IV DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GESÙ, L’UOMO CHE SOLO DIO POTEVA DARCI ENZO BIANCHI

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IV DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GESÙ, L’UOMO CHE SOLO DIO POTEVA DARCI
ENZO BIANCHI

La quarta domenica di Avvento, che sempre cade all’interno delle ferie maggiori di Avvento (gli otto giorni che precedono la memoria della nascita di Gesù), ci narra l’azione di Dio in una donna, Maria di Nazaret: davvero “grandi cose ha fatto in lei l’Onnipotente” (cf. Lc 1,49)!
In una terra ai margini della Palestina, in un villaggio insignificante, in una casa semplice e sconosciuta, in una famiglia quotidiana si realizza il mistero dell’umanizzazione di Dio: Dio, l’eterno, si fa mortale, il forte si fa debole, il celeste si fa terrestre. L’Apostolo Paolo, quando cercherà di cantare questo evento nella fede cristiana ormai professata da ebrei e da greci, affermerà: “Colui che era Dio svuotò se stesso, diventando uomo” (cf. Fil 2,6-7).
Questo evento inaudito e impossibile per noi umani, è avvenuto perché “tutto è possibile a Dio”, ma come raccontarlo? La verità da esprimere è che un uomo come Gesù, il Figlio di Dio divenuto carne mortale, solo Dio ce lo poteva dare. Non poteva essere il frutto di volontà umana, non poteva essere generato dalla sola umanità, non poteva essere semplicemente il figlio di una coppia umana. Ed ecco, per rivelare la verità profonda di questo evento, al di là di ciò che risultava visibile agli occhi della gente di Nazaret, una narrazione che cerca di dirci come Dio è intervenuto e ha agito, come Gesù è un dono che solo Dio poteva darci. A una giovane donna ebrea, chiamata Maria, Dio guarda con amore, fino a sentirla e proclamarla come “amata”, “riempita e trasformata dalla sua grazia, dal suo amore”. Dio le fa sentire la sua presenza, la sua vicinanza, le fa sentire che “è con lei”, per questo Maria deve rallegrarsi. Del resto, Dio-con-noi, ‘Immanuel (Is 7,14; Mt 1,23), non è forse uno dei nomi di Dio?
Maria era una donna di fede, dunque sempre in attesa dell’azione e della presenza di Dio, e proprio per questo nei confronti del suo Signore non aveva alcuna pretesa né vantava alcun merito. Perciò è sorpresa, timorosa e stupita per questa grazia di Dio che la invade nella quotidianità dei suoi giorni. Eppure Maria sa ascoltare la voce del Signore che le chiede di non temere, di avere fede: il figlio che concepirà dovrà chiamarlo Gesù, Jeshu’a, “il Signore salva”, così che egli sia riconosciuto nella sua vera identità di Figlio dell’Altissimo, discendente di David, dunque Messia.
Maria però confessa: “Io non conosco uomo!”, riconoscendo cioè l’impossibilità umana di dare alla luce un figlio in quella condizione, dunque la sua incapacità a concepire e a partorire un tale figlio. In lei c’è soltanto un vuoto, più radicale di quello di una donna anziana e sterile come sua cugina Elisabetta (cf. Lc 1,18.36), un vuoto dal quale non può avvenire generazione. Ma il Signore Dio nella sua potenza fa cose inaudite e grandi, e le opera in lei: sarà come una nuova creazione! Come lo Spirito del Signore planò sulle acque nell’in-principio, per generare la vita (cf. Gen 1,2), così ora lo stesso Spirito santo scende su Maria, e la sua Shekinah, la sua Presenza che la copre come ombra, renderà possibile che la Parola di Dio si faccia carne (cf. Gv 1,14) e che quel vuoto diventi il “sito” in cui Dio raggiunge l’uomo, generando suo Figlio quale “Figlio nato da donna” (Gal 4,4).
Ecco il mistero dell’incarnazione, di fronte al quale si può soltanto adorare, contemplare e ringraziare. Solo Dio poteva darci un uomo come Gesù, e a questo dono ha risposto con un “amen”, un sì disponibile, Maria, la donna di Nazaret che Dio ha scelto facendola oggetto della sua grazia, della sua benevolenza, del suo amore totalmente gratuito.

