I DOMENICA DI QUARESIMA (B) GESÙ NEL DESERTO, COSTANTEMENTE TENTATO – ENZO BIANCHI

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I DOMENICA DI QUARESIMA (B) GESÙ NEL DESERTO, COSTANTEMENTE TENTATO – ENZO BIANCHI

Il vangelo di questa I domenica di Quaresima è breve: quattro versetti, anche se in realtà mi concentrerò quasi esclusivamente sui primi due, avendo commentato i vv. 14-15 poche domeniche fa (III domenica del tempo Ordinario). I vv. 12-13 sono molto intensi, capaci di comunicarci l’essenziale sulle tentazioni di Gesù, anche se nel nostro immaginario è impressa, dunque da noi memorizzata, la narrazione più drammatica e più precisa dei vangeli secondo Matteo e Luca (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).
Concentriamoci dunque sul racconto di Marco. Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli di Israele.
Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio. Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova, di tentazione. Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra; lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta quotidiana, fino alla morte.
In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”. La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione mondana, prepotente e arrogante del Regno.
L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato, per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno. Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce, pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra. Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.
Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio (cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.
Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi e credete nel Vangelo!”.

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Publié dans : QUARESIMA ANNO B | le 19 février, 2021 |Pas de Commentaires »

mercoledì delle ceneri

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Publié dans : immagini sacre | le 17 février, 2021 |Pas de Commentaires »

SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI – 17 febbraio 2021 – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

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SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI – 17 febbraio 2021 –
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro

Iniziamo il cammino della Quaresima. Esso si apre con le parole del profeta Gioele, che indicano la direzione da seguire. C’è un invito che nasce dal cuore di Dio, che con le braccia spalancate e gli occhi pieni di nostalgia ci supplica: «Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ritornate a me. La Quaresima è un viaggio di ritorno a Dio. Quante volte, indaffarati o indifferenti, gli abbiamo detto: “Signore, verrò da Te dopo, aspetta… Oggi non posso, ma domani comincerò a pregare e a fare qualcosa per gli altri”. E così un giorno dopo l’altro. Ora Dio fa appello al nostro cuore. Nella vita avremo sempre cose da fare e avremo scuse da presentare, ma, fratelli e sorelle, oggi è il tempo di ritornare a Dio.
Ritornate a me, dice, con tutto il cuore. La Quaresima è un viaggio che coinvolge tutta la nostra vita, tutto noi stessi. È il tempo per verificare le strade che stiamo percorrendo, per ritrovare la via che ci riporta a casa, per riscoprire il legame fondamentale con Dio, da cui tutto dipende. La Quaresima non è una raccolta di fioretti, è discernere dove è orientato il cuore. Questo è il centro della Quaresima: dove è orientato il mio cuore? Proviamo a chiederci: dove mi porta il navigatore della mia vita, verso Dio o verso il mio io? Vivo per piacere al Signore, o per essere notato, lodato, preferito, al primo posto e così via? Ho un cuore “ballerino”, che fa un passo avanti e uno indietro, ama un po’ il Signore e un po’ il mondo, oppure un cuore saldo in Dio? Sto bene con le mie ipocrisie, o lotto per liberare il cuore dalle doppiezze e dalle falsità che lo incatenano?
Il viaggio della Quaresima è un esodo, è un esodo dalla schiavitù alla libertà. Sono quaranta giorni che ricordano i quarant’anni in cui il popolo di Dio viaggiò nel deserto per tornare alla terra di origine. Ma quanto fu difficile lasciare l’Egitto! È stato più difficile lasciare l’Egitto del cuore del popolo di Dio, quell’Egitto che portavano sempre dentro, che lasciare la terra d’Egitto… È molto difficile lasciare l’Egitto. Sempre, durante il cammino, c’era la tentazione di rimpiangerne le cipolle, di tornare indietro, di legarsi ai ricordi del passato, a qualche idolo. Anche per noi è così: il viaggio di ritorno a Dio è ostacolato dai nostri malsani attaccamenti, è trattenuto dai lacci seducenti dei vizi, dalle false sicurezze dei soldi e dell’apparire, dal lamento vittimista che paralizza. Per camminare bisogna smascherare queste illusioni.
Ma ci domandiamo: come procedere allora nel cammino verso Dio? Ci aiutano i viaggi di ritorno che la Parola di Dio ci racconta.
Guardiamo al figlio prodigo e capiamo che pure per noi è tempo di ritornare al Padre. Come quel figlio, anche noi abbiamo dimenticato il profumo di casa, abbiamo dilapidato beni preziosi per cose da poco e siamo rimasti con le mani vuote e il cuore scontento. Siamo caduti: siamo figli che cadono in continuazione, siamo come bimbi piccoli che provano a camminare ma vanno in terra, e hanno bisogno di essere rialzati ogni volta dal papà. È il perdono del Padre che ci rimette sempre in piedi: il perdono di Dio, la Confessione, è il primo passo del nostro viaggio di ritorno. Ho detto alla Confessione, mi raccomando i confessori: siate come il padre, non con la frusta, con l’abbraccio.
Poi abbiamo bisogno di ritornare a Gesù, di fare come quel lebbroso risanato che tornò a ringraziarlo. In dieci erano stati guariti, ma lui solo fu anche salvato, perché era tornato da Gesù (cfr Lc 17,12-19). Tutti, tutti abbiamo delle malattie spirituali, da soli non possiamo guarirle; tutti abbiamo dei vizi radicati, da soli non possiamo estirparli; tutti abbiamo delle paure che ci paralizzano, da soli non possiamo sconfiggerle. Abbiamo bisogno di imitare quel lebbroso, che tornò da Gesù e si buttò ai suoi piedi. Ci serve la guarigione di Gesù, serve mettergli davanti le nostre ferite e dirgli: “Gesù, sono qui davanti a Te, con il mio peccato, con le mie miserie. Tu sei il medico, Tu puoi liberarmi. Guarisci il mio cuore”.
