine snaturare, dall’enciclica Humani generis di Pio XII, è la chiave per comprendere l’attacco alla Tradizione degli apostoli in epoca moderna.
L’espressione di Pio XII, «altri snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale», può individuare quell’apparentemente piccolo mutamento che è alla radice della catastrofe della scristianizzazione moderna. Come aveva intuito Péguy, la scristianizzazione nasce da un errore mistico cioè precisamente dallo snaturare il concetto della gratuità della grazia. La grazia non è più riconosciuta come un avvenimento che si incontra, come un dono gratuito che viene fatto all’uomo, ma viene concepita come una dimensione dell’esistenza umana in quanto tale. Il soprannaturale non è più riconosciuto come un dono che suppone e ricrea la natura secondo il grande principio di san Tommaso d’Aquino («…cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat», scrive l’Aquinate nella Summa theologica I-I, q. 8 ad 2). Ma il soprannaturale viene concepito come una dimensione interna alla stessa natura. Quindi non c’è più distinzione tra natura e grazia, ma si dice: tutto è grazia. E se tutto è grazia, si finisce con l’attribuire alla storia umana un significato assoluto. Non l’avvenimento e quindi la storia di questa particolare realtà che è la grazia, ma la storia umana in quanto tale assume un significato assoluto, quasi fosse essa, e non il mistero e l’operazione della grazia, il principio della divinizzazione dell’uomo.
Così chi ha intelligenza e cuore cattolico comprende facilmente che la crisi della Chiesa non ha avuto il suo apice nella contestazione dei dogmi e dell’autorità degli anni Settanta. La crisi della Chiesa ha il suo apice in questi ultimi decenni.
Quando Paolo VI nel maggio 1978 celebrò la messa funebre per Aldo Moro a San Giovanni in Laterano, apparve agli occhi di tutti come uno sconfitto. Uno che osava utilizzare le parole di Giobbe per rimproverare a Dio di non essere intervenuto a difendere un amico. L’immagine di quel Papa sconfitto rappresenta molto più realisticamente la condizione della Chiesa che non tutti quei gesti e momenti teatrali con cui oggi si tenta di occultare la dilagante scristianizzazione. È come se davanti a una casa distrutta si fosse messo un sipario di teatro. O peggio si fossero usati elementi di quella dimora per costruzioni architettoniche altrui.
Così, per usare un’altra espressione di Péguy, si è ridotto il cristianesimo a eccellente materia di insegnamento. Infatti se la grazia diventa una dimensione dell’umano in quanto tale, se la Chiesa non è più gesto dell’operare della grazia, comunicazione della grazia come dono gratuito, che cosa può fare la Chiesa? Insegnare all’uomo come scoprire la grazia immanente, cioè la grazia ridotta a dimensione della vita umana (come dimensione del lavoro, della sofferenza, del genio femminile, della famiglia, ecc.). La missione della Chiesa non è più riconosciuta come il comunicarsi di un dono non dovuto, di un tesoro gratuito, come la possibilità di un incontro imprevisto e imprevedibile. Ma diventa insegnare ad ogni uomo come scoprire questo tesoro, considerato una dimensione della sua stessa natura e, una volta scoperto questo tesoro, essere buono in forza di esso. Certo, nessuno afferma che l’uomo diventa buono da sé, grazie alle sole sue forze. Questa evidentemente sarebbe l’eresia di Pelagio. Anche se, a dire il vero, nemmeno Pelagio diceva questo. Anche lui parlava della grazia. Ma, come i chierici di oggi, della grazia aveva una concezione puramente intellettiva, come un dono di insegnamento e di intelligenza in grado di far riscoprire agli uomini le possibilità naturali che Dio ha donato loro. Si tratta di uno snaturamento del concetto della gratuità della grazia che lascia intatte le parole cristiane. È quindi molto più difficile cogliere il pericolo, cogliere l’alternativa che questo rappresenta rispetto alla Tradizione degli apostoli.
Nel suo testamento papa Montini esprime, quasi senza accorgersene, la fede in quella forma in cui gli era stata insegnata. Il testamento esprime la sua fede cattolica e la esprime in diretto contrasto con lo snaturamento del concetto di grazia. Per Montini non è vero che tutto è di per sé grazia, non è vero cioè che la grazia si possa concepire come una dimensione immanente all’umano in quanto tale. Questo nel testamento è evidente. È evidente non in termini criticamente riflessi ma innanzitutto come testimonianza immediata di un semplice fedele che dalla Tradizione aveva appreso gli elementi fondamentali della fede cattolica. Anche Montini conosceva a memoria il Catechismo di san Pio X.
«Alcune note per il mio testamento. In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. 1. Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo lo rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce».
Il mistero della morte, nella luce di Cristo, il vincitore della morte, viene guardato con umile e serena fiducia. Questo è il paradosso cristiano: la grazia non censura né sublima. La grazia dona umiltà, luce, conforto nel vivere i fattori, le circostanze della vita.
«Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza».
Questo è il cattolicesimo. La vita naturale è fugace. Eppure è bella. Ha ragione Benigni: La vita è bella. Che venga al mondo un figlio è una cosa bella.
«Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita».
Così il Ti adoro mio Dio (la preghiera del mattino e della sera del Catechismo di san Pio X), che tutti abbiamo recitato e che probabilmente anche Montini avrà ripetuto tutte le mattine e tutte le sere. «Ti adoro mio Dio… ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano». Ecco la chiara distinzione: «avermi creato, fatto cristiano». L’essere stato creato è una cosa bella, mirabile dice la Tradizione della Chiesa. Più bello e più mirabile è l’essere fatto cristiano. Questa affermazione semplice e chiara di due doni distinti (la natura e la grazia) è l’elemento più decisivo di papa Montini in difesa della Tradizione degli apostoli. Ci sono due doni e il secondo, la grazia, rende più mirabile anche il primo, anche perché vi corrisponde gratuitamente. Ma non c’è omologazione, non c’è confusione; quella confusione per cui si dice che tutto è Cristo, tutto è grazia.