 

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La preghiera

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 16 dicembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 19. La preghiera di intercessione

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 16 dicembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 19. La preghiera di intercessione

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Chi prega non lascia mai il mondo alle sue spalle. Se la preghiera non raccoglie le gioie e i dolori, le speranze e le angosce dell’umanità, diventa un’attività “decorativa”, un atteggiamento superficiale, da teatro, un atteggiamento intimistico. Tutti abbiamo bisogno di interiorità: di ritirarci in uno spazio e in un tempo dedicato al nostro rapporto con Dio. Ma questo non vuol dire evadere dalla realtà. Nella preghiera, Dio “ci prende, ci benedice, e poi ci spezza e ci dà”, per la fame di tutti. Ogni cristiano è chiamato a diventare, nelle mani di Dio, pane spezzato e condiviso. Cioè una preghiera concreta, che non sia una fuga.
Così gli uomini e le donne di preghiera cercano la solitudine e il silenzio, non per non essere infastiditi, ma per ascoltare meglio la voce di Dio. A volte si ritirano dal mondo, nel segreto della propria camera, come raccomandava Gesù (cfr Mt 6,6), ma, ovunque siano, tengono sempre spalancata la porta del loro cuore: una porta aperta per quelli che pregano senza sapere di pregare; per quelli che non pregano affatto ma portano dentro un grido soffocato, un’invocazione nascosta; per quelli che hanno sbagliato e hanno smarrito la via… Chiunque può bussare alla porta di un orante e trovare in lui o in lei un cuore compassionevole, che prega senza escludere nessuno. La preghiera è il nostro cuore e la nostra voce, e si fa cuore e voce di tanta gente che non sa pregare o non prega, o non vuole pregare o è impossibilitata a pregare: noi siamo il cuore e la voce di questa gente che sale a Gesù, sale al Padre, come intercessori. Nella solitudine chi prega – sia la solitudine di molto tempo sia la solitudine di mezz’oretta per pregare – si separa da tutto e da tutti per ritrovare tutto e tutti in Dio. Così l’orante prega per il mondo intero, portando sulle sue spalle dolori e peccati. Prega per tutti e per ciascuno: è come se fosse un’“antenna” di Dio in questo mondo. In ogni povero che bussa alla porta, in ogni persona che ha perso il senso delle cose, chi prega vede il volto di Cristo.
Il Catechismo scrive: «Intercedere, chiedere in favore di un altro […] è la prerogativa di un cuore in sintonia con la misericordia di Dio» (n. 2635). Questo è bellissimo. Quando preghiamo siamo in sintonia con la misericordia di Dio: misericordia nei confronti dei nostri peccati – che è misericordioso con noi – ma anche misericordia verso tutti coloro che hanno chiesto di pregare per loro, per i quali vogliamo pregare in sintonia con il cuore di Dio. Questa è la vera preghiera. In sintonia con la misericordia di Dio, quel cuore misericordioso. «Nel tempo della Chiesa, l’intercessione cristiana partecipa a quella di Cristo: è espressione della comunione dei santi» (ibid.). Cosa vuol dire che si partecipa all’intercessione di Cristo, quando io intercedo per qualcuno o prego per qualcuno? Perché Cristo davanti al Padre è intercessore, prega per noi, e prega facendo vedere al Padre le piaghe delle sue mani; perché Gesù fisicamente, con il suo corpo sta davanti al Padre. Gesù è il nostro intercessore, e pregare è un po’ fare come Gesù: intercedere in Gesù al Padre, per gli altri. E questo è molto bello.
