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PERCHÉ, PER ESSERE CRISTIANI, È NECESSARIO ANDARE A MESSA? – (intervista Zenith.org)

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PERCHÉ, PER ESSERE CRISTIANI, È NECESSARIO ANDARE A MESSA?

INTERVISTA A DON RICARDO REYES CASTILLO, AUTORE DI « LETTERE TRA CIELO E TERRA », MANUALE DI FACILE LETTURA PER RISCOPRIRE IL VALORE FONDAMENTALE DELL’ESPERIENZA EUCARISTICA DELLA MESSA

ROMA, 11 APRILE 2013 (ZENIT.ORG) SALVATORE CERNUZIO

A volte da una chiacchierata a cena tra amici può nascere un frutto benefico per tutta l’umanità. E’ bastata una semplice domanda di un cattolico non-praticante sull’importanza della Messa, perché don Ricardo Reyes Castillo, sacerdote di Grenoble, incardinato a Roma, desse il via ad un lungo epistolario in cui, grazie ai suoi studi al Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo di Roma, spiegasse perché, per essere cristiani, è fondamentale vivere l’Eucarestia. Il risultato è “Lettere tra Cielo e Terra”, volume suddiviso in dodici lettere, scritto in un linguaggio accessibile e rivolto a credenti e non per aiutarli a riscoprire il valore della Messa e la bellezza di Dio.
Il libro, già alla sua seconda edizione con Cantagalli, verrà presentato dal card. Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto divino, e da padre Giuseppe Midili, O. Carm., direttore dell’Ufficio Liturgico Vicariato di Roma, lunedì 15 aprile, alle 21, nella Parrocchia di San Roberto Bellarmino (la parrocchia di cui era titolare il cardinale Bergoglio). ZENIT ha intervistato l’autore.

Don Ricardo, raccontiamo innanzitutto come è nata l’idea di questo libro….
Un mio amico avvocato, un uomo molto istruito, di buona cultura, un giorno mi ha detto: “Ricardo, io ho studiato in istituti cattolici, conosco la Messa a memoria, ma ho una difficoltà di coerenza nell’andare a Messa, perché mi trovo a dire tante parole o fare tanti gesti di cui non so il vero significato. E per me le parole e i gesti hanno un peso; io non posso andare davanti a un Giudice e dire o fare qualcosa che non abbia una intenzione ben precisa”. Allora mi sono proposto di spiegargli ogni singola parola o gesto della Messa, in un primo momento attraverso brevi messaggi via e-mail, diventati poi vere e proprie lettere che hanno preso la forma di un libro.

Qual è il messaggio o, se vogliamo, la sfida che lancia questo libro?
Che il vero rinnovamento liturgico passa attraverso l’educazione liturgica. Secondo me, oggi non bisogna soffermarsi sui grandi concetti, considerando anche il fatto che la cultura in cui viviamo non è più una cultura cristiana o di fede. Bisogna ripartire dalle basi: cosa significa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo? Cosa vuol dire ‘Che il Signore sia con voi’? Concretamente le formule recitate durante la Messa cosa hanno a che fare con la nostra vita? Nel libro ho cercato di rispondere a tali quesiti attraverso 12 lettere, in cui ho mantenuto tre punti: la parte della Liturgia in questione, un brano della Scrittura e la mia esperienza personale.

Qual è la sua esperienza personale?
Mi riferisco soprattutto a quello che ho vissuto nell’ultimo anno in cui ho scritto il libro. Esperienze di gioia e di dolore che appaiono continuamente nelle varie lettere: dalla morte di uno dei miei più cari amici, fino alla pastorale nella parrocchia di San Basilio, una zona molto difficile di Roma, dietro il carcere di Rebibbia, caratterizzata da problemi di droga e delinquenza, ma allo stesso tempo da una ricca di umanità. Convivere con questi disagi, mi ha fatto capire che c’è bisogno di tornare alle cose essenziali. Ho avuto la conferma vedendo tanta gente della Parrocchia, gente umile, che ha letto il libro e lo ha compreso, ha trovato delle risposte, è stata aiutata a vivere meglio la celebrazione. Questo mi ha consolato molto.
Sarà merito anche del linguaggio semplice utilizzato nel libro. Ha trovato difficoltà nel rendere fruibili temi così complessi per un pubblico non solo di studiosi e specialisti?
Di certo, non è stato un lavoro facile. Oltre alla richiesta del mio amico, il libro nasce anche dalla ‘sfida’ che il card. Cañizares mi ha lanciato dopo la discussione della tesi di Dottorato in Sacra Liturgia al Sant’Anselmo. Il cardinale mi ha detto: “Bravo, ora però devi ‘tradurre’ tutto quello che hai scritto nella tesi e portarlo agli uomini e le donne di oggi”. In questo lavoro, mi sono stati d’aiuto i miei studi, ma anche opere di autori come Luis e Tolkien che nei loro libri hanno tradotto grandissimi concetti della nostra fede in un linguaggio attraente per la gente comune. Credo che sia molto importante, soprattutto oggi, introdurre il cristiano a certe nozioni che sono alla base della sua fede. Io ho cercato di farlo, evitando però un linguaggio ‘infantile’, ma seguendo piuttosto lo stile di un manuale, un manuale ‘semplice’ che si può leggere tutto d’un fiato e che, al contempo, è uno strumento di approfondimento.
Uno stile che ricorda quello delle omelie e dei discorsi di Papa Francesco: essenziali, brevi, efficaci, ricchi di contenuti. Cosa pensa lei di questo Papa?
Sono molto grato a Dio per il Papa. È una ventata di speranza che mi ha dato personalmente un desiderio di ripartire, di ricominciare. Mi incoraggia anche la gioia che grazie a Lui vedo nella gente, nei miei parrocchiani, la quantità di persone che vengono a confessarsi perché “il Papa ha detto che Dio è misericordioso”. Penso, però, che dobbiamo aspettare ancora un po’ di tempo per conoscerlo meglio e capire qual è il suo vero “stile”. Anche dal punto di vista liturgico…
Il suo precedente volume trattava il tema de “L’unità nel pensiero liturgico di Joseph Ratzinger”. Vede aspetti di continuità tra i due Pontefici, in particolare dal punto di vista liturgico?
Quello che ci ha lasciato la Liturgia di Ratzinger, non è la modalità, ma l’equilibrio. Benedetto XVI ha aperto una finestra verso alcuni aspetti, come ad esempio la dimensione escatologica dell’Eucarestia, questo “cielo che si apre”, o il concetto dell’orientamento, cioè quanto sia importante pregare verso Oriente. Ma anche il crocifisso sull’altare, il latino e via dicendo. La grandezza di Ratzinger, però, è stata nell’illuminare l’importanza di questi aspetti, senza pretendere di dover tornare ad essi, ma solo di riscoprirne il valore per utilizzarli nelle modalità attuali. Papa Francesco ora sta portando tutto quello che il suo predecessore aveva introdotto ad una dimensione di semplicità. Ma una cosa non nega l’altra: bisogna uscire da quella visione dualistica della liturgia: o riformista o tradizionalista. La liturgia è ampia, è questa la sua bellezza, e noi dovremmo essere in grado di leggere la bellezza della semplicità liturgica che ci sta dando papa Bergoglio, senza pensare che sia forzatamente opposta alla bellezza offerta da Ratzinger. Anzi, credo proprio che il grande insegnamento di Benedetto XVI, nonostante fosse considerato tradizionalista, ci abbia preparato ad accogliere la genuinità di papa Francesco.
Lei, nel libro, parla molto della sofferenza, affermando che è evidente quanto l’uomo di oggi soffra, “basta salire su una metro in una qualsiasi città europea”, colpa anche di una dilagante scristianizzazione e crisi di fede. Che risposta dà il volume a questo?
La risposta è che bisogna tornare all’Eucarestia, che è il cuore della nostra fede, la fonte e il fine del nostro essere cristiani. In fondo, noi siamo chiamati ad essere Eucarestia vivente, ad essere uomini e donne capaci di spezzarsi per gli altri. Quindi, dobbiamo ritornare a scoprire questo nutrimento spirituale. È nel vivere l’Eucarestia che noi viviamo. Non è una cosa in più che potrebbe aiutare, è l’esigenza primaria del cristiano di oggi, oltre che uno dei doni che il Signore ci ha lasciato e che dobbiamo vivere fino in fondo, altrimenti non viviamo il nostro Battesimo, ma viviamo‘spaccati dentro’.

