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Benedetto XVI traccia una breve biografia di San Paolo

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Benedetto XVI traccia una breve biografia di San Paolo

Per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 27 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI.

Nel suo discorso, il Papa ha ripreso oggi il ciclo di catechesi dedicato all’approfondimento della figura e del pensiero dell’apostolo Paolo, soffermandosi in particolare sulla sua biografia.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nell’ultima catechesi prima delle vacanze – due mesi fa, ai primi di luglio – avevo iniziato una nuova serie di tematiche in occasione dell’anno paolino, considerando il mondo in cui visse san Paolo. Vorrei oggi riprendere e continuare la riflessione sull’Apostolo delle genti, proponendo una sua breve biografia. Poiché dedicheremo il prossimo mercoledì all’evento straordinario che si verificò sulla strada di Damasco, la conversione di Paolo, svolta fondamentale della sua esistenza a seguito dell’incontro con Cristo, oggi ci soffermiamo brevemente sull’insieme della sua vita. Gli estremi biografici di Paolo li abbiamo rispettivamente nella Lettera a Filemone, nella quale egli si dichiara « vecchio » (Fm 9: presbýtes) e negli Atti degli Apostoli, che al momento della lapidazione di Stefano lo qualificano « giovane » (7,58: neanías). Le due designazioni sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi antichi, « giovane » era qualificato l’uomo sui trent’anni, mentre « vecchio » era detto quando giungeva sulla sessantina. In termini assoluti, la data della nascita di Paolo dipende in gran parte dalla datazione della Lettera a Filemone. Tradizionalmente la sua redazione è posta durante la prigionia romana, a metà degli anni 60. Paolo sarebbe nato l’anno 8, quindi avrebbe avuto più o meno sessant’anni, mentre al momento della lapidazione di Stefano ne aveva 30. Dovrebbe essere questa la cronologia giusta. E la celebrazione dell’anno paolino che facciamo segue proprio questa cronologia. È stato scelto il 2008 pensando a una nascita più o meno nell’anno 8.

In ogni caso, egli nacque a Tarso in Cilicia (cfr At 22,3). La città era capoluogo amministrativo della regione e nel 51 a.C. aveva avuto come Proconsole nientemeno che Marco Tullio Cicerone, mentre dieci anni dopo, nel 41, Tarso era stato il luogo del primo incontro tra Marco Antonio e Cleopatra. Ebreo della diaspora, egli parlava greco pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza dall’originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della cittadinanza romana (cfr At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato sulla frontiera di tre culture diverse — romana, greca, ebraica — e forse anche per questo era disponibile a feconde aperture universalistiche, a una mediazione tra le culture, a una vera universalità. Egli apprese anche un lavoro manuale, forse derivato dal padre, consistente nel mestiere di « fabbricatore di tende » (cfr At 18,3: skenopoiòs), da intendersi probabilmente come lavoratore della lana ruvida di capra o delle fibre di lino per farne stuoie o tende (cfr At 20,33-35). Verso i 12-13 anni, l’età in cui il ragazzo ebreo diventa bar mitzvà (« figlio del precetto »), Paolo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere educato ai piedi di Rabbì Gamaliele il Vecchio, nipote del grande Rabbì Hillèl, secondo le più rigide norme del fariseismo e acquisendo un grande zelo per la Toràh mosaica (cfr Gal 1,14; Fil 3,5-6; At 22,3; 23,6; 26,5).

Sulla base di questa ortodossia profonda che aveva imparato alla scuola di Hillèl, in Gerusalemme, intravide nel nuovo movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret un rischio, una minaccia per l’identità giudaica, per la vera ortodossia dei padri. Ciò spiega il fatto che egli abbia fieramente « perseguitato la Chiesa di Dio », come per tre volte ammetterà nelle sue Lettere (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6). Anche se non è facile immaginarsi concretamente in che cosa consistesse questa persecuzione, il suo fu comunque un atteggiamento di intolleranza. È qui che si colloca l’evento di Damasco, su cui torneremo nella prossima catechesi. Certo è che, da quel momento in poi, la sua vita cambiò ed egli diventò un apostolo instancabile del Vangelo. Di fatto, Paolo passò alla storia più per quanto fece da cristiano, anzi da apostolo, che non da fariseo. Tradizionalmente si suddivide la sua attività apostolica sulla base dei tre viaggi missionari, a cui si aggiunse il quarto dell’andata a Roma come prigioniero. Tutti sono raccontati da Luca negli Atti. A proposito dei tre viaggi missionari, però, bisogna distinguere il primo dagli altri due.

Del primo, infatti (cfr At 13-14), Paolo non ebbe la diretta responsabilità, che fu affidata invece al cipriota Barnaba. Insieme essi partirono da Antiochia sull’Oronte, inviati da quella Chiesa (cfr At 13,1-3), e, dopo essere salpati dal porto di Seleucia sulla costa siriana, attraversarono l’isola di Cipro da Salamina a Pafo; di qui giunsero alle coste meridionali dell’Anatolia, oggi Turchia, e toccarono le città di Attalìa, Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe, da cui ritornarono al punto di partenza. Era così nata la Chiesa dei popoli, la Chiesa dei pagani. E nel frattempo, soprattutto a Gerusalemme, era nata una discussione dura fino a quale punto questi cristiani provenienti dal paganesimo fossero obbligati ad entrare anche nella vita e nella legge di Israele (varie osservanze e prescrizioni che separavano Israele dal resto del mondo) per essere partecipi realmente delle promesse dei profeti e per entrare effettivamente nell’eredità di Israele. Per risolvere questo problema fondamentale per la nascita della Chiesa futura si riunì a Gerusalemme il cosiddetto Concilio degli Apostoli, per decidere su questo problema dal quale dipendeva la effettiva nascita di una Chiesa universale. E fu deciso di non imporre ai pagani convertiti l’osservanza della legge mosaica (cfr At 15,6-30): non erano cioè obbligati alle norme del giudaismo; l’unica necessità era essere di Cristo, di vivere con Cristo e secondo le sue parole. Così, essendo di Cristo, erano anche di Abramo, di Dio e partecipi di tutte le promesse. Dopo questo avvenimento decisivo, Paolo si separò da Barnaba, scelse Sila e iniziò il secondo viaggio missionario (cfr At 15,36-18,22). Oltrepassata la Siria e la Cilicia, rivide la città di Listra, dove accolse con sé Timoteo (figura molto importante della Chiesa nascente, figlio di un’ebrea e di un pagano), e lo fece circoncidere, attraversò l’Anatolia centrale e raggiunse la città di Troade sulla costa settentrionale del Mar Egeo. E qui si ebbe di nuovo un avvenimento importante: in sogno vide un macedone dall’altra parte del mare, cioè in Europa, che diceva, « Vieni e aiutaci! ». Era l’Europa futura che chiedeva l’aiuto e la luce del Vangelo. Sulla spinta di questa visione entrò in Europa. Di qui salpò per la Macedonia entrando così in Europa. Sbarcato a Neapoli, arrivò a Filippi, ove fondò una bella comunità, poi passò a Tessalonica, e, partito di qui per difficoltà procurategli dai Giudei, passò per Berea, giunse ad Atene.

In questa capitale dell’antica cultura greca predicò, prima nell’Agorà e poi nell’Areopago, ai pagani e ai greci. E il discorso dell’Areopago, riferito negli Atti degli Apostoli, è modello di come tradurre il Vangelo in cultura greca, di come far capire ai greci che questo Dio dei cristiani, degli ebrei, non era un Dio straniero alla loro cultura ma il Dio sconosciuto aspettato da loro, la vera risposta alle più profonde domande della loro cultura. Poi da Atene arrivò a Corinto, dove si fermò un anno e mezzo. E qui abbiamo un evento cronologicamente molto sicuro, il più sicuro di tutta la sua biografia, perché durante questo primo soggiorno a Corinto egli dovette comparire davanti al Governatore della provincia senatoriale di Acaia, il Proconsole Gallione, accusato di un culto illegittimo. Su questo Gallione e sul suo tempo a Corinto esiste un’antica iscrizione trovata a Delfi, dove è detto che era Proconsole a Corinto tra gli anni 51 e 53. Quindi qui abbiamo una data assolutamente sicura. Il soggiorno di Paolo a Corinto si svolse in quegli anni. Pertanto possiamo supporre che sia arrivato più o meno nel 50 e sia rimasto fino al 52. Da Corinto, poi, passando per Cencre, porto orientale della città, si diresse verso la Palestina raggiungendo Cesarea Marittima, di dove salì a Gerusalemme per tornare poi ad Antiochia sull’Oronte.

Il terzo viaggio missionario (cfr At 18,23-21,16) ebbe inizio come sempre ad Antiochia, che era divenuta il punto di origine della Chiesa dei pagani, della missione ai pagani, ed era anche il luogo dove nacque il termine «cristiani». Qui per la prima volta, ci dice San Luca, i seguaci di Gesù furono chiamati «cristiani». Da lì Paolo puntò dritto su Efeso, capitale della provincia d’Asia, dove soggiornò per due anni, svolgendo un ministero che ebbe delle feconde ricadute sulla regione. Da Efeso Paolo scrisse le lettere ai Tessalonicesi e ai Corinzi. La popolazione della città però fu sobillata contro di lui dagli argentieri locali, che vedevano diminuire le loro entrate per la riduzione del culto di Artemide (il tempio a lei dedicato a Efeso, l’Artemysion, era una delle sette meraviglie del mondo antico); perciò egli dovette fuggire verso il nord. Riattraversata la Macedonia, scese di nuovo in Grecia, probabilmente a Corinto, rimanendovi tre mesi e scrivendo la celebre Lettera ai Romani.

