PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 25 NOVEMBRE 2020 – CATECHESI SULLA PREGHIERA – 16. LA PREGHIERA DELLA CHIESA NASCENTE

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 25 NOVEMBRE 2020 – CATECHESI SULLA PREGHIERA – 16. LA PREGHIERA DELLA CHIESA NASCENTE

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

I primi passi della Chiesa nel mondo sono stati scanditi dalla preghiera. Gli scritti apostolici e la grande narrazione degli Atti degli Apostoli ci restituiscono l’immagine di una Chiesa in cammino, una Chiesa operosa, che però trova nelle riunioni di preghiera la base e l’impulso per l’azione missionaria. L’immagine della primitiva Comunità di Gerusalemme è punto di riferimento per ogni altra esperienza cristiana. Scrive Luca nel Libro degli Atti: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (2,42). La comunità persevera nella preghiera.
Troviamo qui quattro caratteristiche essenziali della vita ecclesiale: l’ascolto dell’insegnamento degli apostoli, primo; secondo, la custodia della comunione reciproca; terzo, la frazione del pane e, quarto, la preghiera. Esse ci ricordano che l’esistenza della Chiesa ha senso se resta saldamente unita a Cristo, cioè nella comunità, nella sua Parola, nell’Eucaristia e nella preghiera. È il modo di unirci, noi, a Cristo. La predicazione e la catechesi testimoniano le parole e i gesti del Maestro; la ricerca costante della comunione fraterna preserva da egoismi e particolarismi; la frazione del pane realizza il sacramento della presenza di Gesù in mezzo a noi: Lui non sarà mai assente, nell’Eucaristia è proprio Lui. Lui vive e cammina con noi. E infine la preghiera, che è lo spazio del dialogo con il Padre, mediante Cristo nello Spirito Santo.
Tutto ciò che nella Chiesa cresce fuori da queste “coordinate”, è privo di fondamenta. Per discernere una situazione dobbiamo chiederci come, in questa situazione, ci sono queste quattro coordinate: la predicazione, la ricerca costante della comunione fraterna – la carità –, la frazione del pane – cioè la vita eucaristica – e la preghiera. Qualsiasi situazione dev’essere valutata alla luce di queste quattro coordinate. Quello che non entra in queste coordinate è privo di ecclesialità, non è ecclesiale. È Dio che fa la Chiesa, non il clamore delle opere. La Chiesa non è un mercato; la Chiesa non è un gruppo di imprenditori che vanno avanti con questa impresa nuova. La Chiesa è opera dello Spirito Santo, che Gesù ci ha inviato per radunarci. La Chiesa è proprio il lavoro dello Spirito nella comunità cristiana, nella vita comunitaria, nell’Eucaristia, nella preghiera, sempre. E tutto quello che cresce fuori da queste coordinate è privo di fondamento, è come una casa costruita sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27). È Dio che fa la Chiesa, non il clamore delle opere. È la parola di Gesù che riempie di senso i nostri sforzi. È nell’umiltà che si costruisce il futuro del mondo.
A volte, sento una grande tristezza quando vedo qualche comunità che, con buona volontà, sbaglia la strada perché pensa di fare la Chiesa in raduni, come se fosse un partito politico: la maggioranza, la minoranza, cosa pensa questo, quello, l’altro… “Questo è come un Sinodo, una strada sinodale che noi dobbiamo fare”. Io mi domando: dov’è lo Spirito Santo, lì? Dov’è la preghiera? Dov’è l’amore comunitario? Dov’è l’Eucaristia? Senza queste quattro coordinate, la Chiesa diventa una società umana, un partito politico – maggioranza, minoranza – i cambiamenti si fanno come se fosse una ditta, per maggioranza o minoranza… Ma non c’è lo Spirito Santo. E la presenza dello Spirito Santo è proprio garantita da queste quattro coordinate. Per valutare una situazione, se è ecclesiale o non è ecclesiale, domandiamoci se ci sono queste quattro coordinate: la vita comunitaria, la preghiera, l’Eucaristia…[la predicazione], come si sviluppa la vita in queste quattro coordinate. Se manca questo, manca lo Spirito, e se manca lo Spirito noi saremo una bella associazione umanitaria, di beneficienza, bene, bene, anche un partito, diciamo così, ecclesiale, ma non c’è la Chiesa. E per questo la Chiesa non può crescere per queste cose: cresce non per proselitismo, come qualsiasi ditta, cresce per attrazione. E chi muove l’attrazione? Lo Spirito Santo. Non dimentichiamo mai questa parola di Benedetto XVI: “La Chiesa non cresce per proselitismo, cresce per attrazione”. Se manca lo Spirito Santo, che è quello che attrae a Gesù, lì non c’è la Chiesa. C’è un bel club di amici, bene, con buone intenzioni, ma non c’è la Chiesa, non c’è sinodalità.
Leggendo gli Atti degli Apostoli scopriamo allora come il potente motore dell’evangelizzazione siano le riunioni di preghiera, dove chi partecipa sperimenta dal vivo la presenza di Gesù ed è toccato dallo Spirito. I membri della prima comunità – ma questo vale sempre, anche per noi oggi – percepiscono che la storia dell’incontro con Gesù non si è fermata al momento dell’Ascensione, ma continua nella loro vita. Raccontando ciò che ha detto e fatto il Signore – l’ascolto della Parola – pregando per entrare in comunione con Lui, tutto diventa vivo. La preghiera infonde luce e calore: il dono dello Spirito fa nascere in loro il fervore.
A questo proposito, il Catechismo ha un’espressione molto densa. Dice così: «Lo Spirito Santo […] ricorda Cristo alla sua Chiesa orante, la conduce anche alla Verità tutta intera e suscita nuove formulazioni, le quali esprimeranno l’insondabile Mistero di Cristo, che opera nella vita, nei sacramenti e nella missione della sua Chiesa» (n. 2625). Ecco l’opera dello Spirito nella Chiesa: ricordare Gesù. Gesù stesso lo ha detto: Lui vi insegnerà e vi ricorderà. La missione è ricordare Gesù, ma non come un esercizio mnemonico. I cristiani, camminando sui sentieri della missione, ricordano Gesù mentre lo rendono nuovamente presente; e da Lui, dal suo Spirito, ricevono la “spinta” per andare, per annunciare, per servire. Nella preghiera il cristiano si immerge nel mistero di Dio, che ama ogni uomo, quel Dio che desidera che il Vangelo sia predicato a tutti. Dio è Dio per tutti, e in Gesù ogni muro di separazione è definitivamente crollato: come dice san Paolo, Lui è la nostra pace, cioè «colui che di due ha fatto una cosa sola» (Ef 2,14). Gesù ha fatto l’unità.
Così la vita della Chiesa primitiva è ritmata da un continuo susseguirsi di celebrazioni, convocazioni, tempi di preghiera sia comunitaria sia personale. Ed è lo Spirito che concede forza ai predicatori che si mettono in viaggio, e che per amore di Gesù solcano mari, affrontano pericoli, si sottomettono a umiliazioni.
Dio dona amore, Dio chiede amore. È questa la radice mistica di tutta la vita credente. I primi cristiani in preghiera, ma anche noi che veniamo parecchi secoli dopo, viviamo tutti la medesima esperienza. Lo Spirito anima ogni cosa. E ogni cristiano che non ha paura di dedicare tempo alla preghiera può fare proprie le parole dell’apostolo Paolo: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). La preghiera ti fa conscio di questo. Solo nel silenzio dell’adorazione si sperimenta tutta la verità di queste parole. Dobbiamo riprendere il senso dell’adorazione. Adorare, adorare Dio, adorare Gesù, adorare lo Spirito. Il Padre, il Figlio e lo Spirito: adorare. In silenzio. La preghiera dell’adorazione è la preghiera che ci fa riconoscere Dio come inizio e fine di tutta la storia. E questa preghiera è il fuoco vivo dello Spirito che dà forza alla testimonianza e alla missione. Grazie.

