PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 11 NOVEMBRE 2020 – CATECHESI SULLA PREGHIERA – 14. LA PREGHIERA PERSEVERANTE

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 11 NOVEMBRE 2020 – CATECHESI SULLA PREGHIERA – 14. LA PREGHIERA PERSEVERANTE

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo le catechesi sulla preghiera. Qualcuno mi ha detto: “Lei parla troppo sulla preghiera. Non è necessario”. Sì, è necessario. Perché se noi non preghiamo, non avremo la forza per andare avanti nella vita. La preghiera è come l’ossigeno della vita. La preghiera è attirare su di noi la presenza dello Spirito Santo che ci porta sempre avanti. Per questo, io parlo tanto sulla preghiera.
Gesù ha dato esempio di una preghiera continua, praticata con perseveranza. Il dialogo costante con il Padre, nel silenzio e nel raccoglimento, è il fulcro di tutta la sua missione. I Vangeli ci riportano anche le sue esortazioni ai discepoli, perché preghino con insistenza, senza stancarsi. Il Catechismo ricorda le tre parabole contenute nel Vangelo di Luca che sottolineano questa caratteristica dell’orazione (cfr CCC, 2613) di Gesù.
La preghiera dev’essere anzitutto tenace: come il personaggio della parabola che, dovendo accogliere un ospite arrivato all’improvviso, in piena notte va a bussare da un amico e gli chiede del pane. L’amico risponde “no!”, perché è già a letto, ma lui insiste e insiste finché non lo costringe ad alzarsi e a dargli il pane (cfr Lc 11,5-8). Una richiesta tenace. Ma Dio è più paziente di noi, e chi bussa con fede e perseveranza alla porta del suo cuore non rimane deluso. Dio sempre risponde. Sempre. Il nostro Padre sa bene di cosa abbiamo bisogno; l’insistenza non serve a informarlo o a convincerlo, ma serve ad alimentare in noi il desiderio e l’attesa.
La seconda parabola è quella della vedova che si rivolge al giudice perché l’aiuti a ottenere giustizia. Questo giudice è corrotto, è un uomo senza scrupoli, ma alla fine, esasperato dall’insistenza della vedova, si decide ad accontentarla (cfr Lc 18,1-8). E pensa: “Ma, è meglio che le risolva il problema e me la tolgo di dosso, e non che continuamente venga a lamentarsi davanti a me”. Questa parabola ci fa capire che la fede non è lo slancio di un momento, ma una disposizione coraggiosa a invocare Dio, anche a “discutere” con Lui, senza rassegnarsi davanti al male e all’ingiustizia.
La terza parabola presenta un fariseo e un pubblicano che vanno al Tempio a pregare. Il primo si rivolge a Dio vantandosi dei suoi meriti; l’altro si sente indegno anche solo di entrare nel santuario. Dio però non ascolta la preghiera del primo, cioè dei superbi, mentre esaudisce quella degli umili (cfr Lc 18,9-14). Non c’è vera preghiera senza spirito di umiltà. È proprio l’umiltà che ci porta a chiedere nella preghiera.
L’insegnamento del Vangelo è chiaro: si deve pregare sempre, anche quando tutto sembra vano, quando Dio ci appare sordo e muto e ci pare di perdere tempo. Anche se il cielo si offusca, il cristiano non smette di pregare. La sua orazione va di pari passo con la fede. E la fede, in tanti giorni della nostra vita, può sembrare un’illusione, una fatica sterile. Ci sono dei momenti bui, nella nostra vita e in quei momenti la fede sembra un’illusione. Ma praticare la preghiera significa anche accettare questa fatica. “Padre, io vado a pregare e non sento nulla … mi sento così, con il cuore asciutto, con il cuore arido”. Ma dobbiamo andare avanti, con questa fatica dei momenti brutti, dei momenti che non sentiamo nulla. Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti.
In queste notti della fede, chi prega non è mai solo. Gesù infatti non è solo testimone e maestro di preghiera, è di più. Egli ci accoglie nella sua preghiera, perché noi possiamo pregare in Lui e attraverso di Lui. E questo è opera dello Spirito Santo. È per questa ragione che il Vangelo ci invita a pregare il Padre nel nome di Gesù. San Giovanni riporta queste parole del Signore: «Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio» (14,13). E il Catechismo spiega che «la certezza di essere esauditi nelle nostre suppliche è fondata sulla preghiera di Gesù» (n. 2614). Essa dona le ali che la preghiera dell’uomo ha sempre desiderato di possedere.
Come non ricordare qui le parole del salmo 91, cariche di fiducia, sgorgate da un cuore che spera tutto da Dio: «Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno» (vv. 4-6). È in Cristo che si compie questa stupenda preghiera, è in Lui che essa trova la sua piena verità. Senza Gesù, le nostre preghiere rischierebbero di ridursi a degli sforzi umani, destinati il più delle volte al fallimento. Ma Lui ha preso su di sé ogni grido, ogni gemito, ogni giubilo, ogni supplica… ogni preghiera umana. E non dimentichiamo lo Spirito Santo che prega in noi; è Colui che ci porta a pregare, ci porta da Gesù. È il dono che il Padre e il Figlio ci hanno dato per procedere all’incontro di Dio. E lo Spirito Santo, quando noi preghiamo, è lo Spirito Santo che prega nei nostri cuori.
Cristo è tutto per noi, anche nella nostra vita di preghiera. Lo diceva Sant’Agostino con un’espressione illuminante, che troviamo anche nel Catechismo: Gesù «prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque, in Lui la nostra voce, e in noi la sua voce» (n. 2616). Ed è per questo che il cristiano che prega non teme nulla, si affida allo Spirito Santo, che è stato dato a noi come dono e che prega in noi, suscitando la preghiera. Che sia lo stesso Spirito Santo, Maestro di orazione, a insegnarci la strada della preghiera.