Alla preghiera sta a cuore l’uomo. Semplicemente l’uomo. Chi non ama il fratello non prega seriamente. Si può dire: in spirito di odio non si può pregare; in spirito di indifferenza non si può pregare. La preghiera soltanto si dà in spirito di amore. Chi non ama fa finta di pregare, o lui crede di pregare, ma non prega, perché manca proprio lo spirito che è l’amore. Nella Chiesa, chi conosce la tristezza o la gioia dell’altro va più in profondità di chi indaga i “massimi sistemi”. Per questo motivo c’è un’esperienza dell’umano in ogni preghiera, perché le persone, per quanto possano commettere errori, non vanno mai rifiutate o scartate.
Quando un credente, mosso dallo Spirito Santo, prega per i peccatori, non fa selezioni, non emette giudizi di condanna: prega per tutti. E prega anche per sé. In quel momento sa di non essere nemmeno troppo diverso dalle persone per cui prega: si sente peccatore, tra i peccatori, e prega per tutti. La lezione della parabola del fariseo e del pubblicano è sempre viva e attuale (cfr Lc 18,9-14): noi non siamo migliori di nessuno, siamo tutti fratelli in una comunanza di fragilità, di sofferenze e nell’essere peccatori. Perciò una preghiera che possiamo rivolgere a Dio è questa: “Signore, nessun vivente davanti a Te è giusto (cfr Sal 143,2) – questo lo dice un salmo: “Signore, nessun vivente davanti è Te è giusto”, nessuno di noi: siamo tutti peccatori –, siamo tutti debitori che hanno un conto in sospeso; non c’è alcuno che sia impeccabile ai tuoi occhi. Signore abbi pietà di noi!”. E con questo spirito la preghiera è feconda, perché andiamo con umiltà davanti a Dio a pregare per tutti. Invece, il fariseo pregava in modo superbo: “Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come quei peccatori; io sono giusto, faccio sempre…”. Questa non è preghiera: questo è guardarsi allo specchio, alla realtà propria, guardarsi allo specchio truccato dalla superbia.
Il mondo va avanti grazie a questa catena di oranti che intercedono, e che sono per lo più sconosciuti… ma non a Dio! Ci sono tanti cristiani ignoti che, in tempo di persecuzione, hanno saputo ripetere le parole di nostro Signore: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Il buon pastore resta fedele anche davanti alla constatazione del peccato della propria gente: il buon pastore continua ad essere padre anche quando i figli si allontanano e lo abbandonano. Persevera nel servizio di pastore anche nei confronti di chi lo porta a sporcarsi le mani; non chiude il cuore davanti a chi magari lo ha fatto soffrire.
La Chiesa, in tutte le sue membra, ha la missione di praticare la preghiera di intercessione, intercede per gli altri. In particolare ne ha il dovere chiunque sia posto in un ruolo di responsabilità: genitori, educatori, ministri ordinati, superiori di comunità… Come Abramo e Mosè, a volte devono “difendere” davanti a Dio le persone loro affidate. In realtà, si tratta di guardarle con gli occhi e il cuore di Dio, con la sua stessa invincibile compassione e tenerezza. Pregare con tenerezza per gli altri
Fratelli e sorelle, siamo tutti foglie del medesimo albero: ogni distacco ci richiama alla grande pietà che dobbiamo nutrire, nella preghiera, gli uni per gli altri. Preghiamo gli uni per gli altri: farà bene a noi e farà bene a tutti. Grazie!

