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DA « MORTI VIVENTI » A « GRAVI DISABILI »: GLI STATI VEGETATIVI NELLA SCIENZA – BIOETICA E DISABILITÀ | EVOLUZIONE DI UN CONCETTO

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DA « MORTI VIVENTI » A « GRAVI DISABILI »: GLI STATI VEGETATIVI NELLA SCIENZA

BIOETICA E DISABILITÀ | EVOLUZIONE DI UN CONCETTO

ROMA, 07 APRILE 2013 (ZENIT.ORG) MASSIMO GANDOLFINI

Nel 1952 il neurologo J.D. French dichiarava che “quando il cervello è gravemente lesionato da provocare un coma profondo, il paziente può vivere qualche giorno o, al massimo, 2 o 3 settimane” Solo vent’anni più tardi, nel 1972, un neurochirurgo scozzese, B. Jennet, ed un neurologo americano, F. Plum potevano affermare che lo sviluppo tecnologico consentiva di trattare pazienti con gravi lesioni cerebrali “allungando la vita, e dando origine a condizioni cliniche mai incontrate in precedenza”. Si parlò di “coma vigile”, volendo evidenziare che si trattava di pazienti “vigili”, con gli occhi aperti, ma non in grado di comunicare e di relazionarsi con l’ambiente circostante. Altri coniarono il termine di “coma apallico”, volendo porre l’accento sul fatto che questi pazienti erano caratterizzati da gravi lesioni della corteccia cerebrale, luogo di integrazione delle cosiddette “funzioni simboliche superiori”, cioè delle capacità funzionali che oggi chiamiamo “cognitive”.
Dobbiamo arrivare all’inizio degli anni ’90 per assistere alla nascita di una terminologia assolutamente nuova: “Stato vegetativo”, con cui si descriveva una condizione clinica caratterizzata dalla conservazione dello stato di vigilanza, associata ad una gravissima compromissione della capacità di consapevolezza di sé stessi e dell’ambiente circostante. Nel 1994 la Multisociety Task Force on PVS decretava i limiti temporali oltre i quali lo stato vegetativo doveva essere considerato e dichiarato “permanente”, cioè “irreversibile”. Negli anni successivi, fino ai nostri giorni, da una parte la rilevazione empirica di casi clinici di “miglioramento” delle performance neurologiche, e dall’altro gli studi di neuroimaging (RMN funzionale e PET) e di neurofisiologia (stimolazione magnetica transuranica e studio EEG ad alta intensità) hanno fatto cadere i due “dogmi” su cui si reggeva l’assunto dell’irreversibile perdita della funzione cosciente: piccoli recuperi neurologici sono possibile e la coscienza non è totalmente persa, perché “isole” di funzione corticale cerebrale cosciente sono documentabili. Questi sono i presupposti scientifici che hanno portato a quella che potremmo definire una vera “rivoluzione” culturale ed antropologica nell’affrontare questo tema. Innanzitutto, va archiviata la dichiarazione di “assenza di coscienza” e s’impongono formule descrittive più adeguate, quali “coscienza sommersa”, “coscienza interna non comunicabile”, “stato della veglia senza risposta”.
In secondo luogo, sul piano antropologico appunto, la definizione di “vegetativo” è erronea, inadeguata e forviante, evocando riferimenti al mondo vegetale, che nulla ha a che fare con la persona umana. Da qui l’esigenza di un nuovo inquadramento, nell’ambito della categoria della “disabilità”. Ammesso e non concesso che abbia un senso stilare una sorta di classifica delle disabilità, potremmo considerarla la “più grave forma di disabilità” oggi nota. Pur non essendo in possesso di un registro nazionale delle persone con “disturbo prolungato di coscienza”, possiamo stimare in circa tremila il numero di nostri concittadini in questa condizione (60% circa in SVP e 40% in SMC), con un incremento che può aggirarsi intorno ai 300/400 nuovi casi all’anno. Nel 45% dei casi, la causa dello SV è rappresentata da un grave trauma cranio encefalico mentre il restante 55% è su base anossica cerebrale o vascolare acuta (ischemia o emorragia). L’età media di queste persone è di 55 anni, ma cala a 43 anni se si considerano solo i posttraumatici (80% maschi, 20% femmine). Circa la durata dello SV, mediamente la sopravvivenza è di circa 5 anni, ma ben il 16% delle persone ha superato i 10 anni, soglia che fino a pochi anni fa si riteneva essere il limite massimo di sopravvivenza.
L’assistenza richiede un accudimento intensivo quantizzabile in circa 4 ore al giorno (il 30% è alimentato per bocca ed il 70% riceve alimentazione enterale) e la famiglia costituisce un facilitatore sociale essenziale, soprattutto nelle regioni del Sud Italia, ove – per carenza di strutture adatte – il 75% di questi gravi disabili è curata a domicilio. 6 Il caregiver maggiormente coinvolto è una figura femminile (91% dei casi: mamma, moglie, figlia, sorella), che nel 38% dei casi deve rinunciare alla propria attività lavorativa, anche solo temporaneamente. Nel Nord Italia, il rapporto s’inverte: il 75% è assistito in ambiente dedicato (RSA, RSD, Casa di Riposo) ed il 25% fa rientro nel proprio domicilio. Su scala nazionale, solo il 25% dei casi può usufruire di un presidio di assistenza domiciliare integrata. Sul piano economico, il fondo nazionale per la disabilità è di 240 milioni di euro all’anno, di cui 20 milioni sono specificamente dedicati agli “stati vegetativi”. Pur con una certa variabilità da Regione a Regione, in generale per accedere agli aiuti previsti dal fondo nazionale è fondamentale la diagnosi stilata dai sanitari all’atto della dimissione dall’unità operativa di riabilitazione, ove viene dichiarato lo stato vegetativo con punteggio Glasgow uguale o inferiore a 10. Nel caso in cui la persona venga inserita in una struttura pubblica, l’intero onere è a carico del SSN; nel caso, invece, faccia ritorno a casa, ci si potrà avvalere di un contributo mensile di 500 euro. L’esperienza concreta sta già suggerendo una modifica della norma sopra descritta, perché può concretizzarsi un paradosso: qualora le condizioni cliniche della persona migliorassero, portandola, ad esempio, a un punteggio Glasgow di 11, si perderebbe il diritto al contributo, proprio nel momento in cui – al contrario – dovrebbe essere maggiore l’impegno riabilitativo, con relativo aumento di costi. Si propone, quindi, di legare l’accesso al contributo ad una costante valutazione della singola persona su due fronti: il fronte clinico – ove si stabiliscono gli effettivi bisogni del paziente – ed il fronte socioeconomico – ove si valutano le reali condizioni economiche della persona – al fine di evitare una distribuzione “a pioggia” delle risorse, che può penalizzare situazioni di reale e grave insufficienza.
Un’allocazione mirata è certamente l’atto più idoneo e virtuoso, data la condizione di grave penuria delle risorse necessarie. D’altro canto, è inammissibile per uno Stato civile, che tale vuole essere, praticare “tagli” sui fondi destinati alla disabilità. Anche in regime di “coperta corta”, come si suol dire, è doveroso che le “fasce deboli” (e non esiste nulla di più debole della grave disabilita!) vengano sempre e comunque tutelate. Sul piano strettamente sociosanitario, il tema degli stati vegetativi costituisce un problema di “nicchia”, riguardando una parte di popolazione, tutto sommato, numericamente esigua: circa 3mila persone, pur con il prevedibile aumento di circa 300/400 soggetti all’anno di cui si diceva poc’anzi, ma sul piano culturale ed antropologico assume il significato di un vero e proprio “paradigma” attraverso il quale leggere l’intero tema della disabilità e della dipendenza. E’ importante definire i soggetti in stato vegetativo “persone” e non pazienti (anche se l’abitudine medica rende più spontaneo parlare di “pazienti”), perché si sottolineano concetti che fondano i “diritti dei disabili”. Fa non poca differenza considerare la “persona in stato vegetativo” rispetto al “paziente affetto da stato vegetativo”: nel primo caso è prioritario “prendersi cura” – individuando i bisogni e strutturando le misure necessarie a darvi risposta – nel secondo caso ci si muove solo sul piano della “terapia”, che essendo, almeno per il momento, terribilmente povera di presidi reali, può indurre verso tentazioni di desistenza ed abbandono, tanto più in condizioni di risorse limitate. A riprova che non stiamo parlando di chimere fantastiche, basterebbe citare il cosiddetto “Liverpool Care Pathway” (2012), in cui viene proposto di comporre elenchi (death list) di pazienti terminali cui interrompere alimentazione ed idratazione artificiale, a giudizio medico ed anche senza il consenso dei parenti, sgravando il regio sistema sanitario britannico di costi inutili. La clinica che ottempera al suddetto suggerimento verrà “premiata” con un extra-bonus di 30mila sterline/anno. In questa prospettiva, acquista ancora più significato ed utilità la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone Disabili (2009) in cui si raccomanda di “prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazioni di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità” (art.25, comma F).
Prendersi cura delle persone in SV comporta un altro aspetto, che deve essere oggetto di grande attenzione e considerazione: la famiglia o, più in generale, i cosiddetti caregivers. Si potrebbe dire con una tautologia efficace “prendersi  cura di chi si prende cura”, ben consci di quanto impegno fisico e psicoemotivo richieda la diuturna assistenza dei grandi disabili. Oggi si parla di “burden”, cioè di “carico”: che tipo di “carico” comporta l’accudimento di una persona in SV. Il carico economico viene quantizzato nel 40% in termini di incidenza sul disagio familiare, il restante 60% è di natura “esistenziale”. Vivere accanto alla grave disabilità significa, in qualche misura, partecipare della disabilità stessa, facendo i conti quotidianamente con le forze a disposizione, con il continuo senso del limite che impone un pesante jatus fra ciò che si vuole, si deve e si può fare, generando spesso delusione, frustrazione, senso di impotenza o –peggio – di abbandono. Non a caso sono nate numerose “associazioni” (39, secondo un recentissimo censimento) di familiari di disabili in SV: una vera rete virtuosa che non solo interagisce con le istituzioni nel comporre idonee politiche di aiuto-sostegno, ma che si pone il compito di “condividere” le difficoltà di tutti. Ancora una volta, la “relazione” si mostra come la vera formula vincente di ogni disagio esistenziale e sociale. Come ci ha insegnato Madre Teresa: “quando per tutti sei nessuno, il dolore non ha più limite”. La condizione dei disabili in SV, letta nella prospettiva che ho cercato di disegnare nei suoi grandi contorni, è una vera “opportunità” antropologica e politica, un vero 7 banco di prova del grado di civiltà di un popolo: è – o può essere – l’occasione per cominciare ad assumere una nuova, rivoluzionaria categoria culturale ed umana, facendoci passare dal “peso” della dipendenza al “valore” della dipendenza.