L’uomo non è “grumo di materia”, ma cifra dell’infinito

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18245?l=italian

L’uomo non è “grumo di materia”, ma cifra dell’infinito

Omelia del Cardinale Bagnasco per i funerali di don Gianni Baget Bozzo

di Antonio Gaspari

GENOVA, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso dell’omelia della Messa d’esequie per don Gianni Baget Bozzo, svoltasi a Genova lunedì 11 maggio, il Cardinale Angelo Bagnasco ha spiegato che l’umanità non è un mero “grumo di materia” destinata solo a morire, ma al contrario una grandezza incompiuta il cui fine è la felicità.

Secondo l’Arcivescovo di Genova, “il secolarismo diffuso spinge a vivere come se Dio non ci fosse e tutto si riducesse alla vita terrena. Come se l’esistenza fosse solo una rapida sequenza di giorni, un’ inarrestabile corsa verso il nulla. Come se la morte – come affermava Nietzsche – fosse la nostra ‘cupa compagna di viaggio’ ».

“Tutto allora si appiattisce sull’immediato, su ciò che risponde e soddisfa interessi e bisogni senza futuro”, ha aggiunto.

“Se l’uomo è un grumo di materia organica solo un po’ più sviluppata – ha continuato il porporato –, se non siamo anche anima, allora non esiste futuro, vita eterna, infinito. Allora ognuno è prigioniero di se stesso, chiuso nel mondo angusto del suo piccolo e fuggevole presente, dove i valori dell’amore fino al sacrificio di sé difficilmente trovano fondamento e linfa rinnovatrice”.

“In sostanza – ha sottolineato il porporato –, senza l’anima l’uomo è una ‘passione inutile’”.

“La fede invece, ma anche la ragionevolezza e l’esperienza universale – ha ribadito –, dicono che l’uomo è una grandezza incompiuta, e quindi desiderio e apertura oltre se stesso, verso una cifra che, pur superando il limite della creatura, misteriosamente gli appartiene: è la cifra dell’infinito, della pienezza, della felicità senza ombre e per sempre”.

Per il Cardinale Bagnasco il Vangelo è “sorgente inesauribile di umanesimo” e ci invita a guardare avanti con fiducia, perché “la vita terrena non è un vagabondare rassegnato e mesto verso il vuoto, ma il pellegrinaggio serio e responsabile verso Dio che è Padre: nel suo grembo di verità deporremo le nostre azioni e i nostri pensieri”.

Parlando di don Gianni Baget Bozzo, l’Arcivescovo di Genova ha ricordato che è stato ordinato nel 1967, a 42 anni, dal Cardinale Giuseppe Siri che fu suo insegnante di Religione al Liceo Doria.

Don Gianni ricoprì subito incarichi di fiducia, come la direzione della rivista teologica « Renovatio », del Quadrivium, centro di attività culturali, la cattedra di teologia dogmatica nel Seminario.

“Scrittore fecondo e non banale, fu termine di confronto per molti in Italia. Il Cardinal Siri ne riconobbe da sempre le doti di intelligenza e cultura. Ma anche di fede e preghiera”.

Il Cardinale Bagnasco ha ricordato anche che “ciò non gli impedì, purtroppo, di percorrere alcune strade in palese contrasto con la disciplina della Chiesa, fino a dolorosi provvedimenti che la grande e affettuosa paternità dell’Arcivescovo dovette assumere, e che prontamente cessarono appena vennero meno alcune oggettive circostanze”.

L’Arcivescovo ha confessato che don Gianni Baget Bozzo, “spesso, recentemente, mi ha confidato il suo dolore per aver addolorato il suo Cardinale. Oggi, nella luce di Dio, tutto si chiarisce e si purifica”.

Il Cardinale Bagnasco ha quindi concluso affidando l’anima immortale di don Gianni al Signore, rammentando un tema molto caro alla meditazione di don Baget Bozzo e sul quale scrisse anche un’opera, “l’anima e la vita eterna”.

Publié dans:Cardinali, ZENITH |on 13 mai, 2009 |Pas de commentaires »

La Sindone: un incontro tra scienza e fede

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18108?l=italian

La Sindone: un incontro tra scienza e fede

Presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma

ROMA, lunedì, 4 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il Master in Scienza e Fede dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” ha organizzato la presentazione di tre volumi sulla Sacra Sindone.

L’incontro si terrà giovedì 7 maggio, alle ore 16:00, a Roma, presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (via degli Aldobrandeschi 190) e sarà trasmesso in videoconferenza anche a Bologna, presso l’Istituto Veritatis Splendor.

L’evento, realizzato con il supporto del progetto STOQ, dell’Aracne Editrice e delle Edizioni ART, sarà aperto da un saluto di padre Pedro Barrajón, L.C., Rettore della “Regina Apostolorum”.

Seguirà, alle 16:15, la presentazione del libro “La Sindone tra scienza e fede”. Interverranno Padre Gianfranco Berbenni, Ofm cap, della Pontificia Università Lateranense (“I programmi di ricerca sulla Sindone”), e il prof. Petrus Soons, autore dell’ologramma della Sindone (“Le scoperte alla luce dell’immagine ologrammica”).

Dopo una pausa, alle 17:30, si terrà la presentazione del libro “L’uomo della Sindone”, con il prof. Avinoam Danin, Cattedratico di Botanica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il quale sostiene che l’unico luogo al mondo, in cui le persone avrebbero potuto raccogliere parti fresche di almeno quattro specie di piante rinvenute sulla Sindone e collocarle sul corpo dell’uomo che in essa fu avvolto, è l’area geografica tra Gerusalemme ed Hebron.

Alle 18:00 si terrà, infine, la presentazione del libro “La Sindone. Una sfida alla scienza moderna”. Interverrà il Prof. Giulio Fanti, docente di Misure Meccaniche e Termiche al Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Padova, con una relazione sul tema “La formazione dell’immagine dell’uomo della Sindone”.

Durante l’incontro sarà possibile visitare la mostra permanente “Chi è l’uomo della Sindone?” allestita presso la “Regina Apostolorum”. La mostra ospita, fra l’altro, una copia della Sindone di Torino, un ologramma e una scultura che cercano di ricostruire in tre dimensioni il corpo dell’uomo sul lenzuolo, ed una riproduzione della corona di spine, dei chiodi e dei flagelli utilizzati, secondo quanto è stato possibile rilevare dall’immagine.

Inoltre alcuni grandi pannelli ripercorrono la storia della Sindone e illustrano le principali ricerche scientifiche degli ultimi anni, con particolare riferimento ai recenti studi nel settore della botanica.