«Parimente sento il dovere di ringraziare e di benedire chi a me fu tramite dei doni della vita, da Te, o Signore, elargitimi: chi nella vita mi ha introdotto (oh! siano benedetti i miei degnissimi Genitori!), chi mi ha educato, benvoluto, beneficiato, aiutato, circondato di buoni esempi, di cure, di affetto, di fiducia, di bontà, di cortesia, di amicizia, di fedeltà, di ossequio. Guardo con riconoscenza ai rapporti naturali e spirituali che hanno dato origine, assistenza, conforto, significato alla mia umile esistenza: quanti doni, quante cose belle ed alte, quanta speranza, ho io ricevuto in questo mondo!».
Ecco innanzitutto la bellezza della vita, dei doni naturali elargiti dal Signore, che fa piovere e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
«Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?».
Non c’è bisogno di negare la natura per ringraziare della grazia che, alla fine, è l’unica ricchezza vera che rimane. Ma questo non distrugge la bellezza di quei doni naturali, anzi rende più umili e grati nel riconoscere la loro bellezza. Anche qui c’è la distinzione: la natura e la grazia. In una corrispondenza non ideologica, cioè non stabilita da una spiegazione o da una tesi teologica. È una corrispondenza di incontro, una corrispondenza di esperienza, una corrispondenza di grazia. L’avvenimento della grazia corrisponde gratuitamente al cuore, trasfigura, rendendola più mirabile, la stessa vita naturale; e il riposo ultimamente unico della grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la compie oltre ogni desiderio.
«Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica? come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa, a Roma specialmente, accanto al Papa, poi a Milano, come arcivescovo, sulla cattedra, per me troppo alta, e venerabilissima dei santi Ambrogio e Carlo, e finalmente su questa suprema e formidabile e santissima di San Pietro? In aeternum Domini misericordias cantabo».
Un’ultima osservazione. Ci sono delle note complementari al testamento. Esse furono redatte il 16 settembre 1972 alle ore 7 e 30. Dopo averle scritte, quel medesimo giorno papa Montini andò a Venezia. Fu in quell’occasione che coprì con la sua stola rossa di papa le spalle di monsignor Albino Luciani, che non era neanche cardinale. Si legge in queste note:
«In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.
Magnificat anima mea Dominum, Maria!
Credo. Spero. Amo. In Gesù Cristo.
Ringrazio quanti mi hanno fatto del bene. Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace.
Saluto il carissimo fratello Lodovico e tutti i miei familiari e parenti e amici, e quanti hanno accolto il mio ministero. A tutti i collaboratori, grazie. Alla Segreteria di Stato particolarmente. Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera. Quam dilecta tabernacula tua, Domine!».
Leggendo il testamento è evidente che Montini ha difeso la Tradizione degli apostoli anche perché come cuore era umile. Cioè ha difeso quello che lui stesso umilmente aveva imparato. Il testamento testimonia che Montini ha difeso le poche cose essenziali che lui stesso aveva imparato dalla tradizione cattolica che l’aveva preceduto. Uno, anche se papa, può fare mille peccati. Anche i papi sono poveri peccatori. Sant’Agostino dice che l’essere cristiano è la dignità di grazia che ci accomuna, mentre l’essere vescovo è, di fatto, un pericolo. Se l’essere vescovo di una piccola diocesi dell’Africa rappresentava un pericolo per Agostino, tanto più l’essere vescovo della Chiesa di Roma, con il carico del ministero verso tutte le Chiese, è un pericolo per la stessa salvezza eterna. L’essere vescovo di Roma non evita di per sé la possibilità di peccati e di errori nelle cose umane. Ma, come dice l’apostolo Paolo, di cui Montini volle assumere il nome, ciò che si richiede all’amministratore è semplicemente di essere fedele, cioè di custodire e di difendere un tesoro che non è suo. 