* Primario neurochirurgo
Direttore Dipartimento Neuroscienze
Poliambulanza Brescia
Vicepresidente nazionale Associazione Scienza & Vita

Per consultare la newsletter di Scienza & Vita, si può cliccare sul seguente link:
http://www.scienzaevita.org/materiale/Newsletter64.pdf

Publié dans:bioetica |on 11 avril, 2013 |Pas de commentaires »

« L’amore cambia tutte le cose »: Storie di vita e di maternità tra nascite e interruzione della gravidanza

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27440?l=italian

“L’AMORE CAMBIA TUTTE LE COSE”

Storie di vita e di maternità tra nascite e interruzione della gravidanza

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 18 luglio 2011 (ZENIT.org).- Dieci storie vere di mamme che si dibattono se accettare la gravidanza o interromperla, raccontate in un libro.
Si tratta del saggio “L’amore cambia tutte le cose” scritto da Antonella Diegoli, presidente di Federvita dell’Emilia Romagna, e appena pubblicato dalle edizioni Interlinea
Arricchito dalle note di Gianni Mussini ed Eugenia Roccella, il ricavato dei diritti d’autore del libro della Diegoli verrà devoluto al Progetto Gemma (
http://www.mpv.org/pls/mpv/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=44), un servizio per l’adozione prenatale a distanza di madri in difficoltà.
Attraverso questo servizio e con un contributo minimo mensile, si può adottare per 18 mesi una mamma e aiutare così il suo bambino a nascere.
Finora il progetto Progetto Gemma ha aiutato a nascere circa 14.000 tra bambini e bambine.
Per meglio conoscere il contenuto e le finalità del libro, ZENIT ha intervistato l’autrice Antonella Diegoli.
Di che cosa parla il libro?
Diegoli: Parla di maternità, accolta o negata. Storie di donne che hanno in comune l’esperienza del portare la vita in grembo, storie difficili, non tutte a lieto fine, ma reali.
Perchè ha sentito la necessità di scriverlo?
Diegoli: In questi anni di volontariato per la vita ho conosciuto persone e incontrato storie che davano valore al mio impegno per il solo fatto di esistere: loro erano reali, appartenevano alla vita vera e io ne traevo vantaggio perché mi trovavo a parlarne, magari a convegni o in altri colloqui per situazioni simili. Quando la mia vita ha subito una pausa forzata – a causa di un banale incidente sugli sci – ho avuto il tempo di scrivere di loro, una sorta di tributo a quel mondo fatto di dolore ma anche di mistero e di gioia profonda.
Che cosa pensa di comunicare ai lettori?
Diegoli: Vorrei che questo piccolo libro potesse servire ad avvicinare al tema della maternità con cuore sincero, senza ideologia, senza ipocrisia: potersi porre tutti, uomini e donne, con verità e silenziosa partecipazione, davanti al mistero più grande del quale tutti siamo parte. Dice Simone Weil nel suo libro “L’ombra e la grazia” : La meditazione sul caso che ha fatto incontrare mio padre e mia madre è ancor più salutare di quella sulla morte. C’è forse una sola cosa in me che non abbia la sua origine in quell’incontro? Solo Iddio. E anche la mia idea di Dio ha origine in quell’incontro. E poi vorrei che potesse servire ai giovani e alle ragazze nel loro cammino di vita, che agisse come una sorta di input alla riflessione, caso di necessità.
Quale dei dieci frammenti di storie che racconta considera più significativo e perchè?
Diegoli: Certamente il primo perché c’è racchiusa la storia di un’amica carissima che è arrivata a distruggere se stessa, spinta da un aborto. Glielo dovevo: parlare di lei per aiutare le altre donne a non arrivare a quel dolore. Scritto quello, poi sono arrivata a tutti gli altri.
La Camera dei Deputati ha appena votato la legge contro l’eutanasia. Qual è il suo parere in proposito?
Diegoli: Ho sofferto quando è morta Eluana. Ho assistito mia madre l’ultima settimana della sua vita e so cosa significa vedere una persona soffrire la fame e la sete. Credo che giustizia sia fatta, credo che finalmente i nostri politici abbiano trovato il coraggio di alzarsi in piedi, come Giovanni Paolo II ci chiese di fare ogni volta che la vita è minacciata:
Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata…
Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita.
Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l’autorità di distruggere la vita non nata…
(…) Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

« Perché la Chiesa parla di bioetica? Senso e competenze del Magistero »

dal sito:

www.caffarra.it/relazione110206.php

CAR. CAFFARRA

« Perché la Chiesa parla di bioetica? Senso e competenze del Magistero »

Relazione al convegno La medicina resta fedele all’uomo?

Istituto Veritatis Splendor, 11 febbraio 2006

Devo chiarire immediatamente che nella mia riflessione non affronterò nessun problema particolare di bioetica, quali per es. procreazione artificiale, clonazione, eutanasia o altri. Mi propongo di offrirvi una riflessione più semplice e più profonda: mostrarvi le ragioni profonde che muovono il Magistero della Chiesa a rispondere alle grandi domande della bioetica. Portare alla luce le radici profonde da cui sono generate le sue risposte.
Detto più brevemente e rigorosamente. Io cercherò di rispondere a due domande. La prima: perché il Magistero della Chiesa ritiene di essere legittimato a dare una risposta alle grandi domande della bioetica? La seconda: quali sono le convinzioni fondamentali alla luce delle quali il Magistero della Chiesa risponde alle grandi domande della bioetica?
Non affronto il tema della legittimità della presenza del Magistero nel dibattito pubblico.