Di qui tornò sui suoi passi: ripassò per la Macedonia, per nave raggiunse Troade e poi, toccando appena le isole di Mitilene, Chio, Samo, giunse a Mileto dove tenne un importante discorso agli Anziani della Chiesa di Efeso, dando un ritratto del pastore vero della Chiesa, cfr At 20. Di qui ripartì facendo vela verso Tiro, di dove raggiunse Cesarea Marittima per salire ancora una volta a Gerusalemme. Qui fu arrestato in base a un malinteso: alcuni Giudei avevano scambiato per pagani altri Giudei di origine greca, introdotti da Paolo nell’area templare riservata soltanto agli Israeliti. La prevista condanna a morte gli fu risparmiata per l’intervento del tribuno romano di guardia all’area del Tempio (cfr At 21,27-36); ciò si verificò mentre in Giudea era Procuratore imperiale Antonio Felice. Passato un periodo di carcerazione (la cui durata è discussa), ed essendosi Paolo, come cittadino romano, appellato a Cesare (che allora era Nerone), il successivo Procuratore Porcio Festo lo inviò a Roma sotto custodia militare.

Il viaggio verso Roma toccò le isole mediterranee di Creta e Malta, e poi le città di Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli. I cristiani di Roma gli andarono incontro sulla Via Appia fino al Foro di Appio (ca. 70 km a sud della capitale ) e altri fino alle Tre Taverne (ca. 40 km). A Roma incontrò i delegati della comunità ebraica, a cui confidò che era per « la speranza d’Israele » che portava le sue catene (cfr At 28,20). Ma il racconto di Luca termina sulla menzione di due anni passati a Roma sotto una blanda custodia militare, senza accennare né a una sentenza di Cesare (Nerone) né tanto meno alla morte dell’accusato. Tradizioni successive parlano di una sua liberazione, che avrebbe favorito sia un viaggio missionario in Spagna, sia una successiva puntata in Oriente e specificamente a Creta, a Efeso e a Nicopoli in Epiro. Sempre su base ipotetica, si congettura di un nuovo arresto e una seconda prigionia a Roma (da cui avrebbe scritto le tre Lettere cosiddette Pastorali, cioè le due a Timoteo e quella a Tito) con un secondo processo, che gli sarebbe risultato sfavorevole. Tuttavia, una serie di motivi induce molti studiosi di san Paolo a terminare la biografia dell’Apostolo con il racconto lucano degli Atti.

Sul suo martirio torneremo più avanti nel ciclo di queste nostre catechesi. Per ora, in questo breve elenco dei viaggi di Paolo, è sufficiente prendere atto di come egli si sia dedicato all’annuncio del Vangelo senza risparmio di energie, affrontando una serie di prove gravose, di cui ci ha lasciato l’elenco nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 11,21-28). Del resto, è lui che scrive: « Tutto faccio per il Vangelo » (1 Cor 9,23), esercitando con assoluta generosità quella che egli chiama « preoccupazione per tutte le Chiese » (2 Cor 11,28). Vediamo un impegno che si spiega soltanto con un’anima realmente affascinata dalla luce del Vangelo, innamorata di Cristo, un’anima sostenuta da una convinzione profonda: è necessario portare al mondo la luce di Cristo, annunciare il Vangelo a tutti. Questo mi sembra sia quanto rimane da questa breve rassegna dei viaggi di san Paolo: vedere la sua passione per il Vangelo, intuire così la grandezza, la bellezza, anzi la necessità profonda del Vangelo per noi tutti. Preghiamo affinché il Signore, che ha fatto vedere la sua luce a Paolo, gli ha fatto sentire la sua Parola, ha toccato il suo cuore intimamente, faccia vedere anche a noi la sua luce, perché anche il nostro cuore sia toccato dalla sua Parola e possiamo così anche noi dare al mondo di oggi, che ne ha sete, la luce del Vangelo e la verità di Cristo.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 4 septembre, 2008 |Pas de commentaires »

Torniamo ai classici, sarà un progresso

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Torniamo ai classici, sarà un progresso

Parla il Direttore delle Edizioni Studio Domenicano

di Antonio Gaspari RIMINI, venerdì, 29 agosto 2008 (ZENIT.org).- Cè una crisi di lettori, sono sempre meno i soldi destinati ai libri, viviamo in tempi di decadenza, eppure secondo padre Giorgio Carbone O.P., Direttore delle Edizioni Studio Domenicano (EDS), è proprio in periodi di crisi che rinasce il desiderio e la necessità della lettura dei classici.

Intervistato da ZENIT, al Meeting di Rimini, padre Carbone ha spiegato che in un momento in cui i lettori sembrano una categoria in via di estinzione, la ESD intende promuovere la lettura attraverso una serie di piccoli testi in formato tascabile che non superino le 200 pagine e che possano così incuriosire qualsiasi persona.

I temi scelti riguardano l’attualità, come nel caso delle questioni di Bioetica, oppure sono tratti dalla filosofia, dallo studio e dalla storia. Laltro obiettivo è quello di divulgare la letteratura dei padri della Chiesa. “In un periodo di crisi credo che sia urgente tornare ai classici

ha sottolineato padre Carbone . I classici non deludono mai. Infatti ledizione italiana della prestigiosissima collana Sources Chrétiennes e laltra collana i Talenti che si propone di introdurre in Italia i classici di varie culture finora non hanno deluso”.Il Direttore della ESD ha aggiunto che “in momenti di crisi bisogna andare allessenziale, e proporre ai lettori cose che possono dare senso come gli autori classici, pensiamo a Tertulliano, San Giovanni Cristostomo, SantAgostino, San Tommaso DAquino”.

Secondo il padre domenicano, “le nuove generazioni conoscono poco questi autori, in alcuni casi solo qualche citazione, ma non ne conoscono le opere, il nostro obiettivo è quello di rendere fruibili queste opere classiche ad un costo accessibile”.

Padre Carbone ha raccontato che un titolo che è andato molto bene è quello di Tertulliano, “Difesa del Cristianesimo”, il cui titolo originale in latino è “Apologeticum”. Si tratta della prima apologia del cristianesimo scritta in lingua latina. Prima di Tertulliano esistevano altre opere apologetiche ma erano in greco.

Tertulliano, vissuto nel terzo secolo dopo Cristo, è il primo teologo che ha scritto in lingua latina, e ha spiegato il confronto tra le religioni pagane e le verità cristiane. Rimane un autore di grande attualità perché fa vedere i fondamenti ragionevoli e razionali della fede cristiana.

Il Direttore delle ESD ha segnalato a ZENIT un altro titolo molto valido per la sua qualità, che riscosse un grande successo nella sua epoca, ed è decisivo perché costituisce il primo esempio di una formula editoriale conosciuta come confessioni.

Si tratta di una lettera che Cipriano di Cartagine scrive al suo amico Demetriano. In questa lettera, che non è poi molto lunga, 80 pagine scarse, Cipriano rivela se stesso e racconta la sua conversione a Cristo.

Con questa lettera Cipriano di Cartagine rivela un genere letterario che SantAgostino porterà in auge.

Padre Carbone ci tiene a sottolineare che “è proprio nei tempi di crisi come furono quelli del Tardo Impero o Alto Medioevo che si ritorna ai classici”.

In merito al domenicano San Tommaso DAquino, il Direttore delle ESD ha ricordato che “è stato per la sua epoca colui che ha conosciuto maggiormente i padri della Chiesa di lingua greca”.

“Se si prendono le opere di san Tommaso, egli continuamente cita i padri di lingua greca, ed è un fenomeno singolare per i suoi tempi”, ha notato.

Circa i titoli per i giovani, padre Carbone ha suggerito “La geografia dellanima” che si troverà in libreria nel mese di settembre: un libro che il padre domenicano ha definito “affascinante perché fa comprendere la ricchezza delle facoltà della nostra anima”.

In questo volume si spiega la ricchezza e le capacità della nostra intelligenza di contemplare il bello e di ricercare il vero. Le capacità della nostra volontà di amare, di desiderare, di gioire.

Il religioso ha sostenuto che La geografia dellanima “descrive e fa apprezzare con un linguaggio molto semplice e affascinante la nostra persona. Una sorta di abc dellumanesimo cristiano”.

Lautore è padre Giuseppe Barzaghi, O.P., che insegna Teologia alla Facoltà di Teologia di Bologna, e che ogni domenica, per la messa delle 22:00, attira più di 800 giovani nella basilica di San Domenico del capoluogo emiliano.“E

un fenomeno lodato anche dal Cardinale Giacomo Biffi”, ha rilevato padre Carbone.

“Una celebrazione che ebbe inizio come una Messa di ripiego, in realtà per molti studenti universitari è diventata di riferimento proprio per la bellezza della celebrazione”, ha concluso il padre domenicano.

Publié dans:dalla Chiesa, ZENITH |on 31 août, 2008 |Pas de commentaires »

La simbologia del « Cammino della Luce » per la visita del Papa a Parigi

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La simbologia del « Cammino della Luce » per la visita del Papa a Parigi 

Secondo monsignor Aupetit, vicario generale della diocesi parigina

 PARIGI, domenica, 31 agosto 2008 (ZENIT.org).- Il « Cammino della Luce » di Notre-Dame aux Invalides, organizzato in occasione della visita di Benedetto XVI a Parigi (Francia), commemora il sacrificio di Cristo e ricorda la processione mariana delle fiaccole a Lourdes. 

