UDIENZA GENERALE PAPA FRANCESCO – 21 AGOSTO 2019 – «Fra loro tutto era comune» (At 4,32).

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UDIENZA GENERALE PAPA FRANCESCO – 21 AGOSTO 2019 – «Fra loro tutto era comune» (At 4,32).

Aula Paolo VI
Mercoledì, 21 agosto 2019

Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 6. «Fra loro tutto era comune» (At 4,32). La comunione integrale nella comunità dei credenti.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La comunità cristiana nasce dall’effusione sovrabbondante dello Spirito Santo e cresce grazie al fermento della condivisione tra i fratelli e le sorelle in Cristo. C’è un dinamismo di solidarietà che edifica la Chiesa come famiglia di Dio, dove risulta centrale l’esperienza della koinonia. Cosa vuol dire, questa parola strana? E’ una parola greca che vuol dire «mettere in comunione», «mettere in comune», essere come una comunità, non isolati. Questa è l’esperienza della prima comunità cristiana, cioè mettere in comune, «condividere», «comunicare, partecipare», non isolarsi. Nella Chiesa delle origini, questa koinonia, questa comunità rimanda anzitutto alla partecipazione al Corpo e Sangue di Cristo. Per questo, quando facciamo la comunione noi diciamo “ci comunichiamo”, entriamo in comunione con Gesù e da questa comunione con Gesù arriviamo alla comunione con i fratelli e le sorelle. E questa comunione al Corpo e al Sangue di Cristo che si fa nella Santa Messa si traduce in unione fraterna, e quindi anche a quello che è più difficile per noi: mettere in comune i beni e al raccogliere il denaro per la colletta a favore della Chiesa madre di Gerusalemme (cfr Rm 12,13; 2Cor 8–9) e delle altre Chiese. Se voi volete sapere se siete buoni cristiani dovete pregare, cercare di accostarvi alla comunione, al sacramento della riconciliazione. Ma quel segnale che il tuo cuore si è convertito, è quando la conversione arriva alle tasche, quanto tocca il proprio interesse: lì è dove si vede se uno è generoso con gli altri, se uno aiuta i più deboli, i più poveri. Quando la conversione arriva lì, stai sicuro che è una vera conversione. Se rimane soltanto nelle parole non è una buona conversione.
La vita eucaristica, le preghiere, la predicazione degli Apostoli e l’esperienza della comunione (cfr At 2,42) fanno dei credenti una moltitudine di persone che hanno – dice il Libro degli Atti degli Apostoli – hanno «un cuore solo e un’anima sola» e che non considerano loro proprietà quello che possiedono, ma tengono tutto in comune (cfr At 4,32). È un modello di vita così forte, che aiuta noi ad essere generosi e non tirchi. Per questo motivo, «nessuno […] tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano – dice il Libro – possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35). Sempre la Chiesa ha avuto questo gesto dei cristiani che si spogliavano delle cose che avevano in più, delle cose che non erano necessarie per darle a coloro che avevano bisogno. E non solo dei soldi: anche del tempo. Quanti cristiani – voi, per esempio, qui in Italia – quanti cristiani fanno volontariato! Ma questo è bellissimo! E’ comunione, condividere il mio tempo con gli altri, per aiutare coloro che hanno bisogno. E così il volontariato, le opere di carità, le visite ai malati; bisogna sempre condividere con gli altri, e non cercare soltanto il proprio interesse.
La comunità, o koinonia, diventa in tal modo la nuova modalità di relazione tra i discepoli del Signore. I cristiani sperimentano una nuova modalità di essere tra di loro, di comportarsi. Ed è la modalità propria cristiana, a tal punto che i pagani guardavano i cristiani e dicevano: “Guardate come si amano!”