1. LEGITTIMITA’ DELL’INTERVENTO
La mia riflessione ha inizio da un testo dell’Enc. Redemptor hominis di Giovanni Paolo II:
« Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del creatore, se « ha meritato di avere un tanto nobile e grande redentore » se « Dio ha mandato il suo Figlio », affinché egli, l’uomo, « non muoia, ma abbia la vita eterna » [cfr. Gv 3,16]? In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo si chiama cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo anche, e forse di più ancora, nel mondo contemporaneo » [10,2; EE 8/29].
E’ lo stupore che la Chiesa vive di fronte alla grandezza dell’uomo, che legittima la sua presenza nel dibattito bioetico contemporaneo. E’ uno stupore nutrito da convinzioni che, pur essendo strettamente connesse colla fede nella incarnazione del Figlio di Dio e nella sua morte redentrice, si esibiscono come ragionevole fondamento di ogni autentico umanesimo.
Siamo così condotti alla domanda fondamentale: che cosa significa « grandezza dell’uomo » o « dignità della persona umana »? Consentitemi di costruire la mia risposta a questa domanda, partendo da un’esemplificazione molto semplice.
L’attitudine di una ditta che produce prodotti per neonati è profondamente diversa dall’attitudine della donna che ha concepito e partorito un bambino. Il responsabile della ditta pensa (e dice): come è utile per noi che nascano i bambini! La madre pensa (e dice): come è bello che tu sia nato, che tu ci sia! Si rifletta molto attentamente su questo fatto. La stessa persona, la persona del bambino, è « oggetto », è il « termine » di due attitudini profondamente diverse. Donde deriva questa diversità? Da ciò che nel bambino è visto, e quindi dal modo con cui è considerato. Nel primo caso, il bambino è un possibile utente del proprio prodotto e quindi una probabile fonte di utilità; nel secondo caso, il bambino è semplicemente qualcuno che merita di essere voluto in se stesso e per se stesso. Nel primo caso, istituisco col bambino un rapporto basato su una considerazione utilitaristica: nel secondo caso, istituisco col bambino un rapporto basato su una considerazione etica.
Siamo così giunti ad una precisazione concettuale di enorme importanza per la problematica che stiamo affrontando.
Quando oggi si parla di etica [ e quindi anche di bioetica] si pensa subito a regole da osservare, per cui si ritiene che tutti i problemi di etica [e quindi di bioetica] siano problemi del genere: quali regole devono essere fissate? chi ha l’autorità per farlo? E così via. In realtà la considerazione etica è molto più profonda. Che cosa è? di che cosa noi realmente discutiamo quando discutiamo di etica-bioetica? Consentitemi di partire da un’altra esemplificazione.
Immaginiamo che uno si trovi in pieno centro di Bologna nell’ora di traffico più intenso. Si ferma ed esclama: quale sublime musica si sente! Poi se ne ritorna a casa e si mette all’ascolto di un Adagio cantabile di L. Van Beethoven, ma lo interrompe subito dicendo: che insopportabile rumore è questo! Il minimo che si possa dire è che questa persona non ha nessun senso musicale. Da che cosa deduco questa carenza totale? Dal fatto che la sua reazione a due « suoni » diversi è completamente inadeguata alla realtà dei due suoni stessi. Orbene, quando la risposta della persona alla realtà in cui si imbatte è adeguata al valore obiettivo della realtà stessa dobbiamo dire che la risposta data è vera e buona; quando non è adeguata al valore obiettivo della realtà in cui mi sono imbattuto dobbiamo dire che la risposta data è falsa e cattiva.
Ora possiamo capire in che cosa consiste la considerazione etica della realtà. Consiste nel « vedere » il valore obiettivo della realtà considerata al fine di avere nei suoi confronti una risposta adeguata al suo valore stesso, corrispondente cioè alla misura della sua obiettiva preziosità. Come potete constare ho definito il concetto di etica [e quindi di bio-etica] senza neanche nominare le regole.
Faccio ancora al riguardo una riflessione importante, e poi riprendo il filo del nostro discorso. L’attitudine etica implica due momenti o possiede due dimensioni. Ho bisogno di conoscere il valore obiettivo della realtà. Cioè: ho bisogno di conoscere la verità sul bene. In secondo luogo ho il dovere di agire in modo adeguato alla misura del bene. In sintesi: ho bisogno di sapere come devo/non devo esercitare la mia libertà.
Ritorniamo ora al … nostro bambino, e domandiamoci: chi ha ragione il responsabile della ditta o la madre? quale è cioè la verità sul bene [valore] del bambino? Il bambino ha valore, è un bene perché e in quanto può acquistare quei prodotti oppure ha valore, è un bene in sé e per se stesso? Riflettete molto seriamente prima di dare la risposta perché quella semplice esemplificazione e questa domanda ci ha introdotto dentro al drammatico groviglio della nostra vita quotidiana e della società occidentale.
La risposta oggi più comunemente accettata nella società occidentale e nelle dottrine che la plasmano culturalmente è la seguente: nessuna persona umana è dotata di un tale valore da escludere assolutamente ed incondizionatamente la sua utilizzazione. Quando cioè noi diciamo che nessuna persona umana può essere usata [utilizzata], noi facciamo un’affermazione che è generalmente vera, ma non tale da escludere in modo assoluto che non ci siano situazioni nelle quali una persona umana non possa essere utilizzata. Pensate a tutta la problematica della « produzione » di embrioni umani per avere cellule staminali.
La risposta che la Chiesa dà è invece la seguente: ogni persona umana, dal momento del suo concepimento alla sua fine naturale, è dotata di un tale valore da escludere assolutamente ed incondizionatamente che essa possa essere esclusivamente considerata e trattata come un mezzo: essere utilizzata. E pertanto esistono dei rapporti con la persona umana, dei comportamenti nei suoi confronti che sono sempre ed ovunque ingiusti. Ieri, oggi e sempre; nella cultura occidentale ed orientale: ovunque. E’ questo il senso profondo di quello stupore che la Chiesa prova di fronte all’uomo, di ogni uomo: al valore, alla dignità di ogni e singola persona umana.
Il Magistero entra nel dibattito bioetico perché intende affermare e difendere questo valore, questa dignità di ogni e singola persona umana.
Ma su che cosa si fonda la sua convinzione? Quale è la ragione di questa dignità dell’uomo? La risposta dovrebbe essere piuttosto lunga e teoricamente articolata. Mi limito all’essenziale. Le ragioni sono due: la costituzione ontologica della persona; la sua finalizzazione.
La prima ragione è data dalla costituzione della persona umana. Essa è la sola nell’universo visibile che sia un soggetto spirituale, immortale quindi e capace di conoscere e scegliere liberamente. Ogni cosa di cui abbiamo esperienza è destinata a corrompersi e a finire; solo la persona umana è incorruttibile ed eterna. Essa inoltre è capace di conoscere, di aprirsi cioè alla totalità dell’essere. Nella sua scelta libera dimostra una sporgenza, una sovraeminente superiorità su ogni bene limitato e quindi in possesso di un vero e proprio dominio sul suo agire.
La seconda ragione è costituita dalla nobiltà del fine a cui la persona umana è destinata. In forza dell’apertura illimitata del suo spirito, essa non è finalizzata a nessuna realtà di valore limitato, come è dimostrato dall’insoddisfazione permanente che dimora nel cuore dell’uomo. Essa è destinata a Dio stesso. Questa sua destinazione lo nobilita al di sopra di ogni altra creatura: il bene dell’universo intero non è a misura dell’uomo. La singola persona umana vale di più dell’intero universo.
Qualcuno a questo punto potrebbe pensare: poiché la Chiesa radica le sue risposte nell’affermazione della dignità della persona umana, essa si trova in fondo in pieno accordo con tutti: chi non afferma la dignità dell’uomo? Potrei subito dire che non è così scontato questo consenso. Ma passo subito al secondo punto della mia riflessione dove quest’assenza reale di un consenso sulla verità del bene della persona sarà documentata.