 

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Le vergini sagge e le vergini stolte

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Publié dans : immagini sacre | le 6 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) VEGLIATE, VIGILATE! ENZO BIANCHI

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XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) VEGLIATE, VIGILATE! ENZO BIANCHI

A conclusione dell’anno liturgico, in questa e nelle prossime due domeniche la chiesa ci propone la lettura di Mt 25, la seconda parte del grande discorso escatologico, cioè sulla fine dei tempi, fatto da Gesù nei capitoli 24-25. Matteo leggeva in Marco queste parole di Gesù:
Fate attenzione, vegliate (agrypneîte, vigilate), perché non sapete quando è il momento … Vegliate (gregoreîte, vigilate) dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino … Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate (gregoreîte, vigilate)! (Mc 13,33.35.37).
A partire da tale monito, Matteo ha ricordato e collocato a questo punto tre parabole del Signore su cosa significa vigilare (cf. Mt 24,45-25,30) seguite dal grande affresco sul giudizio finale (cf. Mt 25,31-46). Visto il ritardo della parusia, della venuta gloriosa di Cristo – almeno ai nostri occhi, se è vero che “davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” (2Pt 3,8) –, come vivere il nostro qui e ora?
Il nostro testo va inoltre collocato almeno all’interno di ciò che Gesù, seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio (cf. Mt 24,3), ha appena detto ai discepoli: “Vegliate (gregoreîte, vigilate), perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe (egregóresen, vigilaret) e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,42-44). Un’affermazione analoga si ripete anche alla fine del nostro brano, creando un’inclusione: “Vegliate (gregoreîte, vigilate) dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13). Più in generale, tale monito avvolge le tre parabole seguenti, che dipingono uno scenario in bianco e nero, con due vie opposte tra le quali scegliere:
Mt 24,45-51: il servo che può essere fedele e prudente/saggio oppure malvagio;
Mt 25,1-13: cinque vergini stolte e cinque prudenti/sagge. Ovvero: cos’è la prudenza/saggezza?
Mt 25,14-30: due servi fedeli che fanno fruttare i talenti ricevuti, uno malvagio che lo seppellisce. Ovvero: cos’è la fedeltà?
La nostra parabola ritrae le usanze matrimoniali palestinesi: il giorno precedente le nozze, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici a casa della fidanzata, che lo attendeva insieme ad alcune amiche. Ma se facciamo attenzione, il nostro racconto presenta molti tratti strani: la sposa non c’è; lo sposo arriva a mezzanotte; si chiede di comprare olio in piena notte; la conclusione è fuori luogo, quasi tragica… In breve, il punto è un altro. Questa parabola è costruita ad arte da Matteo, a partire dal ricordo di parole di Gesù, per descrivere la prolungata attesa della venuta gloriosa del Signore Gesù: è lui, il Messia, “lo Sposo che tarda”, e il vero problema è come comportarsi in questa attesa! Come vigilare?
“Il regno dei cieli sarà simile…”: con questo frase tipica di Gesù siamo subito condotti nel vivo del racconto. Ci sono dieci vergini che si muniscono delle loro lampade per “uscire incontro allo sposo”. Quest’ultimo particolare è espresso in greco con una formula tecnica per indicare l’accoglienza del re nella sua parusia, nella visita ufficiale a una città. Ecco la vera posta in gioco: l’accoglienza di quel re del tutto singolare che è Gesù Cristo, lui che viene ad aprirci il regno dei cieli. L’evangelista precisa subito l’essenziale: cinque di queste vergini sono stolte, cinque prudenti/sagge. In cosa consiste la differenza? Nel prepararsi o meno all’incontro con il Signore, prendendo con sé l’olio. Questa netta contrapposizione può essere illuminata attraverso ciò che Gesù dice al termine del “discorso della montagna”:
Chi ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chi ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande (Mt 7,24-27).
È saggio chi ascolta la Parola e la mette in pratica; è stolto chi ascolta e non fa. L’ascolto è comune allo stolto e al saggio: ciò che li differenzia è la pratica, punto e basta.
“Poiché lo Sposo tardava…”: ecco il particolare decisivo della parabola. Il problema è il ritardo della venuta finale di Gesù, un vero e proprio trauma per le prime generazioni cristiane. E noi attendiamo ancora il Veniente oppure – come affermava Ignazio Silone – abbiamo per la sua venuta lo stesso entusiasmo di quelli che aspettano l’autobus alla fermata? “… si assopirono tutte e si addormentarono”. Paradosso: si sta parlando di vegliare, e tutte dormono! Dunque, che tipo di vigilanza è quella a cui Gesù vuole esortarci? Dove sta la differenza tra le stolte e le sagge, se tutte si addormentano?
Prima di tentare una risposta, lasciamoci colpire dalla voce che squarcia la notte: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!”. Grido che giunge improvviso a mezzanotte, l’ora più inattesa, in cui il Signore viene e ci sorprende come un ladro nella notte, afferma a più riprese il Nuovo Testamento (cf. Mt 24,43; 1Ts 5,2-4; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). All’udire questa voce potente, tutte le vergini, come si erano addormentate, così si destano, “risorgono” (verbo egheíro). Ma ecco che finalmente si manifesta la differenza. Le cinque stolte non hanno olio, dunque sono costrette a chiederne un po’ alle altre cinque. Si sentono però rispondere: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto a comprarvene”.