Un « Cammino della Luce » partirà dalla cattedrale di Notre-Dame di Parigi venerdì 12 settembre a mezzanotte, procedendo fino alla spianata des Invalides, dove il Papa celebrerà una Messa solenne il giorno seguente, sabato 13 settembre. 

Monsignor Michel Aupetit, vicario generale della Diocesi di Parigi, spiega questo simbolismo sul sito Internet della Conferenza Episcopale Francese. 

« Alla sua nascita, Cristo è stato definito dall’anziano Simeone come la Luce che illumina le Nazioni. In seguito ha detto ai suoi apostoli ‘Io sono la luce del mondo’ (Gv 8,12). Riprendendo l’antica contrapposizione tra luce e tenebre, ha realizzato la promessa biblica della vittoria della Luce sulle Tenebre, simbolo del conflitto tra la vita e la morte: ‘Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita’ (Gv 8,12) », ha spiegato monsignor Aupetit. 

Il presule ricorda soprattutto la simbologia pasquale del « Cammino della Luce »: « I cristiani, nella Veglia Pasquale, quando regnano ancora le tenebre della morte in croce, illuminano il Cero Pasquale, segno della Luce trionfante che nasce dalla vita del Cristo risorto in questa notte santa in cui la morte viene vinta ». 

E’ una marcia basata sulla speranza, sottolinea monsignor Aupetit: « Questo è il primo senso delle processioni delle fiaccole o dei cammini della luce che illuminano la notte degli uomini. Questa marcia significa il cammino delle nostre esistenze che accompagna la Luce di Cristo presente nella nostra vita. Egli stesso è la Via che ci conduce all’illuminazione in cui ‘non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli’ (Apocalisse 22,5) ».


 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Parigi, ZENITH |on 31 août, 2008 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI traccia una breve biografia di San Paolo

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Benedetto XVI traccia una breve biografia di San Paolo 

Per l’Udienza generale del mercoledì 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 27 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI. 

Nel suo discorso, il Papa ha ripreso oggi il ciclo di catechesi dedicato allapprofondimento della figura e del pensiero dellapostolo Paolo, soffermandosi in particolare sulla sua biografia.

 

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Cari fratelli e sorelle, 

nellultima catechesi prima delle vacanze due mesi fa, ai primi di luglio avevo iniziato una nuova serie di tematiche in occasione dellanno paolino, considerando il mondo in cui visse san Paolo. Vorrei oggi riprendere e continuare la riflessione sullApostolo delle genti, proponendo una sua breve biografia. Poiché dedicheremo il prossimo mercoledì all’evento straordinario che si verificò sulla strada di Damasco, la conversione di Paolo, svolta fondamentale della sua esistenza a seguito dellincontro con Cristo, oggi ci soffermiamo brevemente sullinsieme della sua vita. Gli estremi biografici di Paolo li abbiamo rispettivamente nella Lettera a Filemone, nella quale egli si dichiara « vecchio » (Fm 9: presbýtes) e negli Atti degli Apostoli, che al momento della lapidazione di Stefano lo qualificano « giovane » (7,58: neanías). Le due designazioni sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi antichi, « giovane » era qualificato luomo sui trentanni, mentre « vecchio » era detto quando giungeva sulla sessantina. In termini assoluti, la data della nascita di Paolo dipende in gran parte dalla datazione della Lettera a Filemone. Tradizionalmente la sua redazione è posta durante la prigionia romana, a metà degli anni 60. Paolo sarebbe nato l’anno 8, quindi avrebbe avuto più o meno sessant’anni, mentre al momento della lapidazione di Stefano ne aveva 30. Dovrebbe essere questa la cronologia giusta. E la celebrazione dell’anno paolino che facciamo segue proprio questa cronologia. È stato scelto il 2008 pensando a una nascita più o meno nell’anno 8. 

In ogni caso, egli nacque a Tarso in Cilicia (cfr At 22,3). La città era capoluogo amministrativo della regione e nel 51 a.C. aveva avuto come Proconsole nientemeno che Marco Tullio Cicerone, mentre dieci anni dopo, nel 41, Tarso era stato il luogo del primo incontro tra Marco Antonio e Cleopatra. Ebreo della diaspora, egli parlava greco pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza dall’originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della cittadinanza romana (cfr At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato sulla frontiera di tre culture diverse romana, greca, ebraica e forse anche per questo era disponibile a feconde aperture universalistiche, a una mediazione tra le culture, a una vera universalità. Egli apprese anche un lavoro manuale, forse derivato dal padre, consistente nel mestiere di « fabbricatore di tende » (cfr At 18,3: skenopoiòs), da intendersi probabilmente come lavoratore della lana ruvida di capra o delle fibre di lino per farne stuoie o tende (cfr At 20,33-35). Verso i 12-13 anni, l’età in cui il ragazzo ebreo diventa bar mitzvà (« figlio del precetto »), Paolo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere educato ai piedi di Rabbì Gamaliele il Vecchio, nipote del grande Rabbì Hillèl, secondo le più rigide norme del fariseismo e acquisendo un grande zelo per la Toràh mosaica (cfr Gal 1,14; Fil 3,5-6; At 22,3; 23,6; 26,5). 

Sulla base di questa ortodossia profonda che aveva imparato alla scuola di Hillèl, in Gerusalemme, intravide nel nuovo movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret un rischio, una minaccia per l’identità giudaica, per la vera ortodossia dei padri. Ciò spiega il fatto che egli abbia fieramente « perseguitato la Chiesa di Dio », come per tre volte ammetterà nelle sue Lettere (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6). Anche se non è facile immaginarsi concretamente in che cosa consistesse questa persecuzione, il suo fu comunque un atteggiamento di intolleranza. È qui che si colloca l’evento di Damasco, su cui torneremo nella prossima catechesi. Certo è che, da quel momento in poi, la sua vita cambiò ed egli diventò un apostolo instancabile del Vangelo. Di fatto, Paolo passò alla storia più per quanto fece da cristiano, anzi da apostolo, che non da fariseo. Tradizionalmente si suddivide la sua attività apostolica sulla base dei tre viaggi missionari, a cui si aggiunse il quarto dell’andata a Roma come prigioniero. Tutti sono raccontati da Luca negli Atti. A proposito dei tre viaggi missionari, però, bisogna distinguere il primo dagli altri due. 

Del primo, infatti (cfr At 13-14), Paolo non ebbe la diretta responsabilità, che fu affidata invece al cipriota Barnaba. Insieme essi partirono da Antiochia sull’Oronte, inviati da quella Chiesa (cfr At 13,1-3), e, dopo essere salpati dal porto di Seleucia sulla costa siriana, attraversarono l’isola di Cipro da Salamina a Pafo; di qui giunsero alle coste meridionali dell’Anatolia, oggi Turchia, e toccarono le città di Attalìa, Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe, da cui ritornarono al punto di partenza. Era così nata la Chiesa dei popoli, la Chiesa dei pagani. E nel frattempo, soprattutto a Gerusalemme, era nata una discussione dura fino a quale punto questi cristiani provenienti dal paganesimo fossero obbligati ad entrare anche nella vita e nella legge di Israele (varie osservanze e prescrizioni che separavano Israele dal resto del mondo) per essere partecipi realmente delle promesse dei profeti e per entrare effettivamente nelleredità di Israele. Per risolvere questo problema fondamentale per la nascita della Chiesa futura si riunì a Gerusalemme il cosiddetto Concilio degli Apostoli, per decidere su questo problema dal quale dipendeva la effettiva nascita di una Chiesa universale. E fu deciso di non imporre ai pagani convertiti l’osservanza della legge mosaica (cfr At 15,6-30): non erano cioè obbligati alle norme del giudaismo; lunica necessità era essere di Cristo, di vivere con Cristo e secondo le sue parole. Così, essendo di Cristo, erano anche di Abramo, di Dio e partecipi di tutte le promesse. Dopo questo avvenimento decisivo, Paolo si separò da Barnaba, scelse Sila e iniziò il secondo viaggio missionario (cfr At 15,36-18,22). Oltrepassata la Siria e la Cilicia, rivide la città di Listra, dove accolse con sé Timoteo (figura molto importante della Chiesa nascente, figlio di unebrea e di un pagano), e lo fece circoncidere, attraversò l’Anatolia centrale e raggiunse la città di Troade sulla costa settentrionale del Mar Egeo. E qui si ebbe di nuovo un avvenimento importante: in sogno vide un macedone dall’altra parte del mare, cioè in Europa, che diceva, « Vieni e aiutaci! ». Era l’Europa futura che chiedeva l’aiuto e la luce del Vangelo. Sulla spinta di questa visione entrò in Europa. Di qui salpò per la Macedonia entrando così in Europa. Sbarcato a Neapoli, arrivò a Filippi, ove fondò una bella comunità, poi passò a Tessalonica, e, partito di qui per difficoltà procurategli dai Giudei, passò per Berea, giunse ad Atene. 

In questa capitale dell’antica cultura greca predicò, prima nell’Agorà e poi nell’Areopago, ai pagani e ai greci. E il discorso dell’Areopago, riferito negli Atti degli Apostoli, è modello di come tradurre il Vangelo in cultura greca, di come far capire ai greci che questo Dio dei cristiani, degli ebrei, non era un Dio straniero alla loro cultura ma il Dio sconosciuto aspettato da loro, la vera risposta alle più profonde domande della loro cultura. Poi da Atene arrivò a Corinto, dove si fermò un anno e mezzo. E qui abbiamo un evento cronologicamente molto sicuro, il più sicuro di tutta la sua biografia, perché durante questo primo soggiorno a Corinto egli dovette comparire davanti al Governatore della provincia senatoriale di Acaia, il Proconsole Gallione, accusato di un culto illegittimo. Su questo Gallione e sul suo tempo a Corinto esiste un’antica iscrizione trovata a Delfi, dove è detto che era Proconsole a Corinto tra gli anni 51 e 53. Quindi qui abbiamo una data assolutamente sicura. Il soggiorno di Paolo a Corinto si svolse in quegli anni. Pertanto possiamo supporre che sia arrivato più o meno nel 50 e sia rimasto fino al 52. Da Corinto, poi, passando per Cencre, porto orientale della città, si diresse verso la Palestina raggiungendo Cesarea Marittima, di dove salì a Gerusalemme per tornare poi ad Antiochia sullOronte. 