 

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la tenerezza di Dio

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Publié dans : immagini sacre | le 14 décembre, 2020 |Pas de Commentaires »

ENZO BIANCHI RIVALUTARE LA TENEREZZA: ANCHE DIO DÀ LE CAREZZE

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ENZO BIANCHI RIVALUTARE LA TENEREZZA: ANCHE DIO DÀ LE CAREZZE

mercoledì 14 ottobre 2015

Si tiene da domani a sabato, presso la Facoltà teologica cattolica dell’Università di Vienna, il congresso internazionale «Papa Francesco e la rivoluzione della tenerezza». L’appuntamento, a cui parteciperanno esperti da tutto il mondo, si concentrerà in particolare sull’analisi dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e sulle sue ricadute nel mondo cattolico e sul paesaggio culturale contemporaneo. Tra i relatori italiani: Isabella Guanzini si occupa di «Tenerezza del finito. Estetica e politica delle relazioni elementari»; Piero Coda dice «Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo»; Serena Noceti affronta il tema «Per una Chiesa inclusiva: categorie e principi interpretativi della re-visione ecclesiologica»; Marcello Neri parla di «Theologia cordis, Sensibili al tempo»; Pierangelo Sequeri si misura su «Esporsi, fra Dio e gli uomini, a favore degli uomini. L’intercessione»; Roberto Vinco spiega «Papa Francesco: il linguaggio delle periferie». Tra gli altri partecipanti: Christoph Theobald, Ingeborg Gabriel, Gabriel Mmassi.Recentemente è stato edito il volume I vangeli, tradotti e commentati da quattro bibliste, opera che tra l’altro vuole mostrare come siano possibili una traduzione e un commento « altri » rispetto alla maggior parte di quelli già esistenti. Credo sia più che accettabile l’ipotesi che una donna biblista commenti la Scrittura in modo altro rispetto agli uomini; più discutibile, forse, è che anche la sua traduzione sia altra. E tuttavia mi pare significativo che siano proprio delle donne bibliste a insistere, per esempio, sul fatto che il termine ebraico tradotto nelle lingue neolatine con «misericordia» possa essere reso con «tenerezza».In verità il vocabolario ebraico dell’amore è molto ricco (chen, chesed, rechem/rachamim, termini che a volte si influenzano reciprocamente e mescolano i loro significati), anche se va riconosciuto che nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si è progressivamente condensata intorno al termine «misericordia». Le attuali versioni bibliche – e mi riferisco soprattutto a quella a cura della Cei pubblicata nel 2008 – seguono questa tradizione, anche se da qualche tempo si sono levate voci che chiedono di rendere rachamim con «tenerezza», caldeggiando di conseguenza lo sviluppo di una teologia biblica della tenerezza di Dio.Poiché rechem/rachamim designa un movimento intimo, istintivo, causato da un fremito di amore che diventa com-passione, soffrire con, sensibilità; e poiché si tratta di un sentimento materno, che nasce dalle viscere, dalle interiora della madre, allora sembrerebbe più indicato tradurre con tenerezza invece che con misericordia, «cuore per i miseri». Occorre anche riconoscere che spesso si comprende la misericordia non nella sua autentica portata biblica, ma la si equivoca come un termine che designerebbe un sentimento di pietà, dall’alto in basso (come d’altronde può avvenire anche con il termine «compassione»).
Nel contempo, però, anche il concetto di tenerezza non è esente dai medesimi rischi, soprattutto quando si usa l’aggettivo «tenero», che può assumere connotazioni sdolcinate: dire che qualcuno è tenero, spesso suona inadeguato a definire la sua capacità di affetto e di com-passione. Può essere anche utile ricordarne l’etimologia: «tenerezza» viene dal latino tenerum, che significa «di poca durezza, che acconsente al tatto», dunque «sensibile»; ed è significativo che in alcuni dizionari lo si accosti, in senso figurato, a «sdolcinato», addirittura a «effeminato»…Queste precisazioni lessicali sono necessarie per interpretare con fedeltà il pensiero di papa Francesco, che indubbiamente ha immesso nel magistero pontificio il termine «tenerezza», con immediate ricadute nel linguaggio spirituale ed ecclesiale. Fin dall’omelia di inizio del pontificato (19 marzo 2013), Francesco ha affermato: «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!». Nella sua predicazione si serve spesso di questo termine, a commento dei testi più diversi dell’Antico e del Nuovo Testamento.Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium parla per ben 11 volte di tenerezza, ricorrendo a questa parola in modo sempre pensato, con molto discernimento. Parla di «tenerezza combattiva contro gli assalti del male» (85), di «infinita tenerezza del Signore» (274), di «tenerezza» come «virtù dei forti» (288), di «forza rivoluzionaria della tenerezza» (ibid.), avendo coscienza che la tenerezza è appunto una virtus, una forza attiva e pratica, non solo un sentimento. Arriva a scrivere che «Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza» (88).Perché questa insistenza sulla tenerezza? Perché la vita è un duro mestiere, perché i rapporti oggi si sono fatti duri, senza prossimità, anaffettivi, e gli uomini e le donne del nostro tempo sentono soprattutto il bisogno di tenerezza. Tenerezza come sensibilità, apertura all’altro, capacità di relazioni in cui emergano l’amore, l’attenzione, la cura. La tenerezza non è un sentimento sdolcinato, ma è vero che soprattutto gli uomini, debitori di una cultura dell’uomo forte, solido, che sa sempre usare la ragione a costo di non ascoltare il cuore, di una cultura diffidente verso le emozioni, non hanno coltivato in passato e forse non coltivano nemmeno oggi questa straordinaria virtù.Per questo il papa esorta a non aver paura della tenerezza e denuncia: «Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo!» (Omelia della notte di Natale, 2014). A ben vedere, la tenerezza è davvero ciò che oggi più manca. Quante relazioni tra sposi o amanti vengono meno, vedono depotenziarsi la passione oppure finiscono per essere affette da violenza e cosificazione dell’altro, proprio perché manca la tenerezza; quante relazioni di amicizia ingrigiscono perché non si è capaci di rinnovare il legame con la tenerezza; quanti incontri non sbocciano in relazione per mancanza di tenerezza… Ecco perché la tenerezza deve vedersi ed essere riconosciuta su un volto: altrimenti il volto diventa rigido, duro, inespressivo!Se la tenerezza è un sentimento di viscere materne, allora sta anche per misericordia, e per questo Francesco spesso le accosta. In ciò è fedele alle sante Scritture, che ci forniscono immagini straordinarie, veri e propri «elogi delle carezze di Dio». Basti pensare alla vicenda di Osea, profeta che ama perdutamente la sua donna, prostituta e adultera: vuole attrarla a sé, nonostante le sue infedeltà, vuole portarla nel deserto, in un luogo appartato, per poterle parlare nell’intimità «cor ad cor»(Os 2,16).Non solo, ma quando Osea deve descrivere l’amore di Dio per il suo popolo, parla di un Dio che attira a sé con legami di bontà, come un padre che solleva il proprio bimbo portandoselo alla guancia, guancia a guancia (Os 11,4), in un esercizio di reciproca sensibilità tattile che racconta la dolcezza dell’amore. E Isaia ci consegna con audacia l’immagine di un Dio dai tratti materni, che allatta, porta in braccio, accarezza e consola il proprio figlio (Is 66,12-13), figlio che non potrà mai dimenticare né abbandonare (Is 49,14-15). Da questi testi l’amore di Dio è rivelato innanzitutto come tenerezza, che Dostoevskij ha definito «la forza di un amore umile».Proprio perché la tenerezza è misericordia, quando è stata praticata e narrata da Gesù, essa ha suscitato scandalo. È il papa stesso a dirlo: «Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno! E Gesù non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano… di fronte a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica» (omelia 15 febbraio 2015).
Ma a prescindere dall’uso della terminologia della misericordia, la tenerezza di Gesù è visibile nel suo comportamento abituale: quando, incontrando i bambini, rimprovera i discepoli che vorrebbero tenerli distanti (Mc 10,13-16 e par.); quando si lascia accarezzare dalla donna peccatrice (Lc 7,37-38) o da quella che gli unge di profumo la testa (Mc 14,3; Mt 26,7) o i piedi (Gv 12,3); quando si commuove alla vista della folla sbandata, simile a un gregge senza pastore (Mc 6,34; Mt 9,36); quando, dopo la resurrezione, chiama per nome «Maria», la Maddalena che lo cerca piangente (Gv 20,16)…Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), cioè dolce e umile di cuore, pieno di tenerezza e umile di cuore: questo dovremmo comprendere di lui, e se a volte i Vangeli ce lo presentano in collera, non dobbiamo dimenticare che questa è l’altra faccia della sua com-passione. Solo chi conosce la com-passione, infatti, può ricorrere alla collera e così dichiarare la sua non indifferenza di fronte alla sofferenza. Nei Vangeli non sta scritto che Gesù abbia accarezzato qualcuno, se non i bambini (cf. Mc 10,16; Mt 19,15); eppure sono convinto che avesse l’arte della carezza, che abbia accarezzato qualche volto dei discepoli, qualche volto in lacrime, qualche volto in preda alla malattia.La tenerezza è un aspetto della misericordia, è la misericordia che si fa vicinissima fino a essere una carezza, un prendere la mano dell’altro nella propria mano, un asciugare le lacrime sugli occhi dell’altro: la tenerezza è misericordia fatta tatto e la misericordia, a sua volta, è una carezza. Dicono che questo papa non si fa vedere, ma piuttosto si fa toccare. C’è una verità in questo giudizio, perché Francesco sa mostrare la sua tenerezza: e chi sente la mancanza di tenerezza va da lui, non tanto per vederlo, ma sperando di essere abbracciato.