Risposta dettata dall’egoismo? No, è un modo, seppur brusco, per dire che nel giudizio finale ognuno deve rispondere per sé: non si può avere in extremis l’olio necessario, l’incontro con il Signore va preparato prima. Quest’olio o lo si ha in sé oppure nessuno può pretenderlo dagli altri: è l’olio del desiderio dell’incontro con il Signore. Certo, i padri testimoniano molti altri modi di intendere quest’olio: la carità, la compassione, le azioni giuste che danno carne alla fede, ecc. Ma credo non si debba insistere troppo su un singolo elemento, finendo per perdere di vista l’insieme, cioè l’essenziale: è nella capacità di tenere vivo oggi il desiderio dell’incontro con il Signore che si gioca il giudizio finale, ossia l’essere o meno riconosciuti dal Signore quando verrà alla fine dei tempi. Questo desiderio lo manifestiamo nella nostra vita quotidiana – come Gesù dice nell’affresco di Mt 25,31-46 –; lo manifestiamo in questo tempo di attesa, nella consapevolezza che la vita è lunga e non basta essere uomini e donne “di un momento” (Mc 4,17; cf. Mt 13,21), per darle senso!
Ma finalmente giunge lo Sposo, ed entrano con lui nella sala di nozze solo le cinque vergini sagge, definite con un altro aggettivo: il “come”, lo stile della loro saggezza consiste nell’essere “pronte”, preparate, senza bisogno di alcuna dilazione. Allora “la porta fu chiusa”, un particolare icastico, che dice in pochissime parole una verità nettissima, anche se scomoda: dentro o fuori, non vi è una terza possibilità!
“Alla fine” – espressione cara a Matteo (cf. Mt 4,2; 21,29.32.37; 22,27; 26,60) – giungono le altre cinque vergini, di ritorno dall’acquisto dell’olio, e cominciano a invocare: “Signore, Signore, aprici!”. Egli però risponde risolutamente: “Amen, io vi dico: non vi conosco”, formula tecnica con cui all’interno di una scuola rabbinica il maestro ripudia il suo discepolo. Non è forse una risposta troppo dura? Per le nozze sì, nell’ambito del giudizio no: essa ci ricorda che l’incontro con il Signore è al tempo stesso festa e giudizio. Nell’ultimo giorno, al momento di dare inizio al banchetto del Regno, il Signore Gesù non potrà non mettere in luce la verità della nostra vita, mediante quel giudizio che noi confessiamo nel “Credo” (“di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”), giudizio assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso.
Tale verità è mirabilmente espressa da Gesù in un altro brano del “discorso della montagna”, che precede quello citato sopra:
Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’ingiustizia!” (Mt 7,21-23).
Qui il discernimento di Gesù è sottile e smaschera una forma di ipocrisia tipicamente “religiosa”: si può presumere di compiere prodigi nel nome di Cristo e invece ingannarsi miseramente; ossia, non fare la volontà del Padre, che è anche la sua volontà. Non è sufficiente neppure compiere gesti carismatici o eclatanti, perché queste opere possono trasformarsi in idoli seducenti in quanto creati dalle nostre mani, in azioni che danno gloria a chi le fa. No, ciò che il Padre vuole è la misericordia, come Gesù ha affermato citando il profeta Osea: “Misericordia io voglio, non sacrificio” (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7). È un annuncio della misericordia di Dio che deve trasparire dalla nostra prassi in mezzo agli altri uomini e donne, ed è solo su questo che saremo giudicati nell’ultimo giorno. Allora sarà rivelato chi ha veramente aderito al Signore e chi, pur fingendo di agire in suo nome, è stato un operatore d’ingiustizia… Insomma, non c’è solo la discrepanza tra dire e fare; c’è anche quella tra un fare egoistico, autoreferenziale, e un fare ispirato dalla volontà di Dio, da quella misericordia che è la “giustizia superiore” (cf. Mt 5,20) rivelata da Gesù. In questo “fare differente” consiste l’essere pronti per andare incontro allo Sposo veniente.
Infine, Gesù conclude: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”. La vigilanza è la matrice di ogni virtù umana e cristiana, è il sale di tutto l’agire, è la luce del pensare, ascoltare e parlare di ogni umano. Non si può non ricordare, al riguardo, l’acuta comprensione del grande Basilio, a conclusione delle sue Regole morali:
“Che cosa è specifico del cristiano?”. “Vigilare ogni giorno e ogni ora ed essere pronti nel compiere pienamente la volontà di Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene (cf. Mt 24,44; Lc 12,40)” (80,22).
E l’Apostolo Paolo, in quello che è il più antico scritto del Nuovo Testamento, così ammonisce i cristiani di Tessalonica:
Voi, fratelli, non siete nella tenebra, sicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alla tenebra. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri (1Ts 5,4-6).
Vegliare, vigilare, è andare incontro al Signore con le lampade del desiderio accese; è essere saggi, cioè pronti a vivere il tempo lungo dell’attesa con l’aiuto dell’olio dell’intelligenza. E ciò tenendo presente – come Gesù rivela con realismo – la possibilità di addormentarci, ovvero di dimenticare, di rimuovere l’orizzonte della venuta del Signore. Come fare fronte a questa che è più di una possibilità? Lottando ogni giorno per non lasciare appesantire le nostre vite dalla routine, dalla ripetitività del quotidiano, che è pur sempre l’oggi di Dio, l‘unica porta d’accesso nel mondo alla venuta finale del Signore: “Beati quei servi che il Signore alla sua venuta troverà vigilanti!” (Lc 12,37).