[Per maggiori informazioni: tel. 06 665431; www.upra.org; carloclimati@mclink.it]

di Sandro Magister : Il manifesto di papa Ratzinger: « Così prenda inizio la trasformazione del mondo »

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1337965

Il manifesto di papa Ratzinger: « Così prenda inizio la trasformazione del mondo »

La rivoluzione cristiana nasce nella liturgia, dice Benedetto XVI. E il suo « canone », la sua regola costitutiva, è la grande preghiera eucaristica. L’ha spiegato nell’omelia del Giovedì Santo. E prima ancora in una catechesi, altrettanto sorprendente

di Sandro Magister

ROMA, 14 aprile 2009 – Nella scorsa settimana santa Benedetto XVI ha accompagnato ogni celebrazione con una omelia, di quelle genuinamente sue, dalla prima parola all’ultima. Le omelie sono ormai un segno distintivo di questo pontificato. Forse ancora il meno noto e il meno capito. Ma sicuramente il più rivelatore.

Papa Joseph Ratzinger non è soltanto teologo, è ancor prima liturgo e omileta. In www.chiesa questo suo carattere inconfondibile è stato messo in evidenza più volte. Lo scorso anno, ad esempio, mettendo in rete in blocco, subito dopo Pasqua, le sei omelie della precedente settimana santa. E in autunno curando la raccolta in un libro – edito da Scheiwiller del Gruppo 24 Ore – delle omelie di Benedetto XVI dell’intero anno liturgico appena trascorso.

Dopo la settimana santa di quest’anno, invece, il lettore non troverà riportate qui sotto tutte le omelie pronunciate dal papa nell’occasione. Queste le leggerà agevolmente nel sito del Vaticano, cliccando sul link segnalato a fine pagina.

Delle omelie papali dello scorso triduo sacro ne è riprodotta qui di seguito una sola, quella della sera del Giovedì Santo.

E subito dopo il lettore troverà un altro testo di Benedetto XVI di qualche mese precedente: la catechesi da lui tenuta all’udienza generale di mercoledì 7 gennaio 2009.

I due testi sono tra loro strettamente legati. Sia nell’uno che nell’altro papa Ratzinger spiega le parole e il senso profondo del Canone Romano, la preghiera centrale e costitutiva della messa, la più antica tra quelle in uso in tutto il mondo con l’attuale messale della Chiesa di Roma.

Nella messa « in cena Domini » del Giovedì Santo il Canone Romano ha alcune varianti proprie del giorno. E fin dalle prime parole della sua omelia Benedetto XVI ne mette in luce la particolarità.

Ma è al senso complessivo di questa preghiera liturgica capitale che papa Ratzinger dedica l’intero seguito dell’omelia.

E fa lo stesso in un passaggio della catechesi del 7 gennaio, che per il resto è dedicata a illustrare il culto cristiano nel suo insieme. Quel culto che il Canone Romano, sulla traccia di san Paolo, definisce « rationabile ».

La traduzione corrente di « rationabile », nelle lingue moderne, è « spirituale ». Ma Benedetto XVI mette in guardia dal pensare che il culto cristiano sia qualcosa di metaforico, di moralistico, di puramente interiore. No, spiega, il vero culto cristiano afferra gli uomini e il mondo nella loro interezza, è anche corporeità e materialità, è « liturgia cosmica » nella quale « i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventino gloria di Dio ».

È rarissimo, nella moderna produzione teologica e liturgica, incontrare una spiegazione del significato del culto cristiano così penetrante come in questi due testi della predicazione di papa Ratzinger.

Ecco dunque qui di seguito, nell’ordine:

– l’omelia di Benedetto XVI nella messa « in Cena Domini » dello scorso Giovedì Santo;

– la catechesi del 7 gennaio 2009 sul culto « spirituale »;

– i link ai testi integrali del Canone Romano in latino e in lingua moderna;

– più altri rimandi all’insieme delle omelie papali.

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1. Omelia del Giovedì Santo, 9 aprile 2009, sul Canone Romano

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, « Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem »: così diremo oggi nel Canone della santa Messa. « Hoc est hodie »: la liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola « oggi », sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato « oggi » che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo « oggi » è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo « oggi ». Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola « oggi », la liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione [dell'Eucaristia] così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.

Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: « qui pridie ». Questo « qui » aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, « … diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo ». In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a se stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo.

Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel cenacolo, poiche l’agire di Gesù viene descritto con le parole: « gratias agens benedixit »: rese grazie con la preghiera di benedizione. Con questa espressione, la liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico « berakha » è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini « eucharistia » ed « eulogia ». Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, « frutto della terra e del lavoro dell’uomo », per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La liturgia romana ha ragione, quindi, nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: « offriamo », « supplichiamo », « chiediamo di accettare », « di benedire queste offerte ». Tutto questo si nasconde nella parola « eucharistia ».

C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. « Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili… ». Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani che ha imposto agli uomini; alle mani che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perche mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinche diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest’ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!

Dall’introduzione alla preghiera sacerdotale di Gesù (cfr. Giovanni 17, 1), il Canone prende poi le parole: « Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente… ». Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore, a sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinche non accolgano e non lascino entrare in noi le vanitates: le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinche diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinche guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione.

Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere, con-dividere, è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero « pane per la vita del mondo » (cfr. Giovanni 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinche diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.

Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola agape i significati di Eucaristia e amore si compenetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una: l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.

Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come « praeclarus calix », come calice glorioso, alludendo con ciò al salmo 23 [22], quel salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: « Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici… Il mio calice trabocca ». Il Canone Romano interpreta questa parola del salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso, il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo, il calice colmo del vino del suo amore.

Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’ »ora » alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione « novum testamentum ». Questo calice è il nuovo testamento, « la nuova alleanza nel mio sangue », come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Corinzi 11, 25). Il Canone Romano aggiunge: « per la nuova ed eterna alleanza », per esprime l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di alleanza, ma di testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore: se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente partner e si realizza il mistero nuziale dell’amore.

Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, « ratificare un’alleanza » significa « entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così un una comunione di diritti l’uno con l’altro ». In questo modo si crea una consanguineità reale benche non materiale. I partner diventano in qualche modo « fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa ». L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr. « Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament » II 105-137). Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una « consanguineità » tra se e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinche comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinche esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.

Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: « Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo… » (Giovanni 10, 18). Nessuno può togliergli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.

Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Penetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo « oggi ». Rendici strumenti della tua pace! Amen.

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2. Catechesi del 7 gennaio 2009, sul culto « spirituale »

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, in questa prima udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.

L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.

1. In Romani 3, 25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.

San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.

Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Marco 14, 58; Giovanni 2, 19ss). Questo è il primo testo.

2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L’espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Romani 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6, 20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.

Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell’uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un’altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l’idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Levitico 1, 13.17; 23, 18; 26, 31; ecc.).

Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l’espressione greca (t?n logik?n latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.

Questa formula paolina, che ritorna poi nella preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I profeti e molti salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv. 12-14). Nello stesso senso dice il salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv. 18s). Nel libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Daniele 3, 38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.

Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il salmo 51 e anche il libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.

Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Romani 12, 1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28), che siamo morti nel battesimo (cfr Romani 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.

Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua « Città di Dio ». Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10, 6: CCL 47, 27ss).

3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno.