Publié dans:Papa Paolo VI, VIRTÙ E FEDE |on 17 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

PAOLO PP. VI : PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19670222_petrum-et-paulum.html

PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ

Nel XIX centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo

PAOLO PP. VI

VENERABILI FRATELLI SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZION

I santi Apostoli Pietro e Paolo sono giustamente considerati dai fedeli come colonne primarie non solo di questa Santa Sede Romana, ma anche di tutta la Chiesa universale del Dio vivo. Riteniamo, perciò, di fare cosa consona al Nostro ministero Apostolico esortando voi tutti, Venerabili Fratelli, a promuovere, spiritualmente a Noi uniti, ciascuno nella propria diocesi, una devota celebrazione della memoria, diciannove volte centenaria, del martirio, consumato in Roma, tanto dell’apostolo Pietro scelto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, e primo Vescovo di quest’alma Città, quanto dell’apostolo Paolo, dottore delle Genti (Cf 1 Tm 2,7), maestro e amico della prima comunità cristiana in Roma.
La data di questa memorabile ricorrenza non può essere sicuramente fissata, in base ai documenti storici. È certo che i due apostoli furono martirizzati a Roma durante la persecuzione di Nerone, che infierì dall’anno 64 al 68. Il martirio è ricordato da san Clemente, Successore dello stesso Pietro nel governo della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Corinzi, ai quali propone i validi esempi dei due atleti: Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte (1 Epistula ad Corinthios, V, 1-2: ed. FUNK 1, p. 105).
Ai due Apostoli Pietro e Paolo fece corona un gran numero di persone (Cf TACITO, Annales, XV, 44) che costituisce la primizia dei martiri della Chiesa Romana, come scrive lo stesso Clemente: A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi (Epistula ad Corinthios, VI, 1: ed. FUNK 1, p. 107).
Noi, poi, lasciando alle erudite discussioni la precisa determinazione della data del martirio dei due Apostoli, abbiamo scelto, per le celebrazioni centenarie, l’anno corrente, seguendo in ciò l’esempio del Nostro venerato Predecessore Pio IX, il quale volle solennemente ricordare nel 1867 il martirio di san Pietro.
E poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell’uno e dell’altro Apostolo in un’unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.
E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l’abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un’impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L’educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull’orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell’immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l’eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1 Pt 1,4).
E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2 Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2 Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità; l’unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.
Per questo il Nostro invito, oltre che per la nostra diletta diocesi di Roma «di cui sono i celesti patroni», è per voi tutti, che siete Successori degli Apostoli e Pastori della Chiesa universale, in quanto componenti con Noi quel Collegio episcopale, che il recente Concilio Ecumenico, con tanta ricchezza di dottrina e con tanti presagi di futuri incrementi ecclesiali, illustrò; è per voi, fedeli e ministri tutti della santa Chiesa; e così via, a Dio piacendo, per tutti i fratelli che, sebbene non ancora in piena comunione con Noi, sono tuttavia insigniti del nome cristiano, e che ben volentieri sappiamo cultori della memoria e dello spirito dei due Apostoli. In particolare ricordiamo con viva soddisfazione del Nostro animo che le venerande Chiese Orientali celebrano solennemente nelle loro liturgie i due Corifei degli Apostoli, e ne mantengono vivo il culto tra il popolo cristiano. Ci piace altresì rilevare come presso le Chiese e le Comunità Ecclesiali separate dell’Occidente sia viva l’idea dell’apostolicità, che la presente celebrazione mira a vedere sempre più perfetta ed operante, e che san Paolo esprime con quelle mirabili parole: Edificati sopra il fondamento degli apostoli (Ef 2,20).
In che cosa consiste praticamente il Nostro invito? Come insieme celebreremo il significativo anniversario? È costume di questa Sede Apostolica, quando intende rendere solenne e universale qualche singolare ricorrenza, elargire qualche beneficio spirituale (e non Ci rifiutiamo dal farlo anche in questa occasione); ma questa volta, più che donare, Ci piace domandare; più che offrire, vogliamo chiedere. E la Nostra domanda è semplice e grande: Noi vi preghiamo tutti e singoli, Fratelli e Figli Nostri, di voler celebrare la memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, testimoni con la parola e col sangue della fede di Cristo, con un’autentica e sincera professione della medesima fede, quale la Chiesa da loro fondata e illustrata ha raccolto gelosamente e autorevolmente formulata. Una professione di fede vogliamo a Dio offrire, al cospetto dei beati Apostoli, individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca. Vogliamo che questa professione salga dall’intimo di ogni cuore fedele e risuoni identica e amorosa in tutta la Chiesa.
Quale migliore tributo di memoria, d’onore, di comunione potremmo offrire a Pietro e a Paolo che quello della fede stessa, che da loro abbiamo ereditata?
Voi sapete benissimo che il Padre stesso celeste rivelò a Pietro chi era Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivo, il Maestro e il Salvatore da cui a noi deriva la grazia e la verità (Cf Gv 1,14), la nostra salvezza, il cuore della nostra fede; voi sapete che sulla fede di Pietro riposa tutto l’edificio della santa Chiesa (Cf Mt 16,16-19); voi sapete che quando molti abbandonavano Gesù, dopo il discorso di Cafarnao, fu Pietro che, a nome del Collegio Apostolico, proclamò la fede in Cristo Figlio di Dio (Cf Gv 6,68-69); voi sapete che Cristo medesimo si è fatto garante con la sua personale preghiera dell’indefettibilità della fede di Pietro, ed ha a lui affidato l’ufficio, nonostante le sue umane debolezze, di confermare in essa i suoi fratelli (Cf Lc 22,32); e voi anche sapete che la Chiesa vivente ha preso inizio, disceso lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, con la testimonianza della fede di Pietro (Cf At 2,32-40).