2. RAGIONI DELLE RISPOSTE
In questo secondo punto della riflessione vorrei mostrarvi quelle ragioni fondamentali che stanno alla base di ogni risposta specifica che il Magistero della Chiesa dà ai vari problemi della bioetica. Da questa riflessione risulterà che il contenuto preciso dell’espressione « dignità della persona umana », come è affermato dalla Chiesa è tutt’altro che universalmente condiviso.
Partiamo subito da un problema oggi gravissimo dalla cui soluzione dipende in larga misura il destino della nostra società occidentale. E’ un’evidenza originaria della nostra coscienza umana che l’umanità di cui siamo in possesso ci è data solo nell’essere l’uno con l’altro: la nostra umanità è sempre una co-umanità [una comunità], così come la nostra esistenza è sempre una co-esistenza.
Tutto questo è vero anche nell’esercizio della mia libertà: la mia è sempre una libertà con la libertà degli altri ed attraverso la libertà degli altri. Nasce di qui il bisogno da tutti riconosciuto di un ordinamento delle libertà attraverso delle regole.
A questo punto si pongono almeno due domande: chi ha il potere di istituire queste regole? quale è il criterio o quali sono i criteri secondo cui vengono stabilite? Alla prima domanda noi tutti oggi rispondiamo che le regole sono stabilite dalla maggioranza. Ma resta la seconda e più grave domanda: la maggioranza è solo il soggetto che istituisce le regole o è anche il criterio della giustizia delle stesse? Cioè: tutto ciò che stabilisce la maggioranza è per ciò stesso giusto e buono? L’esperienza storica del ventesimo secolo ha dimostrato che ci possono essere maggioranze ingiuste. E’ ipotizzabile che la maggioranza di un popolo decida di sopprimere una minoranza che vive al suo interno.
Come potete vedere non può non sorgere dentro di noi una domanda nella quale ci eravamo già imbattuti nel numero precedente della nostra riflessione: esistono beni, e quali sono, che non possono non essere riconosciuti se non si vuole distruggere l’umanità stessa dell’uomo? esistono beni umani che precedono ogni computo di maggioranza e minoranza perché esigono di essere protetti e promossi da tutti? « La domanda sull’incondizionatamente buono e sull’incondizionatamente malvagio non può esser elusa, se ci deve essere un ordinamento delle libertà che sia degno dell’uomo » [J. Ratzinger, in Il monoteismo, ed. Mondadori, Milano 2002, pag. 24]. Le ragioni sulle quali il Magistero della Chiesa fonda le sue risposte alle varie e grandi domande della bioetica sono sempre costituite dall’affermazione dell’esistenza di beni umani che esigono un rispetto assoluto ed incondizionato perché sono esigiti dalla stessa natura della persona stessa. La convinzione quindi che la persona umana possegga una dignità in un certo senso infinita, non è una convinzione puramente formale e priva di contenuto: essa si sostanzia nell’affermazione dell’esistenza di beni umani che nessuno può negare senza negare la propria ed altrui umanità.
A questo punto dobbiamo chiarire che cosa precisamente si intende per « beni umani », e quali sono. Prima però di compiere questa individuazione, è necessario esporre un presupposto che costituisce, per così dire, la cornice teoretica di tutte le risposte del Magistero.
Perché la Chiesa costruisce le sue risposte ai problemi della bioetica sulla base della convinzione che esistono beni umani non negoziabili? Perché ha una così profonda stima della ragione umana da ritenere che essa è capace non solo di dominare il mondo e di trasformarlo secondo i desideri dell’uomo, ma anche di conoscere la verità sull’uomo. « Esiste dunque un duplice uso della ragione: la ricerca della verità intorno all’essere ed all’uomo da un lato, e l’ordinamento del creato in funzione della verità riconosciuta. Se la prima funzione della ragione non viene più riconosciuta, l’uso della seconda si perverte » [R. Buttiglione, in Codzienne pytahia Antygony, Lublin 2001, pag. 146]. Penso che nessuno oggi attribuisca alla ragione umana una capacità di conoscere tanto ampia come gliene riconosce il Magistero della Chiesa: la ragione è capace di conoscere quei beni umani che sono incondizionatamente da proteggere e difendere. Essa è in grado, faticosamente, progressivamente e non senza gravi errori, di conoscere la verità sul bene dell’uomo universalmente condivisibile.
Ciò premesso possiamo indicare quali sono i beni umani fondamentali. La ragione umana li individua sulla base delle naturali inclinazioni della persona. « Innanzitutto l’inclinazione a conservarsi in vita, che esprime la bontà dell’essere come tale e che è comune a tutte le creature. In secondo luogo l’inclinazione all’unione sessuale, che, pur essendo comune a tutti gli animali, ha nell’uomo una dimensione specifica e spirituale: è apertura alla comunione con la persona di sesso diverso, in una unione stabile e fedele, orientata alla generazione e all’educazione dei figli; in terzo luogo vi è l’inclinazione alla vita sociale, che non è limitata al bisogno che ognuno ha dell’aiuto di altri e del vantaggio materiale che ricava dal vivere in società, ma si estende all’arricchimento e alla dilatazione spirituale che deriva dalla convivenza comunitaria. Infine vi è un’inclinazione specificamente umana alla conoscenza della verità, nella quale si esprime l’eminente dignità dello spirito umano, chiamato a godere della luce del vero » [L. Melina, in Codzienne … op. cit. pag. 225]. I beni umani fondamentali sono dunque il bene della vita, il bene del matrimonio e della famiglia, il bene della società, il bene della conoscenza e dell’amore del vero.
Riconoscere la dignità della persona e volere il suo bene, cioè amare il prossimo così come se stesso, significa volere il bene della persona che si sostanzia e si realizza nei beni a cui ogni persona è inclinata. Dire di amare, cioè volere il bene della persona e violare i beni cui la persona è inclinata è vuota retorica: è affermare a parole la persona e negarla nei fatti. Non si può affermare la persona se non riconoscendola attraverso i suoi beni basilari; se non nel rispetto di questi beni, dal momento che essi sono i beni che realizzano la persona.
Ed a questo punto si comprende perfettamente la logica unitaria di tutte le risposta della Chiesa ai vari problemi della bioetica: esse sono sempre costruite sulla conoscenza del bene basilare della persona in questione, e sulla riflessione razionale che scopre il modo con cui quel bene deve essere difeso.
In fondo, quando il Magistero della Chiesa si pone di fronte ad un problema di bioetica, esso procede sempre nel modo seguente. Inizia con una prima domanda: quale dei beni basilari della persona è in questione? [E.g.: nel problema dell’eutanasia è il bene della vita]. Seconda domanda: la proposta, il procedimento tecnico proposto riconosce, rispetta quel bene? [E.g.: la decisione di interrompere direttamente la vita nel caso dell’ammalato terminale]. E nella costruzione della risposta a questa domanda, normalmente il magistero mette in atto una riflessione razionale non derivata necessariamente dalle convinzioni di fede. Infine esibisce la risposta che ha il seguente tenore: questa condotta viola/ non viola un bene basilare della persona umana.

Conclusione
Ma c’è qualcosa di più profondo in tutta questa presenza della Chiesa nella sfida bioetica attuale.
La Chiesa sa che è stato l’atto redentivo di Cristo a ridare definitivamente all’uomo la sua dignità, a ricrearlo nella sua infinita preziosità: è in Cristo che la verità intera sul bene dell’uomo splende in tutto il suo fulgore. Partendo da Lui la Chiesa afferma il bene della persona umana, ed in questa affermazione incontra chiunque usa rettamente della propria ragione. Nello stesso tempo anche attraverso la risposta alla sfida bioetica contemporanea, la Chiesa adempie il suo compito fondamentale: dirigere lo sguardo dell’uomo verso Cristo. « Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto »: per ritrovare pienamente se stessi, ricoprendo la pienezza della propria dignità. « Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr. 19,37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa enciclica: Dio è amore (1Gv 4,8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo di lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore » [Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus caritas est 12].

La Chiesa percorre la strada del suo amore all’uomo anche col suo magistero bioetico.

Publié dans:bioetica |on 14 mars, 2011 |Pas de commentaires »

« Se la vita si rianima »: Un libro di cronache di bioetica e speranza dall’ospedale di Eluana

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21317?l=italian

« Se la vita si rianima »

Un libro di cronache di bioetica e speranza dall’ospedale di Eluana

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 8 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Tra i tanti incontri e le numerose iniziative in ricordo di Eluana Englaro, spicca la presentazione del libro  »Se la vita si rianima. Cronache di bioetica e speranza dall’ospedale di Eluana », edito dalla Ares e scritto da Giuseppe Baiocchi, giornalista e scrittore, e Patrizia Fumagalli, dirigente medico di primo livello nel reparto di Neurorianimazione dell’ospedale di Lecco.

Il libro affronta il tema attualissimo del valore della vita soprattutto quando sono presenti malattia e grave disabilità, raccontando cosa accade nella corsia di un reparto di rianimazione.