__________

3. Il Canone Romano in latino e in lingua moderna. I testi integrali:

> In latino: « Te igitur, clementissime Pater… »

> In italiano: « Padre clementissimo… »

__________

Tutte le omelie di papa Joseph Ratzinger, anno per anno, nel sito del Vaticano:

> Omelie

L’introduzione di Sandro Magister al libro, edito da Scheiwiller, che raccoglie le omelie di Benedetto XVI nell’anno liturgico che va dall’Avvento del 2007 a quello del 2008:

> Omelie. L’anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, papa

Publié dans:Sandro Magister, ZENITH |on 15 avril, 2009 |Pas de commentaires »

Tentativi di ricucire uno scisma, La revoca delle scomuniche favorirebbe il dialogo con gli ortodossi

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http://www.zenit.org/article-16982?l=italian

Tentativi di ricucire uno scisma
La revoca delle scomuniche favorirebbe il dialogo con gli ortodossi

ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- La revoca della scomunica ai quattro Vescovi della Fraternità Sacerdotale S. Pio X (FSSPX) sta suscitando un intenso dibattito.

Diversi e moltissimi i temi sollevati. Per cercare di chiarire i termini della questione, ZENIT ha intervistato don Alfredo Morselli, parroco nella Diocesi di Bologna e uno dei sacerdoti incaricati dal Cardinale Carlo Caffarra di celebrare la Messa Tridentina

Qual è il significato della revoca della scomunica?

Don Alfredo: Mi pare che il significato sia duplice: in primo luogo si tratta di un atto di paternità nei confronti degli stessi Vescovi e di tutti i fedeli legati alla fraternità San Pio X. Sono molto significative le parole di mons. Fellay in una recentissima intervista: “L’ho capito dalla prima udienza in cui lo incontrai poco dopo la sua elezione. Pur muovendoci dei rimproveri, il Santo Padre aveva un tono dolce, veramente paterno… E’ un atto gratuito e unilaterale che mostra che Roma ci vuole realmente bene. Un bene vero”.

Ma questo gesto è soprattutto un messaggio a tutta la Chiesa e a tutto il mondo, la più energica riproposizione della chiave ermeneutica di questo pontificato: l’ “ermeneutica della riforma e della continuità”.

Può spiegare meglio quest’ultimo punto?

Don Alfredo: Ci sono persone che dopo il Concilio Vaticano II hanno parlato dell’ “ermeneutica della discontinuità”, mentre il Pontificato di Benedetto XVI sostiene che “la Chiesa e la sua fede non possono cambiare e non sono cambiate”.

Il Pontefice si sta impegnando, con tutta la forza del suo Magistero, a “spiegare come la fede della Chiesa, pur insidiata dalla tentazione della discontinuità e della rottura, non è mai andata soggetta a trasmutazione”.

E sembra che mons. Fellay stia accettando questa prospettiva. Se ho ben capito le sue parole, egli afferma che nel Papa “traspaiono, insieme, la consapevolezza dei tempi in cui viviamo, la fermezza nel porvi rimedio e l’attenzione a tutti i suoi figli”.

Rilevante la dichiarazione di mons. Fellay rilasciata ad un giornale francese: “Io credo nell’infallibilità della Chiesa e penso che arriveremo ad una soluzione vera”. (http://www.letemps.ch/Facet/print/Uuid/68fdc1aa-eb30-11dd-b87c-1c3fffea55dc/Je_crois_à_linfaillibilité_de_lEglise)

Molti hanno parlato della fine di uno scisma, di un atto che non ha precedenti nella storia. Qual è il suo commento in merito?

Don Alfredo: Diciamo che se alla buona volontà del Papa corrisponderà altrettanta buona volontà da parte della FSSPX, avremo evitato uno scisma.

E’ vero che i Vescovi i sacerdoti e i fedeli della Fraternità sacerdotale di San Pio X hanno sempre riconosciuto e pregato per il Papa?

Don Alfredo: Questo è verissimo. Mons. Lefebvre definì anni addietro “Colpo da maestro di satana” l’allontanamento dei fedeli dalla Tradizione credendo di obbedire. Ma sarebbe stato ancora più grave riuscire a staccare da Pietro i Tradizionalisti, che hanno nel loro DNA il massimo amore alla Sede Apostolica: e così si capisce un certo malcontento progressista per la felice soluzione del caso.

Perché la Fraternità sacerdotale di San Pio X ha così tante vocazioni al sacerdozio?

Don Alfredo: La Messa Tridentina – contra factum non fit argumetum – è una fucina di vocazioni: nel rito romano antico viene proposto un modello di sacerdozio dove la singolarità del prete scompare e dove emerge invece tutto il valore delle parole della ordinazione: “Imitate ciò che trattate”.

Una vera “vita spericolata” affascina,  per imitare prima Cristo in stato di vittima, e, alla fine, seguirlo nella Sua gloria; al contrario, tanti abusi liturgici finiscono col far pensare che animare una celebrazione come un presentatore è un po’ poco per lasciare tutto.

Pensa che le dichiarazioni del vescovo Williamson possano compromettere il processo di riammissione nella Chiesa cattolica?

Don Alfredo: Bisogna diffidare da interviste rispolverate ad arte mesi dopo le dichiarazioni stesse. Questo “polverone” non fermerà la volontà del Papa, che ripresenta – qui e ora – la volontà di Gesù Cristo: che tutti siamo “uno” come Lui e il Padre sono “uno”.

La ricucitura di questo scisma e l’attenzione per la liturgia, potrebbero essere segnali importanti anche per rinnovati e migliori rapporti con le Chiese ortodosse?

Don Alfredo: Ma certo! In questi casi, dove il Papa scende in campo in prima persona come buon pastore, si vede proprio che il successore di Pietro è il “Servo dei Servi di Dio”, come si leggeva nelle intestazioni dei vecchi documenti pontifici: e si vede pure che la comunione con Pietro non minaccia nessuna realtà ecclesiale particolare, ma la rafforza.

Da un punto di vista pratico, la soluzione che si troverà per regolarizzare la posizione giuridica della FSSPX, darà garanzie agli ortodossi di ampie autonomie future. Già non erano mancati segnali di apprezzamento, da parte degli Ortodossi, del Motu Proprio “Summorum Pontificum”.
 
Lei ha conosciuto nella sua vita diversi sacerdoti della FSSPX? Che cosa ci può dire di questa esperienza?

Don Alfredo: Certamente non ho condiviso la scelta delle ordinazioni dei Vescovi e di quanto  – al di là delle intenzioni personali – potesse anche solo sembrare disobbedienza al Magistero. Ma il loro amore per la Santa Messa e la loro spiritualità sacerdotale, incentrata sulla Santa celebrazione del Santo Sacrificio, rimangono esemplari.

 Alcuni dicono che senza di loro non sarebbe arrivato il Motu Proprio. Correggerei l’affermazione con: “Il Signore, per meritarci la grazia del Motu Proprio, ha versato nel calice del Suo Preziosissimo Sangue la ‘goccia d’acqua’ della sofferenza dei Tradizionalisti; di quelli legati alla Fraternità San Pio X e di quelli che, spesso emarginati nel lungo ‘inverno liturgico’ – in cui si è tollerato di tutto fuorché la Messa di San Pio V -, non di meno sono rimasti nella più perfetta obbedienza”.

Paolo: un aborto convertito alla Vita

dal sito:
http://www.zenit.org/article-16923?l=italian

Paolo: un aborto convertito alla Vita

III Domenica del Tempo Ordinario e Festa della Conversione di san Paolo

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- “Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere” (Gal 1,23).

La conversione di Saulo in Paolo è un evento che Dio può rinnovare in qualunque tempo e momento, poiché la Sua misericordia è sempre in grado di volgere il male al bene, in modo che la cattiva notizia della persecuzione e dell’avversione al Vangelo, sia trasformata nella buona novella del Vangelo stesso.