. L’amore era la modalità. Ma non amore di parola, non amore finto: amore delle opere, dell’aiutarsi l’un l’altro, l’amore concreto, la concretezza dell’amore. Il vincolo con Cristo instaura un vincolo tra fratelli che confluisce e si esprime anche nella comunione dei beni materiali. Sì, questa modalità dello stare insieme, questo amarsi così arriva fino alle tasche, arriva a spogliarsi anche dell’impedimento del denaro per darlo agli altri, andando contro il proprio interesse. Essere membra del corpo di Cristo rende i credenti corresponsabili gli uni degli altri. Essere credenti in Gesù rende tutti noi corresponsabili gli uni degli altri. “Ma guarda quello, il problema che ha: a me non importa, è cosa sua”. No, fra cristiani non possiamo dire: “Povera persona, ha un problema a casa sua, sta passando questa difficoltà di famiglia”. Ma, io devo pregare, io la prendo con me, non sono indifferente”. Questo è essere cristiano. Per questo i forti sostengono i deboli (cfr Rm 15,1) e nessuno sperimenta l’indigenza che umilia e sfigura la dignità umana, perché loro vivono questa comunità: avere in comune il cuore. Si amano. Questo è il segnale: amore concreto.
Giacomo, Pietro e Giovanni, che sono i tre apostoli come le “colonne” della Chiesa di Gerusalemme, stabiliscono in modo comunionale che Paolo e Barnaba evangelizzino i pagani mentre loro evangelizzeranno i giudei, e chiedono soltanto, a Paolo e Barnaba, qual è la condizione: di non dimenticarsi dei poveri, ricordare i poveri (cfr Gal 2,9-10). Non solo i poveri materiali, ma anche i poveri spirituali, la gente che ha dei problemi e ha bisogno della nostra vicinanza. Un cristiano parte sempre da se stesso, dal proprio cuore, e si avvicina agli altri come Gesù si è avvicinato a noi. Questa è la prima comunità cristiana.
Un esempio concreto di condivisione e comunione dei beni ci giunge dalla testimonianza di Barnaba: egli possiede un campo e lo vende per consegnare il ricavato agli Apostoli (cfr At 4,36-37). Ma accanto al suo esempio positivo ne appare un altro tristemente negativo: Anania e sua moglie Saffira, venduto un terreno, decidono di consegnare solo una parte agli Apostoli e di trattenere l’altra per loro stessi (cfr At 5,1-2). Questo imbroglio interrompe la catena della condivisione gratuita, la condivisione serena, disinteressata e le conseguenze sono tragiche, sono fatali (At 5,5.10). L’apostolo Pietro smaschera la scorrettezza di Anania e di sua moglie e gli dice: «Perché Satana ti ha riempito il cuore, cosicché hai mentito allo Spirito Santo e hai trattenuto una parte del ricavato del campo? […] Non hai mentito agli uomini ma a Dio» (At 5,3-4). Potremmo dire che Anania ha mentito a Dio per via di una coscienza isolata, di una coscienza ipocrita, per via cioè di un’appartenenza ecclesiale “negoziata”, parziale e opportunista. L’ipocrisia è il peggior nemico di questa comunità cristiana, di questo amore cristiano: quel far finta di volersi bene ma cercare soltanto il proprio interesse.
Venire meno alla sincerità della condivisione, infatti, o venire meno alla sincerità dell’amore, significa coltivare l’ipocrisia, allontanarsi dalla verità, diventare egoisti, spegnere il fuoco della comunione e destinarsi al gelo della morte interiore. Chi si comporta così transita nella Chiesa come un turista. Ci sono tanti turisti nella Chiesa che sono sempre di passaggio, ma mai entrano nella Chiesa: è il turismo spirituale che fa credere loro di essere cristiani, mentre sono soltanto turisti delle catacombe. No, non dobbiamo essere turisti nella Chiesa, ma fratelli gli uni degli altri. Una vita impostata solo sul trarre profitto e vantaggio dalle situazioni a scapito degli altri, provoca inevitabilmente la morte interiore. E quante persone si dicono vicine alla Chiesa, amici dei preti, dei vescovi mentre cercano soltanto il proprio interesse. Queste sono le ipocrisie che distruggono la Chiesa!
Il Signore – lo chiedo per tutti noi – riversi su di noi il suo Spirito di tenerezza, che vince ogni ipocrisia e mette in circolo quella verità che nutre la solidarietà cristiana, la quale, lungi dall’essere attività di assistenza sociale, è l’espressione irrinunciabile della natura della Chiesa, madre tenerissima di tutti, specialmente dei più poveri.