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Il Monte Sion

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Publié dans : immagini sacre | le 23 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

TEOLOGIA E MISTICA DELLA MONTAGNA BIBLICA – L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE – DI GIANFRANCO RAVASI

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TEOLOGIA E MISTICA DELLA MONTAGNA BIBLICA – L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE – DI GIANFRANCO RAVASI

Tre monti nominati nella Bibbia hanno un rilievo, un’incidenza tutta particolare. Cominciamo col « monte Sion ». Cominciamo di qui, anche se non è il primo dal punto di vista logico, non soltanto perché il monte Sion riassume in sé tutta la tensione verso l’alto delle pagine bibliche – come abbiamo potuto vedere anche attraverso lo sguardo che si leva verso l’alto e verso il monte, l’unico che può dare la salvezza – ma anche perché col monte Sion è stato identificato da parte della tradizione ebraica e cristiana prima e poi anche da parte di quella musulmana, un altro monte, che è radicale per tutte e tre le religioni monoteiste, ovvero il monte di Abramo, il monte Moria, monte che non è rintracciabile in nessun atlante.
Faremo solo tre considerazioni essenziali. La prima: l’identificazione tra Sion e monte Moria. Che cos’è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l’altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso: Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un’esperienza che è l’esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell’assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l’autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione: « padre mio », « figlio mio », si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all’unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c’è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l’assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma.
Come sappiamo questa pagina della Genesi ha avuto un commento straordinario in un’opera di grande finezza filosofica e teologica, Timore e tremore di Soeren Kierkegaard. Il filosofo danese fa una considerazione a mio avviso molto interessante nel parlare del monte Moria-Sion come monte della fede. Egli ricorda come questo viaggio, questa ascesa al monte sia sicuramente il paradigma per eccellenza del vero credere e commenta questa considerazione utilizzando un’immagine che tra l’altro appartiene al mondo dell’Oriente. Egli dice che quando la madre deve svezzare il suo bambino si tinge di nero il seno perché il piccolo non l’abbia più a desiderare; in quel momento il bambino odia sua madre perché gli toglie la sorgente del suo piacere, del suo cibo, del suo alimento; in quel momento il bambino sente che la madre in un certo senso lo costringe ad andare lontano da lei. Questo è un gesto che alla madre costa; vi sono, come sappiamo, delle madri che questo gesto non lo fanno mai. Tutti abbiamo conosciuto nella vita qualche persona di cui si usa dire che non ha avuto mai il cordone ombelicale staccato da sua madre; si tratta di quelle persone incapaci, sempre timorose, che sempre hanno bisogno di tornare al grembo della madre, che hanno paura del mondo. La madre, dunque, quando stacca il figlio da sé, compie un gesto che a lei costa, ma alla fine risulta un gesto d’amore perché in quel momento il figlio diventa finalmente una creatura libera che cammina per il mondo da sola.
Il gesto che Dio fa sul monte Moria vuol significare dunque che il credere deve essere frutto totale e assoluto di una decisione libera dell’uomo, non dipendere cioè dall’aver ricevuto dei doni, con la relativa certezza quindi che il credere sia simile a un evento economico, un dare e ricevere. È per questo motivo allora che nel finale si dà del monte Moria un’etimologia che, come spesso succede nelle etimologie bibliche, filologicamente non è probabilmente fondata: secondo tale etimologia il significato del termine sarebbe « là sul monte Dio provvede »; è dunque il monte della provvidenza di Dio, dell’amore di Dio nei confronti della sua creatura, è il luogo nel quale Dio vede che ormai la fede di Abramo è totale e assoluta, pronta anche a strapparsi il figlio dalle proprie viscere.
Seconda considerazione a proposito del monte Sion. Facciamo riferimento a Isaia (2, 1-5). Si tratta di una pagina anche questa di grande bellezza letteraria, è il grande Isaia, il Dante della letteratura ebraica. Qui si rappresenta il monte Sion avvolto di luce mentre delle tenebre planetarie, potremmo dire, si stendono su tutto il mondo. All’interno di questa oscurità si muovono processioni di popoli e queste processioni hanno come punto di riferimento questo monte, che certo non è il più importante della terra. I popoli vengono da regioni diverse, salgono il monte, il monte della parola di Dio, e una volta che sono saliti in Sion ecco che lasciano cadere dalle mani le armi; le spade vengono trasformate in vomeri e le lance in falci e Isaia dice: « Essi non si eserciteranno più nell’arte della guerra ». Sion diventa il luogo nel quale tutti i popoli della terra convergono e là fanno cadere l’odio e costruiscono invece la pace; cancellano la guerra e costruiscono un mondo di armonia.