Che cosa potremmo a Pietro domandare a nostro vantaggio, a Pietro offrire a suo onore, se non la fede, donde ha origine la nostra spirituale salute, e la nostra promessa, da lui reclamata, d’essere forti nella fede? (1 Pt 5,9)
A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell’atto di fede, a lui l’affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un’unica fede, in un’unica speranza, in un’unica carità dell’unico Corpo Mistico di Cristo? (Cf Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?
Così che arride a Noi la speranza che la commemorazione centenaria del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo si risolva principalmente per tutta la Chiesa in un grande atto di fede. E vogliamo ravvisare in questa ricorrenza la felice occasione che la divina Provvidenza appresta al Popolo di Dio per riprendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla. Non possiamo ignorare che di ciò l’ora presente accusa grande bisogno. È pur noto a voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, come, nella sua evoluzione, il mondo moderno, proteso verso mirabili conquiste nel dominio delle cose esteriori, e fiero d’una cresciuta coscienza di sé, sia incline alla dimenticanza e alla negazione di Dio, e sia poi tormentato dagli squilibri logici, morali e sociali, che la decadenza religiosa porta con sé, e si rassegni a vedere l’uomo agitato da torbide passioni e da implacabili angosce: dove manca Dio manca la ragione suprema delle cose, manca la luce prima del pensiero, manca l’indiscutibile imperativo morale, di cui l’ordine umano ha bisogno (Cf S. AGOSTINO, De civ. Dei, 8, 4: PL 41, 228-229; Contra Faustum, 20, 7: PL 43, 372).
E mentre vien meno il senso religioso fra gli uomini del nostro tempo, privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci, ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della Sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta post-conciliare, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampli e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l’illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del magistero ecclesiastico, avessero a prevalere?
Ed ecco che a confortare la nostra fede nel suo autentico significato, a stimolare lo studio delle dottrine enunciate dal recente Concilio Ecumenico, e a sorreggere lo sforzo del pensiero cattolico nella ricerca di nuove e originali espressioni, fedeli tuttavia al deposito dottrinale della Chiesa, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Cf VINCENZO LERINO, Commonitorium, 1, 23: PL 50, 668; D.-S. 3020), giunge sulla ruota del tempo questo anniversario Apostolico, il quale offre ad ogni figlio della santa Chiesa la felice opportunità: di dare a Gesù Cristo Figlio di Dio, Mediatore e Perfezionatore della rivelazione, l’umile e sublimante risposta: io credo, cioè il pieno assenso dell’intelletto e della volontà alla sua Parola, alla sua Persona, alla sua missione di salvezza (Cf Eb 12,2; CONC. VAT. I, Cost. dogm. de fide catholica, c. 3: DA. 3008, 3020; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 5: AAS 57 (1965), p. 7; CONC. VAT. П, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, nn. 5, 8: AAS 58 (1966), pp: 819, 821); e di onorare così quei sommi testimoni di Cristo, Pietro e Paolo, rinnovando l’impegno cristiano d’una sincera e operante professione della loro e nostra fede, e ancora pregando e lavorando per la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità della medesima fede.
Noi non intendiamo indire a tal fine un particolare Giubileo, quando appena è stato celebrato quello da Noi stabilito a conclusione del Concilio Ecumenico; ma fraternamente esortiamo voi tutti, Venerati Fratelli nell’Episcopato, a voler illustrare con la parola, a voler onorare con particolari solennità religiose, a voler soprattutto recitare solennemente e ripetutamente con i vostri sacerdoti e con i vostri fedeli il «Credo», in una o in altra delle formule in uso nella preghiera cattolica.
Ci piacerà sapere che il «Credo» è stato recitato espressamente, ad onore dei santi Pietro e Paolo, in ogni cattedrale, presenti il Vescovo, il Presbiterio, gli alunni dei Seminari, i Laici cattolici militanti per il regno di Cristo, i Religiosi e le Religiose, e quanto più numerosa possibile la santa assemblea dei fedeli. Analogamente faccia ogni Parrocchia per la propria comunità; e parimente ogni casa religiosa. Così suggeriamo che tale professione di fede sia, in un giorno stabilito, emessa in ogni singola casa ove dimori una famiglia cristiana, in ogni associazione cattolica, in ogni scuola cattolica, in ogni ospedale cattolico e in ogni luogo di culto, in ogni ambiente e in ogni riunione, ove la voce della fede possa esprimere e rinfrancare l’adesione sincera alla comune vocazione cristiana.
Noi rivolgiamo una particolare esortazione agli studiosi della Sacra Scrittura e della Teologia, affinché vogliano contribuire col magistero gerarchico della Chiesa a preservare la vera fede da ogni errore, ad approfondirne le insondabili profondità, a spiegarne rettamente il contenuto, a proporne i sani criteri di studio e di divulgazione. Similmente diciamo ai predicatori, ai maestri di religione, ai catechisti.
L’anno centenario commemorativo dei santi Pietro e Paolo sarà in tale modo l’anno della fede. Affinché la sua celebrazione abbia una certa simultaneità, Noi vi daremo inizio con la festa degli Apostoli medesimi, il 29 giugno prossimo venturo, e procureremo, fino allo scadere della medesima data dell’anno successivo, di renderlo fecondo di particolari commemorazioni e celebrazioni, tutte improntate al perfezionamento interiore, allo studio approfondito, alla professione religiosa, all’operosa testimonianza di quella santa fede senza la quale è impossibile piacere a Dio (Eb 1,6), e mediante la quale speriamo di raggiungere la promessa salvezza (Cf Mc 16,16; Ef 2,8; ecc.).
Dando a voi, Venerati Fratelli e diletti Figli, questo annuncio pieno di spirituali prospettive e di consolanti speranze, sicuri di avervi tutti solidali in piissima comunione, nel nome e con la potestà dei beati Apostoli e martiri Pietro e Paolo, sulle cui tombe riposa e fiorisce questa Chiesa Romana, erede, alunna e custode dell’unità e della cattolicità da loro qui per sempre incentrate e fatte scaturire, di gran cuore vi salutiamo e vi benediciamo.
Roma, presso S. Pietro, 22 febbraio, nella festa della Cattedra di san Pietro apostolo, dell’anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Publié dans:Papa Paolo VI, San Paolo, San Pietro |on 17 mars, 2015 |Pas de commentaires »