Paolo era un nemico acerrimo del Vangelo, perché ai suoi occhi rappresentava il crollo e non il compimento dell’antica Legge, cosa che il suo zelo religioso non poteva tollerare, in nome del Dio di Israele.

E’ lui stesso a raccontarlo oggi: “Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne […] per esservi puniti” (At 22,4-5).

Sembra la confessione a Norimberga di un ufficiale della Gestapo!

Il terrore che il nome di Saulo suscitava nella comunità cristiana, ci permette di presupporre che, a Damasco, la notizia del suo imminente arrivo fosse giunta prima della sua caduta a terra sulla via: una notizia cattiva quanto un annuncio di morte. Chi poteva pensare che Saulo stava invece per giungere a Damasco “guidato per mano”? (At 22,11).

E’ lo stile di Dio e l’essenza stessa dell’evento pasquale, poter suscitare la vita dalla morte, ciò che è bene da ciò che è male, l’impensabile positivo dal suo opposto negativo, come il Risorto ricorda ai discepoli in cammino verso Emmaus: “Stolti e lenti di cuore a credere […] non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25).

La notizia della crocifissione e morte del Signore Gesù li aveva abbattuti, perché, apparentemente, dava ragione agli stolti descritti dal salmo 14/13, del re Davide: “Lo stolto pensa: ‘Dio non c’è’. Sono corrotti,  fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene” (v. 1).

Questo salmo, quanto mai attuale, viene intitolato “Il canto dell’ateo”, intendendo con questo termine non tanto colui che nega teoricamente l’esistenza di Dio, quanto piuttosto chi Lo ritiene lontano e indifferente nei confronti dell’uomo e della storia.

Leggo da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi: “Protagonista di questo salmo, che ha il tono di un’invettiva profetica, è l’ ‘ateo’. Il vocabolo ebraico che lo definisce è nabal, il cui significato comprende un ventaglio di possibilità: persona incosciente, irresponsabile,  folle, malvagia, stolta, immorale, assurda. E’ una follia radicale che si misura anche a livello morale […] Il nostro nabal dichiara che è irrilevante per l’uomo che Dio esista o non esista, dato che in ogni caso non interverrà nella nostra storia”

Al tempo di Davide non esistevano gli autobus, ma gli “stolti” circolavano come oggi.

Il messaggio lanciato nel mondo dall’ “Unione atei e agnostici razionalisti” (Uaar) per mezzo degli autobus cittadini,  dimostra tale stoltezza. 

Dice: “La cattiva notizia è che, probabilmente Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”. E’ questa la versione italiana di uno slogan tradotto da quello inglese: “There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life= probabilmente Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Questo “probabilmente”, serve a far capire che, anche se Dio esistesse, non avrebbe comunque nulla a che fare con la vicenda umana, sarebbe un “Motore immobile”, un Dio muto, impersonale.

Ma l’iniziativa dei bus atei, io credo, è destinata ad avere l’esito della missione di Paolo in viaggio per Damasco.

Leggiamone il racconto:

“Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me, caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? […] Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti” (22,6-8). Ecco: in un attimo il persecutore trasformato in apostolo.

Ironia della sorte? No, disegno provvidenziale di Dio! Saulo voleva spegnere l’Emittente divina e mettere in carcere gli ascoltatori-ripetitori, ma fu ammutolito e divenne il più formidabile araldo di quella notizia che voleva soffocare ed annientare, la buona notizia del  Vangelo.

Ciò non costituì, tuttavia, una interruzione della sua vita, un’inversione di marcia paragonabile ad uno che dovendo andare da Bologna a Bolzano, si rende finalmente conto di aver imboccato l’autostrada per Bari. Paolo lo afferma chiaramente altrove: “Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1, 15-16).

Egli fa risalire il piano divino del “blitz” di Damasco (“sono stato afferrato da Cristo Gesù” – Fil 3,12b) all’inizio stesso della sua vita nel grembo materno. In effetti, se la sua fosse stata una “conversione” sarebbe tornato indietro verso Gerusalemme, come nell’esempio autostradale; invece proseguì, accettando di lasciarsi guidare per mano. Damasco, per Paolo, fu anzitutto rivelazione della sua nativa vocazione e missione; il contesto, tuttavia, rende chiaro che nello stesso tempo si trattò di un cambiamento radicale dell’orientamento della sua vita.

Potrei ancora spiegare così, estendendolo ad ognuno di noi: come non esiste soluzione di continuità tra l’inizio della vita umana nel concepimento e il suo termine alla morte, così la vocazione e missione personale che Dio assegna ad ogni uomo (quello di Paolo è un esempio paradigmatico per tutti, anche se il suo caso fu del tutto eccezionale), è una Parola già detta da Dio all’alba dell’esistenza, quando: “ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro” (Sal 139,16). Crescendo, l’uomo deve solo scoprirla, comprenderla e metterla in pratica, alla luce e con la forza della fede.

A questo punto sorge una domanda su Paolo, una domanda ineludibile anche e soprattutto se, a partire da lui, ci si interroga poi sull’iniziativa dei bus-atei: come si spiega, in profondità, l’accanimento con cui Saulo infieriva contro i cristiani? Ovverosia: come si spiega il successo dell’idea dei bus atei, che dalla British Humanist Association è stata ripresa negli U.S.A., in Australia, in Spagna ed ora approda anche in Italia?

Ecco una risposta verosimile, data sul piano delle naturali dinamiche psicologiche, che nulla toglie tuttavia al primato assoluto dell’iniziativa divina, ma anzi lo riconosce radicalmente: “C.G. Jung cercò di spiegare la conversione di Paolo con i suoi termini e concetti psicologici, e scrisse: ‘Saulo era già da tempo un cristiano, ma lo era inconsciamente: così si spiega il suo odio fanatico per i cristiani; perché il fanatismo è sempre presente in coloro che debbono soffocare un dubbio interiore […] Quello che non è in noi, non ci eccita neppure” (Anselm Grun, “Paolo e l’esperienza religiosa cristiana”, p. 22ss).

A sostegno di tale interpretazione, Grun cita la testimonianza resa dallo stesso Paolo: “Nel suo secondo discorso sull’esperienza della conversione, tenuto davanti al re giudeo Agrippa […] Paolo aggiunge queste parole di Gesù: ‘E’ duro per te rivoltarti contro il pungolo’ (At 26,14). Gesù gli spiega in maniera psicologica la persecuzione da lui intrapresa. Paolo non combatte solamente contro Gesù, bensì anche contro la propria convinzione. Nel suo intimo più profondo Saulo sa che cosa è la verità, ma non ne vuole prendere atto. Però a lungo andare non può andare contro il proprio essere. La fede cristiana, così ci dice Luca con questa frase, corrisponde all’essenza dell’uomo spirituale. Nessun uomo che cerca sinceramente, può, a lungo andare, imperversare contro il Cristo in lui presente” (pp. 25-6).

Il “pungolo” citato indica il bastone appuntito utilizzato per spingere il bestiame nella direzione voluta, ed è un modo di dire per significare la forza irresistibile del pungolo della misericordia di Cristo nei confronti del Suo persecutore, predestinato a diventare apostolo. Un pungolo che si vale anche dei meccanismi dell’inconscio. Un pungolo che rappresenta efficacemente la forza sempre vincente dell’Amore e della Vita. Colui che voleva sopprimere Cristo dichiarerà: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

Al riguardo, in 1 Cor 15,8-9, Paolo narra la grazia di Damasco in termini  insoliti: “Ultimo fra tutti (Cristo) apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.