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Publié dans : OMELIE PREDICH, DISCORSI E...♥♥♥ | le 6 novembre, 2020 |Pas de Commentaires »

Festa di tutti i Santi

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Publié dans : immagini sacre | le 31 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »

1 NOVEMBRE, FESTA DI TUTTI I SANTI – LE BEATITUDINI, PROMESSA E PROGRAMMA – ENZO BIANCHI

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1 NOVEMBRE, FESTA DI TUTTI I SANTI – LE BEATITUDINI, PROMESSA E PROGRAMMA – ENZO BIANCHI

Celebriamo oggi una festa che riguarda soprattutto noi cristiani, discepoli di Gesù Cristo, ma non solo. Sia che siamo ancora viventi, sulla terra, sia che siamo passati attraverso l’esodo della morte e siamo dunque “in cielo”, nel regno di Dio, tutti noi siamo partecipi della beatitudine, della felicità. In un salmo risuona questa domanda: “C’è un uomo che desidera la vita e vuole giorni felici?” (Sal 34,13). L’essere umano cerca la felicità, la vita piena e senza fine, e Gesù vuole dare una risposta a questa sete profonda presente nel cuore di ogni persona.
Ecco dunque davanti a noi le beatitudini di Gesù attestate dal vangelo secondo Matteo, una pagina talmente conosciuta, citata, commentata e predicata che rischiamo di presumere di conoscerla già e di non avere più bisogno di ricominciare a leggerla, meditarla, comprenderla. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico predicando la venuta del Regno (cf. Mt 4,17) e chiamando alla sua sequela alcuni che sono diventati suoi discepoli (cf. Mt 4,18-22). Ormai è un rabbi, un profeta anche per molti credenti di Galilea e di Giudea, e attorno a lui c’è una piccola folla, nella quale abbondano malati, oppressi, poveri, persone che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25). Gesù sa guardare a quelli che lo cercano, lo incontrano e lo seguono, sa discernere innanzitutto la loro fatica e la loro sofferenza ed è profondamente toccato dai mali delle persone. Non è un predicatore distaccato, che annuncia e parla guardando solo a Dio che lo ha inviato e lo ispira in ogni momento; sa anche guardare all’uditorio concreto, a chi ha di fronte e, come sa ascoltare Dio, così sa ascoltare questa gente che si rivolge a lui con gemiti, invocazioni, lamenti, domande senza risposta…
Secondo Matteo, Gesù decide allora di consegnare a queste persone le promesse di Dio, che possono essere anche un programma per chi vuole seguirlo. Sale sul monte, il luogo delle rivelazioni di Dio e, quale nuovo Mosè, ultimo e definitivo (dopo il quale non ce ne saranno altri!), dà la buona notizia, il Vangelo. Attenzione: non dà “una nuova Legge” – definizione ambigua e sviante – ma dà una parola di Dio che risuona in modo nuovo e crea il regno dello Spirito santo, non più della Legge. Ecco allora il grido: “‘Ashrè”, parola che in ebraico significa soprattutto un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una determinata situazione, parola che indica uno stile da assumere, parola che cambia l’ottica con la quale si guardano la vita, la realtà, gli altri.
Noi traduciamo quest’espressione tante volte presente nei Salmi e nella sapienza di Israele con “beati” (dal greco makárioi, che i vangeli prendono dalla versione dei LXX), ma purtroppo non abbiamo un termine italiano che ne sveli adeguatamente il contenuto. “Beati” non è un aggettivo, è un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola. Promessa e programma! Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.
La promessa fatta solennemente da Gesù, parola potente di Dio, è il regno dei cieli, non un luogo, ma una relazione: essere con Dio, essere suoi figli, così come chi non è beato resta lontano e separato da Dio. Questo regno, dove Dio regna pienamente, è la comunione dei santi del cielo e della terra, la comunione dei fratelli di Gesù, dei figli di Dio, che noi cristiani dovremmo vivere con consapevolezza, ma che, a causa della nostra philautía, del nostro egoismo, non arriviamo neppure a credere saldamente. Questa esperienza del regnare di Dio su di noi possiamo farla qui e ora, alla sequela di Gesù: ciò accade quando su di noi non regnano né idoli, né poteri di nessun tipo, quando sentiamo che solo Dio e il Vangelo di Gesù ci determinano, ci muovono, ci tengono in piedi. È questo il caso in cui possiamo dire, umilmente ma con stupore, senza pensare di avere meriti, che Dio regna in noi, su di noi, dunque il regno di Dio è venuto: sempre però in modo non osservabile (cf. Lc 17,20), da noi riconosciuto solo parzialmente, sempre in modo fragile, che possiamo negare con il nostro venir meno all’amore.