RIFLESSIONI DI MONS. G.B. MONTINI SU MARIA ASSUNTA AL CIELO

http://www.istitutopaolovi.it/notizia-istituto-paolo-vi.asp?idi=10

RIFLESSIONI DI MONS. G.B. MONTINI SU MARIA ASSUNTA AL CIELO

05/08/2010

[…] L’Assunzione […], quasi a nostra insaputa, fissa ed esalta l’antropologia cristiana, cioè la scienza dell’uomo, nei termini più chiari e più consolanti. […] Noi ricapitoliamo, nel glorioso epilogo della vita di Maria, tutta la dottrina su la vita umana. Noi celebriamo una festa che si riferisce allo stato della vita oltre il tempo, alla vita futura; affermiamo con ciò stesso l’esistenza di questa vita futura; l’ultimo articolo del credo trova qui una sua gloriosa affermazione; […].
[…] la Madonna […] ci appare oggi viva e vera, nella integrità del suo essere stupendo e innocente, nella bellezza spirituale e corporea di tutta la sua immacolata umanità; nel trionfo vitale ed estetico proprio della risurrezione della più pura, della più gentile, della più ideale e più reale donna, che la terra abbia mai generata e che il cielo per sempre custodirà. […]
[…] ben diversa la nostra dalla sua sorte, non è diverso il finale destino, che in Lei è stato subito compiuto e anticipato sul giorno del finale giudizio, nel quale la morte sarà vinta, e la carne umana risorgerà. Risorgerà simile a quella della Madre celeste, se la purità, che durante la vita terrena fu sua per grazia, sarà nostra per virtù, che vuol dire per laboriosa difesa, per difficile conquista, per perseverante orazione. […]
Da « L’umanità in Maria ». Omelia durante il Pontificale nel duomo di Mìlano nella solennità di Maria Assunta, 15 agosto 1956, in G.B. Montini (Arcivescovo di Milano), Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), vol. I, Brescia-Roma, Istituto Paolo VI-Edizioni Studium, 1997, n. [413], pp. 918-924.