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San Giovanni Battista

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III DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GIOVANNI, IL TESTIMONE DELLA LUCE – ENZO BIANCHI

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III DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GIOVANNI, IL TESTIMONE DELLA LUCE – ENZO BIANCHI

Già in questi brevi versetti del prologo è sintetizzato tutto il senso della venuta di Giovanni, un uomo definito da Gesù “il più grande tra i nati di donna” (cf. Mt 11,11; Lc 7,28), mandato da Dio. Sì, solo Dio poteva darci e inviarci un uomo come lui. Egli è il segno che “il Signore fa grazia” (questo il significato del suo nome), è un “testimone” (mártys), anzi è il primo testimone di Gesù in quel processo che quest’ultimo ha subito dalla nascita alla morte, processo intentatogli dal “mondo”, cioè dall’umanità malvagia, violenta, philautica. Ministero difficile, faticoso, a prezzo della vita spesa e data, quello di Giovanni: nella consapevolezza di non avere luce propria, egli ha solo offerto il volto alla luce, ha contemplato la luce, è rimasto sempre rivolto alla luce, in modo così convincente e autorevole che chi guardava a lui si sentiva costretto a volgere lo sguardo verso la luce, verso colui di cui Giovanni era solo testimone.
E cosa fa, come si atteggia un vero testimone di Gesù Cristo, cioè della “luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9)? In primo luogo si decentra e mette tutte le sue forze a servizio di tale decentramento, dicendo costantemente: “Non io, ma lui; non a me ma a lui vadano lo sguardo e l’ascolto”. Questo è un atteggiamento di spogliazione, di resistenza a ogni tentazione di guardare a se stessi, è veramente vivere l’adorazione di colui che “è più grande” (Mt 11,11; Lc 7,28), che “è più forte” (Mc 1,7; Lc 3,16), che “passa davanti” (cf. Gv 1,15). Giovanni vive in sé il ministero della percezione della presenza di Dio, al quale l’aveva abituato il deserto in cui era cresciuto (cf. Lc 1,80), e ora percepisce questa presenza di Dio in Gesù, che ormai è un uomo tra gli altri, è tra coloro che vanno da lui a farsi battezzare, è un suo discepolo. “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete … Neanch’io lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito santo’” (Gv 1,26.33-34).
Chi è dunque Giovanni il Battista? Se lo chiedono innanzitutto quanti vanno ad ascoltarlo, i giudei: “Chi sei tu?”. E Giovanni risponde con semplicità: “Non sono il Messia, il Cristo da voi atteso”. Gli chiedono ancora: “Sei tu Elia?”, colui che, profetizzato da Malachia, era atteso davanti al Signore nel suo giorno temibile (cf. Ml 3,23)? “Non lo sono”, risponde Giovanni. Infine gli chiedono: “Sei tu il profeta”, il profeta escatologico promesso a Mosè e simile a lui (cf. Dt 18,15)? Ma ancora, per la terza volta, Giovanni nega anche quest’ultima identità proiettata su di sé.
“Gli dissero allora: ‘Chi sei? Che cosa dici di te stesso? Qual è la tua identità?’”. Ed egli risponde: “Io sono soltanto una voce, una voce imprestata a un altro, eco di una parola non mia”. Anche questo essere voce è frutto dell’obbedienza puntuale e completa di quest’uomo alla parola del Signore annunciata dal profeta Isaia (cf. Is 40,3; Mc 1,3 e par.). Solo voce, che si sente, si ascolta, ma non si può vedere, né contemplare, né trattenere. In Giovanni nessun protagonismo, nessuna volontà di occupare il centro, di stare in mezzo, ma solo di essere solidale con gli altri. C’è chi sta al centro, c’è chi è in mezzo e noi non lo conosciamo, c’è chi è Parola rivolta a noi: è Gesù Cristo, sempre “in incognito”, sempre da cercare, ma noi non lo cerchiamo e non lo riconosciamo. Forse solo nel giudizio finale sapremo che chi sta accanto a noi, chi ci è prossimo… è Gesù Cristo, e allora lo riconosceremo. Nel frattempo, abbiamo bisogno di Giovanni, di ascoltare la sua voce, di vedere il suo dito che indica Gesù come colui che ci immerge nello Spirito santo (cf. Gv 1,33; Mc 1,8 e par.) e che può fare di noi delle “vite salvate”.