Ancora: la Parola di Dio ci chiede di ritornare al Padre, ci chiede di ritornare a Gesù, e siamo chiamati a ritornare allo Spirito Santo. La cenere sul capo ci ricorda che siamo polvere e in polvere torneremo. Ma su questa nostra polvere Dio ha soffiato il suo Spirito di vita. Allora non possiamo vivere inseguendo la polvere, andando dietro a cose che oggi ci sono e domani svaniscono. Torniamo allo Spirito, Datore di vita, torniamo al Fuoco che fa risorgere le nostre ceneri, a quel Fuoco che ci insegna ad amare. Saremo sempre polvere ma, come dice un inno liturgico, polvere innamorata. Ritorniamo a pregare lo Spirito Santo, riscopriamo il fuoco della lode, che brucia le ceneri del lamento e della rassegnazione.
Fratelli e sorelle, questo nostro viaggio di ritorno a Dio è possibile solo perché c’è stato il suo viaggio di andata verso di noi. Altrimenti non sarebbe stato possibile. Prima che noi andassimo da Lui, Lui è sceso verso di noi. Ci ha preceduti, ci è venuto incontro. Per noi è sceso più in basso di quanto potevamo immaginare: si è fatto peccato, si è fatto morte. È quanto ci ha ricordato San Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Cor 5,21). Per non lasciarci soli e accompagnarci nel cammino è sceso dentro al nostro peccato e alla nostra morte, ha toccato il peccato, ha toccato la nostra morte. Il nostro viaggio, allora, è un lasciarci prendere per mano. Il Padre che ci chiama a tornare è Colui che esce di casa per venirci a cercare; il Signore che ci guarisce è Colui che si è lasciato ferire in croce; lo Spirito che ci fa cambiare vita è Colui che soffia con forza e dolcezza sulla nostra polvere.
Ecco allora la supplica dell’Apostolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (v. 20). Lasciatevi riconciliare: il cammino non si basa sulle nostre forze; nessuno può riconciliarsi con Dio con le proprie forze, non può. La conversione del cuore, con i gesti e le pratiche che la esprimono, è possibile solo se parte dal primato dell’azione di Dio. A farci ritornare a Lui non sono le nostre capacità e i nostri meriti da ostentare, ma la sua grazia da accogliere. Ci salva la grazia, la salvezza è pura grazia, pura gratuità. Gesù ce l’ha detto chiaramente nel Vangelo: a renderci giusti non è la giustizia che pratichiamo davanti agli uomini, ma la relazione sincera con il Padre. L’inizio del ritorno a Dio è riconoscerci bisognosi di Lui, bisognosi di misericordia bisognosi della sua grazia. Questa è la via giusta, la via dell’umiltà. Io mi sento bisognoso o mi sento autosufficiente?
Oggi abbassiamo il capo per ricevere le ceneri. Finita la Quaresima ci abbasseremo ancora di più per lavare i piedi dei fratelli. La Quaresima è una discesa umile dentro di noi e verso gli altri. È capire che la salvezza non è una scalata per la gloria, ma un abbassamento per amore. È farci piccoli. In questo cammino, per non perdere la rotta, mettiamoci davanti alla croce di Gesù: è la cattedra silenziosa di Dio. Guardiamo ogni giorno le sue piaghe, le piaghe che Lui ha portato in Cielo e fa vedere al Padre, tutti i giorni, nella sua preghiera di intercessione. Guardiamo ogni giorno le sue piaghe. In quei fori riconosciamo il nostro vuoto, le nostre mancanze, le ferite del peccato, i colpi che ci hanno fatto male. Eppure proprio lì vediamo che Dio non ci punta il dito contro, ma ci spalanca le mani. Le sue piaghe sono aperte per noi e da quelle piaghe siamo stati guariti (cfr 1 Pt 2,25; Is 53,5). Baciamole e capiremo che proprio lì, nei buchi più dolorosi della vita, Dio ci aspetta con la sua misericordia infinita. Perché lì, dove siamo più vulnerabili, dove ci vergogniamo di più, Lui ci è venuto incontro. E ora che ci è venuto incontro, ci invita a ritornare a Lui, per ritrovare la gioia di essere amati.