* * *
[…] Noi viviamo in un periodo in cui l’attrattiva delle cose naturali si è fatta assai suggestiva; natura, scienza, tecnica, economia e godimento impegnano potentemente la nostra attenzione, il nostro lavoro, la nostra speranza; e la fecondità meravigliosa, che l’ingegno e la mano dell’uomo hanno saputo trarre dal seno della terra, ci ha procurati beni, ricchezze, cultura, piaceri, che sembrano saziare ogni nostra aspirazione, e che sembrano corrispondere perfettamente alle nostre facoltà di ricerca e di possesso. Le parole del Vangelo […] dicono il rimprovero di Gesù a Marta troppo sollecita delle cose materiali. Qui è la vita, dice la nostra faticosa, ma vittoriosa conquista del mondo circostante; e qui si dirigono, si legano e si arrestano i nostri desideri; qui arriva la nostra speranza, qui si ferma il nostro amore. E quando è così – e come spesso lo è –, non siamo più capaci di pregare, di aspirare alle cose trascendenti e supreme, di porre la nostra speranza al di là del quadro della nostra immediata esperienza. […]
In altri termini: siamo gente tutta occupata dai desideri e dagli affari di questo mondo, come se altro noi non dovessimo cercare ed amare. Così non siamo più spiriti veramente religiosi, che conoscono la contingenza radicale delle cose presenti; e non siamo più allenati a estrarre i valori superiori, che sono quelli morali, connessi col nostro eterno destino, dal rapporto, che pur dobbiamo cercare e perfezionare, con le cose presenti; le quali sono solo a noi prodighe di valori utili, ma non definitivi.
Ecco allora che la festa dell’Assunzione di Maria fa risuonare alle nostre anime, quasi uno squillo di trombe celesti, una chiamata che parte di là, dall’altra riva della vita, quella oltre il tempo e oltre questo quadro del nostro mondo naturale, quella dell’eternità e della vita soprannaturale nella sua dispiegata pienezza.
Così l’Assunzione della Madonna ci obbliga, con suadente invito, a verificare se la via, che ciascuno di noi percorre, è rivolta verso il sommo traguardo, e a rettificarla decisamente verso di esso. […]
Maria ci chiami. Maria ci dia la fede nel Paradiso e la speranza di raggiungerlo. Maria ci aiuti a camminare per la via di quell’amore che a quel beato termine conduce. Maria ci insegni ad operare con bravura e con dedizione, sì, nella cura delle cose di questo mondo, che ci danno il programma dei nostri immediati doveri; ma Maria ci dia insieme la sapienza e la povertà di spirito, che tengano liberi i nostri cuori e agili i nostri animi per la ricerca dei beni eterni. […]

Da « Leviamo in alto le nostre teste ». Omelia durante il Pontificale nel Duomo di Milano nella solennità di Maria Assunta, 15 agosto 1961 in G.B. Montini (Arcivescovo di Milano), Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), vol. III, Brescia-Roma , Istituto Paolo VI-Edizioni Studium, 1997, n. [1831], pp. 4545-4552.

Publié dans:Maria Vergine, Papa Paolo VI |on 21 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

SOLENNE RITO DELLA DOMENICA DELLE PALME – OMELIA DI PAOLO VI (1976)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1976/documents/hf_p-vi_hom_19760411_it.html

SOLENNE RITO DELLA DOMENICA DELLE PALME

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica delle Palme, 11 aprile 1976

Fratelli e Figli carissimi!