Publié dans : PAPA FRANCESCO CATECHESI | le 11 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

Il dubbio di San Tommaso

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Publié dans : immagini sacre | le 8 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

II DOMENICA DI PASQUA (B) – ESSERE VISTI ED ESSERE TOCCATI – ENZO BIANCHI

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II DOMENICA DI PASQUA (B) – ESSERE VISTI ED ESSERE TOCCATI – ENZO BIANCHI

Il vangelo di oggi, ottavo giorno dopo la Pasqua, ci testimonia due manifestazioni del Risorto, una avvenuta la sera dello stesso giorno della scoperta del sepolcro vuoto, l’altra avvenuta il primo giorno della settimana seguente. D’altronde resta difficile separare le due manifestazioni, perché entrambe sono strettamente collegate, anzi la seconda è solo un’appendice della prima.
Sappiamo che, nell’ora della cattura di Gesù al Getsemani, tutti i discepoli fuggirono pieni di paura: temevano di essere coinvolti in quel processo che avrebbe portato Gesù alla condanna e alla morte. Secondo il quarto vangelo, solo Pietro e un altro discepolo avevano tentato di vedere cosa accadeva, seguendo Gesù fino al cortile della casa del sommo sacerdote (cf. Gv 18,15); ma poi anche Pietro, spaventato per essere stato riconosciuto, se n’era andato (cf. Gv 18,16-18.25-27).
Quelli che avevano abbandonato tutto per seguire Gesù (cf. Mc 1,18.20), hanno finito per abbandonare Gesù e fuggire tutti (cf. Mc 14,50). Perché? A causa della paura! La paura è una potenza terribile: quando si impadronisce di noi, ci toglie ogni forza, ogni possibilità di resistenza, ci rende innanzitutto vili, perché ci toglie la responsabilità: nel nostro caso la responsabilità della fede, dell’amore, della speranza. Quei discepoli coinvolti nella vita di Gesù per alcuni anni, che lo avevano seguito e da lui erano stati ammaestrati e fatti crescere come credenti, sopraggiunta l’ora della prova, della “crisi”, hanno paura; e la paura debilita la loro fede, fa dimenticare il loro amore reale per Gesù, annebbia la loro esile speranza.
Essi dunque non rispondono: negano la loro identità, i loro rapporti con Gesù, e dunque stanno in casa al chiuso, “per paura dei giudei” (dià tòn phóbon tôn ioudaíon). Le porte della casa dove avevano celebrato l’ultima cena con Gesù sono chiuse, in attesa che ritorni la calma, la sicurezza, così che possano fare ritorno in Galilea, alle loro case. È il terzo giorno dopo la morte di Gesù ed è quasi sera. Certo, hanno saputo da Maria di Magdala che il sepolcro è vuoto (cf. Gv 20,2); Pietro e l’altro discepolo, recatisi alla tomba, hanno confermato le parole di Maria (cf. Gv 20,10), la quale ha anche testimoniato: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). La situazione resta però di aporia, perché la paura prevale su questo annuncio, che pure conferma le promesse di Gesù: “Vado e tornerò da voi” (Gv 15,28); “Un poco e non mi vedrete più, un poco ancora e mi vedrete … e la vostra tristezza si cambierà in gioia” (Gv 16,16.20).
Regnava dunque la paura quando “Gesù venne, stette in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’”. Ecco la venuta del Gesù vivente perché risorto da morte, la venuta del Kýrios, del Signore. Viene e sta in mezzo a loro, con una presenza che si impone, che raduna, attira, fa comunità! È proprio Gesù? Sì, per questo mostra le mani e il petto. Le mani trafitte per la crocifissione, ma soprattutto quelle sue mani che avevano toccato, accarezzato, consolato i suoi fratelli, da lui chiamati amici (cf. Gv 15,13-15). Le mani che avevano toccato i malati, che avevano spezzato il pane prima di porgerlo loro, che avevano stretto, abbracciato. Che tristezza saper solo contemplare i buchi, le ferite, e non vedere le mani! Eppure i discepoli non solo avevano ascoltato tante volte Gesù, e dunque ne riconoscevano la voce, ma avevano sentito il contatto con lui attraverso le sue mani, lo avevano sentito vicino attraverso le sue mani. Toccare è un’azione che lascia un sigillo su chi è toccato… Poi Gesù mostra il petto ferito dalla lancia nell’ora della morte: il petto sul quale il discepolo amato ha reclinato il capo nell’ultima cena (cf. Gv 13,25; 21,20), è anche il petto che egli ha visto colpito da uno dei soldati e dal quale sono usciti sangue e acqua (cf. Gv 19,33-37). Mani che hanno toccato, accarezzato, amato, che mai hanno colpito qualcuno; petto aperto, ferito, che dice il suo aver dato tutto, anche il cuore…
Il Risorto dice parole brevissime ma straordinarie, che illuminano quella theoría, quello “spettacolo” (Lc 23,48): “Pace a voi!”. Poi fa anche un gesto, respira forte e alita sui discepoli per trasmettere loro il suo respiro, il suo soffio, il suo Spirito: “Ricevetelo!”. In pochi secondi – diremmo noi in modo inadeguato – avviene tutto, accade il necessario ephápax, una volta per tutte. Perché se quel soffio effuso sui discepoli diventa il loro respiro, allora essi hanno lo stesso respiro di Gesù, il quale respirava perdonando i peccati degli uomini e delle donne che incontrava. Quello era il suo respiro che, soffiato su di noi, toglieva la polvere, purificava, cancellava le colpe: Gesù chiede solo che, avendo il suo respiro, anche noi siamo capaci di perdono verso tutti…
E Tommaso? Quella sera non è con gli altri, e nei suoi ragionamenti pensa di dover toccare i buchi delle mani e del costato, per credere, mentre non sa che è Gesù ora a doverlo toccare. Ma quando Gesù viene di nuovo e Tommaso lo vede, vede le sue mani e il suo petto, allora non tocca, non mette il dito per verificare; no, si inginocchia e confessa: “Mio Signore e mio Dio!”, la più alta e la più esplicita confessione di fede in tutti i vangeli. Per la fede non bisogna né vedere né toccare, come pensava Tommaso, ma occorre essere visti da Gesù ed essere toccati dalle sue mani, che sono sempre una carezza, una stretta di mano; e rarissime volte ecco anche un bacio, in cui il suo respiro diventa il nostro. Gesù si rivela “toccandoci”, soprattutto toccandoci con “il suo corpo” e “il suo sangue”.