E qui, per inciso, possiamo osservare come il testo di Isaia sia attuale; sempre nella storia di Israele le pietre di Sion sono striate di sangue, e ancor più, purtroppo, ai nostri giorni. Tutti i popoli hanno dunque, come dice la Bibbia, diritto di cittadinanza in Sion, non solo gli Ebrei; e tutti i popoli, quando trasformano i vomeri in spade, gli strumenti per lavorare la terra in strumenti di guerra, compiono un atto blasfemo nei confronti del sogno di Dio.
Nel salmo 87 possiamo incontrare una ulteriore conferma a quanto abbiamo appena detto. Troviamo qui una formula che in ebraico è ripetuta tre volte, anche se con una variazione: jullad sham / jullad bah, « tutti là sono nati / in essa sono nati » tutti i popoli della terra. Questa formula, tecnicamente parlando, era la formula propria dell’anagrafe, dell’iscrizione nei registri di una città. Nel salmo in questione l’elenco delle nazioni, dei luoghi che vengono citati, è in pratica la planimetria del mondo allora conosciuto; si va da Rahab, che indica l’Egitto, a Babel, che indica Babilonia, la superpotenza occidentale e quella orientale, quindi. Viene nominata anche la Palestina, i Filistei, anche loro con diritto di cittadinanza in Gerusalemme; vengono nominati tutti i popoli della terra, anche i più remoti: tutti trovano in Gerusalemme il loro luogo di nascita, tutti hanno un diritto nativo in Gerusalemme. Alla fine il poeta immagina che tutti questi popoli così diversi tra loro siano in Sion e siano là cantando e danzando, ripetendo questa loro professione d’amore nel monte Sion, il monte del tempio: « In te sono tutte le nostre sorgenti ».
Terza considerazione: dopo il monte della fede e il monte della pace, ecco ora profilarsi in Sion il monte di Dio per eccellenza, il monte dell’incrocio e dell’abbraccio tra Dio e l’uomo. È bellissimo il termine con cui viene definito nella Bibbia il tempio; di per sé è il termine che viene usato quando si parla del santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico ‘ohel mo’ed, cioè « la tenda dell’incontro », naturalmente la tenda dell’incontro degli Ebrei tra di loro: è, infatti, il luogo dell’assemblea, qahal in ebraico, l’assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo dell’incontro e dell’abbraccio dell’uomo con Dio. Possiamo osservare allora come il santuario di Sion non corrisponda ai templi magici: qui si tratta dell’incrocio, dell’intreccio, dell’abbraccio di due libertà. Tant’è vero che, se Israele è peccatore, Dio non è costretto a stare nel tempio di Sion. Conosciamo la riflessione che fanno, ad esempio, i profeti Geremia ed Ezechiele a proposito della presenza di Dio in Sion. Secondo Geremia, se Sion si trasforma in una spelonca di ladri, Dio allora non è più lì, non è costretto nel perimetro sacro e consacrato, quasi per una costrizione magica.
È significativo il capitolo ottavo del Primo Libro dei Re dove si parla della grande preghiera di dedicazione del santuario di Sion che Salomone pronuncia dopo aver eretto il tempio. Vi sono due frasi che ora riporteremo e che mostrano veramente come lì si compia il mo’ed, cioè l’incontro, il convegno. Al versetto 27 si dice: « I cieli e i cieli dei cieli, o Signore, non ti possono contenere, quanto meno questa casa che io ho costruita! ». Dio, che è infinito, non può essere compreso nel perimetro sacro di un tempio, Dio non può essere costretto magicamente a essere lì, ma come si dice al versetto 30: « Ascolta la supplica del tuo (…) popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora ». Possiamo qui osservare come Dio giunga dalla sua dimora celeste, che è il simbolo appunto della trascendenza, ad ascoltare il grido che l’uomo eleva verso di lui: ecco allora che il tempio di Sion diventa il luogo del dialogo.
Di Sion abbiamo dato dunque tre definizioni: in primo luogo monte della fede, della fede più pura, più assoluta, sotto il nome di monte Moria, il monte sul quale Abramo, padre di Israele, padre della nostra fede di cristiani, padre attraverso Ismaele dell’Islam, compie il suo atto di fede. Ciò che è importante qui non sono le opere, ma il suo atto di fede in Dio, fede pura e totale. Seconda definizione: luogo della pace, del sogno di Dio in un’umanità che si incrocia e si riunisce in Sion. Infine, terzo momento, luogo dell’intreccio delle mani di Dio e dell’uomo attraverso il santuario.