Che cosa vi ricorda il ramo d’olivo, o la palma che portate in mano? Tutti lo sappiamo: ricorda un fatto singolare del Vangelo, quello dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, cinque giorni prima ch’Egli fosse condannato a morte e crocifisso. Un’entrata insolita, perché distinta da un segno, abbastanza modesto, ma intenzionalmente celebrativo, reso solenne dall’enorme folla, presente e festante, che ne circondò lo svolgimento. Siamo a Bethania, a pochi chilometri da Gerusalemme, un villaggio sul versante orientale del monte degli ulivi, dov’era la dimora ospitale delle sorelle Marta e Maria, e del loro fratello Lazzaro, da poco risuscitato da Gesù, e dove la gente curiosa si addensava stupita ed eccitata: vi erano gli amici, i discepoli con quelli che ammiravano Lazzaro redivivo per la popolarità che Gesù andava acquistando, e decisi a sopprimere tanto Gesù, quanto Lazzaro, per mettere fine al successo crescente del Maestro (Io. 12, 10). In quest’atmosfera, carica di entusiasmo esplosivo da una parte e di odio radicale e segreto dall’altra, partendo da Bethania si formò un corteo, e con grande gioia dei seguaci di Gesù si accolse dai discepoli il suo ordine insolito, quello di procurargli una cavalcatura per proseguire festosamente verso Gerusalemme. A Bethfage infatti, su l’ordine di Gesù, fu preso a prestito un asinello, non mai prima d’allora cavalcato da alcuno, e vi fu fatto sedere il Maestro stesso; e immediatamente la scena si trasformò in una manifestazione popolare, resa solenne nella sua povera semplicità da due circostanze: la ressa di popolo accampata intorno a Gerusalemme per la Pasqua ebraica, e proveniente dalla città rigurgitante di popolo e di forestieri, e accorsa tutta verso la comitiva in arrivo; e, seconda circostanza, le acclamazioni spontanee e gaudiose di tutta quella gente che applaudiva con grida assai significative, e per i nemici di Gesù assai fastidiose: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore».

Che cosa significava questa accoglienza, così gioiosa e così clamorosa?

Questo è importante notare. Il momento si fa drammatico, e acquista il suo significato, decisivo per la storia e per la comprensione del Vangelo; il significato consiste nel riconoscimento e nella proclamazione del carattere messianico di Gesù. Egli è Colui che doveva venire. Egli è qui, dopo l’attesa di secoli, passata nella coscienza delle generazioni; Egli è il figlio di David! Egli è il Cristo! Gesù è il Cristo, il mandato da Dio, il Salvatore, il Messia, è il centro della storia, è il Re dei Giudei (ricordate la tavoletta della sentenza di morte, scritta da Pilato e affissa sopra la Croce di Gesù? «Gesù Nazareno Re dei Giudei»). «Questo è il punto ove s’incontrarono . . . il messianismo delle plebi e quello di Gesù» (G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, 505). Non era quello soltanto un momento eccezionale; era un destino, che riassumeva la vita privilegiata e travagliata del Popolo eletto, che concentrava in sé il compimento delle profezie e che apriva gli orizzonti del tempo futuro, che celebrava un avvenimento d’inesauribile salvezza, la Redenzione, e che impegnava tutta l’umanità ad una scelta suprema, quella nuova alleanza tra il mondo e Dio, quella del cristianesimo sì, o no. Si comprese dopo il compimento degli eventi, a cui quel fatto dava principio, quale sorte fosse giocata intorno a quel nome, Gesù; intorno a quel Maestro, Gesù; intorno a quel Messia, Gesù; intorno a quell’Agnello di Dio, a quella vittima per la salvezza del genere umano, Gesù. Egli proprio in quell’occasione, nel suo linguaggio rivelatore e misterioso, ebbe a preannunciare: «Io, quando sarò elevato da terra (in croce, cioè), attirerò tutti a me» (Io. 12, 32). Lo spettacolo allora, allo sguardo dello spirito, si fa grande come il mondo. Il dramma si fa straripante fino a distendersi su tutta l’umanità. E il racconto, a ben pensarci, si fa estremamente interessante, tanto da non lasciare alcuno indifferente; esso ci riguarda personalmente; ciascuno di noi vi è partecipe.

Fratelli, Giovani specialmente, pensate bene a quanto vi diciamo: questa celebrazione, che riguarda la proclamazione di Gesù Messia, di Gesù il Cristo, di Gesù, nostro Salvatore, riguarda altresì il nostro destino, la nostra scelta primaria. Ripensate all’episodio decisivo, che stiamo celebrando: Gesù riconosciuto dal Popolo, e nello stesso tempo, Gesù osteggiato e poi fatto uccidere dai capi del Popolo stesso, che non vollero accoglierlo e prestargli fede, neppure dopo la risurrezione di Lazzaro, neppure dopo il suo ingresso trionfale ed umile quale Messia in Gerusalemme. Vi ricordate le parole profetiche pronunciate dal pio e vecchio Simeone, quando Gesù bambino, fu presentato al tempio: Egli sarà «segno di contraddizione»? (Luc. 2, 34) Sì, segno di contraddizione: intorno a lui vi sarà una lotta; gli uomini saranno divisi ed opposti fra loro. Questa lotta si perpetuerà nei secoli. Oh! Questo è uno dei misteri più difficili e più dolorosi della storia umana: l’unità d’intorno al Cristo, centro, polo, salvatore dell’umanità, non sarà né spontanea, né facile; egli sarà un bersaglio di fiera e dura opposizione da una parte; Egli sarà tuttavia punto di fedelissima convergenza dall’altra.