Nella prefazione al volume, Giancarlo Cesana chiede: « Se la vita si rianima; se un malato dichiarato in stato vegetativo persistente inaspettatamente si risveglia; se una persona gravemente menomata scopre di poter vivere un’esistenza normale e stranamente felice: se accade ciò, noi siamo pronti ad accettarlo? ».

Gli autori spiegano nella premessa che « rianimazione, per la lingua italiana, è uno splendido termine che significa restituzione e ripresa di vitalità, di animazione, di fiducia, di coraggio… », ma nel logorio del linguaggio comune questo termine ha finito per associarsi quasi esclusivamente a un senso prevalente di sconfitta, di anticamera della fine, di tempio appartato dove si compiono i riti misterici di una scienza sempre meno traducibile al comune sentire.

Dietro al vetro opaco o alla porta di un reparto di rianimazione, precisano gli autori, « si muove una affiatata comunità di lavoro che conquista di frequente guarigioni impensate, che allevia la sofferenza della vita in declinare, che accompagna con decoro il passaggio della morte, che, nel caso, compie la rispettosa procedura del prelievo degli organi per la donazione ».

Il libro racconta di « quell’ospedale di Lecco dove, in una fredda notte di gennaio, arrivò, ferita, una giovane di nome Eluana Englaro… » e riflette sull’impegno di giorno e di notte, tutti i giorni e tutte le notti, dei medici e del personale sanitario che è ben consapevole « che ogni persona è unica e irripetibile e per ognuna c’è un tragitto peculiare da seguire nel vincolo di Ippocrate e nel possibile supplemento di umanità ».

Cesana ricorda nella prefazione che gli ospedali sono nati all’inizio del Medioevo e non « perché si sapessero curare le malattie », visto che « fino all’inizio del secolo scorso le possibilità di trattamento erano risibili ».

Gli ospedali sono nati per « ospitare », per accogliere e assistere gli uomini e le donne in difficoltà, colpiti dalla sventura, in cui spesso malattia e miseria facevano tutt’uno.

« Con la Risurrezione di Cristo – ha sottolineato Cesana -, la morte, di cui la malattia era massimo presagio, non era più l’ultima parola sulla vita, ma la certezza – o la speranza, che è lo stesso – della vittoria della vita era diventata dominante. Malattia e morte non avevano perduto il loro carico di dolore e di spavento, ma si potevano affrontare. Di più: erano partecipazione alla sofferenza salvatrice di Cristo ».

« Il merito di questo libro – ha concluso Cesana – è di mostrare come la potenza medica, pur migliorando non poco l’esistenza, non sposti di una virgola il problema originale. Proprio laddove l’intervento è più sofisticato, per le caratteristiche di urgenza e gli strumenti utilizzati, è anche richiesta l’ostinazione della assistenza, spesso contro ogni immediata evidenza ».

Il libro « Se la vita si rianima » verrà presentato a Lecco martedì 9 febbraio alle ore 21.00 nell’Auditorium Casa dell’Economia, in via Tonale 30.

A presentare il testo ci saranno il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il prof. Giancarlo Cesana, Presidente della Fondazione Irrccs Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, il prof. Biagio Allaria, direttore del board scientifico di Medical Evidence Italia, e Marco Tarquinio, direttore di  »Avvenire », che modererà l’incontro.

L’iniziativa è stata sostenuta anche dal Centro Culturale Alessandro Manzoni e dall’Associazione Liberi di educare – Liberi di costruire, così come dalla FederVita Lombardia, con il concorso particolare del Movimento per la Vita di Lecco.

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In Belgio un imprevedibile « sì » condanna i giudici italiani

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125954

In Belgio un imprevedibile « sì » condanna i giudici italiani

La vita è sempre importante e se anche si presenta inerme e indifesa, rappresenta comunque uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque.

          Un anno fa Eluana Englaro veniva messa a morte grazie ad un provvedimento della magistratura fondato, tra l’altro, su due assiomi. Il primo riguarda il fatto che la ragazza di Lecco si trovasse in uno stato di coma irreversibile (categoria scientifica inesistente), dal quale non sarebbe mai potuta uscire. 

          Il secondo è relativo al fatto che senza una «pienezza di facoltà motorie e psichiche» quella di Eluana fosse una «vita non degna di essere vissuta», traduzione italiana del termine “lebensunwertes Leben”, coniato dai giuristi tedeschi negli anni ’30 e riecheggiato tristemente nelle aule giudiziarie del Terzo Reich.

          Così, nel febbraio 2009, attraverso la carta bollata, si è spenta l’esistenza di Eluana. Per una strana ironia della sorte, a ridosso dell’anniversario della sua morte, i fatti e la ricerca scientifica hanno sconfessato quei discutibili postulati dei giudici. Due giovani belgi, entrambi in stato vegetativo persistente a seguito di un incidente d’auto, sono stati incaricati dal destino di sgretolare i due presupposti logici della tragica decisione sul caso Englaro.

          Lo “scherzo” che hanno fatto i due belgi ai soloni togati è stato davvero beffardo. Uno dei due si è risvegliato dopo 23 anni (6 anni in più di Eluana), dimostrando ancora una volta che il cosiddetto “coma irreversibile” non esiste. L’altro, sottoposto ad esame attraverso una nuova tecnica di risonanza magnetica, ha manifestato segni di facoltà psichica, arrivando a “dialogare”, attraverso il cervello, con i medici.

          Gli scettici possono leggere l’articolo che illustra l’interessante esperimento, dal titolo Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness, pubblicato lo scorso 3 febbraio sul New England Journal of Medicine (10.1056/NEJMoa0905370). In pratica, si è trattato di sottoporre il ventinovenne belga a due stimolazioni attraverso un processo di immaginazione (Imagery Tasks), in cui gli si è stato chiesto di simulare alcune azioni (tirare una pallina da tennis, camminare nella propria casa, ecc.) ed un processo comunicativo (Communication Task), in cui gli sono state poste domande su aspetti attinenti la sua vita personale.

          Immaginabile l’astonishment – così è stato definito -, ovvero lo stupore dei medici quando il paziente, dopo aver risposto “no” alla domanda se il nome di suo padre fosse Thomas, ha risposto, invece, “sì” quando gli hanno chiesto se il padre si chiamasse Alexander, vero nome del genitore.

          Le reazioni rispetto a questa sensazionale scoperta mi hanno indotto ad una riflessione.Tutti gli esperti hanno dichiarato che il risultato di quell’esperimento «changes everything», cambia tutto. Ma cambia secondo prospettive e visioni antropologiche opposte. Da una parte ci sono coloro che vedono in questa nuova possibilità di comunicazione con i pazienti in stato vegetativo un’opportunità per migliorare le condizioni esistenziali in cui si trovano, assumendo, per esempio, informazioni su eventuali problemi clinici e adottando i relativi rimedi.

          Dall’altra parte ci sono coloro che vedono nella scoperta la sola opportunità di conoscere esattamente la volontà di chi si trova in stato vegetativo circa il proprio destino, ovvero se ricorrere o meno all’eutanasia, perché proprio questa scoperta mostrerebbe com’è ancora più atroce la condizione di una mente lucida intrappolata in un corpo che non risponde. Due modi diversi di guardare questo risultato scientifico. Due modi diversi di concepire la vita e la morte. E poco c’entra, in realtà, la fede o una prospettiva religiosa.

          Enzo Jannacci ce lo ha dimostrato quando in quella celebre intervista al Corriere della Sera, sull’onda emotiva della vicenda Englaro, dichiarò che non avrebbe mai «staccato una spina e sospeso l’alimentazione ad un paziente» perché «interrompere una vita è allucinante e bestiale». E ce lo ha dimostrato anche quando, da medico, ha affermato, profeticamente, che «vale sempre la pena aspettare» e che «la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».

          Ce lo ha dimostrato, inoltre, quando ha dichiarato che «la vita è sempre importante» e se anche «si presenta inerme e indifesa», rappresenta comunque «uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque». E ce lo ha dimostrato, ancora di più, quando è arrivato a dire che se suo figlio si fosse trovato nelle condizioni di Eluana, «sarebbe bastato un solo battito delle ciglia» a farglielo sentire vivo.

          Non oso immaginare che cosa sarebbe successo se la povera Eluana fosse ancora qui tra noi e se, sottoposta al nuovo esperimento, avesse dato segni di coscienza. Probabilmente sarebbe caduto ogni velo di ipocrisia e il dibattito si sarebbe focalizzato, a quel punto, sul tema vero: l’eutanasia. Resta, comunque, una considerazione finale.