Essere “poveri nello spirito”, nel cuore – precisa Matteo –, non semplicemente “poveri” (Lc 6,20), ma esserlo nell’umiltà di chi sa attendere Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33) può aprire alla beatitudine di chi riceve in dono il regno di Dio.
Essere piangenti è una condizione frequente: le lacrime scorrono sul viso come un’invocazione, un grido a volte muto, ma il Signore raccoglie le lacrime (cf. Sal 56,9), non le dimentica. Ed ecco, manda già ora il Consolatore (cf. Gv 15,26; 16,7) a consolare, affinché ci aiuti ad attraversare la sofferenza e poi alla fine ci doni la gioia eterna, quando Dio asciugherà lacrime da ogni volto (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4).
Essere miti tra gli uomini e le donne, miti su questa terra, senza abitarla con prepotenza né violenza, senza riconoscere solo se stessi, rinunciando a ogni volontà di aggressione, fosse anche per difesa, è non solo possedere la terra promessa da Dio, ma già oggi pregustare una risposta amorosa da parte dell’umanità. San Francesco e papa Giovanni con la loro mitezza hanno “posseduto la terra”, nel senso più vero, evangelico, senza attraversare i sentieri del potere e della ricchezza.
Chi ha fame e sete di giustizia, cioè non è mosso dalla legge del vivere nella forza senza riconoscere l’altro, ma è vittima dei fratelli e delle sorelle che non si accorgono di lui, non desista da questa fame e combatta affinché Dio gli dia ora un cibo che lo sostiene e poi nel Regno quella giustizia della quale tanto ha avuto fame e sete.
Chi fa misericordia agli altri “obbligherà” Dio a fargli misericordia, perché Dio – dicevano i padri del deserto – obbedisce ai misericordiosi che sono come lui (cf. Lc 6,36), hanno lo stesso cuore, sono cioè santi come lui è santo (cf. Lv 19,2; 1Pt 1,16).
Essere puri di cuore significa vedere tutte le persone e gli eventi con gli occhi di Dio, vederli con “gli occhi del cuore” (Ef 1,18). Allora la gioia è quella di essere trasparenti, di non dover impiegare il tempo a organizzare la “maschera” con la quale desideriamo apparire agli altri ed essere da loro conosciuti. È la gioia di capire che l’altro è altro, è un dono di Dio, è un fratello o una sorella, e che io accetto di non mettere le mani su di lui o su di lei, di non possederli, sfruttarli, strumentalizzarli.
Un uomo, una donna che sa “fare pace” in ogni situazione di conflitto, da quelle tra i fratelli e le sorelle a quelle tra i popoli, siccome compie ciò che Dio vorrebbe fosse fatto, mostra di essere già qui sulla terra figlio, figlia di Dio, cioè partecipe della sua natura (cf. 2Pt 1,4), e lo sarà definitivamente nel regno dei cieli.
Infine, per tutti i discepoli la beatitudine riguarda il loro stare nel mondo tra le ostilità e le persecuzioni. Se un discepolo di Gesù riceve solo approvazione, applauso, abbia timore e si interroghi se è veramente tale! Almeno l’ostilità, la calunnia, l’opposizione deve conoscerla. Ha detto Gesù: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi!” (Lc 6,26). Cercare questo consenso è una delle peggiori tentazioni nella chiesa: compiacere tutti per essere da tutti approvati; sedurre gli altri per ricevere il plauso e avere successo; mancare di parrhesía cristiana (che sembra essere scambiata, all’interno della propria comunità o della chiesa, con la libertà di mormorare!) per essere da tutti apprezzati. Che miseria! Certo, in tal modo si sarà apprezzati e si avrà successo, ma non si conoscerà dentro di sé la gioia più vera, la beatitudine di essere in piena comunione con Gesù Cristo. Per rallegrarsi in profondità occorre invece non guardare ai propri interessi né mettere in atto alcuna strategia, ma “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2) e solo da lui accettare la ricompensa, che consiste nel poter condividere il suo amore.
La comunione dei santi che festeggiamo oggi è gioia, festa per quanti con umiltà, senza arroganza, senza vanti, si riconoscono in queste situazioni sulle quali Gesù ha posto come sigillo la beatitudine.