Il terzo viaggio missionario (cfr At 18,23-21,16) ebbe inizio come sempre ad Antiochia, che era divenuta il punto di origine della Chiesa dei pagani, della missione ai pagani, ed era anche il luogo dove nacque il termine «cristiani». Qui per la prima volta, ci dice San Luca, i seguaci di Gesù furono chiamati «cristiani». Da lì Paolo puntò dritto su Efeso, capitale della provincia d’Asia, dove soggiornò per due anni, svolgendo un ministero che ebbe delle feconde ricadute sulla regione. Da Efeso Paolo scrisse le lettere ai Tessalonicesi e ai Corinzi. La popolazione della città però fu sobillata contro di lui dagli argentieri locali, che vedevano diminuire le loro entrate per la riduzione del culto di Artemide (il tempio a lei dedicato a Efeso, l’Artemysion, era una delle sette meraviglie del mondo antico); perciò egli dovette fuggire verso il nord. Riattraversata la Macedonia, scese di nuovo in Grecia, probabilmente a Corinto, rimanendovi tre mesi e scrivendo la celebre Lettera ai Romani

Di qui tornò sui suoi passi: ripassò per la Macedonia, per nave raggiunse Troade e poi, toccando appena le isole di Mitilene, Chio, Samo, giunse a Mileto dove tenne un importante discorso agli Anziani della Chiesa di Efeso, dando un ritratto del pastore vero della Chiesa, cfr At 20. Di qui ripartì facendo vela verso Tiro, di dove raggiunse Cesarea Marittima per salire ancora una volta a Gerusalemme. Qui fu arrestato in base a un malinteso: alcuni Giudei avevano scambiato per pagani altri Giudei di origine greca, introdotti da Paolo nellarea templare riservata soltanto agli Israeliti. La prevista condanna a morte gli fu risparmiata per lintervento del tribuno romano di guardia allarea del Tempio (cfr At 21,27-36); ciò si verificò mentre in Giudea era Procuratore imperiale Antonio Felice. Passato un periodo di carcerazione (la cui durata è discussa), ed essendosi Paolo, come cittadino romano, appellato a Cesare (che allora era Nerone), il successivo Procuratore Porcio Festo lo inviò a Roma sotto custodia militare. 

Il viaggio verso Roma toccò le isole mediterranee di Creta e Malta, e poi le città di Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli. I cristiani di Roma gli andarono incontro sulla Via Appia fino al Foro di Appio (ca. 70 km a sud della capitale ) e altri fino alle Tre Taverne (ca. 40 km). A Roma incontrò i delegati della comunità ebraica, a cui confidò che era per « la speranza d’Israele » che portava le sue catene (cfr At 28,20). Ma il racconto di Luca termina sulla menzione di due anni passati a Roma sotto una blanda custodia militare, senza accennare né a una sentenza di Cesare (Nerone) né tanto meno alla morte dell’accusato. Tradizioni successive parlano di una sua liberazione, che avrebbe favorito sia un viaggio missionario in Spagna, sia una successiva puntata in Oriente e specificamente a Creta, a Efeso e a Nicopoli in Epiro. Sempre su base ipotetica, si congettura di un nuovo arresto e una seconda prigionia a Roma (da cui avrebbe scritto le tre Lettere cosiddette Pastorali, cioè le due a Timoteo e quella a Tito) con un secondo processo, che gli sarebbe risultato sfavorevole. Tuttavia, una serie di motivi induce molti studiosi di san Paolo a terminare la biografia dell’Apostolo con il racconto lucano degli Atti. 

Sul suo martirio torneremo più avanti nel ciclo di queste nostre catechesi. Per ora, in questo breve elenco dei viaggi di Paolo, è sufficiente prendere atto di come egli si sia dedicato allannuncio del Vangelo senza risparmio di energie, affrontando una serie di prove gravose, di cui ci ha lasciato lelenco nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 11,21-28). Del resto, è lui che scrive: « Tutto faccio per il Vangelo » (1 Cor 9,23), esercitando con assoluta generosità quella che egli chiama « preoccupazione per tutte le Chiese » (2 Cor 11,28). Vediamo un impegno che si spiega soltanto con un’anima realmente affascinata dalla luce del Vangelo, innamorata di Cristo, unanima sostenuta da una convinzione profonda: è necessario portare al mondo la luce di Cristo, annunciare il Vangelo a tutti. Questo mi sembra sia quanto rimane da questa breve rassegna dei viaggi di san Paolo: vedere la sua passione per il Vangelo, intuire così la grandezza, la bellezza, anzi la necessità profonda del Vangelo per noi tutti. Preghiamo affinché il Signore, che ha fatto vedere la sua luce a Paolo, gli ha fatto sentire la sua Parola, ha toccato il suo cuore intimamente, faccia vedere anche a noi la sua luce, perché anche il nostro cuore sia toccato dalla sua Parola e possiamo così anche noi dare al mondo di oggi, che ne ha sete, la luce del Vangelo e la verità di Cristo.
 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 27 août, 2008 |Pas de commentaires »

Arcivescovo Ravasi: Lourdes disseta la sete di bellezza

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Arcivescovo Ravasi: Lourdes disseta la sete di bellezza

Intervista con il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura

di Paolo Centofanti

CITTÀ DEL VATICANO, lunedì, 25 agosto, 2008 (ZENIT.org).- Quest’anno si celebra il 150° anniversario delle apparizioni della Vergine alla piccola Bernadette Soubirou. Papa Benedetto XVI si recherà in Francia visitando, dopo Parigi (dal 12 al 13 settembre), Lourdes e la grotta di Massabielle

In concomitanza con le celebrazioni, cresce il numero di pellegrini che si recano al Santuario, al punto che l’Unitalsi ha dovuto organizzare un maggior numero di « treni bianchi ».

Si moltiplicano poi gli eventi destinati a commemorare l’evento, come il Congresso internazionale “I pellegrinaggi: percorsi storici, percorsi di fede e percorsi geografici”, che si svolgerà a Roma dal 17 al 19 settembre.

Per saperne di più sulle iniziative in corso, e per una analisi del « fenomeno » Lourdes e del suo valore per i credenti e le Chiesa, ZENIT ha intervistato monsignor Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione dei Beni Culturali.

Un colloquio amichevole, in cui monsignor Ravasi ha colto l’opportunità per parlare dell’importanza del sacro e della figura mariana nell’arte, e anticipare alcune iniziative promosse dai Dicasteri da lui presieduti.Quest’anno si festeggiano i 150 anni dalle apparizioni di Lourdes. Quali sono le iniziative più importanti e quali le vostre eventuali attività o collaborazioni?

Mons. Ravasi: Dobbiamo dire che noi, strettamente parlando, non possiamo coprire ciò che viene fatto da parte di altri Dicasteri vaticani, che su un evento di questo genere investono molto di più, perché un po’ fa parte della loro missione.

Vorrei segnalare soltanto due elementi che sono caratteristici del nostro Dicastero e che mi permettono forse di parlare anche di un’altra delle attività che il Pontificio Consiglio della Cultura realizza. Da un lato, e questo è un dato soltanto direi di cronaca, ma significativo, il Legato Pontificio per queste celebrazioni è il mio predecessore, il Cardinale Paul Poupard; quindi abbiamo in un certo senso simbolicamente la nostra presenza, attraverso colui che è stato una persona fondamentale nella costituzione di questo Dicastero e nella sua vita.

Vi è una seconda considerazione che vorrei fare, anche se non è direttamente collegata a questo evento di Lourdes. Noi, attraverso un nostro dipartimento, e attraverso poi un altro Dicastero che presiedo, che è la Pontificia Commissione dei Beni Culturali, ci interessiamo molto dell’arte. E l’arte naturalmente ha un orizzonte molto vasto, pensiamo per esempio che cos’è l’iconografia.

Ecco, io penso che si potrà, nell’interno di questo ambito, favorire sempre di più un’arte sacra, che abbia in sé una componente importante che, lo sappiamo, è la componente mariana; pensiamo che cos’è nella storia dell’arte la figura di Maria. Finalità per le quali lei, con i suoi Dicasteri, sta portando avanti progetti specifici…

Mons. Ravasi: Sì. Vorrei innanzitutto ricordare un’idea che ho in un certo senso lanciato, anche se non come Pontificio Consiglio della Cultura, ma come Pontificia Commissione dei Beni Culturali: la probabile presenza, non diretta ma parallela, alla Biennale di Venezia del prossimo anno.

Questa presenza della Santa Sede, che vorrei realizzare, ha proprio lo scopo di favorire una nuova arte che tenga conto anche dei grandi soggetti religiosi, ivi compreso il soggetto mariano, e non solo.

Perché il dialogo con l’architettura c’è: le chiese moderne vengono costruite effettivamente da grandi architetti a livello internazionale, quali Renzo Piano, Mario Botta, Kenzo Tange, Tadao Ando, Alvaro Siza e altri.