Publié dans : MERCOLEDI DELLE CENERI | le 17 février, 2021 |Pas de Commentaires »

Mc 1 29-39

paolo

Publié dans : immagini sacre | le 5 février, 2021 |Pas de Commentaires »

V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – COME GESÙ CURA E GUARISCE – ENZO BIANCHI

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V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – COME GESÙ CURA E GUARISCE – ENZO BIANCHI

Domenica scorsa abbiamo iniziato a leggere il racconto della “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), esempio concreto di come Gesù viveva, parlando del regno di Dio e compiendo segni che lo annunciavano. E oggi il racconto continua…
Gesù e i suoi primi quattro discepoli, usciti dalla sinagoga, vanno a casa di due di loro, Pietro e Andrea. Come c’era una dimensione pubblica della vita di Gesù, così ce n’era anche una privata: la vita vissuta con i suoi discepoli, o con i suoi amici, la vita in casa, dove si parlava, ci si ascoltava, si mangiava insieme e ci si riposava. Anche queste sono dimensioni umane della vita di Gesù, alle quali purtroppo facilmente non prestiamo attenzione, eppure fanno parte della realtà, del mestiere del vivere quotidiano…
Ora, entrati in casa di Pietro e Andrea, si accorgono che nessuno li accoglie: dovrebbe essere compito della suocera di Pietro – che dunque era sposato –, ma una febbre la tiene a letto. La febbre è un’indisposizione che accade sovente, e non è certo grave o preoccupante. Gesù, informato della cosa, si avvicina a questa donna allettata, la prende per mano e la fa alzare. Egli vuole incontrarla e, non appena le è vicino, compie gesti semplici, umanissimi, affettuosi: prende nella sua mano quella mano febbricitante, attua una relazione carica di affetto, e quindi con forza la aiuta ad alzarsi. Questi sono i gesti di Gesù che guariscono: non gesti di un guaritore di professione, non gesti medici, né tantomeno gesti magici. Se siamo attenti comprendiamo che, sull’esempio di Gesù, a un malato dobbiamo soltanto avvicinarci, renderci prossimi, toglierlo dal suo isolamento, prendendo la sua mano nella nostra, in un contatto fisico che gli dica la nostra presenza reale, e infine fare qualcosa perché l’altro si rialzi dal suo stato di prostrazione.
Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio. Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi. Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8).
Ciò che è messo in rilievo come frutto di quel “far rialzare” da parte di Gesù è l’immediato servizio, la pronta diakonía da parte della suocera di Pietro. Rialzati dal male, a noi spetta il servizio verso gli altri, perché servire l’altro, avere cura dell’altro è vivere l’amore verso di lui: l’amore dell’altro è il volere e il realizzare il suo bene. Nel caso presente questa donna, ormai in piedi, offre da mangiare a Gesù e ai suoi discepoli, servendo chi l’ha servita fino a farla stare in piedi.
Giunge la sera, la prima giornata missionaria di Gesù è quasi terminata, ma ecco che da tutta la città vengono portati malati e indemoniati davanti alla porta della casa in cui egli si trova. Cosa cercava tutta quella gente? Innanzitutto guarigione, ma certamente desiderava anche vedere miracoli: la medicina era troppo cara, spesso senza efficacia, e poi in quel tempo c’erano molti esorcisti, guaritori, maghi, da cui la gente si recava. Quelli venuti da Gesù non trovano però né un mago né un operatore di miracoli. Trovano uno che guarisce chi incontra, parlando, entrando in relazione, ma soprattutto suscitando fede-fiducia: e quando Gesù trova questa fiducia, allora può manifestarsi la vita più forte della morte. Gesù non guariva tutti ma – ci dicono i vangeli – curava tutti quelli che incontrava. Come annota solo Matteo a margine di questo brano, egli si manifesta come il Servo del Signore che “ha preso le nostre debolezze e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17; Is 53,4). Gesù combatte le malattie per far arretrare la potenza del male e del demonio, ma ciò avviene al prezzo di caricarsi lui stesso delle sofferenze che cerca di sconfiggere!
Viene la notte, ma anche questa è fatta per operare: prima dell’alba Gesù esce di casa, va in un luogo solitario e là prega. È la sua preghiera del mattino, preghiera che attende il sorgere del sole invocando il Signore e lodandolo per la luce che vince la notte. Questa azione notturna non è secondaria, non è una semplice appendice al giorno. È la fonte del suo parlare e del suo agire, è l’inizio del suo “ritmo” giornaliero, è ciò che gli dà la postura per vivere tutta la giornata nella compagnia degli uomini: perché egli è sempre l’inviato di Dio, colui che deve sempre “raccontarlo” (cf. Gv 1,18) agli uomini, ovunque vada.