Ora osservate: chi in quel giorno fatidico ebbe l’intuizione che Gesù di Nazareth, il Maestro estremamente saggio, miracoloso e misericordioso, pellegrinante e predicante nella Palestina, era Lui il Messia, era Lui il figlio di David, era Lui il Salvatore atteso e promesso? Fu il Popolo, e fra il Popolo più entusiasti ed attivi furono i Giovani. Essi furono gli araldi del Messia. Essi indovinarono.
Essi si esposero, con segni di audacia, di felicità e di letizia. Essi capirono che quella era l’ora di Dio, l’ora sospirata e benedetta dell’arrivo del Messia; e fu allora, che agitando rami degli alberi, rami d’olivo e di palme, noi crediamo, decretarono a Gesù, il Maestro, il Messia, il Cristo, il Principe della pace (Cfr. Is. 9, 6), il suo primo trionfo, popolare ed incontenibile (Cfr. Luc. 19, 39-40). Gesù fu visto piangere in quel momento, che presagiva a Lui la passione e la croce, e alla città renitente alla sua suprema chiamata messianica una futura rovina. Ma una tonante voce del cielo annunciò un epilogo di gloria (Io. 12, 28), e le grida dei fanciulli acclamanti prevalsero sul frastuono della folla e sull’ira dei gerarchi, e accompagnarono Gesù fino al tempio, sempre osannando il nuovo figlio di David (Matth. 21, 15).

Ora osservate bene: la scena si ripete, la scena nella liturgia della Chiesa si perpetua e si rinnova. Attraverso i secoli, ogni anno, quando viene la Pasqua, questa cerimonia, che noi stiamo celebrando, proclama Gesù come Cristo, come Messia, come l’arbitro dei destini dell’umanità, il vero Salvatore del mondo. Quali sono le voci più qualificate per l’annuncio di questo beato messaggio al mondo? sono quelle del Popolo di Dio, sono le vostre, Giovani convenuti a questo rito meraviglioso e misterioso. Tocca a voi oggi, figli di questa generazione storica, fare eco alle acclamazioni di Gesù, riconosciuto come Cristo, come Salvatore e Signore. Per una fortunata e segreta maturazione dei tempi sono oggi i Giovani, gruppi privilegiati di Giovani, a intuire, a comprendere che quel Gesù del Vangelo è Lui che inaugura e apre a buon diritto il Regno della salvezza. È Lui, il Cristo, che ponendosi sulla via torrenziale della civiltà la divarica in due diverse e spesso opposte correnti: da una parte, la sua, quella di Gesù Cristo, la corrente della pace e della fratellanza universale fra gli uomini suoi seguaci; dall’altra la corrente della violenza, della divisione e della lotta, e alla fine della guerra; da una parte la corrente dei «poveri nello spirito», dei cercatori del regno di Dio, dei credenti nella vita eterna, dall’altra la corrente degli egoisti e dei cercatori del regno della terra, degli uomini che solo nel tempo hanno la loro fiducia; da una parte la corrente che fa dell’amore a Dio e al prossimo la legge suprema della vita individuale e sociale; dall’altra la corrente che fa della forza e della rivoluzione aggressiva e sopraffattrice la ragione cieca dei destini dei popoli; da una parte la corrente della fede e della verità e perciò della libertà (Cfr. Io. 8, 32); dall’altra la corrente delle mille e sfrenate opinioni, che violando i diritti delle coscienze esteriormente s’impone . . . Due concezioni del mondo, della verità, della vita: quale scegliete?
Oh, beati voi, Figli carissimi, che avete già scelto, e scelto secondo sapienza e secondo fortuna, fin dal giorno del vostro battesimo, impegnando la vostra vita a questa professione globale e felice: noi saremo cristiani! saremo di Cristo, saremo con Cristo, in questa vita e in quella futura ! Ed oggi, agitando le vostre palme, con rinnovata coscienza, con più forte energia, confermate la vostra scelta, la vostra promessa: sì, noi saremo cristiani!

Due sentimenti riempiano allora i vostri cuori: il coraggio e la gioia!

Con la nostra Apostolica Benedizione 

 

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