Però queste chiese nell’interno o sono spoglie, perché hanno soltanto l’architettura della luce, o hanno immagini di cattivo gusto, oppure hanno la presenza dell’artigianato soltanto, e non invece, come accadeva in passato, grandi opere d’arte.

Pensiamo alle grandi chiese del Cinquecento, dell’arte barocca, che avevano in sé la meraviglia dell’architettura, ma anche la presenza di artisti come Bernini, per esempio, oppure Tiziano, Veronese. Pensiamo alle grandi chiese veneziane, quali presenze altissime hanno, dal punto di vista della storia dell’arte.

Ecco, io vorrei, attraverso questo esperimento che vogliamo realizzare con la Biennale di Venezia, sollecitare i grandi artisti contemporanei. Faccio solo qualche nome, per esempio negli Stati Uniti Bill Viola, Anish Kapoor per l’India, per l’Europa Jannis Kounellis.

Grandi artisti, che ritornino ancora a rappresentare le grandi immagini religiose, creando anche un interesse da parte della committenza stessa, cioè delle autorità ecclesiali, affinchè ripropongano ancora le grandi opere nell’interno delle loro chiese.

Un altro capitolo importante potrebbe essere poi anche il capitolo della cinematografia, in modo che ritorni ancora ad essere viva; una cinematografia che proponga non documentari di bassa qualità, ma che proponga per esempio il grande cinema, con le grandi domande. Pensiamo a nomi come Bergman, Bresson, Dreyer, o anche più vicino a noi Olmi, lo stesso Rossellini, che si era interessato di questi temi.

Come Pontificio Consiglio della Cultura abbiamo stimolato, costituito e favorito una scuola che porta il titolo di « Filmare l’invisibile », e che è attualmente a Guadalajara in Messico, e che ha sollecitato subito l’interesse della New York Film Academy e degli Universal Studios di Los Angeles; con entrambi ora siamo in collaborazione. Il che vuol dire che alla fine proporre una filmografia vuol dire sollecitare interessi molto maggiori di quanto si immagini.

Ecco forse l’arte potrebbe essere il modo per riproporre ancora la figura di Maria, ma anche la figura delle grandi immagini e dei grandi personaggi, a partire da Cristo naturalmente, della tradizione cristiana. Qual è la specificità di Lourdes, e perché ancora oggi continua a essere così importante per i credenti?

Mons. Ravasi: Penso alla devozione mariana, che sappiamo essere una delle componenti caratteristiche della tradizione, non soltanto cattolica; pensiamo al mondo ortodosso, oppure anche a Lutero che aveva scritto un Magnificat di grande intensità, e parlava spessissimo con rispetto della « dolce madre di Cristo ».

Al di là di questo, dell’elemento cioè strettamente religioso, immediato, legato alla figura della Madonna, e al di là, dobbiamo dire, della speranza che alla fine il pellegrino ha (anche a volte una speranza di guarigione), penso che una componente importante sia il tema della spiritualità e della religiosità.

E’ per questo che Lourdes, più che non certi altri luoghi di apparizioni più clamorose, basati più su idee quasi di tipo sensazionale, sia invece il ritorno alla coscienza, alla spiritualità, alla liturgia, alla conversione. Difatti, penso che le grandi celebrazioni liturgiche di Lourdes siano celebrazioni esemplari, sia per la musica, sia per i canti, sia per la partecipazione.

Ecco, forse i santuari devono diventare come un grande luogo di esemplarità della vita di fede, un grande luogo in cui si annuncia la fede. E forse la presenza così numerosa e variegata di pellegrini, può diventare l’elemento che fa tornare questi pellegrini nelle loro terre con una carica interiore più viva.

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, ZENITH |on 26 août, 2008 |Pas de commentaires »

Predicatore del Papa: « non basta credere nella divinità di Cristo » (domenica XXI T.O.)

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Predicatore del Papa: « non basta credere nella divinità di Cristo »


Il commento di padre Cantalamessa al Vangelo della XXI domenica

ROMA, venerdì, 22 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia -, alla liturgia di domenica prossima, XXI del tempo ordinario.

* * *

XXI Domenica del tempo ordinario

Isaia 22, 19-23; Romani 11, 33-36; Matteo 16, 13-20

« Voi, chi dite che io sia? »


C’è, nella cultura e nella società di oggi, un fatto che ci può introdurre alla comprensione del Vangelo di questa domenica, ed è il sondaggio di opinioni. Lo si pratica un po’ dappertutto, ma soprattutto in ambito politico e commerciale. Anche Gesù un giorno volle fare un sondaggio di opinioni, ma per fini, vedremo, diversi: non politici, ma educativi. Giunto nella regione di Cesarea di Filippo, cioè nella regione più a nord d’Israele, in una pausa di tranquillità, in cui era solo con gli apostoli, Gesù rivolse loro a bruciapelo la domanda: « La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo? »

Sembra che gli apostoli non aspettassero altro per poter finalmente dare la stura a tutte le voci che circolavano sul suo conto. Rispondono: « Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti ». Ma a Gesù non interessava misurare il livello della sua popolarità o il suo indice di gradimento presso la gente. Il suo scopo era ben altro. Incalza perciò chiedendo: « Voi chi dite che io sia? »

Questa seconda domanda, inattesa, li spiazza completamente. Silenzio e sguardi che si incrociano. Se alla prima domanda si legge che gli apostoli « risposero », tutti insieme, in coro, questa volta il verbo è al singolare; uno solo « rispose », Simon Pietro: « Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente! »

Tra le due risposte c’è un salto abissale, una « conversione ». Se prima, per rispondere, era bastato guardarsi intorno, aver ascoltato le opinioni della gente, ora devono guardarsi dentro, ascoltare una voce ben diversa, che non viene dalla carne e dal sangue, ma dal Padre che sta nei cieli. Pietro è stato oggetto di una illuminazione « dall’alto ».

È il primo chiaro riconoscimento, stando ai vangeli, della vera identità di Gesù di Nazareth. Il primo atto pubblico di fede in Cristo della storia! Pensiamo alla scia prodotta in mare da un bel vascello. Essa va allargandosi a misura che il vascello avanza, fino a perdersi all’orizzonte. Ma comincia con una punta che è la punta stessa del vascello. Così è della fede in Gesù Cristo. Essa è una scia che è andata allargandosi nella storia, fino a raggiungere « gli estremi confini della terra ». Ma comincia con una punta. E questa punta è l’atto di fede di Pietro: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente ». Gesù usa un’altra immagine, che, più che il movimento, fa risaltare la stabilità; un’immagine in verticale, anziché in orizzontale: roccia, pietra: « Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa ».

Gesù cambia il nome a Simone, come si fa nella Bibbia quando uno riceve una nuova importante missione: lo chiama Kefa, Roccia. La vera roccia, la « pietra angolare » è, e resta, lui stesso, Gesù. Ma, una volta risorto e asceso al cielo, questa « pietra angolare », pur se presente e operante, è invisibile. Occorre un segno che la rappresenti, che renda visibile ed efficace nella storia questo « fondamento inconcusso » che è Cristo. E questo sarà appunto Pietro e, dopo di lui, colui che ne farà le veci, il papa, successore di Pietro, come capo del collegio degli apostoli.

Ma torniamo all’idea del sondaggio. Il sondaggio di Gesù, abbiamo visto, si svolge in due tempi, comporta due quesiti fondamentali: primo: « Chi dice la gente che io sia? »; secondo, « Voi chi dite che io sia? ». Gesù non sembra dare molta importanza a quello che pensa la gente di lui; gli interessa sapere cosa pensano i suoi discepoli. Li incalza con quel « ma voi chi dite che io sia? ». Non permette che si trincerino dietro le opinioni altrui, vuole che dicano la loro opinione.

La situazione si ripete, quasi identica, al giorno d’oggi. Anche oggi « la gente », l’opinione pubblica, ha le sue idee su Gesù. Gesù è di moda. Guardiamo a quello che avviene nel mondo della letteratura e dello spettacolo. Non passa anno che non esca un romanzo o un film con una propria visione distorta e dissacratoria di Cristo. Il caso del Codice da Vinci di Dan Brown è stato il più clamoroso e sta avendo tanti imitatori.

Poi ci sono quelli che sono a metà strada. Come la gente del suo tempo, ritiene Gesù « uno dei profeti ». Una persona affascinante, lo si colloca accanto a Socrate, Gandhi, Tolstoj. Sono sicuro che Gesù non disprezza queste risposte, perché di lui si dice che « non spegne il lucignolo fumigante e non spezza la canna incrinata », cioè sa apprezzare ogni sforzo onesto da parte dell’uomo. Ma è una risposta che non regge, neppure alla logica umana. Gandhi o Tolstoj non hanno mai detto: « Io sono la via, la verità e la vita », oppure « Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me ».

Con Gesù non ci si può fermare a metà strada: o è quello che dice di essere, o non è un grande uomo, ma il più grande pazzo esaltato della storia. Non ci sono vie di mezzo. Esistono edifici e strutture metalliche (una credo sia la torre Eiffel di Parigi) così fatti che se si tocca un certo punto, o si asporta un certo elemento, crolla tutto. Tale è l’edificio della fede cristiana, e questo punto nevralgico è la divinità di Gesù Cristo.

Ma lasciamo le risposte della gente e veniamo a noi credenti. Non basta credere nella divinità di Cristo, bisogna anche testimoniarla. Chi lo conosce e non da testimonianza di questa fede, anzi la nasconde, è più responsabile davanti a Dio di chi non ha la stessa fede. In una scena del dramma « Il padre umiliato » di Claudel, una fanciulla ebrea, bellissima ma cieca, alludendo al duplice significato di luce, chiede al suo amico cristiano: « Voi che ci vedete, che uso avete fatto della luce? ». È una domanda rivolta a tutti noi che ci professiamo credenti.