Passiamo ora al secondo monte che costituisce un momento obbligato di riflessione: il monte Sinai, un monte evidentemente carico di risonanze, a proposito del quale vorrei però anche in questo caso indicare solamente tre dimensioni. La prima: il Sinai è il luogo della teofania, della grande manifestazione del Dio misterioso. « Sul far del mattino vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte, un suono fortissimo di tromba, tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da terrore » (Esodo, 19-26). Siamo di fronte alla celebrazione per eccellenza del tremendum di Dio, è il luogo questo nel quale Dio ci fa scoprire tutta l’impotenza dell’uomo – chi è stato sul Sinai riesce anche a intuirlo proprio nell’atmosfera stessa di questo monte, monte solitario, monte desolato, arido, attraversato dal vento, prosciugato dall’incandescenza del sole, mutevole anche per i cangianti colori delle sue pietre durante la giornata.
Seconda riflessione: è anche il luogo della « teo-logia », cioè non solo della manifestazione, dell’apparizione di Dio, ma anche della parola di Dio. A questo proposito vorrei ricordare, oltre al Decalogo che ci giunge da questo monte – le dieci parole fondamentali sulle quali si organizza ancora la nostra pur dispersa e tante volte anche disordinata e distratta società – soprattutto un bellissimo versetto del quinto libro della Bibbia, il Deuteronomio, laddove Mosè, ricordando quell’esperienza, dice: « Il Signore vi parlò dal fuoco, voi udivate soltanto qôl devarîm [cioè una voce di parole, un suono di parole], ma non vedevate alcuna figura », non c’era nessuna temunah, nessuna figura, zulatî qôl, ma « soltanto una voce ». Bellissima questa intuizione che ci ricorda come sul monte noi scopriamo soltanto la voce circondata dal silenzio. Eccoci dunque a una seconda esperienza fondamentale: la parola da scoprire sul monte, la « teo-logia ».
In terzo luogo vorrei porre l’accento su di un vocabolo che non è evidentemente nella Bibbia e neppure è normalmente usato nella teologia; è un vocabolo coniato da Pierre Teilhard de Chardin per parlare del manifestarsi di Dio che si riflette in noi: egli utilizza il termine « diafania ». Teofania, teologia e ora diafania, ovvero il passare di un Dio « diafano » attraverso di noi, attraverso la terra, attraverso il monte in questo caso.
È dunque per questo motivo che il Sinai diventa anche il luogo dell’intimità di Dio, non unicamente del Dio terribile, affatto diverso da noi, totalmente altro, non soltanto del Dio che ti dà la sua parola, ma anche del Dio che persino si adatta a te, entrando misteriosamente accanto a te con tenerezza.
A questo punto non possiamo allora prescindere da due riferimenti biblici molto significativi. Innanzitutto quella bellissima, indimenticabile esperienza di Elia sul monte Horeb – un altro nome per il Sinai – che viene descritta nella Bibbia nel primo libro dei Re. Dio non si presenta qui con l’apparato teofanico, pur legittimo, Dio non è nel vento che spacca la roccia, non è nel fulmine, nella folgore, non è nel terremoto che sommuove la terra, ma semplicemente Dio è in « un mormorio di vento leggero ». In ebraico tutto ciò viene espresso con tre parole, tre parole che sono veramente un capolavoro anche dal punto di vista dell’intuizione: Elia scopre soltanto qôl demamah daqqah, cioè qôl « voce, suono », demamah « silenzio », daqqah « sottile ». Dio diventa una voce di silenzio sottile, un silenzio « bianco » che riassume in sé tutti i colori, come il bianco riassume tutto lo spettro cromatico. Dio si adatta talmente da avvolgerci pacatamente con la quiete del silenzio. Un’esperienza appunto che anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla montagna.
L’altro riferimento è al Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini. Come sappiamo gli esegeti spiegano che seppur la tradizione l’abbia identificato con quel bellissimo poggio che si affaccia sul lago di Tiberiade, in realtà si tratta di un monte teologico più che di un monte orografico, topografico. Tant’è vero che una parte del discorso che Matteo mette sul monte, Luca, nel capitolo sesto del suo Vangelo, lo ambienta in un luogo pianeggiante, campestre. Le Beatitudini probabilmente sono enunciate in un’area attorno alla sponda del lago di Tiberiade, abbiamo però bisogno di collocarle proprio su un monte, il monte della teofania, della teologia, della diafania perché in Matteo Cristo diventa il nuovo Mosè, il Mosè per eccellenza, che raccoglie e compendia tutto l’insegnamento di Mosè. Noi sappiamo che Gesù fa riferimento proprio ai testi del Sinai portandoli all’estreme conseguenze, radicalizzandoli, mostrando la vicinanza assoluta di Dio che, attraverso le Beatitudini e il discorso della montagna, si presenta come il Dio d’amore, della pienezza, della intimità assoluta. Lutero usava un’espressione paradossale in latino, persino ironica potrebbe apparire, per rappresentare Cristo in quel momento. Egli diceva che sul monte delle beatitudini Cristo è Mosissimus Moses, è il Mosè all’ennesima potenza. Tutto quello che Mosè aveva rappresentato ora Cristo ce lo rappresenta mostrandoci non solo la trascendenza, non solo la parola di Dio ma anche la sua intimità.