Publié dans : Tempo liturgico: Pasqua | le 8 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

Pasqua 2021

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Publié dans : immagini sacre | le 4 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – Sabato Santo, 3 aprile 2021

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VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – Sabato Santo, 3 aprile 2021

Basilica di San Pietro – Altare della Cattedra

Le donne pensavano di trovare la salma da ungere, invece hanno trovato una tomba vuota. Erano andate a piangere un morto, invece hanno ascoltato un annuncio di vita. Per questo, dice il Vangelo, quelle donne «erano piene di spavento e di stupore» (Mc 16,8), piene di spavento, timorose e piene di stupore. Stupore: in questo caso è un timore misto a gioia, che sorprende il loro cuore nel vedere la grande pietra del sepolcro rotolata via e dentro un giovane con una veste bianca. È la meraviglia di ascoltare quelle parole: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto» (v. 6). E poi quell’invito: «Egli vi precede in Galilea, là lo vedrete» (v. 7). Accogliamo anche noi questo invito, l’invito di Pasqua: andiamo in Galilea dove il Signore Risorto ci precede. Ma cosa significa “andare in Galilea”?
Andare in Galilea significa, anzitutto, ricominciare. Per i discepoli è ritornare nel luogo dove per la prima volta il Signore li ha cercati e li ha chiamati a seguirlo. È il luogo del primo incontro e il luogo del primo amore. Da quel momento, lasciate le reti, essi hanno seguito Gesù, ascoltando la sua predicazione e assistendo ai prodigi che compiva. Eppure, pur stando sempre con Lui, non lo hanno compreso fino in fondo, spesso hanno frainteso le sue parole e davanti alla croce sono scappati, lasciandolo solo. Malgrado questo fallimento, il Signore Risorto si presenta come Colui che, ancora una volta, li precede in Galilea; li precede, cioè sta davanti a loro. Li chiama e li richiama a seguirlo, senza mai stancarsi. Il Risorto sta dicendo loro: “Ripartiamo da dove abbiamo iniziato. Ricominciamo. Vi voglio nuovamente con me, nonostante e oltre tutti i fallimenti”. In questa Galilea impariamo lo stupore dell’amore infinito del Signore, che traccia sentieri nuovi dentro le strade delle nostre sconfitte. E così è il Signore: traccia sentieri nuovi dentro le strade delle nostre sconfitte. Lui è così e ci invita in Galilea per fare questo.
Ecco il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi: è possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore – ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore – anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova. Egli ci precede sempre: nella croce della sofferenza, della desolazione e della morte, così come nella gloria di una vita che risorge, di una storia che cambia, di una speranza che rinasce. E in questi mesi bui di pandemia sentiamo il Signore risorto che ci invita a ricominciare, a non perdere mai la speranza.
Andare in Galilea, in secondo luogo, significa percorrere vie nuove. È muoversi nella direzione contraria al sepolcro. Le donne cercano Gesù alla tomba, vanno cioè a fare memoria di ciò che hanno vissuto con Lui e che ora è perduto per sempre. Vanno a rimestare la loro tristezza. È l’immagine di una fede che è diventata commemorazione di un fatto bello ma finito, solo da ricordare. Tanti – anche noi – vivono la “fede dei ricordi”, come se Gesù fosse un personaggio del passato, un amico di gioventù ormai lontano, un fatto accaduto tanto tempo fa, quando da bambino frequentavo il catechismo. Una fede fatta di abitudini, di cose del passato, di bei ricordi dell’infanzia, che non mi tocca più, non mi interpella più. Andare in Galilea, invece, significa imparare che la fede, per essere viva, deve rimettersi in strada. Deve ravvivare ogni giorno l’inizio del cammino, lo stupore del primo incontro. E poi affidarsi, senza la presunzione di sapere già tutto, ma con l’umiltà di chi si lascia sorprendere dalle vie di Dio. Noi abbiamo paura delle sorprese di Dio; di solito siamo paurosi che Dio ci sorprenda. E oggi il Signore ci invita a lasciarci sorprendere. Andiamo in Galilea a scoprire che Dio non può essere sistemato tra i ricordi dell’infanzia ma è vivo, sorprende sempre. Risorto, non finisce mai di stupirci.
Ecco il secondo annuncio di Pasqua: la fede non è un repertorio del passato, Gesù non è un personaggio superato. Egli è vivo, qui e ora. Cammina con te ogni giorno, nella situazione che stai vivendo, nella prova che stai attraversando, nei sogni che ti porti dentro. Apre vie nuove dove ti sembra che non ci siano, ti spinge ad andare controcorrente rispetto al rimpianto e al “già visto”. Anche se tutto ti sembra perduto, per favore apriti con stupore alla sua novità: ti sorprenderà.
Andare in Galilea significa, inoltre, andare ai confini. Perché la Galilea è il luogo più distante: in quella regione composita e variegata abitano quanti sono più lontani dalla purezza rituale di Gerusalemme. Eppure Gesù ha iniziato da lì la sua missione, rivolgendo l’annuncio a chi porta avanti con fatica la vita quotidiana, rivolgendo l’annuncio agli esclusi, ai fragili, ai poveri, per essere volto e presenza di Dio, che va a cercare senza stancarsi chi è scoraggiato o perduto, che si muove fino ai confini dell’esistenza perché ai suoi occhi nessuno è ultimo, nessuno escluso. Lì il Risorto chiede ai suoi di andare, anche oggi ci chiede di andare in Galilea, in questa “Galilea” reale. È il luogo della vita quotidiana, sono le strade che percorriamo ogni giorno, sono gli angoli delle nostre città in cui il Signore ci precede e si rende presente, proprio nella vita di chi ci passa accanto e condivide con noi il tempo, la casa, il lavoro, le fatiche e le speranze. In Galilea impariamo che possiamo trovare il Risorto nel volto dei fratelli, nell’entusiasmo di chi sogna e nella rassegnazione di chi è scoraggiato, nei sorrisi di chi gioisce e nelle lacrime di chi soffre, soprattutto nei poveri e in chi è messo ai margini. Ci stupiremo di come la grandezza di Dio si svela nella piccolezza, di come la sua bellezza splende nei semplici e nei poveri.
Ecco, allora, il terzo annuncio di Pasqua: Gesù, il Risorto, ci ama senza confini e visita ogni nostra situazione di vita. Egli ha piantato la sua presenza nel cuore del mondo e invita anche noi a superare le barriere, vincere i pregiudizi, avvicinare chi ci sta accanto ogni giorno, per riscoprire la grazia della quotidianità. Riconosciamolo presente nelle nostre Galilee, nella vita di tutti i giorni. Con Lui, la vita cambierà. Perché oltre tutte le sconfitte, il male e la violenza, oltre ogni sofferenza e oltre la morte, il Risorto vive e il Risorto conduce la storia.
Sorella, fratello se in questa notte porti nel cuore un’ora buia, un giorno che non è ancora spuntato, una luce sepolta, un sogno infranto, vai, apri il cuore con stupore all’annuncio della Pasqua: “Non avere paura, è risorto! Ti attende in Galilea”. Le tue attese non resteranno incompiute, le tue lacrime saranno asciugate, le tue paure saranno vinte dalla speranza. Perché, sai, il Signore ti precede sempre, cammina sempre davanti a te. E, con Lui, sempre la vita ricomincia.