Colloquio di Benedetto XVI con il clero di Bolzano-Bressanone

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Colloquio di Benedetto XVI con il clero di Bolzano-Bressanone

BRESSANONE, martedì, 19 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del colloquio di Benedetto XVI con il clero della diocesi di Bolzano-Bressanone, durante l’incontro svoltosi mercoledì 6 agosto nel Duomo di Bressanone.

* * *

Michael Horrer, seminarista – Santo Padre, mi chiamo Michael Horrer e sono seminarista. In occasione della XXIII Giornata mondiale della Gioventù di Sydney, in Australia, alla quale ho partecipato con altri giovani della nostra diocesi, Lei ha ribadito continuamente ai 400 mila giovani presenti l’importanza dell’opera dello Spirito Santo in noi giovani e nella Chiesa. Il tema della Giornata era: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni» (At 1, 8). Ora noi giovani siamo ritornati — rafforzati dallo Spirito Santo e dalle Sue parole — nelle nostre case, nella nostra diocesi ed alla nostra vita quotidiana. Santo Padre, come possiamo vivere concretamente qui, nel nostro Paese e nella nostra vita quotidiana, i doni dello Spirito Santo e testimoniarli agli altri, in modo che anche i nostri parenti, amici e conoscenti sentano e sperimentino la forza dello Spirito Santo e noi possiamo esercitare la nostra missione di testimoni di Cristo? Cosa ci può consigliare, per fare in modo che la nostra diocesi rimanga giovane nonostante l’invecchiamento del clero e rimanga anche aperta all’opera dello Spirito di Dio che guida la Chiesa?

Grazie per questa domanda. Sono contento di vedere un seminarista, un candidato al sacerdozio di questa diocesi, nel cui volto posso in un certo senso ritrovare il volto giovane della diocesi, e sono contento di sentire che Lei, insieme ad altri, è stato a Sydney, dove in una grande festa della fede abbiamo sperimentato insieme proprio la giovinezza della Chiesa. Anche per gli australiani è stata una grande esperienza. Inizialmente avevano guardato a questa Giornata mondiale della gioventù con grande scetticismo perché ovviamente avrebbe portato con sé molti impedimenti nella vita quotidiana, molti fastidi, come ad esempio per il traffico eccetera. Ma alla fine l’abbiamo visto anche dai media, i cui pregiudizi si sono sbriciolati pezzo per pezzo tutti si sono sentiti coinvolti da questa atmosfera di gioia e di fede; hanno visto che i giovani vengono e non creano problemi di sicurezza e nemmeno di altro genere, ma sanno stare insieme con gioia. Hanno visto che anche oggi la fede è una forza presente, che è una forza capace di dare il giusto orientamento alle persone, per cui c’è stato un momento in cui abbiamo veramente sentito il soffio dello Spirito Santo che spazza via i pregiudizi, che fa capire agli uomini che sì, qui troviamo quello che ci tocca da vicino, questa è la direzione in cui dobbiamo andare; e così si può vivere, così si apre il futuro.

A ragione Lei ha detto che è stato un momento forte, dal quale abbiamo riportato a casa una fiammella. Nella vita quotidiana, però, è molto più difficile percepire concretamente l’operare dello Spirito Santo o addirittura essere personalmente mezzo affinché Egli possa essere presente, affinché si verifichi quel soffio che spazza via i pregiudizi del tempo, che nel buio crea la luce e ci fa sentire che la fede non solo ha

un futuro, ma è il futuro. Come possiamo realizzare ciò? Certamente, da soli non ne siamo in grado. Alla fine, è il Signore che ci aiuta, ma noi dobbiamo essere strumenti disponibili. Direi semplicemente: nessuno può dare quello che non possiede personalmente, cioè: non possiamo trasmettere lo Spirito Santo in modo efficace, renderlo percepibile, se noi stessi non gli siamo vicini. Ecco perché io penso che la cosa più importante sia che noi stessi rimaniamo, per così dire, nel raggio del soffio dello Spirito Santo, in contatto con lui. Soltanto se saremo continuamente toccati interiormente dallo Spirito Santo, se Egli ha la sua presenza in noi, soltanto allora possiamo anche trasmetterlo ad altri, Egli allora ci dà la fantasia e le idee creative sul come fare; idee che non si possono programmare ma che nascono nella situazione stessa, perché lì lo Spirito Santo sta operando. Quindi, primo punto: dobbiamo noi stessi rimanere nel raggio del soffio dello Spirito Santo. Il Vangelo di Giovanni ci racconta come, dopo la Risurrezione, il Signore viene dai discepoli, soffia su di loro e dice:

«Ricevete lo Spirito Santo». Questo è un parallelo alla Genesi, dove Dio soffia sull’impasto di terra e questo prende vita e diventa uomo. Ora l’uomo, che interiormente è oscurato e mezzo morto, riceve nuovamente il soffio di Cristo ed è questo soffio di Dio che gli dà una nuova dimensione di vita, gli dà la vita con lo Spirito Santo. Possiamo quindi dire: lo Spirito Santo è il soffio di Gesù Cristo e noi, in un certo senso, dobbiamo chiedere a Cristo di soffiare sempre su di noi affinché in noi questo soffio diventi vivo e forte e operi nel mondo. Ciò significa dunque che dobbiamo tenerci vicini a Cristo. Noi lo facciamo meditando la sua Parola. Noi sappiamo che l’autore principale delle Sacre Scritture è lo Spirito Santo. Quando attraverso di essa noi parliamo con Dio, quando in essa non cerchiamo soltanto il passato ma veramente il Signore presente che ci parla, allora è come se noi ci trovassimo come ho detto anche in Australia a passeggiare nel giardino dello Spirito Santo, parliamo con Lui, Egli parla con noi. Ecco, imparare ad essere di casa in questo ambito, nell’ambito della Parola di Dio è una cosa molto importante che, in un certo senso, ci introduce nel soffio di Dio. E poi, naturalmente, questo ascoltare, camminare nell’ambito della Parola deve trasformarsi in una risposta, una risposta nella preghiera, nel contatto con Cristo. E, naturalmente, innanzitutto nel Santo Sacramento dell’Eucaristia, nel quale Egli ci viene incontro ed entra in noi, quasi si fonde con noi. Ma poi anche nel Sacramento della Penitenza, che sempre ci purifica, che lava via le oscurità che la vita quotidiana ripone in noi.

In breve, una vita con Cristo nello Spirito Santo, nella Parola di Dio e nella comunione della Chiesa, nella sua comunità viva. Sant’Agostino ha detto: «Se vuoi lo Spirito di Dio, devi essere nel Corpo di Cristo». Nel Corpo mistico di Cristo si trova l’ambito del suo Spirito. Tutto questo dovrebbe determinare lo svolgimento della nostra giornata, in modo che diventi una giornata strutturata, un giorno in cui Dio ha sempre accesso a noi, in cui continuamente si verifica il contatto con Cristo, in cui proprio per questo riceviamo continuamente il soffio dello Spirito Santo. Se faremo questo, se non saremo troppo pigri, indisciplinati o indolenti, allora ci accadrà qualcosa, allora la giornata prenderà una forma e allora la nostra stessa vita prenderà una forma in essa e questa luce emanerà da noi senza che dobbiamo stare a pensarci troppo o che dobbiamo adottare un modo d’agire per così dire «propagandistico»: viene da sé, perché

rispecchia il nostro animo.A questa aggiungerei poi una seconda dimensione, logicamente collegata con la prima: se viviamo con Cristo, anche le cose umane ci riusciranno bene. Infatti, la fede non comporta solo un aspetto soprannaturale, essa ricostruisce l’uomo riportandolo alla sua umanit

à, come mostra quel parallelo tra la Genesi e Giovanni 20; essa si basa proprio sulle virtù naturali: l’onestà, la gioia, la disponibilità ad ascoltare il prossimo, la capacità di perdonare, la generosità, la bontà, la cordialità tra le persone. Queste virtù umane sono indicative del fatto che la fede è veramente presente, che noi veramente siamo con Cristo. E credo che dovremmo fare molta attenzione, anche per quanto riguarda noi stessi, a questo: far maturare in noi l’autentica umanità, perché la fede comporta la piena realizzazione dell’essere umano, dell’umanità. Dovremmo far attenzione a svolgere bene ed in maniera giusta le cose umane anche nella professione, nel rispetto del prossimo, preoccupandoci del prossimo, che è il modo migliore per preoccuparci di noi stessi: infatti, «esserci» per il prossimo è il modo migliore di «esserci» per noi stessi. E da questo nascono poi quelle iniziative che non si possono programmare: le comunità di preghiera, le comunità che leggono insieme la Bibbia o anche l’aiuto fattivo alle persone che sono in necessità, che ne hanno bisogno, che si trovano ai margini della vita, ai malati, agli handicappati e tante altre cose ancora … Ecco che ci si aprono gli occhi per vedere le nostre capacità personali, per prendere le corrispondenti iniziative e saper infondere negli altri il coraggio di fare altrettanto. E proprio queste cose umane poi ci fortificano, mettendoci in qualche modo nuovamente in contatto con lo Spirito di Dio.

Il Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta a Roma mi ha raccontato che a Natale è andato con alcuni giovani alla stazione per portare un po’ di Natale alle persone abbandonate. Mentre egli stesso poi stava ritirandosi, ha sentito uno dei giovani dire all’altro: «Questo è più forte della discoteca. Qui è veramente bello, perché posso fare qualcosa per gli altri!»