Giungiamo così al terzo e ultimo monte della Bibbia. Il monte che ora citeremo, quasi inesistente dal punto di vista orografico, è un punto di passaggio obbligato per noi cristiani: si tratta infatti del Golgota, del Calvario. Un monte che di sua natura è, come abbiamo detto, irrilevante – chi è stato a Gerusalemme sa che il monte è inglobato ormai all’interno della basilica del Santo Sepolcro -: si tratta di uno sperone roccioso di sei o sette metri, chiamato Golgota, in aramaico « cranio », probabilmente per la sua forma tondeggiante, o forse perché lì vicino c’erano le sepolture dei condannati a morte. L’etimologia qui ora non ci interessa; vogliamo però sottolineare come in Occidente tutti, anche coloro che non hanno nessuna fede in Cristo, sanno che cos’è il Calvario (traduzione latina della parola aramaica Golgota), tanto che l’espressione « un calvario di sofferenze » è diventata un modo di dire comune.
Se analizziamo questo luogo, soprattutto attraverso la teologia dei Vangeli e in particolare del quarto Vangelo, ci accorgiamo che esso è, sì, il monte della morte ma anche, a ben vedere, il monte della vita; è il monte dell’umanità, della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della tristezza, del silenzio di Dio (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »); ma è insieme anche il luogo nel quale Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della resurrezione. Il Calvario è già anche il monte dell’ascensione, è già il monte degli Ulivi, è il monte anche della glorificazione, dell’esaltazione, della speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue e monte della gloria e dell’infinito. A questo punto giungiamo a capire come il Calvario riesca a riassumere quelle due dimensioni a cui sempre abbiamo fatto riferimento. Sul monte infatti è sempre Dio che noi cerchiamo, però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica ascendiamo.
Vorrei concludere parlando della mistica della montagna. Sappiamo infatti come tutta la tradizione mistica abbia usato spesso la montagna come una parabola. Voglio qui accennare – sperando che magari qualcuno abbia l’occasione di riprendere in mano o di leggerlo se non l’ha mai fatto – a un libro, in verità arduo e che, tra l’altro, ha come punto di riferimento un monte biblico: intendo riferirmi alla Salita del monte Carmelo, uno dei capolavori, insieme con il Commento al Cantico dei Cantici, di Giovanni della Croce, Juan de la Cruz.
Giovanni della Croce scrive questo libro nel 1578, libro che poi non completa. È un testo raffinatissimo dal punto di vista della ricerca intellettuale, ma anche soprattutto dal punto di vista della mistica, un testo carico di simboli, ma anche di esperienze interiori. È curioso tra l’altro come il santo abbia disegnato più volte – tant’è vero che ne esistono più copie di sua mano e molte altre fatte dai suoi discepoli – un bozzetto del monte Carmelo, micrografandolo poi con scritte che indicano i vari percorsi, i vari itinerari di ascesi, di purificazione oltre che di illuminazione. Questo disegno, con le indicazioni relative al percorso di salita rappresentato in maniera folgorante, Giovanni lo dava alle suore di cui era confessore perché lo tenessero nel loro libro di preghiere.
Nel descrivere questa salita al monte egli inizia con una poesia, dichiarando di volerla poi commentare, mentre in realtà ne commenterà effettivamente solo una strofa. Nel monte Carmelo, il monte di Elia, il monte della sfida con l’idolatria (1 Re, 18), il monte dell’ordine carmelitano a cui Giovanni apparteneva, egli riassume tutta una serie di significati insieme ascetici e mistici. Il termine « ascesi » a noi purtroppo evoca solo l’idea della fatica, della purificazione in senso negativo; questo non è del tutto vero in quanto qui l’ascesi si intreccia già con la mistica.
« Ascesi » infatti, come dice il termine greco àskesis, non vuol dire « penitenza », ma semmai « esercizio ». Pensiamo ad esempio all’acrobata, a quei disegni così improbabili che egli fa e che sfidano le leggi stesse della fisica; l’acrobata compie tutto ciò con estrema facilità perché alla base c’è un esercizio che alla fine diventa creatività, disegno. E pensiamo anche alla professione della ballerina. Osservandone gli eleganti e dinamici tratti nell’atto della danza ci si rende conto di cosa voglia dire riuscire a costruire l’equilibrio sulla punta di un piede, che cosa comporti tutto quel gioco di movimenti che anche in questo caso rappresentano una sfida continua alle leggi della fisica. Per lei, però, tutto ciò non avviene ora attraverso il calcolo e la fatica, ma semmai attraverso un libero abbandono che produce e suppone divertimento e creatività.
Questa è l’ascesi, è fatica indubbiamente, è esercizio pesante, ma alla fine giunge a essere grande creatività che è al tempo stesso grande libertà.