Publié dans : OMELIE PREDICH, DISCORSI E...♥♥♥ | le 5 février, 2021 |Pas de Commentaires »

Una giornata a Cafarnao

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Publié dans : immagini sacre | le 29 janvier, 2021 |Pas de Commentaires »

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LA GIORNATA DI CAFARNAO – ENZO BIANCHI

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IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LA GIORNATA DI CAFARNAO – ENZO BIANCHI

Dopo il racconto della vocazione dei primi quattro discepoli (cf. Mc 1,16-20), Marco sottolinea che Gesù non è più solo. Ormai c’è una piccola comunità alla sequela di questo rabbi venuto in Galilea dalle rive del Mar Morto in seguito all’arresto del suo maestro e profeta Giovanni il Battista, e questa piccola comunità crescerà e accompagnerà Gesù, coinvolta nella sua vita fino alla fine.
L’evangelista ci presenta dunque una giornata-tipo vissuta da Gesù e dai suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), una città situata a nord del mare di Galilea, luogo di passaggio tra Palestina, Libano e Assiria, città con gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, come luogo in cui egli e la sua comunità avevano una casa (cf. Mc 1,29.35, ecc.) dove sostavano di tanto in tanto, nelle pause dei loro itinerari in Galilea e in Giudea. Com’era vissuta da Gesù una giornata? Egli predicava e insegnava, incontrava delle persone liberandole dal male e curandole, pregava. Vi erano poi certamente un tempo e uno spazio per mangiare con i suoi, per stare con la sua comunità e per insegnare a essa come occorreva vivere per accogliere il regno di Dio veniente.
Ecco allora che il vangelo ci narra questa giornata di Gesù. È un sabato, il giorno del Signore, in cui l’ebreo vive il comandamento di santificare il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) e va alla sinagoga per il culto. Anche Gesù e i suoi discepoli si recano alla sinagoga di Cafarnao dove, dopo la lettura di un brano della Torà di Mosè (parashà) e di una pericope dei Profeti (haftarà), un uomo adulto poteva prendere la parola e commentare quanto era stato proclamato. Gesù è un semplice credente del popolo di Israele, è un laico, non un sacerdote, ed esercita questo diritto. Va all’ambone e fa un’omelia, di cui però Marco non ci dice il contenuto, a differenza di quanto fa Luca riguardo all’omelia tenuta da Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21).
Accade allora quello che qualche volta succede anche a noi: chi tiene l’omelia ha la capacità di tenerci svegli e in ascolto di lui, ha una parola che ci raggiunge nelle nostre profondità, accompagna le domande che ciascuno di noi sente emergere dal proprio cuore, fa intravedere una risposta vera. Insomma, Gesù mostra di avere un’”autorevolezza” (exousía) inedita, rara. La sua non è una parola come quella dei professionisti religiosi, dei molti scribi incaricati di studiare e spiegare le sante Scritture. Che cosa c’è di diverso nel suo predicare? Possiamo almeno dire che c’è una parola che viene dalle sue profondità, una parola che sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive. È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa. Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa andare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, che scuote, “ferisce”, convince.
Lo sappiamo bene: tutti noi desideriamo un tale predicatore nelle nostre liturgie domenicali, ma a volte rimaniamo delusi. D’altronde chi predica nelle nostre assemblee non è il Figlio di Dio fattosi uomo, a volte e stanco e anche frustrato nella propria vocazione, a volte è talmente costretto a ripetere riti e parole che non gli sono più possibili né convinzione né passione. Eppure io credo che, anche in questa situazione di povertà, se uno ha il cuore aperto e desideroso di ascoltare la parola di Dio, qualche suo frammento lo raggiunge sempre…
L’autorevolezza di Gesù si mostra subito dopo in un atto di liberazione. Nella sinagoga c’è un uomo tormentato da uno spirito impuro, un uomo in cui il demonio è all’opera. Non soffermiamo la nostra attenzione sulla violenza e sul frastuono con cui quest’uomo si esprime, secondo la descrizione tipica dello stile orientale, immaginifico. Andiamo alla sostanza: c’è un uomo in cui il demonio opera in modo particolare, in cui la forza che si oppone a quella di Dio ha preso un grande spazio; in questa persona c’è uno spirito impuro che si oppone allo Spirito santo di Dio. La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”. Ma Gesù innanzitutto gli intima di tacere, poi libera l’uomo da quella presenza. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.
Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: il grido dell’indemoniato è ortodosso, perché egli è il Santo di Dio, ma questa identità non può essere proclamata troppo facilmente. Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta con intelligenza e conoscenza profonde, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”.

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dai Salmi

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Publié dans : immagini sacre | le 28 janvier, 2021 |Pas de Commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 27 gennaio 2021 – 22. La preghiera con le Sacre Scritture

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 27 gennaio 2021 – 22. La preghiera con le Sacre Scritture