Definendosi un aborto, Paolo non manifesta solamente un senso di indegnità, per la quale Dio avrebbe dovuto scartarlo piuttosto che sceglierlo; egli tocca qui il mistero della vita e della morte, mistero che sta nelle mani di Dio solo, “Autore della vita” (At 3,15a).

Per definizione “aborto” è un cadavere, il corpo morto che viene espulso dal grembo. Paolo si definisce aborto perché egli era morto spiritualmente quando Gesù gli apparve; un aborto al quale il Pungolo divino restituì la vita quando lo afferrò e lo ghermì irresistibilmente sulla via di Damasco, dopo averlo tallonato fin dal grembo di sua madre.

Questa immagine dell’Amore instancabile e seducente di Dio, per contrasto, ne richiama una di segno opposto, suscitata inevitabilmente dalla parola “aborto”. Ha l’aspetto anch’essa di un pungolo, un pungolo di materia plastica tagliato a becco di flauto, un pungolo assassino che va a cercare nel grembo un uomo che tenta disperatamente di sfuggire alla morte. Alla fine lo raggiunge, ed egli muore lanciando un grido che nessuno può udire.

Ogni anno decine di milioni di esseri umani vengono fatti a pezzi così, da medici “persecutori” della Vita. Molti di loro, però, come Saulo, un giorno non hanno potuto più rivoltarsi contro il pungolo della Vita, al punto che ne sono diventati apostoli, e il loro annuncio risuona ancora oggi nel mondo intero.

L’Amore è un’onda più alta della morte, perché è l’onda insopprimibile e divina della Vita, dal concepimento all’eternità. Poiché l’Amore si è fatto carne in Gesù, che è risorto, la Vita ha vinto definitivamente la morte, per Sé e per tutti coloro che credono nel suo nome.  E’ questa la buona notizia che sta circolando da duemila anni, anche sugli autobus atei.

———

* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Publié dans:San Paolo, ZENITH |on 24 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Riflessione di Benedetto XVI sul mistero del Natale

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Riflessione di Benedetto XVI sul mistero del Natale

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 17 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi nell’aula Paolo VI.

Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre si è soffermato sul mistero del Natale ormai prossimo.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Iniziano proprio oggi i giorni dell’Avvento che ci preparano immediatamente al Natale del Signore: siamo nella Novena di Natale che in tante comunità cristiane viene celebrata con liturgie ricche di testi biblici, tutti orientati ad alimentare l’attesa per la nascita del Salvatore. La Chiesa intera in effetti concentra il suo sguardo di fede verso questa festa ormai vicina predisponendosi, come ogni anno, ad unirsi al cantico gioioso degli angeli, che nel cuore della notte annunzieranno ai pastori l’evento straordinario della nascita del Redentore, invitandoli a recarsi nella grotta di Betlemme. Là giace l’Emmanuele, il Creatore fattosi creatura, avvolto in fasce e adagiato in una povera mangiatoia (cfr Lc 2,13-14).

Per il clima che lo contraddistingue, il Natale è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. E’ la festa che canta il dono della vita. La nascita di un bambino dovrebbe essere sempre un evento che reca gioia; l’abbraccio di un neonato suscita normalmente sentimenti di attenzione e di premura, di commozione e di tenerezza. Il Natale è l’incontro con un neonato che vagisce in una misera grotta. Contemplandolo nel presepe come non pensare ai tanti bambini che ancora oggi vengono alla luce in una grande povertà, in molte regioni del mondo? Come non pensare ai neonati non accolti e rifiutati, a quelli che non riescono a sopravvivere per carenza di cure e di attenzioni? Come non pensare anche alle famiglie che vorrebbero la gioia di un figlio e non vedono colmata questa loro attesa? Sotto la spinta di un consumismo edonista, purtroppo, il Natale rischia di perdere il suo significato spirituale per ridursi a mera occasione commerciale di acquisti e scambi di doni! In verità, però, le difficoltà, le incertezze e la stessa crisi economica che in questi mesi stanno vivendo tantissime famiglie, e che tocca l’intera l’umanità, possono essere uno stimolo a riscoprire il calore della semplicità, dell’amicizia e della solidarietà, valori tipici del Natale. Spogliato delle incrostazioni consumistiche e materialistiche, il Natale può diventare così un’occasione per accogliere, come regalo personale, il messaggio di speranza che promana dal mistero della nascita di Cristo.

Tutto questo però non basta per cogliere nella sua pienezza il valore della festa alla quale ci stiamo preparando. Noi sappiamo che essa celebra l’avvenimento centrale della storia: l’Incarnazione del Verbo divino per la redenzione dell’umanità. San Leone Magno, in una delle sue numerose omelie natalizie, così esclama: «Esultiamo nel Signore, o miei cari, ed apriamo il nostro cuore alla gioia più pura. Perché è spuntato il giorno che per noi significa la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna. Si rinnova infatti per noi nel ricorrente ciclo annuale l’alto mistero della nostra salvezza, che, promesso, all’inizio e accordato alla fine dei tempi, è destinato a durare senza fine» (Homilia XXII). Su questa verità fondamentale ritorna più volte san Paolo nelle sue lettere. Ai Galati, ad esempio, scrive: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…perché ricevessimo l’adozione a figli» (4,4). Nella Lettera ai Romani evidenzia le logiche ed esigenti conseguenze di questo evento salvifico: «Se siamo figli (di Dio), siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (8,17). Ma è soprattutto san Giovanni, nel Prologo del quarto Vangelo, a meditare profondamente sul mistero dell’Incarnazione. Ed è per questo che il Prologo fa parte della liturgia del Natale fin dai tempi più antichi: in esso si trova infatti l’espressione più autentica e la sintesi più profonda di questa festa e del fondamento della sua gioia. San Giovanni scrive: «Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis / E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

A Natale dunque non ci limitiamo a commemorare la nascita di un grande personaggio; non celebriamo semplicemente ed in astratto il mistero della nascita dell’uomo o in generale il mistero della vita; tanto meno festeggiamo solo l’inizio della nuova stagione. A Natale ricordiamo qualcosa di assai concreto ed importante per gli uomini, qualcosa di essenziale per la fede cristiana, una verità che san Giovanni riassume in queste poche parole: « il Verbo si è fatto carne ». Si tratta di un evento storico che l’evangelista Luca si preoccupa di situare in un contesto ben determinato: nei giorni in cui fu emanato il decreto per il primo censimento di Cesare Augusto, quando Quirino era già governatore della Siria (cfr Lc 2,1-7). E’ dunque in una notte storicamente datata che si verificò l’evento di salvezza che Israele attendeva da secoli. Nel buio della notte di Betlemme si accese, realmente, una grande luce: il Creatore dell’universo si è incarnato unendosi indissolubilmente alla natura umana, sì da essere realmente « Dio da Dio, luce da luce » e al tempo stesso uomo, vero uomo. Quel che Giovanni, chiama in greco « ho logos » – tradotto in latino « Verbum » e in italiano « il Verbo » – significa anche « il Senso ». Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il « Senso eterno » del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr 1Gv 1,1). Il « Senso » che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una « Parola » rivolta a noi. Il Logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo , ma è una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme.