 

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Gesù in preghiera

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Publié dans : immagini sacre | le 9 décembre, 2020 |Pas de Commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 9 DICEMBRE 2020 . CATECHESI SULLA PREGHIERA – 18. LA PREGHIERA DI DOMANDA

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 9 DICEMBRE 2020 . CATECHESI SULLA PREGHIERA – 18. LA PREGHIERA DI DOMANDA

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo con le nostre riflessioni sulla preghiera. La preghiera cristiana è pienamente umana – noi preghiamo come persone umane, come quello che siamo -, comprende la lode e la supplica. Infatti, quando Gesù ha insegnato ai suoi discepoli a pregare, lo ha fatto con il “Padre nostro”, affinché ci poniamo con Dio nella relazione di confidenza filiale e gli rivolgiamo tutte le nostre domande. Imploriamo Dio per i doni più alti: la santificazione del suo nome tra gli uomini, l’avvento della sua signoria, la realizzazione della sua volontà di bene nei confronti del mondo. Il Catechismo ricorda: «Nelle domande esiste una gerarchia: prima di tutto si chiede il Regno, poi ciò che è necessario per accoglierlo e per cooperare al suo avvento» (n. 2632). Ma nel “Padre nostro” preghiamo anche per i doni più semplici, per i doni più feriali, come il “pane quotidiano” – che vuol dire anche la salute, la casa, il lavoro, le cose di tutti i giorni; e pure per l’Eucaristia vuol dire, necessaria per la vita in Cristo –; così come preghiamo per il perdono dei peccati – che è una cosa quotidiana; abbiamo sempre bisogno di perdono – e quindi la pace nelle nostre relazioni; e infine che ci aiuti nelle tentazioni e ci liberi dal male.
Chiedere, supplicare. Questo è molto umano. Ascoltiamo ancora il Catechismo: «Con la preghiera di domanda noi esprimiamo la coscienza della nostra relazione con Dio: in quanto creature, non siamo noi il nostro principio, né siamo padroni delle avversità, né siamo il nostro ultimo fine; anzi, per di più, essendo peccatori, noi, come cristiani, sappiamo che ci allontaniamo dal Padre. La domanda è già un ritorno a Lui» (n. 2629).
Se uno si sente male perché ha fatto delle cose brutte – è un peccatore – quando prega il Padre Nostro già si sta avvicinando al Signore. A volte noi possiamo credere di non aver bisogno di nulla, di bastare a noi stessi e di vivere nell’autosufficienza più completa. A volte succede questo! Ma prima o poi questa illusione svanisce. L’essere umano è un’invocazione, che a volte diventa grido, spesso trattenuto. L’anima assomiglia a una terra arida, assetata, come dice il Salmo (cfr Sal 63,2). Tutti sperimentiamo, in un momento o nell’altro della nostra esistenza, il tempo della malinconia o della solitudine. La Bibbia non si vergogna di mostrare la condizione umana segnata dalla malattia, dalle ingiustizie, dal tradimento degli amici, o dalla minaccia dei nemici. A volte sembra che tutto crolli, che la vita vissuta finora sia stata vana. E in queste situazioni apparentemente senza sbocchi c’è un’unica via di uscita: il grido, la preghiera: «Signore, aiutami!». La preghiera apre squarci di luce nelle tenebre più fitte. «Signore, aiutami!». Questo apre la strada, apre il cammino.
Noi esseri umani condividiamo questa invocazione di aiuto con tutto il creato. Non siamo i soli a “pregare” in questo sterminato universo: ogni frammento del creato porta inscritto il desiderio di Dio. E San Paolo lo ha espresso in questo modo. Dice così: «Sappiamo che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Rm 8,22-24). In noi risuona il multiforme gemito delle creature: degli alberi, delle rocce, degli animali… Ogni cosa anela a un compimento. Ha scritto Tertulliano: «Prega ogni essere creato, pregano gli animali e le fiere e piegano le ginocchia; quando escono dalle stalle o dalle tane alzano la testa al cielo e non rimangono a bocca chiusa, fan risuonare le loro grida secondo le loro abitudini. E anche gli uccelli, non appena spiccano il volo, van su verso il cielo e allargano le loro ali come se fossero mani a forma di croce, cinguettano qualcosa che pare preghiera» (De oratione, XXIX). Questa è un’espressione poetica per fare un commento a quello che San Paolo dice “che tutto il creato geme, prega”. Ma noi, siamo gli unici a pregare coscientemente, a sapere che ci rivolgiamo al Padre, a entrare in dialogo con il Padre.