          Ad Enzo Jannacci sarebbe stato sufficiente un battito delle ciglia per fargli sentire vivo suo figlio. Al signor Englaro, probabilmente, non sarebbe bastato neppure il fatto che sua figlia avesse risposto “sì” alla domanda: «Tuo padre si chiama Beppino?».

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Onore e pietà per i bambini non nati

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20671?l=italian

Onore e pietà per i bambini non nati

Parla il presidente dell’Associazione “Difendere la Vita con Maria”

di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 9 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Promosso dall’Associazione “Difendere la Vita con Maria” (ADVM) in collaborazione con la Preghiera Universale per la vita, si svolgerà a Roma venerdì 11 novembre l’incontro di riflessione e preghiera “Bambini non nati l’onore e la pietà”.

La manifestazione prevede un incontro con rosario e messa dalle 16:00 alle 18:30 al Santuario Vergine della Rivelazione delle Tre Fontane, in Via Laurentina n. 400, ed un incontro di riflessione alle ore 20:45 nella Parrocchia S. Camillo De Lellis in Via Sallustiana n. 24.

Intervistato da ZENIT don Maurizio Gagliardini, fondatore e presidente dell’Associazione Difendere la Vita con Maria, ha spiegato che l’incontro è finalizzato alla crescita e diffusione di una cultura della vita, con particolare riferimento al diritto di seppellire i bambini non nati.

Facendo riferimento alla Donum Vitae, l’istruzione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede dedicata a “Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione”, don Maurizio ha ricordato che nella parte I al n. 4 è scritto “I cadaveri di embrioni o feti umani, volontariamente abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani”.

E la legislazione italiana con il DPR n. 285 del 10.9.1990, agli articoli 7 e 50, afferma che “ai genitori viene data la possibilità di seppellire i resti del proprio bambino”.

Il DPR è completato dalla circolare ministeriale emessa dall’allora ministro della Sanità Donat Cattin, in data 16 marzo 1988, che testualmente recita: “Si ritiene che il seppellimento debba di regola avvenire anche in assenza di detta richiesta (quella dei genitori dei prodotti di concepimento abortivi di presunta età inferiore alle venti settimane)”.

Per Don Maurizio, “il seppellimento dei bambini non nati è un atto dovuto a questi nostri fratelli più piccoli, i più poveri e indifesi fra tutti. È un atto di grande consolazione per le famiglie e le mamme soprattutto, è anche la strada vera per una umana gestione del lutto che sola può guarire la profonda ferita per la perdita di un bambino sia per cause di morte naturale, sia per cause di aborto volontario”.

Per diffondere la cultura della vita, il presidente della ADVM ha ricordato anche la preghiera universale per la vita, che da quando fu recitata nel 1995 da Giovanni Paolo II ha già trovato eco in molti cuori.

Don Maurizio ha poi invitato a pregare “perché i giovani si aprano con generosità e fiducia alla vocazione cristiana del matrimonio”; “perché emergano le forze in campo culturale-sociale-politico in grado di promuovere efficacemente la tutela della vita umana”; “per la guarigione delle giovani famiglie tentate dalla paura di concepire e generare, di accogliere la vita e di educare i figli”; e infine “per togliere dalle coscienze l’idea che sia possibile giustificare per varie ragioni gli attentati contro la vita umana dal suo sorgere al suo naturale tramonto”.

Publié dans:bioetica |on 10 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

Crisi della famiglia e mentalità normalizzante, alleati della pedofilia

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20424?l=italian

Crisi della famiglia e mentalità normalizzante, alleati della pedofilia

La denuncia di don Fortunato Di Noto, Presidente dell’Associazione “Meter”

di Mirko Testa

ROMA, venerdì, 20 novembre 2009 (ZENIT.org).- La lobby pedofila si sta insinuando sempre più nelle crepe delle famiglie in crisi e trova terreno fertile in una “strisciante mentalità” che definisce normale l’attrazione verso i bambini.

E’ il grido di allarme lanciato da don Fortunato Di Noto, Presidente di “Meter”, un’associazione pionieristica nella lotta alla pedofilia che lavora in prima fila nella tutela del bambino ed ha la sua sede nazionale ad Avola, in provincia di Siracusa.

“La cosa più pericolosa è l’esistenza di un profondo sottostrato, molto consolidato, in tutto il mondo – ha detto il sacerdote in una intervista a ZENIT -. La pedofilia non è più solo legata al debosciato di turno ma è quasi diventata un fenomeno culturale che sta prendendo sempre più piede”.

Quello che emerge, ha aggiunto il prete sicialiano, è spesso il volto di “una società che ci vuole far vedere che il bambino non come tale, quindi come una persona che sta sviluppando la sua personalità, ma come un adulto, con desideri ed esigenze sessuali che devono essere soddisfatti”.

Don Di Noto parla dell’esistenza di una vera e propria “Cupola pedo-criminale” con un giro d’affari di oltre 13 miliardi di euro, e che usa i social network come Facebook per propagandare il proprio “credo” e commerciare il materiale pedopornografico.

Un “mercato impiantato sull’innocenza” che si è allargato anche alle pubblicazioni, ai giocattoli e agli articoli di bigiotteria, afferma il sacerdote costretto a volte ad essere scortato dagli agenti della Digos per le ripetute minacce di morte di cui è stato fatto oggetto.

E i dati gli danno ragione: da gennaio a ottobre 2009, l’associazione Meter, ha già fatto iscrivere 1.410 notizie di reato – a fronte delle 340 dello scorso anno – presso la Procura Distrettuale di Catania a seguito del lavoro svolto dal Compartimento “Sicilia Orientale” di Catania, per un totale di circa 10.000 segnalazioni di portali, siti, comunità su social network pedofile e pedopornografiche.

Un dramma che coinvolge minori vittime della pornografia e dello sfruttamento sessuale, il cui numero si aggira sui 200.000 l’anno.

A questa piaga si è aggiunto di recente anche il nuovo filone della infantofilia scoperto e denunciato per la prima volta da Meter nel 2002, che coinvolge bambini in tenerissima età, da pochi giorni a due anni.

Secondo il Rapporto presentato da Meter, il 16 settembre scorso, al Consiglio sui diritti umani dell’Onu, sono più di 750.000 i “predatori” sessuali a caccia di bambini connessi a internet in modo continuativo.

“Meter – sostiene don Di Noto -, negli ultimi 7 anni di attività sociale a tutela dell’infanzia, ha segnalato ufficialmente alla Polizia Postale Italiana e alle Polizie di diversi paesi nel mondo 53.290 siti pedopornografici, aprendo filoni di indagini che hanno portato a migliaia di indagati e arrestati, e in alcuni casi anche alla individuazione delle vittime di nazionalità italiana”.

La nuova frontiera, tuttavia, sembre essere diventata quella dei film pedopornografici in cui a recitare sono i minori, guidati sul “set” da degli adulti, che in questo modo riescono a sottrarsi alla giustizia, data la non imputabilità dell’età per bambini che fanno sesso tra loro.

Per questa ragione, il 22 settembre scorso, a Roma, nel corso di una audizione presso la Commissione Bicamerale per l’Infanzia, presieduta dall’on. Alessandra Mussolini, don Di Noto ha chiesto l’adozione di una proposta di legge – formulata dall’associazione Meter e appoggiata con entusiasmo da 160 deputati dei diversi schieramenti – per contrastare “coloro che, servendosi di qualunque mezzo, compreso quello telematico, legittimano pubblicamente, diffondono giudizi atti a legittimare, istigano o effettuano apologia”.

“Il problema – spiega il sacerdote – è che nel pacchetto di legge che dovrebbe essere varato non è stato incluso il contrasto alla pedofilia ‘pseudoculturale’”.

Alla radice del proliferare di questa piaga sociale, il sacerdote individua “una profonda emergenza educativa, una crisi sostanziale che coinvolge le famiglie. E nel momento in cui la famiglia è in crisi educativa, economica, di relazioni, con genitori assenti, questo fa emergere un vuoto che i pedofili, parliamoci chiaro, nessuno me ne voglia, vanno a riempire”.

“E’ vero, anche, che i media, come la tv o internet stesso, non ci vengono incontro e a volte innescano dei meccanismi di disadattamento enormi”, ha detto.