CRISRTO RE DELL’UNIVERSO

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DOMENICA DI CRISTO RE (A) COMMENTO – GIUDICATI SULL’AMORE – ENZO BIANCHI

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DOMENICA DI CRISTO RE (A) COMMENTO – GIUDICATI SULL’AMORE – ENZO BIANCHI

Nell’ultima domenica dell’anno liturgico ascoltiamo la pagina che conclude il discorso escatologico nel vangelo secondo Matteo, quella in cui Gesù annuncia il giudizio finale. È un brano straordinario, che sintetizza in modo semplice la singolarità cristiana, ponendo con chiarezza ogni discepolo di Cristo di fronte alla propria concreta responsabilità verso i fratelli, in particolare verso gli ultimi.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, si siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno riunite tutte le genti”. Gesù parla di sé alla terza persona quale Figlio dell’uomo (cf. Dn 7,13), ossia quella figura di Giudice escatologico che alla fine della storia verrà per stabilire la giustizia di Dio. La sua regalità consiste nel compiere quel giudizio che è una misura di giustizia verso tutti coloro che sulla terra sono stati vittime, privati della possibilità di una vita degna di questo nome; in questo modo Gesù porterà a compimento ciò che ha iniziato durante il suo passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38). Il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e tutte le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità davanti al Dio che “ama giustizia e diritto” (Sal 33,5).
Servendosi di un’immagine tratta dal profeta Ezechiele Gesù afferma che il Figlio dell’uomo “separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra” (cf. Ez 34,17). Questo giudizio, che è a un tempo universale e personale, non avviene – come potremmo attenderci – al termine di un processo: qui viene solo presentata la sentenza, perché tutta la nostra vita è il luogo di un “processo” particolarissimo. Ed è proprio per risvegliare in noi questa consapevolezza che Gesù descrive il duplice dialogo simmetrico tra il Re/Figlio dell’uomo e quanti si trovano rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. Ai primi, definiti “benedetti del Padre”, il Re dona in eredità il Regno con questa motivazione: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in ero carcere e siete venuti a trovarmi”. Per non aver fatto questo agli altri è invece riservata una sorte opposta.
Il metro di questa separazione non è costituito da questioni morali o teologiche: no, la salvezza dipende semplicemente dall’aver o meno servito i fratelli e le sorelle, dalle relazioni di comunione con quanti siamo stati disposti a incontrare sul nostro cammino. E ciò che colpisce è lo stupore manifestato da coloro cui il Figlio dell’uomo si rivolge: “Quando ti abbiamo visto affamato… e ti abbiamo (o non ti abbiamo) servito?”, cui segue la risposta decisiva: “Amen, io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Sì, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Gesù Cristo, perché con lui Cristo stesso ha voluto identificarsi (cf. 2Cor 8,9): chi serve il bisognoso serve Cristo, lo sappia o meno.
Di più, per noi cristiani i poveri sono anche “sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), dell’ingiustizia che regna sulla terra, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra capacità di vivere nel mondo quale corpo di Cristo. Quando infatti vediamo una persona oppressa dalla povertà, dovremmo saper interpretare questa situazione come il frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili in prima persona. Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farci prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se forse lo scopriremo solo alla fine dei tempi…
Nell’ultimo giorno tutti, cristiani e non cristiani, saremo giudicati sull’amore, e non ci sarà chiesto se non di rendere conto del servizio amoroso che avremo praticato quotidianamente verso i fratelli e le sorelle, soprattutto verso i più bisognosi. E così il giudizio svelerà la verità profonda della nostra vita quotidiana, il nostro vivere o meno l’amore qui e ora: “impariamo dunque a meditare su un mistero tanto grande e a servire Cristo come egli vuole essere servito” (Giovanni Crisostomo).