Publié dans : PASQUA 2021 | le 4 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

Venerdì Santo

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Publié dans : immagini sacre | le 2 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

VENERDÌ SANTO: IL SILENZIO DI DIO

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VENERDÌ SANTO: IL SILENZIO DI DIO

don Fulvio Bertellini

Il silenzio di Gesù è uno degli aspetti più caratteristici della Passione. A partire dall’arresto, Gesù resta quasi prevalentemente passivo, con pochissime risposte, spesso quasi più enigmatiche del silenzio. Il tacere di Gesù sembra essere innanzitutto protesta: protesta contro una accusa, un arresto assolutamente ingiusto; e quindi diventa anche denuncia, mette in evidenza la malafede di chi lo arresta, lo accusa, lo tortura, lo uccide. Ma soprattutto il silenzio di Gesù è un paradossale gesto di amore. Di fronte alla crudeltà efferata e convinta, l’unica reazione possibile sembrerebbe la ritorsione violenta. Gesù la rifiuta, e rimprovera il discepolo che sfodera la spada e colpisce: « Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato? ». Il silenzio è quindi farsi carico del peccato altrui, ed è offerta incondizionata di perdono. Entriamo così nell’aspetto più misterioso del silenzio di Gesù: egli tace, perché parlano i gesti. Ciò che Gesù fa nella Passione rivela il volto del Padre, un volto che è amore, generosità, mettersi a disposizione. Qui ci accorgiamo quanto siano povere le nostre parole se tentano di tradurre ciò che Gesù ha fatto; l’autore della lettera agli Ebrei (II lettura) parla di Gesù che « sa com-patire le nostre infermità, essendo stato egli stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato ».
La manifestazione massima dell’amore di Dio è quindi la sua disponibilità a condividere, nel Figlio, la sofferenza dell’uomo. Ma perché condividerla, e non semplicemente toglierla? E’ la domanda che ci poniamo di fronte ad ogni persona che soffre. Nei Vangeli, vediamo Gesù che spesso interviene per togliere la sofferenza, guarendo i malati, addirittura risuscitando i morti; ma al momento decisivo la prende su di sé, e non si vede un miracolo immediato ed eclatante. E anche dopo la sua risurrezione, i suoi discepoli e la sua comunità si devono scontrare con il problema della sofferenza, della malattia intollerabile, oltre che con la ferocia degli uomini. La contemplazione del crocifisso nel Venerdì Santo dovrebbe suscitare questa domanda, senza necessariamente darle subito una risposta. La liturgia ci accompagna, sollecitando la nostra partecipazione al gesto di Gesù, non spiegandocelo fino in fondo. La spiegazione, se di spiegazione si può parlare, avviene solo il Sabato Santo.