“Per questo – ha osservato – noi come Chiesa dobbiamo forse appropriarci con molta serenità di questo strumento di comunicazione che è Internet ma non soltanto divenendo dei testimoni digitali”.

Studiato all’Università di Pechino, in Cina, in un corso di lingua inglese in cui si affronta il tema della pedofilia, don Di Noto rifugge i toni celebrativi e si schermisce dicendo: “Sono solo un discreto e normale uomo che fa il parroco e più che al Paradiso punto allo scantinato del Cielo”.

Tuttavia gli esordi non sono stati del tutto incoraggianti. Don Di Noto racconta, infatti, che nei primi anni ’90, quando aveva cominciato a occuparsene e pochi avevano familiarità con Internet, veniva visto anche all’interno della gerarchia della Chiesa come un “disturbatore” e un “provocatore”.

“Ma era vero – afferma –: disturbavo le coscienze dorimienti perchè c’era il grido dei bambini che incontravo lacerati; provocavo, alla luce dello Spirito Santo, che mi interpellava a dare viva voce alla prossimità che la Chiesa doveva, da tempo e spesso non l’ha fatto, per le vittime dell’abuso sessuale”.

“La profezia è normale che venga vista sempre malevolmente – replica –. Ma io ho sempre considerato Internet come una terra di missione”.

Oggi l’associazione Meter conta su una “famiglia” – così ama definirla – di oltre 300 volonari, con 9 sportelli operativi in Sicilia, alcuni dei quali voluti espressamente dai Vescovi locali, come parte del loro piano di azione pastorale incentrata sui bambini. Numerosi anche i referenti volontari sparsi su tutto il suolo italiano e che fanno capo spesso alle parrocchie.

Meter ha anche messo in piedi una “rete di comunione” con progetti in Brasile, Romania e Paraguay, dove per esempio ai bambini di strada, sprovvisti di documenti e quindi di una identità, viene dato un sostegno concreto attraverso avvocati, psicologi, medici, educatori e operatori.

L’associazione sopravvive grazie ai soldi privati, spesso aiutata dalla “generosità di molti bambini, che rinunciano alle loro paghette”, mentre la Regione Sicilia contribuisce con circa un centinaio di migliaia di euro.

Promotrice di leggi contro la pedofilia on-line in Italia e all’estero, Meter ha dato un contributo alla nuova formulazione di una normativa in materia varata dal Giappone.

Per quanto riguarda l’approccio della Chiesa al problema della pedofilia, don Di Noto sottolinea che “la Chiesa è madre e accoglie tutti i peccatori (che vogliono e desiderano convertirsi) e coloro che subiscono soprusi. Anche il perdono è per i pedofili, ma devono compiere atti di seria e vera e autentica conversione”.

“Ho incontrato tante, molte vittime, bambini lacerati, annientati – afferma –. Ho raccolto anche dei sacerdoti che hanno chiesto aiuto: ho sempre chiesto loro che chi compie questi atti non può rimanere a vivere pienamente il ministero. Gesù Cristo non lo permetterebbe, ne sono più che convinto”.

“Le violenze, gli abusi compiuti da un pastore sono gravi – spiega –, sono la manifestazione elaborata e consapevole del male e non da una occasione, perchè non c’è mai un’occasione per violare l’innocenza”.

Tuttavia, precisa, “non possiamo agire solo per l’emergenza. Solo quando accade l’irreparabile, la missione della Chiesa è annunciare l’Amore di Dio a tutti, e rendersi opera di salvezza e di speranza”.

“I Vescovi, pastori e padri di figli a cui hanno rubato la dignità e l’innocenza devono assumersi un impegno: nominerei in tutte le diocesi del mondo, iniziando dall’Italia, il Vicario episcopale dei bambini. Un segno dell’amore di Gesù Cristo attraverso il Vescovo e i pastori”.

In più, il sacerdote ha chiesto di promuovere la presenza in tutte le diocesi dello Sportello Meter.

“Noi, il sottoscritto è a servizio dei bambini, i prediletti del Signore, i figli prediletti della Chiesa. Sempre”, ha quindi concluso.

[Per maggiori informazioni: www.associazionemeter.org]

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Nei confronti del creato serve un « antropocentrismo relativo »

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20300?l=italian

Nei confronti del creato serve un « antropocentrismo relativo »

I Vescovi ungheresi esortano a un rapporto responsabile con l’ambiente

di Roberta Sciamplicotti

ROMA, giovedì, 12 novembre 2009 (ZENIT.org).- Nei confronti del creato, l’atteggiamento dei cristiani deve essere basato su un « antropocentrismo relativo », che si discosti sia dal considerare solo l’essere umano non curandosi di ciò che lo circonda che dal pensiero che nega le differenze ontologiche tra l’uomo e l’ambiente.

La Conferenza dei Vescovi Cattolici Ungheresi lo ricorda in una Lettera circolare sulla Difesa del Mondo Creato, alla cui stesura hanno collaborato per vari anni diversi membri dell’Accademia delle Scienze d’Ungheria, docenti universitari, teologi e gli stessi Vescovi.

Nella lettera, i presuli sottolineano che « il degrado in rapida accelerazione dell’ambiente naturale e i cambiamenti climatici a livello globale sono diventati al giorno d’oggi una realtà ».

Per ridurre « e, se possibile, evitare un comportamento che danneggia l’ambiente e impoverisce il clima » servono « sforzi significativi » e « strategie efficienti per adattarsi alle circostanze dei cambiamenti climatici ».

« Perché l’umanità possa superare questo test, dobbiamo partecipare tutti – ricordano -. La sfida che affrontiamo è sostanziale, ma la nostra azione guidata dai valori e l’autolimitazione possono influire positivamente sulla situazione ».

Difendere l’ambiente, ricordano i Vescovi ungheresi, « significa più che assicurare semplicemente condizioni di vita degne alle generazioni presenti e future », perché è fondamentale per « la protezione e la promozione del bene comune e della dignità umana ».

L’ »antropocentrismo relativo »

I presuli ricordano quindi l’ »ecoteologia » e l’ »ecoetica » cristiane, sottolineando che queste prendono le distanze dall’ »antropocentrismo radicale », che considera l’ambiente naturale solo in funzione dei « benefici diretti per la generazione attuale ».

Questo comportamento, infatti, « contraddice la responsabilità affidata agli uomini dal Creatore ».

Allo stesso modo, la posizione cristiana si differenzia nettamente dal « pensiero ecocentrico », che non considera le « fondamentali differenze ontologiche tra gli uomini e la parte dell’ambiente naturale che è esterna all’uomo ».

Il comportamento dei cristiani nei confronti della natura deve quindi basarsi su « un ‘antropocentrismo relativo’ in termini di modello filosofico di pensiero e di teocentrismo se guardato dal punto di vista della fede, che riconosce anche il valore intrinseco della natura ».

Spiegando la definizione « antropocentrismo relativo », i presuli sottolineano che si parla di antropocentrismo perché l’uomo « è l’unica creatura sulla Terra che Dio ha desiderato di per sé », mentre l’aggettivo « relativo » si riferisce al fatto che, anche se l’uomo si differenzia dalla parte non umana dell’ambiente dal punto di vista « ontologico, etico e biologico », allo stesso tempo « forma un’unità con esso, tenendo conto della natura di ogni essere e del suo collegamento reciproco in un sistema ordinato, che è il cosmo ».

In questo senso, il concetto di teocentrismo si riferisce al senso del valore intrinseco della natura, in base al quale questa non è a somiglianza di Dio, « ma una realtà dipendente da Dio – e non dall’uomo ».

Preservare il creato, riconoscono i Vescovi ungheresi, ha un significato di riconoscimento e di lode, perché « possiamo preservare in modo credibile solo ciò che riconosciamo come buono e che vale la pena di lodare ».

L’etica cristiana relativa all’ambiente, aggiungono, si basa su tre valori collegati tra loro: il « valore strumentale della natura » in quanto « parte del bene pubblico, che serve la protezione e l’evoluzione della dignità umana »; il « valore simbolico della creazione », perché si riferisce direttamente a Dio e permette quindi di approfondire il rapporto con Lui; la nozione teologica di « nuova creazione », che indica il « futuro escatologico » dell’ambiente, « che ci fornisce una comprensione più profonda, religiosa del futuro del mondo che ci circonda ».