. Queste sono le iniziative che lo Spirito Santo suscita in noi. Senza tante parole esse ci fanno sentire la forza dello Spirito e si viene resi attenti a Cristo.

Bè, forse ho detto ora poco di concreto, ma penso che la cosa più importante sia che, innanzitutto, la nostra vita sia orientata verso lo Spirito Santo, perché viviamo nell’ambito dello Spirito, nel Corpo di Cristo, e che poi da questo sperimentiamo l’umanizzazione, curiamo le semplici virtù umane ed impariamo così ad essere buoni nel senso più ampio della parola. In questo modo si acquista sensibilità per le iniziative di bene che poi naturalmente sviluppano una forza missionaria e in un certo senso preparano quel momento in cui diventa sensato e comprensibile parlare di Cristo e della nostra fede.

P. Willibald Hopfgartner ofm – Santo Padre, mi chiamo Willibald Hopfgartner, sono francescano e opero nella scuola e in diversi ambiti del governo dell’Ordine. Nel Suo Discorso di Ratisbona Lei ha sottolineato il legame sostanziale tra lo Spirito divino e la ragione umana. Dall’altro canto, Lei ha anche sempre sottolineato l’importanza dell’arte e della bellezza, dell’estetica. Allora, accanto al dialogo concettuale su Dio (in teologia), non dovrebbe essere sempre di nuovo ribadita l’esperienza estetica della fede nell’ambito della Chiesa, per l’annuncio e la liturgia?

Grazie. Sì, penso che le due cose vadano insieme: la ragione, la precisione, l’onestà della riflessione sulla verità, e la bellezza. Una ragione che in qualche modo volesse spogliarsi della bellezza, sarebbe dimezzata, sarebbe una ragione accecata. Soltanto le due cose unite formano l’insieme, e proprio per la fede questa unione è importante. La fede deve continuamente affrontare le sfide del pensiero di questa epoca, affinché essa non sembri una sorta di leggenda irrazionale che noi manteniamo in vita, ma sia veramente una risposta alle grandi domande; affinché non sia solo abitudine ma verità come ebbe a dire una volta Tertulliano. San Pietro, nella sua prima Lettera, aveva scritto quella frase che i teologi del medioevo avevano preso come legittimazione, quasi come incarico per il loro lavoro teologico: «Siate pronti in ogni momento a rendere conto del senso della speranza che è in voi» apologia del logos della speranza, un trasformare cioè il logos, la ragione della speranza in apologia, in risposta agli uomini. Evidentemente, egli era convinto del fatto che la fede fosse logos, che essa fosse una ragione, una luce che proviene dalla Ragione creatrice, e non un bel miscuglio, frutto del nostro pensiero. Ed ecco perché è universale, per questo può essere comunicata a tutti.

Ma proprio questo logos

creatore non è soltanto un logos tecnico su questo aspetto torneremo con un’altra risposta è ampio, è un logos che è amore e quindi tale da esprimersi nella bellezza e nel bene. E, in realtà, una volta ho detto che per me l’arte ed i santi sono la più grande apologia della nostra fede. Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso. Invece, se guardiamo i Santi, questa grande scia luminosa con la quale Dio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce. E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale: è un annuncio vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale riusciamo ad annunciare visivamente Dio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio. E nel cristianesimo si tratta proprio di questa epifania: che Dio è diventato una velata Epifania appare e risplende. Abbiamo appena ascoltato l’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via … Ascoltando tutte queste opere le Passioni di Bach, la sua Messa in sì bemolle e le grandi composizioni spirituali della polifonia del xvi secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità. Senza un’intuizione che scopra il vero centro creativo del mondo, non può nascere tale bellezza. Per questo penso che dovremmo sempre fare in modo che le due cose siano insieme, portarle insieme. Quando, in questa nostra epoca, discutiamo della ragionevolezza della fede, discutiamo proprio del fatto che la ragione non finisce dove finiscono le scoperte sperimentali, essa non finisce nel positivismo; la teoria dell’evoluzione vede la verit

à, ma ne vede soltanto metà: non vede che dietro c’è lo Spirito della creazione. Noi stiamo lottando per l’allargamento della ragione e quindi per una ragione che, appunto, sia aperta anche al bello e non debba lasciarlo da parte come qualcosa di totalmente diverso e irragionevole. L’arte cristiana è un’arte razionale pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca ma è espressione artistica di una ragione molto ampliata, nella quale cuore e ragione si incontrano. Questo è il punto. Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente.

Allora, caro Padre Hopfgartner, grazie per la domanda; cerchiamo di fare in modo che le due categorie, quella estetica e quella noetica, siano unite e che in questa grande ampiezza si manifesti l’interezza e la profondità della nostra fede.

Willi Fusaro – Santo Padre, sono don Willi Fusaro, ho 42 anni e sono ammalato dall’anno della mia ordinazione sacerdotale. Sono stato ordinato nel giugno del 1991; poi nel settembre dello stesso anno ho avuto la diagnosi di sclerosi multipla. Sono cooperatore parrocchiale presso la parrocchia del Corpus Domini di Bolzano. Mi ha colpito molto la figura di Giovanni Paolo ii, soprattutto nell’ultimo tempo del suo pontificato, quando portava con coraggio e umiltà, davanti al mondo intero, la sua umana debolezza.

Vista la sua vicinanza al suo amato predecessore, e in base alla sua personale esperienza, quali parole mi può donare e può donare a tutti noi per aiutare davvero i sacerdoti, anziani, ammalati a vivere bene e fruttuosamente il loro sacerdozio nel presbiterio e nella comunità cristiana? Grazie!

Grazie, reverendo. Dunque, anche io direi che per me le due parti del pontificato di Papa Giovanni Paolo ii sono ugualmente importanti. La prima parte nella quale lo abbiamo visto come gigante della fede: egli con un coraggio incredibile, una forza straordinaria, una vera gioia della fede, una grande lucidità, ha portato sino ai confini della terra il messaggio del Vangelo. Ha parlato con tutti, ha aperto nuove strade con i Movimenti, con il dialogo interreligioso, con gli incontri ecumenici, con l’approfondimento dell’ascolto della Parola Divina, con tutto… con il suo amore per la Sacra Liturgia. Lui realmente possiamo dire

ha fatto cadere non le mura di Gerico, ma le mura tra due mondi, proprio con la forza della sua fede e questa testimonianza rimane indimenticabile, rimane una luce per questo nuovo millennio. Ma devo dire che per me anche questi ultimi anni del suo Pontificato non erano di minore importanza, a motivo di questa testimonianza umile della sua passione. Come ha portato la Croce del Signore davanti a noi e ha realizzato la parola del Signore:

«Seguitemi, portando con me, e seguendo me, la Croce»! Questa umiltà, questa pazienza con la quale ha accettato quasi la distruzione del suo corpo, la crescente incapacità di usare la parola, lui che era stato maestro della parola. E così ci ha mostrato mi sembra visibilmente questa verità profonda che il Signore ci ha redento con la sua Croce, con la Passione come estremo atto del suo amore. Ci ha mostrato che la sofferenza non è solo un non, un qualcosa di negativo, la mancanza di qualche cosa, ma è una realtà positiva. Che la sofferenza accettata nell’amore di Cristo, nell’amore di Dio e degli altri è una forza redentrice, una forza dell’amore e non meno potente che i grandi atti che aveva fatto nella prima parte del suo Pontificato. Ci ha insegnato un nuovo amore per i sofferenti e fatto capire che cosa vuol dire «nella Croce e per la Croce siamo salvati». Anche nella vita del Signore abbiamo questi due aspetti. La prima parte dove insegna la gioia del Regno di Dio, porta i suoi doni agli uomini e poi, nella seconda parte, l’immergersi nella Passione, fino all’ultimo grido dalla Croce. E proprio così ci ha insegnato chi è Dio, che Dio è amore e che nell’identificarsi con la nostra sofferenza di esseri umani ci prende nelle sue mani e ci immerge nel suo amore e solo l’amore è il bagno di redenzione, di purificazione e di rinascita.

Perciò mi sembra che noi tutti e sempre di nuovo in un mondo che vive di attivismo, di giovinezza, dell’essere giovane, forte, bello, del riuscire a fare grandi cose dobbiamo imparare la verità dell’amore che si fa passione e proprio così redime l’uomo e lo unisce con Dio amore. Quindi vorrei ringraziare tutti coloro che accettano la sofferenza, che soffrono con il Signore e vorrei incoraggiare tutti noi ad avere un cuore aperto per i sofferenti, per gli anziani e capire che proprio la loro passione è una sorgente di rinnovamento per l’umanità e crea in noi amore e ci unisce al Signore. Ma alla fine è sempre difficile soffrire. Mi ricordo la sorella del cardinale Mayer: era molto ammalata, e lui le diceva, quando era impaziente: «Ma, vedi, tu sei adesso con il Signore». E lei ha risposto: «Per te è facile dire questo, perché tu sei sano, ma io sono nella passione». È vero, nella passione vera diventa sempre difficile unirsi realmente al Signore e rimanere in questa disposizione di unione con il Signore sofferente. Preghiamo dunque per tutti i sofferenti e facciamo quanto sta in noi per aiutarli, mostriamo la nostra gratitudine per il loro soffrire e assistiamoli in quanto possiamo, con questo grande rispetto per il valore della vita umana, proprio della vita sofferente sino alla fine. È questo un messaggio fondamentale del cristianesimo, che viene dalla teologia della Croce: che la sofferenza, la passione è presenza dell’amore di Cristo, è sfida per noi ad unirci con questa sua passione. Dobbiamo amare i sofferenti non solo con le parole, ma con tutta la nostra azione e il nostro impegno. Mi sembra che solo così siamo cristiani realmente. Ho scritto nella mia Enciclica Spe salvi

che la capacità di accettare la sofferenza e i sofferenti è misura dell’umanità che si possiede. Dove manca questa capacità, l’uomo è ridotto e ridimensionato. Quindi preghiamo il Signore perché ci aiuti nella nostra sofferenza e ci induca ad essere vicini a tutti i sofferenti in questo mondo.