Publié dans : PASQUA 2021 | le 2 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

Messa in Coena Domini

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Publié dans : immagini sacre | le 31 mars, 2021 |Pas de Commentaires »

ENZO BIANCHI – MEDITAZIONE PER GIOVEDÌ SANTO

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ENZO BIANCHI – MEDITAZIONE PER GIOVEDÌ SANTO

OMELIA IN COENA DOMINI
Con questa liturgia noi tentiamo, possiamo solo tentare, di entrare nel mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza che riviviamo in questi tre giorni santi della passione, morte e resurrezione del Signore.

È soprattutto l’ascolto della Parola che ci permette di partecipare a questo mistero: ciò che abbiamo ascoltato come Legge nel libro dell’Esodo (Es 12,1-14), la memoria eucaristica che fa Paolo ai cristiani di Corinto (1Cor 11,23-32) e il vangelo della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15) ci narrano alcuni aspetti della Pasqua del Signore, e noi nella nostra povertà di anno in anno cerchiamo di scrutarli, di conoscerli un po’ di più, per poter passare dalla conoscenza all’amore del Signore, dalla conoscenza al realizzare quotidianamente ciò che ci viene rivelato.
Il mistero pasquale mi appare sempre di più inesauribile, e sempre di più ho coscienza della mia inadeguatezza alla ricezione e alla trasmissione di questa parola del Signore. Però, convinto come sono che ciò che deve essere fatto, deve essere fatto e fatto bene – questa è l’unica convinzione che mi accompagnerà fino alla morte –, ancora una volta questa sera cerco di spezzare la Parola in mezzo a voi. E guardando, in un esercizio di discernimento, a ciò che è più urgente soprattutto per la nostra comunità, sosto quest’anno sulla seconda lettura, sul passo di Paolo riguardante l’istituzione dell’eucaristia da parte di Gesù. Mi fermo solo su alcune parole, senza la pretesa di commentare l’intero brano. Ma sono precisazioni, quelle che ci vengono date dal messaggio di Paolo, urgenti e decisive per la vita cristiana di ognuno di noi e di ogni comunità.
* * *
Innanzitutto l’Apostolo ricorda ai cristiani che quell’azione che essi compiono al cuore delle loro comunità, in particolare nel giorno del Signore, è un’azione che lui ha ricevuto direttamente dal Signore, e che lui ha trasmesso a loro, cristiani di Corinto, annunciando la buona notizia del Vangelo. Paolo ha ricevuto un’azione, un gesto, delle parole che vengono dal Signore stesso! L’eucaristia non è qualcosa che la chiesa si è data o che qualcuno ha normato: è semplicemente un’azione ricevuta dal Signore e che sempre deve essere trasmessa ai credenti in lui nella pienezza del mistero che contiene.
Ecco perché Paolo innanzitutto precisa: “Nella notte in cui Gesù fu tradito, consegnato”, dunque nella notte del tradimento, nella notte del non riconoscimento, nella notte dell’abbandono da parte di tutti i discepoli. Se c’è un’ora di negazione dei legami nella comunità del Signore, è proprio quella: e proprio in quella situazione Gesù consegna il gesto e le parole eucaristiche. Questo è già un messaggio di per sé: “la notte in cui fu tradito”, e significativamente la chiesa nella liturgia occidentale ce lo fa ripetere in tutte le preghiere eucaristiche. “La notte in cui fu tradito”, e si potrebbe dire: “la notte in cui fu abbandonato”, “la notte in cui fu rinnegato da Pietro”. Questo è davvero il contesto in cui Gesù fa il dono dell’eucaristia, fa il dono – lo vedremo – dell’alleanza, ma proprio quando l’alleanza è esistenzialmente rotta, infranta da parte di tutti quelli che appartenevano alla comunità del Signore. In quella notte Gesù consegna gesto e parole: questa è l’eucaristia, il memoriale essenziale alla vita di ogni chiesa. Nella notte in cui è smentita l’alleanza, Gesù celebra la sua alleanza con i suoi. Dovremmo accogliere in tutta la sua verità scandalosa questo contesto del dono dell’eucaristia, avvenuto quella notte non perché era l’ultima notte prima dell’arresto, ma perché era la notte in cui Gesù subiva esattamente ciò di cui noi siamo capaci come uomini: tradire, rinnegare, abbandonare.