Un nuovo ordine economico

Per i Vescovi ungheresi, « difendere l’ambiente e il clima è anche parte della promozione del bene comune, che si può realizzare solo attraverso un ordine economico che serva l’interesse credibile dell’uomo ».

I presuli citano quindi gli elementi fondamentali di questo ordine, sottolineando la « limitazione dell’obiettivo dell’economia di mercato al cosiddetto utile » e il cambiamento del ruolo del profitto.

Se l’economica utilitaristica contemporanea ha fissato l’obiettivo della sua massimizzazione, sostengono, nell’economia di servizio il profitto è « uno strumento che aiuta a realizzare valori e il bene comune ».

In questo contesto, i presuli concludono esortando ad « adottare un atteggiamento universale, globale, in cui Dio e l’ordine morale e naturale da Lui creato raggiungano la preminenza ».

Publié dans:bioetica, ecoetica |on 12 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Ciò che la Chiesa dice e non dice sul preservativo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17593?l=italian

Ciò che la Chiesa dice e non dice sul preservativo

Il presidente dei medici cattolici spiega il dibattito

BARCELLONA, giovedì, 19 marzo 2009 (ZENIT.org).- Leggendo i giornali si ha l’impressione che la Chiesa dica che se una persona ha rapporti sessuali con una prostituta non deve usare il preservativo, riconosce il presidente dell’associazione dei medici cattolici del mondo.

José María Simón Castellví illustra con questo esempio la superficialità con cui alcuni mezzi di comunicazione hanno informato sulle parole pronunciate da Benedetto XVI questo martedì a bordo dell’aereo che lo stava portando in Camerun, quando ha spiegato che il preservativo non è la soluzione all’Aids.

“La Chiesa difende la fedeltà, l’astinenza e la monogamia come armi migliori”, indica il presidente della Federazione Internazionale dei Medici Cattolici (FIAMC) in una dichiarazione rilasciata a ZENIT.

I media e anche alcuni rappresentanti politici hanno tuttavia accusato la Chiesa di promuovere l’Aids in Africa. Ovviamente, osserva il medico, la Chiesa non sta dicendo che si possono avere relazioni sessuali promiscue di ogni tipo a patto di non utilizzare il preservativo.

Il dottor Simón spiega che per comprendere ciò che la Chiesa dice sul preservativo bisogna capire cos’è l’amore, come ha spiegato lo stesso Papa ai giornalisti, anche se questo passaggio della conversazione è stato “censurato” dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione.

“Il preservativo è una barriera, ma una barriera con limiti che molte volte vengono aggirati. Soprattutto tra i giovani può essere controproducente dal punto di vista della trasmissione del virus”, ha aggiunto.

“Noi medici cattolici siamo a favore della conoscenza scientifica – spiega –. Non diciamo le cose solo per motivi ideologici. Come ammettiamo che un adulterio di pensiero non trasmette alcun virus ma è qualcosa di negativo, dobbiamo dire che i preservativi hanno i loro pericoli. Sono barriere limitate”.

Il medico illustra la posizione della Chiesa citando un caso reale, raccolto dai media informativi.

A Yaoundé, in Camerun, si è celebrata nel 1993 la VII Riunione Internazionale sull’Aids con esperti medici e sanitari. Hanno partecipato circa trecento congressisti e al termine è stato distribuito un questionario perché si indicasse, tra le altre cose, se si aveva avuto rapporti sessuali nei tre giorni in cui era durata la riunione con persone con cui non si facesse coppia fissa.

Degli interpellati, il 28% rispose di sì, e un terzo di questi disse di non aver preso alcuna “precauzione” per evitare contagi.

“Se ciò avviene tra persone ‘coscienziose’, cosa accadrà tra la gente ‘normale’?”, si è chiesto Simón Castellví.

Publié dans:bioetica |on 19 mars, 2009 |Pas de commentaires »

L’aborto è la sconfitta dell’Europa

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15363?l=italian

L’aborto è la sconfitta dell’Europa

Carlo Casini lancia una petizione per riconoscere la vita dal concepimento

di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENT.org).- Intervenendo il 7 settembre al XXIII Congresso Internazionale per la Famiglia che si è svolto nell

Università Cattolica di Ruzomberok in Slovacchia, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita (MpV), ha denunciato la vasta diffusione dellaborto in Europa e ha rilanciato la petizione per riconoscere la vita fin dal concepimento. Al congresso promosso dal

World Organisation for the Family (Washington, DC) e dalla fondazione Famille de Demain, il Presidente del MpV ha spiegato che “il più grande problema politico del momento è quello di restituire verità ai diritti delluomo” e che per questo motivo “il tema della vita e quello della famiglia sono centrali”. Il giurista ha precisato che il tema della vita è legato “alla stessa identificazione del soggetto titolare dei diritti. Se non sappiamo chi è luomo, tutto il quadro dei diritti umani cade e va in frantumi”.

Mentre il tema della famiglia è collegato con “la dignità umana, di cui la famiglia è rivelatrice in quanto luogo dove si può fare esperienza di un amore che vuole vincere i limiti del tempo e di una libertà che è bella perché accetta la regola”.

Il Presidente del MpV ha ribadito che “il compito della politica è quello di perseguire il bene comune attraverso una complessa organizzazione della società civile” ed ha ricordato che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell

Uomo “afferma che la dignità umana, e quindi il valore della vita e della famiglia, è fondamento della costruzione civile”. A questo proposito, ha sottolineato l

eurodeputato, “è urgente che la politica definisca in modo chiaro che luomo è sempre uomo dal concepimento fino alla morte naturale. The man is the man: lo slogan che ha liberato gli schiavi dAmerica deve essere ripetuto per liberare i bambini non ancora nati, i malati e i morenti”.

Parlando dell

Europa, Casini ha valutato positivamente il processo di unificazione, ma ha criticato aspramente le politiche antivita.“Proprio dai vertici europei

ha sottolineato giungono sempre più forti i segnali di una cultura di morte che nega dignità umana e diritti ai più deboli, quali sono i bambini non ancora nati, i malati e i morenti e che disconosce nella famiglia il nucleo fondamentale della società e dello Stato basato sul matrimonio di un uomo e di una donna”.

“Questa negativa deriva europea

ha aggiunto non deve essere sottovalutata”.L

onorevole Casini ha infatti espresso il proprio disappunto perchè nella Carta di Nizza “la tendenza sessuale ha sostituito la distinzione dei sessi”: vi è “la dimenticanza dei concepiti nella proclamazione del diritto alla vita” ed è stata “abbandonata la formula con cui la Dichiarazione Universale (art. 16) aveva definito la famiglia nucleo fondamentale”.

Inoltre, viene ammessa la cosiddetta “clonazione terapeutica implicitamente risultante dalla proibizione della sola cosiddetta clonazione riproduttiva”.

Il Presidente del MpV ha ricordato che “laborto è la sconfitta dellEuropa”, come disse ai Vescovi Europei nel 1985, Giovanni Paolo II.

Casini ha anche ricordato che lo stesso Pontefice, il 19 dicembre 1987, rivolgendosi ai Movimenti per la Vita europei lanciò un forte richiamo alla responsabilità dei popoli europei.

“Il nostro compito ha affermato Casini è farci sentire. E rompere la congiura del silenzio che favorisce il diffondersi della cultura antivita e antifamiglia promossa da pochi, ma che si avvale della potenza schiavizzante dei grandi mezzi di comunicazione. E nostra responsabilità dare voce a chi non ha voce”.

Tra le tante iniziative di cui il Presidente del MpV è promotore, una il particolare è stata sollecitata ai popoli dei 27 Paesi dell

Unione Europea. Si tratta della petizione per riconoscere il diritto alla vita di ogni essere umano come esistente fin dal concepimento e il riconoscimento della famiglia in quanto fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, cui spetta il diritto-dovere di scegliere leducazione da dare ai figli. Casini ha poi ricordato che a Strasburgo l

11 e il 12 dicembre 2007 e a Roma l’11 maggio 2008 un primo nucleo di rappresentanti di Movimenti e Associazioni per la vita e la famiglia di vari paesi dEuropa si sono riuniti ed hanno approvato il progetto di petizione. “Il nostro impegno a difesa della vita e della famiglia deve influenzare anche la politica e quindi il voto dei cittadini europei”, ha poi concluso ricordando che nel 2009 si svolgeranno le elezioni europee.

Publié dans:bioetica, ZENITH |on 11 septembre, 2008 |Pas de commentaires »
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