 

Publié dans : OMELIE PREDICH, DISCORSI E...♥♥♥ | le 31 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »

Gesù in preghiera

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Publié dans : immagini sacre | le 28 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 28 ottobre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 12. Gesù uomo di preghiera Aula Paolo VI

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 28 ottobre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 12. Gesù uomo di preghiera

Aula Paolo VI

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, in questa udienza, come abbiamo fatto nelle udienze precedenti, io rimarrò qui. A me piacerebbe tanto scendere, salutare ognuno, ma dobbiamo mantenere le distanze, perché se io scendo subito si fa un assembramento per salutare, e questo è contro le cure, le precauzioni che dobbiamo avere davanti a questa “signora” che si chiama Covid e che ci fa tanto male. Per questo, scusatemi se io non scendo a salutarvi: vi saluto da qui ma vi porto tutti nel cuore. E voi, portate nel cuore me e pregate per me. A distanza, si può pregare uno per l’altro; grazie della comprensione.
Nel nostro itinerario di catechesi sulla preghiera, dopo aver percorso l’Antico Testamento, arriviamo ora a Gesù. E Gesù pregava. L’esordio della sua missione pubblica avviene con il battesimo nel fiume Giordano. Gli Evangelisti concordano nell’attribuire importanza fondamentale a questo episodio. Narrano di come tutto il popolo si fosse raccolto in preghiera, e specificano come questo radunarsi avesse un chiaro carattere penitenziale (cfr Mc 1,5; Mt 3,8). Il popolo andava da Giovanni a farsi battezzare per il perdono dei peccati: c’è un carattere penitenziale, di conversione.
Il primo atto pubblico di Gesù è dunque la partecipazione a una preghiera corale del popolo, una preghiera del popolo che va a farsi battezzare, una preghiera penitenziale, dove tutti si riconoscevano peccatori. Per questo il Battista vorrebbe opporsi, e dice: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Mt 3,14). Il Battista capisce chi era Gesù. Ma Gesù insiste: il suo è un atto che obbedisce alla volontà del Padre (v. 15), un atto di solidarietà con la nostra condizione umana. Egli prega con i peccatori del popolo di Dio. Questo mettiamolo in testa: Gesù è il Giusto, non è peccatore. Ma Lui ha voluto scendere fino a noi, peccatori, e Lui prega con noi, e quando noi preghiamo Lui è con noi pregando; Lui è con noi perché è in cielo pregando per noi. Gesù sempre prega con il suo popolo, sempre prega con noi: sempre. Mai preghiamo da soli, sempre preghiamo con Gesù. Non rimane sulla sponda opposta del fiume – “Io sono giusto, voi peccatori” – per marcare la sua diversità e distanza dal popolo disobbediente, ma immerge i suoi piedi nelle stesse acque di purificazione. Si fa come un peccatore. E questa è la grandezza di Dio che inviò il suo Figlio che annientò sé stesso e apparve come un peccatore.
Gesù non è un Dio lontano, e non può esserlo. L’incarnazione lo ha rivelato in modo compiuto e umanamente impensabile. Così, inaugurando la sua missione, Gesù si mette a capofila di un popolo di penitenti, come incaricandosi di aprire una breccia attraverso la quale tutti quanti noi, dopo di Lui, dobbiamo avere il coraggio di passare. Ma la strada, il cammino, è difficile; ma Lui va, aprendo il cammino. Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega che questa è la novità della pienezza dei tempi. Dice: «La preghiera filiale, che il Padre aspettava dai suoi figli, è finalmente vissuta dallo stesso Figlio unigenito nella sua umanità, con gli uomini e per gli uomini» (n. 2599). Gesù prega con noi. Mettiamo questo nella testa e nel cuore: Gesù prega con noi.
In quel giorno, sulle sponde del fiume Giordano, c’è dunque tutta l’umanità, con i suoi aneliti inespressi di preghiera. C’è soprattutto il popolo dei peccatori: quelli che pensavano di non poter essere amati da Dio, quelli che non osavano andare al di là della soglia del tempio, quelli che non pregavano perché non se ne sentivano degni. Gesù è venuto per tutti, anche per loro, e comincia proprio unendosi a loro, capofila.
Soprattutto il Vangelo di Luca mette in evidenza il clima di preghiera in cui è avvenuto il battesimo di Gesù: «Mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì» (3,21). Pregando, Gesù apre la porta dei cieli, e da quella breccia discende lo Spirito Santo. E dall’alto una voce proclama la verità stupenda: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22). Questa semplice frase racchiude un immenso tesoro: ci fa intuire qualcosa del mistero di Gesù e del suo cuore sempre rivolto al Padre. Nel turbinio della vita e del mondo che arriverà a condannarlo, anche nelle esperienze più dure e tristi che dovrà sopportare, anche quando sperimenta di non avere un posto dove posare il capo (cfr Mt 8,20), anche quando attorno a Lui si scatenano l’odio e la persecuzione, Gesù non è mai senza il rifugio di una dimora: abita eternamente nel Padre.
Ecco la grandezza unica della preghiera di Gesù: lo Spirito Santo prende possesso della sua persona e la voce del Padre attesta che Lui è l’amato, il Figlio in cui Egli pienamente si rispecchia.
Questa preghiera di Gesù, che sulle sponde del fiume Giordano è totalmente personale – e così sarà per tutta la sua vita terrena –, nella Pentecoste diventerà per grazia la preghiera di tutti i battezzati in Cristo. Egli stesso ci ha ottenuto questo dono, e ci invita a pregare così come Lui pregava.
Per questo, se in una sera di orazione ci sentiamo fiacchi e vuoti, se ci sembra che la vita sia stata del tutto inutile, dobbiamo in quell’istante supplicare che la preghiera di Gesù diventi anche la nostra. “Io non posso pregare oggi, non so cosa fare: non me la sento, sono indegno, indegna”. In quel momento, occorre affidarsi a Lui perché preghi per noi. Lui in questo momento è davanti al Padre pregando per noi, è l’intercessore; fa vedere al Padre le piaghe, per noi. Abbiamo fiducia in questo! Se noi abbiamo fiducia, udremo allora una voce dal cielo, più forte di quella che sale dai bassifondi di noi stessi, e sentiremo questa voce bisbigliare parole di tenerezza: “Tu sei l’amato di Dio, tu sei figlio, tu sei la gioia del Padre dei cieli”. Proprio per noi, per ciascuno di noi echeggia la parola del Padre: anche se fossimo respinti da tutti, peccatori della peggior specie. Gesù non scese nelle acque del Giordano per sé stesso, ma per tutti noi. Era tutto il popolo di Dio che si avvicinava al Giordano per pregare, per chiedere perdono, per fare quel battesimo di penitenza. E come dice quel teologo, si avvicinavano al Giordano “nuda l’anima e nudi i piedi”. Così è l’umiltà. Per pregare ci vuole umiltà. Ha aperto i cieli, come Mosè aveva aperto le acque del mar Rosso, perché tutti noi potessimo transitare dietro di Lui. Gesù ci ha regalato la sua stessa preghiera, che è il suo dialogo d’amore con il Padre. Ce lo ha donato come un seme della Trinità, che vuole attecchire nel nostro cuore. Accogliamolo! Accogliamo questo dono, il dono della preghiera. Sempre con Lui. E non sbaglieremo.

Publié dans : PAPA FRANCESCO CATECHESI | le 28 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »

il silenzio di Dio

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Publié dans : immagini sacre | le 26 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »

IL VALORE DEL SILENZIO

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IL VALORE DEL SILENZIO

di Dall’Osto Antonio

In un mondo lacerato dal rumore, discorrere sul silenzio può sembrare una perdita di tempo. Per un gran numero di persone il piacere sta nel rumore. Ci sono individui che lo idolatrano, altri che senza di esso si sentono persi, perché incapaci di stare nel silenzio. Il rumore costituisce un modo di fuggire da se stessi, specialmente da quelle realtà che sono traumatiche e frustranti, o anche dal confronto con il proprio essere. Eppure, in mezzo a questa realtà, il silenzio può costituire un cammino di guarigione, nel senso che dà la possibilità di comprendere meglio gli avvenimenti che ci circondano e che toccano la nostra vita.
In un articolo dedicato a questo argomento, p. Rogério Gomes, redentorista, scrive che il silenzio, in una società del rumore come la nostra, costituisce una vera e propria sfida. Soprattutto per chi vuole dedicarsi alla preghiera e alla lectio divina e cercare Dio. ,
Un silenzio kenotico
Per giungere all’unione e all’intimità con Dio è necessario, osserva il padre, percorrere un cammino che si sviluppa in quattro momenti o tappe.
Occorre coltivare, anzitutto, un silenzio che egli chiama kenotico. Ciò avviene quando sospendiamo i nostri giudizi, i pensieri e le preoccupazioni; quando ci immergiamo nel nostro mondo interiore e lasciamo la nostra casa limpida, pronta a ricevere il visitatore illustre che è Dio. Nel silenzio kenotico la domanda che ci poniamo è: di che cosa voglio svuotarmi? Kenosis vuol dire infatti spogliarsi di se stessi, staccarsi dal proprio io, dalle proprie sicurezze. Non è un distacco dovuto a disprezzo, ma l’espressione di un desiderio profondo di lasciare che l’azione di Dio penetri nelle profondità delle nostra azioni. Questo liberarsi da se stessi vuol dire essere come un’argilla che poco alla volta va modellandosi nelle mani del vasaio. Ci lasciamo cioè plasmare dalle mani del Vasaio Eterno.
In realtà, la kenosis non ci svuota di niente se non dai nostri legami interiori. È una liberazione dalle prigioni che noi stessi ci creiamo, che sono come delle fortezze che ci nascondono l’amore profondo di Dio. Bernard Häring afferma: la kenosis è solo apparentemente uno svuotamento. In realtà, è tutto un impegno per aprirsi all’azione della grazia di Dio, per rimanere immuni dagli agguati dell’orgoglio.
Il mistero della kenosis, ci aiuta inoltre a comprendere il processo redentore di Cristo: la sua incarnazione, vita, missione , la sua morte e risurrezione. Infatti la vita di Cristo è stata una kenosis perenne.
Un silenzio ontologico
È necessario poi il silenzio ontologico che ci conduce ai fondamenti del nostro essere, alla nostra abitazione interiore, al riscatto della dimensione sacrale che è in noi e del soffio divino che molte volte dimentichiamo nel corso della vita. Ci aiuta a comprendere che non siamo né angeli, né demoni, siamo semplicemente esseri umani, con le nostre virtù e ambiguità. Essere umani significa dialogare con un io interiore, con una storia personale e con una realtà che la circonda ed esiste nel tempo e nello spazio. È questo il momento in cui ci stiamo di fronte a noi stessi, disarmati dalle nostre verità assolute, arcaiche, e ci mettiamo in questione in una maniera che provoca la la catarsi. Il silenzio ontologico, sottolinea p. Gomes, nella sua profondità ci conduce all’abisso esistenziale del nostro essere per riempirlo di significato e farci avanzare nelle acque più profonde del mare della nostra esistenza.
È il momento in cui passiamo dall’esteriorità che è in noi e ci immergiamo nella nostra storia personale, nella nostra costituzione bio-fisica-psicologica, nei valori personali e culturali, consentendo così il riscatto del nostro essere. In questa tappa, la domanda centrale è: chi sono io? Il silenzio ontologico ci permette di prendere contatto con il nostro passato, di riconciliarci con esso, e di entrare in una profonda comunione con il nostro essere, dandoci la possibilità di ricominciare e la speranza di poter giungere alla perfezione.
La terza dimensione del silenzio è quella mistagogica. È il silenzio che ci pone davanti al mistero, all’ineffabile, a una realtà destinata a provocare in noi, esseri umani, il desiderio supremo e ci fa comprendere il senso della nostra grande piccolezza. Ci conduce a una profonda esperienza del mistero, a una spiritualità mistagogica. Il silenzio mistagogico ci stimola a scrutare il mistero di Dio, in un atteggiamento di fede. Ci permette di vivere l’esperienza dell’amore autentico davanti a colui che ci ha creato. E tanto più amiamo, quanto più conosciamo. Giunti a questo grado, possiamo scrutare, al di là del mistero che è Dio, anche il mistero che siamo noi stessi.
C’è infine il silenzio teofanico quello che, nel profondo svuotamento dell’essere, fa incontrare il mistero e permette alla voce di Dio di parlare.
Ascolto amoroso di Dio che parla
Il silenzio conduce a un ascolto amoroso di Dio. Ascoltare/udire suppone un atteggiamento discepolare, obbediente. Il discepolato del silenzio porta quindi a quel servizio caritativo che va incontro all’altro e l’accoglie così come è; si tratta dell’ascolto di Dio che parla anche attraverso l’altro. Il grande esempio è quello di Maria (Lc 1,29-45) che accolse l’annuncio dell’angelo, si interrogò sul significato di ciò che aveva ascoltato e si mise in viaggio per andare a visitare la cugina Elisabetta.
La Sacra Scrittura è piena di testi che si riferiscono all’ascolto di Dio. Per l’israelita, ascoltare ha delle implicazioni profonde nella sua vita, nel suo agire etico-spirituale. In breve possiamo affermare che gli israeliti furono il popolo dell’ascolto di Dio, e quando non lo ascoltarono, andarono incontro a delle conseguenze disastrose nella loro vita.