Da tutti i vangeli appare con chiarezza che Gesù vuole fare una cena, un pasto di alleanza con i suoi discepoli. Ha voluto, ha progettato questo pasto, ha mandato addirittura dei discepoli perché lo preparassero, e quando è venuta l’ora ha dichiarato: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa cena con voi” (cf. Lc 22,14). Significativamente il quarto vangelo non sta neanche a dirci se quella era una cena pasquale, come precisano i sinottici: ciò che è importante, secondo Giovanni, è che si tratta di una cena di alleanza. Se guardiamo ciò che veramente fonda quella sera, non è tanto la Pasqua in sé, quanto l’alleanza. Per questo tutto quel pasto viene riassunto nel rito del pane e nel rito del vino, in un parallelismo che genera un grande significato. Pane e vino, elementi essenziali del pasto giudaico, in questa cena assumono un significato che trascende la loro materialità: Gesù ha voluto quel pasto non solo per mangiare e per bere, sempre in un contesto di preghiera e di liturgia, ma ha voluto soprattutto, attraverso quel pane e quel vino, celebrare l’alleanza.
Per questo Paolo ricorda che “Gesù prese il pane, rese grazie (eucharistésas) e lo spezzò (éklasen)”: Gesù rende grazie, cioè dice una parola di benedizione a Dio, e nella lode, nella benedizione, nel ringraziamento a Dio spezza il pane. Qui è l’essenziale, ed è qualcosa dell’eucaristia che noi non meditiamo abbastanza, forse anche perché nelle nostre eucaristie lo spezzare il pane non riceve nessun significato da parte di chi le celebra. E invece lo spezzare il pane è importante, è essenziale. Gesù prende il pane nelle mani, cioè un pane che lui riceve e accoglie da Dio; riconosce che è un dono che viene da Dio; poi lo spezza, lo divide, lo condivide. Ecco la frazione del pane.
Il pasto è un’azione dell’uomo – certamente soltanto gli uomini sanno farlo, non così gli animali – ma in quel pasto il credente riceve, ringrazia e condivide. Il pane lo si riceve per condividerlo, per “romperlo”, perché sia distribuito a tutti quelli che stanno attorno alla tavola, in modo che tutti condividano lo stesso pane. Così Gesù costituisce la comunità della tavola, di quelli che partecipano allo stesso pane, che dunque sono partecipi alla comunione, sono koinonoí e formano una koinonía, una comunione (questo è il linguaggio di Paolo). La tavola eucaristica di Gesù non è definita dall’essere giusti o ingiusti: non ce n’erano quella sera, a quel pasto eucaristico, di persone degne. Ma Gesù proprio in quel contesto ha dato il pane dicendo: “È il mio corpo per voi”. Mangiando di questo pane, nutrendosi tutti dello stesso cibo, si vive la stessa vita che è la vita di Gesù, quella di cui il suo corpo era la manifestazione più reale possibile. Tutto questo fino a essere un solo corpo, il corpo di Cristo, il corpo di cui Cristo è il capo e di cui noi siamo le membra, indegni ma membra. Questo è il dinamismo eucaristico reale e profondo, di fronte al quale le nostre preoccupazioni sulla presenza reale non solo sono inadeguate, ma sono svianti e soprattutto poco intelligenti.
Proprio ripetendo questo gesto e queste parole, come gesto e parole di Gesù, da quella sera del tradimento fino al giorno del suo ritorno nella gloria, entriamo in questa dinamica spirituale in cui diventiamo corpo di Cristo e il Cristo diventa la vita in noi. L’eucaristia è questo, non è altro! È essere alla tavola del Signore, nella quale lui spezza il suo corpo, cioè ci dà la sua vita. Non possiamo dimenticare che quella sera Gesù ha spezzato il pane per dodici apostoli che lo abbandonavano, lo rinnegavano, lo tradivano; come durante la sua vita aveva spezzato il pane con gli amici a Betania; come aveva spezzato il pane mangiando a casa dei peccatori; come aveva spezzato il pane con le folle che andavano da lui e capivano poco di ciò che lui diceva e faceva. La verità è che Gesù ha spezzato il pane con ogni sorta di commensali, tutti peccatori!