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Catechesi sulla preghiera -

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei soffermarmi sulla preghiera che possiamo fare a partire da un brano della Bibbia. Le parole della Sacra Scrittura non sono state scritte per restare imprigionate sul papiro, sulla pergamena o sulla carta, ma per essere accolte da una persona che prega, facendole germogliare nel proprio cuore. La parola di Dio va al cuore. Il Catechismo afferma: «La lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera – la Bibbia non può essere letta come un romanzo –, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo» (n. 2653). Così ti porta la preghiera, perché è un dialogo con Dio. Quel versetto della Bibbia è stato scritto anche per me, secoli e secoli fa, per portarmi una parola di Dio. È stato scritto per ognuno di noi. A tutti i credenti capita questa esperienza: un passo della Scrittura, ascoltato già tante volte, un giorno improvvisamente mi parla e illumina una situazione che sto vivendo. Ma bisogna che io, quel giorno, sia lì, all’appuntamento con quella Parola, sia lì, ascoltando la Parola. Tutti i giorni Dio passa e getta un seme nel terreno della nostra vita. Non sappiamo se oggi troverà un suolo arido, dei rovi, oppure una terra buona, che farà crescere quel germoglio (cfr Mc 4,3-9). Dipende da noi, dalla nostra preghiera, dal cuore aperto con cui ci accostiamo alle Scritture perché diventino per noi Parola vivente di Dio. Dio passa, continuamente, tramite la Scrittura. E riprendo quello che ho detto la settimana scorsa, che diceva Sant’Agostino: “Ho timore del Signore quando passa”. Perché timore? Che io non lo ascolti, che non mi accorga che è il Signore.
Attraverso la preghiera avviene come una nuova incarnazione del Verbo. E siamo noi i “tabernacoli” dove le parole di Dio vogliono essere ospitate e custodite, per poter visitare il mondo. Per questo bisogna accostarsi alla Bibbia senza secondi fini, senza strumentalizzarla. Il credente non cerca nelle Sacre Scritture l’appoggio per la propria visione filosofica o morale, ma perché spera in un incontro; sa che esse, quelle parole, sono state scritte nello Spirito Santo, e che pertanto in quello stesso Spirito vanno accolte, vanno comprese, perché l’incontro si realizzi.
A me dà un po’ di fastidio quando sento cristiani che recitano versetti della Bibbia come i pappagalli. “Oh, sì, il Signore dice…, vuole così…”. Ma tu ti sei incontrato con il Signore, con quel versetto? Non è un problema solo di memoria: è un problema della memoria del cuore, quella che ti apre per l’incontro con il Signore. E quella parola, quel versetto, di porta all’incontro con il Signore.
Noi, dunque, leggiamo le Scritture perché esse “leggano noi”. Ed è una grazia potersi riconoscere in questo o quel personaggio, in questa o quella situazione. La Bibbia non è scritta per un’umanità generica, ma per noi, per me, per te, per uomini e donne in carne e ossa, uomini e donne che hanno nome e cognome, come me, come te. E la Parola di Dio, impregnata di Spirito Santo, quando è accolta con un cuore aperto, non lascia le cose come prima, mai, cambia qualcosa. E questa è la grazia e la forza della Parola di Dio.
La tradizione cristiana è ricca di esperienze e di riflessioni sulla preghiera con la Sacra Scrittura. In particolare, si è affermato il metodo della “lectio divina”, nato in ambiente monastico, ma ormai praticato anche dai cristiani che frequentano le parrocchie. Si tratta anzitutto di leggere il brano biblico con attenzione, di più, direi con “obbedienza” al testo, per comprendere ciò che significa in sé stesso. Successivamente si entra in dialogo con la Scrittura, così che quelle parole diventino motivo di meditazione e di orazione: sempre rimanendo aderente al testo, comincio a interrogarmi su che cosa “dice a me”. È un passaggio delicato: non bisogna scivolare in interpretazioni soggettivistiche ma inserirsi nel solco vivente della Tradizione, che unisce ciascuno di noi alla Sacra Scrittura. E l’ultimo passo della lectio divina è la contemplazione. Qui le parole e i pensieri lasciano il posto all’amore, come tra innamorati ai quali a volte basta guardarsi in silenzio. Il testo biblico rimane, ma come uno specchio, come un’icona da contemplare. E così si ha il dialogo.
Attraverso la preghiera, la Parola di Dio viene ad abitare in noi e noi abitiamo in essa. La Parola ispira buoni propositi e sostiene l’azione; ci dà forza, ci dà serenità, e anche quando ci mette in crisi ci dà pace. Nelle giornate “storte” e confuse, assicura al cuore un nucleo di fiducia e di amore che lo protegge dagli attacchi del maligno.
Così la Parola di Dio si fa carne – mi permetto di usare questa espressione: si fa carne – in coloro che la accolgono nella preghiera. In qualche testo antico affiora l’intuizione che i cristiani si identificano talmente con la Parola che, se anche bruciassero tutte le Bibbie del mondo, se ne potrebbe ancora salvare il “calco” attraverso l’impronta che ha lasciato nella vita dei santi. È una bella espressione, questa.
La vita cristiana è opera, nello stesso tempo, di obbedienza e di creatività. Un buon cristiano deve essere obbediente, ma deve essere creativo. Obbediente, perché ascolta la Parola di Dio; creativo, perché ha lo Spirito Santo dentro che lo spinge a praticarla, a portarla avanti. Gesù lo dice alla fine di un suo discorso pronunciato in parabole, con questo paragone: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro – il cuore – cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Le Sacre Scritture sono un tesoro inesauribile. Il Signore ci conceda, a tutti noi, di attingervi sempre più, mediante la preghiera. Grazie.

Publié dans : PAPA FRANCESCO CATECHESI | le 28 janvier, 2021 |Pas de Commentaires »

Marco 1, 15

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Publié dans : immagini sacre | le 22 janvier, 2021 |Pas de Commentaires »
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