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Maria donna orante

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Publié dans : immagini sacre | le 18 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 18 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 15. La Vergine Maria donna orante

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 18 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 15. La Vergine Maria donna orante

http://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20201118_udienza-generale.html

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro cammino di catechesi sulla preghiera, oggi incontriamo la Vergine Maria, come donna orante. La Madonna pregava. Quando ancora il mondo la ignora, quando è una semplice ragazza promessa sposa di un uomo della casa di Davide, Maria prega. Possiamo immaginare la giovane di Nazareth raccolta nel silenzio, in continuo dialogo con Dio, che presto le avrebbe affidato la sua missione. Lei è già piena di grazia e immacolata fin dalla concezione, ma ancora non sa nulla della sua sorprendente e straordinaria vocazione e del mare tempestoso che dovrà solcare. Una cosa è certa: Maria appartiene alla grande schiera di quegli umili di cuore che gli storici ufficiali non inseriscono nei loro libri, ma con i quali Dio ha preparato la venuta del suo Figlio.
Maria non dirige autonomamente la sua vita: aspetta che Dio prenda le redini del suo cammino e la guidi dove Egli vuole. È docile, e con questa sua disponibilità predispone i grandi avvenimenti che coinvolgono Dio nel mondo. Il Catechismo ci ricorda la sua presenza costante e premurosa nel disegno benevolo del Padre e lungo il corso della vita di Gesù (cfr CCC, 2617-2618).
Maria è in preghiera, quando l’arcangelo Gabriele viene a portarle l’annuncio a Nazareth. Il suo “Eccomi”, piccolo e immenso, che in quel momento fa sobbalzare di gioia l’intera creazione, era stato preceduto nella storia della salvezza da tanti altri “eccomi”, da tante obbedienze fiduciose, da tante disponibilità alla volontà di Dio. Non c’è modo migliore di pregare che mettersi come Maria in un atteggiamento di apertura, di cuore aperto a Dio: “Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi”. Cioè, il cuore aperto alla volontà di Dio. E Dio sempre risponde. Quanti credenti vivono così la loro preghiera! Quelli che sono più umili di cuore, pregano così: con l’umiltà essenziale, diciamo così; con umiltà semplice: “Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi”. E questi pregano così, non arrabbiandosi perché le giornate sono piene di problemi, ma andando incontro alla realtà e sapendo che nell’amore umile, nell’amore offerto in ogni situazione, noi diventiamo strumenti della grazia di Dio. Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi. Una preghiera semplice, ma è mettere la nostra vita nelle mani del Signore: che sia Lui a guidarci. Tutti possiamo pregare così, quasi senza parole.
La preghiera sa ammansire l’inquietudine: ma, noi siamo inquieti, sempre vogliamo le cose prima di chiederle e le vogliamo subito. Questa inquietudine ci fa male, e la preghiera sa ammansire l’inquietudine, sa trasformarla in disponibilità. Quando sono inquieto, prego e la preghiera mi apre il cuore e mi fa disponibile alla volontà di Dio. La Vergine Maria, in quei pochi istanti dell’Annunciazione, ha saputo respingere la paura, pur presagendo che il suo “sì” le avrebbe procurato delle prove molto dure. Se nella preghiera comprendiamo che ogni giorno donato da Dio è una chiamata, allora allarghiamo il cuore e accogliamo tutto. Si impara a dire: “Quello che Tu vuoi, Signore. Promettimi solo che sarai presente ad ogni passo del mio cammino”. Questo è l’importante: chiedere al Signore la sua presenza a ogni passo del nostro cammino: che non ci lasci soli, che non ci abbandoni nella tentazione, che non ci abbandoni nei momenti brutti. Quel finale del Padre Nostro è così: la grazia che Gesù stesso ci ha insegnato di chiedere al Signore.
Maria accompagna in preghiera tutta la vita di Gesù, fino alla morte e alla risurrezione; e alla fine continua, e accompagna i primi passi della Chiesa nascente (cfr At 1,14). Maria prega con i discepoli che hanno attraversato lo scandalo della croce. Prega con Pietro, che ha ceduto alla paura e ha pianto per il rimorso. Maria è lì, con i discepoli, in mezzo agli uomini e alle donne che suo Figlio ha chiamato a formare la sua Comunità. Maria non fa il sacerdote tra loro, no! È la Madre di Gesù che prega con loro, in comunità, come una della comunità. Prega con loro e prega per loro. E, nuovamente, la sua preghiera precede il futuro che sta per compiersi: per opera dello Spirito Santo è diventata Madre di Dio, e per opera dello Spirito Santo, diventa Madre della Chiesa. Pregando con la Chiesa nascente diventa Madre della Chiesa, accompagna i discepoli nei primi passi della Chiesa nella preghiera, aspettando lo Spirito Santo. In silenzio, sempre in silenzio. La preghiera di Maria è silenziosa. Il Vangelo ci racconta soltanto una preghiera di Maria: a Cana, quando chiede a suo Figlio, per quella povera gente, che sta per fare una figuraccia nella festa. Ma, immaginiamo: fare una festa di nozze e finirla con del latte perché non c’era il vino! Ma che figuraccia! E Lei, prega e chiede al Figlio di risolvere quel problema. La presenza di Maria è per se stessa preghiera, e la sua presenza tra i discepoli nel Cenacolo, aspettando lo Spirito Santo, è in preghiera. Così Maria partorisce la Chiesa, è Madre della Chiesa. Il Catechismo spiega: «Nella fede della sua umile serva il Dono di Dio – cioè lo Spirito Santo – trova l’accoglienza che fin dall’inizio dei tempi aspettava» (CCC, 2617).
Nella Vergine Maria, la naturale intuizione femminile viene esaltata dalla sua singolarissima unione con Dio nella preghiera. Per questo, leggendo il Vangelo, notiamo che ella sembra qualche volta scomparire, per poi riaffiorare nei momenti cruciali: Maria è aperta alla voce di Dio che guida il suo cuore, che guida i suoi passi là dove c’è bisogno della sua presenza. Presenza silenziosa di madre e di discepola. Maria è presente perché è Madre, ma è anche presente perché è la prima discepola, quella che ha imparato meglio le cose di Gesù. Maria non dice mai: “Venite, io risolverò le cose”. Ma dice: “Fate quello che Lui vi dirà”, sempre indicando con il dito Gesù. Questo atteggiamento è tipico del discepolo, e lei è la prima discepola: prega come Madre e prega come discepola.
«Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Così l’evangelista Luca ritrae la Madre del Signore nel Vangelo dell’infanzia. Tutto ciò che le capita intorno finisce con l’avere un riflesso nel profondo del suo cuore: i giorni pieni di gioia, come i momenti più bui, quando anche lei fatica a comprendere per quali strade debba passare la Redenzione. Tutto finisce nel suo cuore, perché venga passato al vaglio della preghiera e da essa trasfigurato. Che si tratti dei doni dei Magi, oppure della fuga in Egitto, fino a quel tremendo venerdì di passione: tutto la Madre custodisce e porta nel suo dialogo con Dio. Qualcuno ha paragonato il cuore di Maria a una perla di incomparabile splendore, formata e levigata dalla paziente accoglienza della volontà di Dio attraverso i misteri di Gesù meditati in preghiera. Che bello se anche noi potremo assomigliare un po’ alla nostra Madre! Con il cuore aperto alla Parola di Dio, con il cuore silenzioso, con il cuore obbediente, con il cuore che sa ricevere la Parola di Dio e la lascia crescere come un seme del bene della Chiesa.