A molti uomini, ed in qualche modo a noi tutti, questo sembra troppo bello per essere vero. In effetti, qui ci viene ribadito: sì, esiste un senso, ed il senso non è una protesta impotente contro l’assurdo. Il Senso ha potere: è Dio. Un Dio buono, che non va confuso con un qualche essere eccelso e lontano, a cui non ci sarebbe mai dato di arrivare, ma un Dio che si è fatto nostro prossimo e ci è molto vicino, che ha tempo per ciascuno di noi e che è venuto per rimanere con noi. E’ allora spontaneo domandarsi: « E’ mai possibile una cosa del genere? E’ cosa degna di Dio farsi bambino? ». Per cercare di aprire il cuore a questa verità che illumina l’intera esistenza umana, occorre piegare la mente e riconoscere la limitatezza della nostra intelligenza. Nella grotta di Betlemme, Dio si mostra a noi umile « infante » per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza; ma Lui non vuole la nostra resa; fa piuttosto appello al nostro cuore e alla nostra libera decisione di accettare il suo amore. Si è fatto piccolo per liberarci da quell’umana pretesa di grandezza che scaturisce dalla superbia; si è liberamente incarnato per rendere noi veramente liberi, liberi di amarlo.

Cari fratelli e sorelle, il Natale è un’opportunità privilegiata per meditare sul senso e sul valore della nostra esistenza. L’approssimarsi di questa solennità ci aiuta a riflettere, da una parte, sulla drammaticità della storia nella quale gli uomini, feriti dal peccato, sono perennemente alla ricerca della felicità e di un senso appagante del vivere e del morire; dall’altra, ci esorta a meditare sulla bontà misericordiosa di Dio, che è venuto incontro all’uomo per comunicargli direttamente la Verità che salva, e per renderlo partecipe della sua amicizia e della sua vita. Prepariamoci, pertanto, al Natale con umiltà e semplicità, disponendoci a ricevere in dono la luce, la gioia e la pace, che da questo mistero si irradiano. Accogliamo il Natale di Cristo come un evento capace di rinnovare oggi la nostra esistenza. L’incontro con il Bambino Gesù ci renda persone che non pensano soltanto a se stesse, ma si aprono alle attese e alle necessità dei fratelli. In questa maniera diventeremo anche noi testimoni della luce che il Natale irradia sull’umanità del terzo millennio. Chiediamo a Maria Santissima, tabernacolo del Verbo incarnato, e a san Giuseppe, silenzioso testimone degli eventi della salvezza, di comunicarci i sentimenti che essi nutrivano mentre attendevano la nascita di Gesù, in modo che possiamo prepararci a celebrare santamente il prossimo Natale, nel gaudio della fede e animati dall’impegno di una sincera conversione.

Buon Natale a tutti!

Benedetto XVI: la vicinanza di Dio è una questione di amore (domenica 14, III di Avvento)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16505?l=italian

Benedetto XVI: la vicinanza di Dio è una questione di amore

Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 14 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato questa domenica a mezzogiorno da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta « Domenica gaudete », « siate lieti », perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: « Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti ». E subito dopo aggiunge la motivazione: « Il Signore è vicino » (Fil 4,4-5). Ecco la ragione della gioia. Ma che cosa significa che « il Signore è vicino »? In che senso dobbiamo intendere questa « vicinanza » di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro. Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2). Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la « vicinanza » di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.

In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei « Bambinelli », le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe. Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri « Bambinelli », che ora benedico. Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera:

Dio, nostro Padre,
tu hai tanto amato gli uomini
da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù,
nato dalla Vergine Maria,
per salvarci e ricondurci a te.

Ti preghiamo, perché con la tua benedizione
queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi,
siano, nelle nostre case,
segno della tua presenza e del tuo amore.

Padre buono,
dona la tua benedizione anche a noi,
ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.

Apri il nostro cuore,
affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia,
fare sempre ciò che egli chiede
e vederlo in tutti quelli
che hanno bisogno del nostro amore.

Te lo chiediamo nel nome di Gesù,
tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.

Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.

Ed ora recitiamo insieme la preghiera dell’Angelus Domini, invocando l’intercessione di Maria affinché Gesù, che nascendo porta agli uomini la benedizione di Dio, sia accolto con amore in tutte le case di Roma e del mondo.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Oggi, nella Diocesi di Roma, si celebra la giornata per la costruzione delle nuove chiese. Negli ultimi anni sono stati realizzati alcuni nuovi complessi parrocchiali, ma vi sono ancora comunità che dispongono soltanto di strutture provvisorie e inadeguate. Ringrazio di cuore quanti hanno sostenuto questo impegno così importante della Diocesi e rinnovo a tutti l’invito: aiutiamo le parrocchie di Roma a costruire la loro chiesa.

Rinnovo il mio saluto ai bambini delle parrocchie e delle scuole di Roma, e ringrazio il Centro Oratori Romani che ha organizzato l’incontro per la benedizione dei Bambinelli. Saluto inoltre i fedeli provenienti da alcune città della Toscana, i ragazzi di Montevarchi che hanno ricevuto la Cresima e i bambini della Prima Comunione della parrocchia Santa Edith Stein in Roma; come pure il corteo storico-folcloristico « Natalitalia » e i gruppi dell’Ospedale di Santa Maria Capua Vetere, della Polizia Municipale di Agropoli, del Presepe Vivente di Chia e dell’Associazione amministratori condominiali. A tutti auguro una buona domenica.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 14 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Grande musica nelle chiese di Roma. Ma in Vaticano sono sordi

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/210023

Grande musica nelle chiese di Roma. Ma in Vaticano sono sordi

Nelle basiliche romane hanno suonato i Wiener Philarmoniker e altri sommi interpreti, in un caso col papa presente. Ma in curia è paralisi. L’accompagnamento musicale delle messe papali continua a essere di desolante mediocrità

di Sandro Magister 

ROMA, 3 dicembre 2008 – Si è concluso domenica scorsa, prima di Avvento, il Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra che si tiene ogni autunno nelle basiliche papali di Roma.

Promosso dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra, il Festival si prefigge di restituire la grande musica sacra al suo contesto autentico, le chiese: un contesto che magari non è acusticamente perfetto come un’aula di concerto ma è quello giusto per ridare vita piena a musiche originariamente create per la liturgia.

« Il mio sogno – dice Hans-Albert Courtial, presidente della Fondazione – è che ogni domenica dell’anno, in una chiesa di Roma, vi sia una messa accompagnata da capolavori della musica sacra, gregoriana e polifonica, con interpreti di prima grandezza ».

In effetti, lo scorso 26 novembre è avvenuto proprio così. Nella basilica di San Pietro il cardinale Angelo Comastri ha celebrato la messa, e il maestro Helmuth Rilling ha magnificamente diretto la Harmonienmesse in si bemolle maggiore di Franz Joseph Haydn.

Ma nel Festival non c’è stata solo musica liturgica. Il primo e l’ultimo giorno del programma hanno avuto al centro, rispettivamente, l’Arte della Fuga e l’Offerta Musicale di Johann Sebastian Bach, genialmente riscoperte e riproposte nella loro profondità metafisica, di sublime armonia cosmica, da Hans-Eberhard Dentler.

Un’altra vetta del Festival di quest’anno è stata l’esecuzione nella basilica di Santa Maria Maggiore (vedi foto) del Requiem Tedesco di Johannes Brahms, opera anch’essa né liturgica né cattolica eppure intensamente spirituale, magistralmente diretta da Marek Janowski con l’Orchestre de la Suisse Romande e il Rundfunkchor Berlin.

E poi, memorabile, c’è stata la Sesta Sinfonia di Anton Bruckner suonata dai Wiener Philarmoniker diretti da Christoph Eschenbach, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, il 13 ottobre, con Benedetto XVI in prima fila.