Ma Paolo, dopo aver fatto memoria di questo primo rito eucaristico, in cui l’eucaristia è una comunione in Cristo di uomini chiamati dal peccato, dalla condizione di peccatori, ci ricorda in parallelo il secondo rito: “Allo stesso modo … prese il calice, dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me’”. Le parole sul calice approfondiscono ancor di più la vita comunitaria, la koinonía, indicata soprattutto dal pane spezzato, perché precisano che questa vita è vita nell’alleanza. Ciò che la tradizione di Gerusalemme, secondo Marco e Matteo, attesta: “Questo è il mio sangue dell’alleanza” (Mc 14,23; Mt 26,27), è detto in modo chiaro dalla tradizione antiochena seguita da Luca (Lc 22,25) e da Paolo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. Ecco il termine qualificativo: “nuova alleanza”. L’alleanza tra Dio e Israele era stata rotta – “Questa alleanza, la mia alleanza, voi l’avete infranta!” (cf. Ger 31,2) –, e per questo Dio ne aveva promessa una nuova (cf. Ger 31,31), che proprio Gesù inaugura: quel calice che Gesù ha tra le mani è la nuova alleanza nel suo sangue. Ormai per entrare nell’alleanza con Dio occorre fare parte dell’alleanza nuova, nel senso di ultima e definitiva, l’alleanza siglata nel sangue di Gesù. Quel calice, grazie alla parola efficace di Gesù, contiene il suo sangue, e quel sangue è la nuova alleanza, o – se si vuole – quella vita di Gesù è la nuova alleanza. Perché se il Servo aveva ricevuto come missione di essere “alleanza per tutte le genti” (cf. Is 42,6), Gesù ha come missione di essere lui stesso l’alleanza nuova e definitiva, per sempre, che non potrà mai essere infranta, alleanza eterna. E così con questo secondo segno e con queste parole vediamo che quella che era una koinonía è anche un’alleanza.
Potremmo dire, parafrasando il commento di Paolo alle parole sul pane: “Poiché c’è un solo calice, noi comunichiamo all’unica vita che è Gesù Cristo, perché beviamo a un unico calice”. Il sangue è la vita, e Gesù l’ha spesa in un sacrificio esistenziale, non un sacrificio rituale come quelli che avvenivano al tempio: non c’è rito nel sacrificio di Gesù, ma c’è piuttosto l’offerta della sua vita, di tutta la sua esistenza, a Dio e ai fratelli. Guai se noi vedessimo nel calice solo il sangue della passione del Signore, solo l’atto puntuale della sua morte: il sangue è tutta la vita di Gesù, tutta la sua vita umana che è stata un sacrificio esistenziale, una vita di servizio, di cura, di “amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1) dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Gesù è vissuto così, leggiamo un po’ meglio i vangeli: non si è preoccupato molto del nostro peccato, si è preoccupato della sofferenza che trovava tra noi. Questa è la verità di Gesù Cristo, che dovremmo ricordare proprio noi che tante volte parliamo a nome suo e siamo capaci di vedere più il peccato che la sofferenza degli uomini. Non dimentichiamo come la Lettera agli Ebrei ha riletto il sacrificio di Cristo, in un’ottica davvero cristiana: “Venendo nel mondo”, cioè facendosi uomo, “Gesù dice” a Dio, quasi pregando: “‘Non hai voluto né sacrifici né offerte rituali, … non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato, perché non ti piacevano ed erano inefficaci. Allora ho detto: Ecco, io vengo … per fare, o Dio, la tua volontà’” (cf. Eb 10,5-7; Sal 40,7-9).
È questo il sacrificio esistenziale di Gesù: tutta la sua vita, significata dal sangue che è la vita di ogni uomo, è stata donata pienamente, totalmente a Dio e agli uomini. Dunque la koinonía, che ci viene ricordata dallo spezzare il pane, nel segno del calice appare alleanza nuova e definitiva, “alleanza eterna” – dirà ancora la Lettera agli Ebrei (Eb 13,20) –, che non viene mai meno. Paolo non precisa che questo sangue dell’alleanza è “versato per la remissione dei peccati” (Mt 26,27), “versato per le moltitudini” (Mc 14,24), “versato per voi” (Lc 22,20), ma ciò è sottinteso, perché dove c’è alleanza non c’è più peccato, i peccati vengono rimessi ed è instaurata una comunione con Dio più forte della separazione del peccato.
L’eucaristia è dunque questa comunione in alleanza nella quale ciascuno di noi resta con la propria responsabilità. Il Signore l’ha a offerta a tutti: a Giuda che lo tradiva, a Pietro che lo rinnegava, a quei discepoli insipienti e senza nessuna coraggiosa convinzione. Erano quelli gli invitati di Gesù, come siamo noi questa sera. Ognuno di noi può chiedersi se non è Giuda, se non è Pietro, se non è uno dei discepoli che hanno abbandonato Gesù. Ciò che ci chiede Paolo è di “riconoscere il corpo di Cristo”: solo se si riconosce il corpo e il sangue di Cristo, cioè la sua vita, non si ha la condanna; e solo chi non riconosce la vita di Cristo “mangia e beve la propria condanna”, perché non vede il dono che Dio gli fa.

Publié dans : PASQUA 2021 | le 31 mars, 2021 |Pas de Commentaires »

Gesù tentato da Satana

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