Per ascoltare è necessario fare silenzio, aprire gli orecchi e fare attenzione a colui che parla. Ma come ascoltare Dio se non lo vediamo? Un dialogo infatti suppone due interlocutori, uno che parla e l’altro che ascolta. Dio ci parla, ma noi non lo vediamo… Per questa ragione, senza un ascolto amoroso, Dio rimarrà sempre sconosciuto, susciterà solo paura, e mai saremo in grado di instaurare con lui un dialogo vicendevole. Egli è un interlocutore silenzioso, ma ci interpella con la voce del silenzio… Dio infatti è uno che dialoga e con cui si dialoga: basta volerlo ascoltare!
L’atteggiamento dell’ascolto non è facile soprattutto quando abbiamo a che fare con persone che dicono cose che non abbiamo voglia di ascoltare. Ascoltare gli amici è facile, ma ascoltare persone estranee, con i loro problemi, richiede ascesi. Ma se vogliamo fare una profonda esperienza di Dio, è necessario ascoltare e assumere l’atteggiamento dell’autore biblico quando afferma: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).
Questi versetti forniscono elementi molto preziosi per riflettere sull’ascolto amoroso di Dio. Lo Shemá è un imperativo che manifesta una convocazione, una professione di fede israelita nell’unicità di Jahweh: uno solo è il liberatore e a motivo della sua azione liberatrice nel mondo deve essere ricordato incessantemente e amato di generazione in generazione, poiché le sue azioni hanno segnato profondamente la vita del popolo. Esso evoca una profondità di ascolto ineffabile. Si tratta di auscultare, ossia, di prestare attenzione, comprendere, accogliere, intendere, esaminare, discernere, farsi obbedienti, acconsentire. È mettere in pratica ciò che si è ascoltato coniugandolo con la vita in modo che colui che ha ascoltato annuncia, proclama e invita gli altri a fare l’esperienza del Dio unico.
L’implicazione di questo ascolto è l’amore. Si tratta infatti di una realtà del cuore, inteso come centro delle decisioni, luogo dove l’essere umano è quello che è, del luogo della coscienza.
Soltanto colui che fa l’esperienza di ascoltare l’altro è in grado di amarlo nella sua totalità, con tutto il cuore. Amare con tutto il cuore è donarsi gratuitamente, senza riserve, da cuore a cuore; è fare l’esperienza della gioia, del timore, del coraggio, della sofferenza, del desiderio, della tristezza. Amare con tutto il cuore richiede di andare al centro delle nostre decisioni e della genesi delle nostre intenzioni, e fare l’esperienza dell’amore assoluto, Dio, con tutta la nefesh (v. 5), termine che può essere tradotto con tutta la vita, l’anima, il respiro… con tutto ciò che rende l’uomo capace di vivere. È la creatura con tutta la vita, con tutta la forza del suo essere, con i suoi appetiti e desideri, col suo essere e l’esistenza, e anche con le sue miserie. È l’esperienza dell’indigenza che desidera Dio in maniera straordinaria con tutte le sue forze.
Silenzio e presenza di Dio
Se il silenzio è un ascolto amoroso che ci fa entrare nell’intimità del nostro essere. Ci introduce nel nostro tempio interiore e ci permette di percepire Dio che entra in questo santuario che lui stesso ha creato, per così contemplare la sua meravigliosa opera. È qui in profondità che il creatore e la creatura si contemplano, è qui che si fa l’esperienza profonda dell’amore di Dio che viene e che permea tutto ciò che è umano nella sua totalità.
Sant’Agostino, nel secolo IV parla dell’importanza di riservare uno spazio alla meditazione e al silenzio. A questo scopo, è necessario raccogliersi, isolarsi da ogni rumore, di immergersi nel profondo dell’anima, lasciando da parte il rumore e la confusione, e ascoltare nella calma la parola per comprenderla. Il silenzio è il cammino per giungere all’interiorità, e la condizione che consente di cogliere la voce della verità e intenderla.
Sapremo di essere giunti al vero silenzio quando sentiamo il battito del nostro cuore, e in mezzo al rumore, il ritmo dei nostri passi. Il silenzio raggiunge e penetra il cuore umano ed è qui che risiede la nostra interiorità, è il luogo dove siamo ciò che siamo. Il silenzio fatto di preghiera ci mette in comunione profonda con la Trinità e ci spinge all’azione.
Un tesoro da non perdere
Il silenzio ci aiuta, nel processo di integrazione personale, a cogliere le nostre luci e le nostre ombre e a convivere armoniosamente con esse. Il silenzio suscita sensibilità, e al momento giusto dà le risposte alle inquietudini personali.
La mancanza di silenzio invece fa perdere la sensibilità. Non bisogna mai dimenticare nelle preghiere personali e comunitarie che i momenti di silenzio sono importanti per l’interiorizzazione. Molte volte facciamo delle nostre preghiere personali e comunitarie dei discorsi. Vogliamo metterci dentro tutto quello che sappiamo, ma allora questo è meno di tutto che pregare. Non lasciamo cioè parlare lo Spirito, soffochiamo con la nostra ragione discorsiva il sentimento cuore che invece vuole assaporare il silenzio emanato dal soffio dello Spirito. Il silenzio conduce alla comunione contemplativa con tutto l’universo, a prendere coscienza che anche noi ne siamo parte, e nello stesso tempo a contemplarlo come opera del Creatore. Ci permette di formarci una coscienza riflessiva ed ecologica, a destarci alla bellezza emanata dal cosmo, e a percepirlo come la grande casa che accoglie l’essere umano e lo sostenta perché possa sviluppare le sue potenzialità.
C’è chi si perde d’animo, conclude p. Gomes, perché non riesce a fare silenzio. In effetti, si tratta di un cammino lento e arduo, che richiede costante esercizio e apertura allo Spirito. C’è anche chi riesce a fare silenzio in mezzo al rumore e a coltivare un alto grado di meditazione e di intimità con Dio. In una parola, se vuole pregare, bisogna fare silenzio.(a cura di Antonio Dall’Osto).

 

Publié dans : meditazioni | le 26 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »

IL PIÙ GRANDE COMANDAMENTO: AMARE DIO E AMARE IL PROSSIMO

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Publié dans : immagini sacre | le 25 octobre, 2020 |Pas de Commentaires »
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