* * *

La presenza di papa Joseph Ratzinger a un concerto non è stata l’unica novità del Festival di quest’anno.

Assieme a Benedetto XVI, quella sera in San Paolo fuori le Mura, c’erano anche i 250 cardinali e vescovi che partecipavano negli stessi giorni al sinodo mondiale sulla Parola di Dio. Per molti di essi Bruckner non era un autore facile, ma l’esempio del papa, almeno per una volta, li ha portati ad assistere a un grande concerto. Perché la sensibilità musicale non è proprio di casa nel ceto ecclesiastico: gli alti prelati accorsi agli altri concerti del Festival si sono contati sulle dita di una mano sola.

Un’altra novità è stata lo spazio dato all’organo. Per quattro sere di fila, dal 17 al 20 novembre, lo strumento principe della musica liturgica ha dominato il programma del Festival, con opere sia antiche che contemporanee suonate da famosi organisti in diverse chiese romane. Non solo. Le esecuzioni a Roma sono state il coronamento di un più ampio percorso fatto di concerti d’organo in nove paesi d’Europa, cominciato a giugno in Baviera: un « Euro Via Festival » che si ripete ogni anno dal 2005 sotto la direzione artistica di Johannes Skudlik.

Negli stessi giorni, a Roma, sono stati ultimati i restauri di due magnifici organi, quello della Sala Accademica del Pontificio Istituto di Musica Sacra e quello della chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi. Un altro dei più splendidi organi di Roma, quello della chiesa di Sant’Ignazio, sarà restaurato nei prossimi mesi a cura della Fondazione pro Musica e Arte Sacra e tornerà a suonare nel Festival del 2009.

Brutalmente soppiantato dalle chitarre in numerosissime chiese del mondo, l’organo sta ultimamente mostrando piccoli segni di ripresa. La conferenza episcopale italiana, ad esempio, ha organizzato il mese scorso un seminario di studio per organisti e liturgisti, dal titolo: « L’organo a canne. Un cammino secolare a servizio della liturgia ».

Ma il cammino resta impervio. Non solo il suono dell’organo è largamente assente dai riti liturgici, ma se ne trascura l’uso persino in quegli altri momenti ai quali esso sarebbe più che mai consono. Un cattivo esempio è dato dalla stessa basilica di San Pietro. Ogni volta che c’è una celebrazione liturgica col papa, la basilica si riempie di fedeli con molto anticipo sull’orario d’inizio. Sarebbe questo un momento ideale per il suono dell’organo. Creerebbe un clima più raccolto, di preparazione al rito liturgico. E invece niente. L’organo è lì, gli organisti ci sono, migliaia di fedeli sarebbero felici di ascoltare della buona musica che elevi lo spirito. Manca solo la volontà di decidere una cosa così elementare.

C’è una sorta di paralisi musicale, a Roma, attorno alle celebrazioni del papa. Il pensiero di Benedetto XVI in materia di musica liturgica è arcinoto, è consegnato ai suoi scritti, molto critici dell’avvenuto degrado. Ma quasi nulla è cambiato, in più di tre anni di pontificato. In Vaticano continua a mancare un organismo che abbia autorità per quanto riguarda la musica sacra. La Cappella Sistina, diretta da monsignor Giuseppe Liberto, è l’ombra del suo passato glorioso. E quando non è la Cappella Sistina a cantare nelle messe papali, impera lo stile da « musical » di monsignor Marco Frisina, titolare della cappella del Laterano, la cattedrale di Roma.

Anche in questo il Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra ha impartito una lezione. Per eseguire le messe e i mottetti di Giovanni Pierluigi da Palestrina, di Tomás Luis de Victoria, di Luca Marenzio, di Claudio Monteverdi, insomma, dei grandi maestri di cappella delle cattedrali di Roma e d’Europa del Cinquecento e Seicento, sono venuti dagli Stati Uniti il coro del Santuario di Maria Immacolata di Washington, diretto da Peter Latona, e dalla Germania il coro della cattedrale di Spira, diretto da Leo Krämer.

Non che a Roma e in Italia manchino validi esecutori di questa grande musica polifonica. Anzi, il più geniale interprete al mondo di Palestrina è sicuramente monsignor Domenico Bartolucci. Ma, appunto, Bartolucci dirige Palestrina nelle sale di concerto, non più nelle messe papali con la Cappella Sistina, di cui fu direttore e da cui fu estromesso in malo modo nel 1997. È difficile trovare oggi a Roma e in Italia un coro di chiesa che esegua tali autori nel vivo dell’azione liturgica.

Se per far riassaporare tali meraviglie ci vuole un Festival, è segno che molta strada è ancora da percorrere.

Publié dans:Sandro Magister, ZENITH |on 3 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI e il rapporto fra Adamo e Cristo in San Paolo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16371?l=italian

Benedetto XVI e il rapporto fra Adamo e Cristo in San Paolo

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 3 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi nell’aula Paolo VI.

Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione sul rapporto fra Adamo, il primo uomo, e Cristo.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nell’odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: « Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita… Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita » (1 Cor 15,22.45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull’umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull’umanità. La ripetizione del « molto più » riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull’umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: « Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia » (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l’incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che « a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte » (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l’altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell’egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa « seconda natura » fa apparire il male come normale per l’uomo. Così anche l’espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest’uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell’essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l’essere stesso è contraddittorio, porta in sè sia il bene sia il male. Nell’antichità questa idea implicava l’opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall’origine dell’essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell’essere è monistica, si suppone che l’essere come tale dall’inizio porti in se il male e il bene. L’essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l’evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell’essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell’essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.

E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c’è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l’essere non è un misto di bene e male; l’essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c’è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell’essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell’uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all’altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l’uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell’evoluzionismo, non possono dire che l’uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l’uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: « Hai creato sanabili le nazioni » (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.

Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell’Avvento con l’antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l’ignoranza di Dio, la violenza, l’ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua. In particolare, saluto i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e Pasticceri ed esprimo loro viva riconoscenza per il gradito dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa. Saluto i rappresentanti della Banca di Credito Cooperativo del Lamentino. La vostra presenza, cari amici, mi offre l’opportunità per porre in luce, specialmente in questo tempo di difficoltà per tante famiglie, uno degli obiettivi primari degli Istituti bancari e di credito, e cioè la solidarietà nei confronti delle fasce più deboli e il sostegno all’attività produttiva. Saluto poi la Compagnia Fiori nel deserto, di Vibo Valenzia e formulo voti perché il Signore vivifichi con la sua grazia le aspirazioni e i propositi di ciascuno. Saluto altresì i confratelli della « Misericordia » di Viareggio, qui convenuti con l’artistico crocifisso ligneo, in occasione del 150° anniversario della sua realizzazione, e li esorto a proseguire nella loro attività in favore dei fratelli più bisognosi.

Rivolgo infine un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, vi invito a riscoprire, nel clima spirituale dell’Avvento, l’intimità con Cristo, ponendovi alla scuola della Vergine Maria. Raccomando a voi, cari ammalati, di trascorrere questo periodo di attesa e di preghiera incessante, offrendo al Signore che viene le vostre sofferenze per la salvezza del mondo. Esorto, infine, voi, cari sposi novelli, ad essere costruttori di famiglie cristiane autentiche, ispirandovi al modello della Santa Famiglia di Nazaret, a cui guardano particolarmente in questo tempo di preparazione al Natale.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, San Paolo, ZENITH |on 3 décembre, 2008 |Pas de commentaires »
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