Dunque, non dobbiamo scandalizzarci se sentiamo il bisogno di pregare, non avere vergogna. E soprattutto quando siamo nella necessità, chiedere. Gesù parlando di un uomo disonesto, che deve fare i conti con il suo padrone, dice questo: “Chiedere, mi vergogno”. E tanti di noi abbiamo questo sentimento: abbiamo vergogna di chiedere; di chiedere un aiuto, di chiedere qualche cosa a qualcuno che ci aiuti a fare, ad arrivare a quello scopo, e anche vergogna di chiedere a Dio. Non bisogna avere vergogna di pregare e di dire: “Signore, ho bisogno di questo”, “Signore, sono in questa difficoltà”, “Aiutami!”. È il grido del cuore verso Dio che è Padre. E dobbiamo imparare a farlo anche nei tempi felici; ringraziare Dio per ogni cosa che ci è data, e non ritenere nulla come scontato o dovuto: tutto è grazia. Il Signore sempre ci dà, sempre, e tutto è grazia, tutto. La grazia di Dio. Tuttavia, non soffochiamo la supplica che sorge in noi spontanea. La preghiera di domanda va di pari passo con l’accettazione del nostro limite e della nostra creaturalità. Si può anche non arrivare a credere in Dio, ma è difficile non credere nella preghiera: essa semplicemente esiste; si presenta a noi come un grido; e tutti quanti abbiamo a che fare con questa voce interiore che può magari tacere per lungo tempo, ma un giorno si sveglia e grida.
Fratelli e sorelle, sappiamo che Dio risponderà. Non c’è orante nel Libro dei Salmi che alzi il suo lamento e resti inascoltato. Dio risponde sempre: oggi, domani, ma sempre risponde, in un modo o nell’altro. Sempre risponde. La Bibbia lo ripete infinite volte: Dio ascolta il grido di chi lo invoca. Anche le nostre domande balbettate, quelle rimaste nel fondo del cuore, che abbiamo anche vergogna di esprimere, il Padre le ascolta e vuole donarci lo Spirito Santo, che anima ogni preghiera e trasforma ogni cosa. È questione di pazienza, sempre, di reggere l’attesa. Adesso siamo in tempo di Avvento, un tempo tipicamente di attesa per il Natale. Noi siamo in attesa. Questo si vede bene. Ma anche tutta la nostra vita è in attesa. E la preghiera è in attesa sempre, perché sappiamo che il Signore risponderà. Perfino la morte trema, quando un cristiano prega, perché sa che ogni orante ha un alleato più forte di lei: il Signore Risorto. La morte è già stata sconfitta in Cristo, e verrà il giorno in cui tutto sarà definitivo, e lei non si farà più beffe della nostra vita e della nostra felicità.
Impariamo ad essere nell’attesa del Signore. Il Signore viene a visitarci, non solo in queste grandi feste – il Natale, la Pasqua – ma il Signore ci visita ogni giorno nell’intimità del nostro cuore se noi siamo in attesa. E tante volte non ci accorgiamo che il Signore è vicino, che bussa alla nostra porta e lo lasciamo passare. “Ho paura di Dio quando passa; ho paura che passi ed io non me ne accorga”, diceva Sant’Agostino. E il Signore passa, il Signore viene, il Signore bussa. Ma se tu hai le orecchie piene di altri rumori, non sentirai la chiamata del Signore.

Fratelli e sorelle, essere in attesa: questa è la preghiera!

Publié dans : PAPA FRANCESCO CATECHESI | le 9 décembre, 2020 |Pas de Commentaires »

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

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Publié dans : immagini sacre | le 7 décembre, 2020 |Pas de Commentaires »
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