Publié dans : PAPA FRANCESCO CATECHESI | le 18 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

La parabola dei talenti

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Publié dans : immagini sacre | le 13 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) – LA PARABOLA DEI TALENTI – ENZO BIANCHI

https://combonianum.org/2020/11/11/prepararsi-alla-domenica-33/

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) – LA PARABOLA DEI TALENTI – ENZO BIANCHI

La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli uomini, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male…
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza (tanto meno a quella economica o finanziaria), non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso la comunità cristiana che sovente è tiepida, senza iniziativa, contenta di quello che fa e opera, paurosa di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno neppure leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere rende cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
E allora leggiamo con intelligenza questa parabola la cui prospettiva – lo ripeto – non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni che egli ha fatto a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua – cinque lingotti di argento a uno, due a un altro –, affinché la facciano fruttare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa.
“Dopo molto tempo” – allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) – il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, … entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Viene infine quello che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti: “Da quando mi hai fatto fiducia, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Luca; cf. Lc 19,22) il servo confessa di avere un’immagine del Signore che si è fabbricata: un padrone che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato…
Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio e pigro. Malvagio perché hai obbedito all’immagine del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato”. Lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.

Anche così la parabola sarebbe buona notizia!

http://www.monasterodibose.it

 

Publié dans : OMELIE PREDICH, DISCORSI E...♥♥♥ | le 13 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

preghiera

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Publié dans : immagini sacre | le 11 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »
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