Karl Golser – Santo Padre! Mi chiamo Karl Golser, sono professore di teologia morale qui a Bressanone e anche direttore dell’Istituto per la giustizia, la pace e la tutela della creazione; anche canonico. Mi piace ricordare il periodo in cui ho potuto lavorare con Lei alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Come Lei sa, la Chiesa cattolica ha profondamente forgiato la storia e la cultura nel nostro Paese. Oggi però, a volte abbiamo la sensazione che, come Chiesa, ci siamo un po’ ritirati in sagrestia. Le dichiarazioni del magistero pontificio in merito alle grandi questioni sociali non trovano il giusto riscontro a livello di parrocchie e di comunità ecclesiali. Qui, in Alto Adige, ad esempio, le autorità e molte associazioni richiamano fortemente l’attenzione sui problemi ambientali e in particolare sui cambiamenti climatici: gli argomenti principali sono lo scioglimento dei ghiacciai, le frane in montagna, i problemi del costo dell’energia, il traffico e l’inquinamento atmosferico. Molte sono le iniziative a favore della tutela dell’ambiente. Nella consapevolezza media dei nostri cristiani, però, tutto questo ha ben poco a che vedere con la fede. Cosa possiamo fare per portare maggiormente nella vita delle comunità cristiane il senso di responsabilità nei riguardi del creato? Come possiamo arrivare a vedere sempre più insieme la Creazione e la Redenzione? Come possiamo vivere in modo esemplare uno stile di vita cristiano, che sia durevole? E come unirlo ad una qualità di vita, che sia attraente per tutti gli uomini della nostra terra?

La ringrazio molto, caro professor Golser: sicuramente Lei potrebbe rispondere molto meglio di me a tali questioni, ma proverò lo stesso a dire qualcosa. Lei ha dunque toccato il Tema Creazione e Redenzione ed io penso che questo legame inscindibile debba ricevere nuovo rilievo. Negli ultimi decenni, la dottrina della Creazione era quasi scomparsa in teologia, era quasi impercettibile. Ora ci accorgiamo dei danni che ne derivano. Il Redentore è il Creatore e se noi non annunciamo Dio in questa sua totale grandezza di Creatore e di Redentore togliamo valore anche alla Redenzione. Infatti, se Dio non ha nulla da dire nella Creazione, se viene relegato semplicemente in un ambito della storia, come può realmente comprendere tutta la nostra vita? Come potrà portare veramente la salvezza per l’uomo nella sua interezza e per il mondo nella sua totalità? Ecco perché per me, il rinnovamento della dottrina della Creazione ed una nuova comprensione dell’inscindibilità di Creazione e Redenzione riveste una grandissima importanza.

Dobbiamo riconoscere nuovamente: Lui è il creator Spiritus

, la Ragione che è in principio e dalla quale tutto nasce e di cui la nostra ragione non è che una scintilla. Ed è Lui, il Creatore stesso, che è pure entrato nella storia e può entrare nella storia ed operare in essa proprio perché Egli è il Dio dell’insieme e non solo di una parte. Se riconosceremo questo, ne conseguirà ovviamente che la Redenzione, l’essere cristiani, semplicemente la fede cristiana significano sempre e comunque anche responsabilità nei riguardi della Creazione. Venti-trenta anni fa si accusavano i cristiani non so se questa accusa sia ancora sostenuta di essere i veri responsabili della distruzione della Creazione, perché la parola contenuta nella Genesi «Soggiogate la terra» avrebbe portato a quella arroganza nei riguardi del creato di cui noi oggi sperimentiamo le conseguenze. Penso che dobbiamo nuovamente imparare a capire questa accusa in tutta la sua falsità: fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di «soggiogarla» non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni; di collaborare noi stessi in modo attivo all’opera di Dio, all’evoluzione che Egli ha posto nel mondo, così che i doni della creazione siano valorizzati e non calpestati e distrutti.Se osserviamo quello che

è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutte queste cose non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla. In questo contesto rientra anche il capitolo 8 della Lettera ai Romani, dove si dice che la creazione soffre e geme per la sottomissione in cui si trova e che attende la rivelazione dei figli di Dio: si sentirà liberata quando verranno delle creature, degli uomini che sono figli di Dio e che la tratteranno a partire da Dio. Io credo che sia proprio questo che noi oggi possiamo constatare come realtà: il creato geme lo percepiamo, quasi lo sentiamo e attende persone umane che lo guardino a partire da Dio. Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo solo per noi stessi. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte, dove in questa vita dobbiamo accaparrarci il tutto e possedere la vita nella massima intensità possibile, dove dobbiamo possedere tutto ciò che è possibile possedere.

Io credo, quindi, che istanze vere ed efficienti contro lo spreco e la distruzione del creato possono essere realizzate e sviluppate, comprese e vissute soltanto là, dove la creazione è considerata a partire da Dio; dove la vita è considerata a partire da Dio e ha dimensioni maggiori nella responsabilità davanti a Dio e un giorno ci sarà donata da Dio in pienezza e mai tolta: donando la vita, noi la riceviamo. Così, credo, dobbiamo tentare con tutti i mezzi che abbiamo di presentare la fede in pubblico, specialmente là dove riguardo ad essa c’è già sensibilità. E penso che la sensazione che il mondo forse ci stia scivolando via perché siamo noi stessi a cacciarlo via e il sentirci oppressi dai problemi della creazione, proprio questo ci dia l’occasione adatta in cui la nostra fede può parlare pubblicamente e può farsi valere come istanza propositiva. Infatti, non si tratta soltanto di trovare tecniche che prevengano i danni, anche se è importante trovare energie alternative ed altro. Ma tutto questo non sarà sufficiente se noi stessi non troveremo un nuovo stile di vita, una disciplina fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro, perché è responsabilità davanti a Colui che è nostro Giudice e in quanto Giudice è

Redentore, ma appunto veramente anche nostro Giudice.

Penso quindi che sia necessario mettere in ogni caso insieme le due dimensioni Creazione e Redenzione, vita terrena e vita eterna, responsabilità nei riguardi del creato e responsabilità nei riguardi degli altri e del futuro e che sia nostro compito intervenire così in maniera chiara e decisa nell’opinione pubblica. Per essere ascoltati dobbiamo contemporaneamente dimostrare con il nostro stesso esempio, con il nostro proprio stile di vita, che stiamo parlando di un messaggio in cui noi stessi crediamo e secondo il quale è possibile vivere. E vogliamo chiedere al Signore che aiuti noi tutti a vivere la fede, la responsabilità della fede in maniera tale che il nostro stile di vita diventi testimonianza, e poi a parlare in maniera tale che le nostre parole portino in modo credibile la fede come orientamento in questo nostro tempo.

Franz Pixner, decano a Kastelruth – Santo Padre, mi chiamo Franz Pixner e sono il parroco di due grandi parrocchie. Io stesso, insieme a molti confratelli e anche laici, ci preoccupiamo del carico crescente nella cura pastorale a causa, per esempio, delle unità pastorali che si stanno creando: la pesante pressione del lavoro, la mancanza di riconoscimento, le difficoltà riguardo al Magistero, la solitudine, la diminuzione del numero dei sacerdoti ma anche delle comunità di fedeli. Molti si domandano che cosa Dio ci stia chiedendo in questa situazione, e in quale modo lo Spirito Santo ci voglia incoraggiare. In questo contesto nascono domande, per esempio in merito al celibato dei sacerdoti, all’ordinazione di viri probati al sacerdozio, al coinvolgimento dei carismi, in particolare anche dei carismi delle donne, nella pastorale, all’incarico a collaboratrici e collaboratori formati in teologia di conferire il battesimo e tenere omelie. Si pone anche la domanda di come noi sacerdoti, di fronte alle nuove sfide, possiamo aiutarci a vicenda in una comunità fraterna, e questo nei diversi livelli di diocesi, decanato, unità pastorale e parrocchia. La preghiamo, Santo Padre, di darci un buon consiglio per tutte queste domande. Grazie!

Caro decano, Lei ha aperto tutto il fascio di domande che occupano e preoccupano i pastori e noi tutti in questa nostra epoca e certamente Lei sa che io non sono in grado di dare in questo momento una risposta a tutto. Immagino che Lei avrà modo di ragionare ripetutamente di tutto questo anche con il suo Vescovo, e noi a nostra volta ne parliamo nei Sinodi dei Vescovi. Noi tutti, credo, abbiamo bisogno di questo dialogo tra di noi, del dialogo della fede e della responsabilità, per trovare la retta via in questo tempo sotto molti aspetti difficile per la fede e faticoso per i sacerdoti. Nessuno ha la ricetta pronta, stiamo cercando tutti insieme.

Con questa riserva, che cioè insieme a voi tutti mi trovo in mezzo a questo processo di fatica e di lotta interiore, cercherò di dire qualche parola, appunto come parte di un dialogo più ampio. Nella mia risposta vorrei considerare due aspetti fondamentali. Da un lato, l’insostituibilità del sacerdote, il significato e il modo del ministero sacerdotale oggi; dall’altro lato e questo oggi risalta più di prima la molteplicità dei carismi e il fatto che tutti insieme sono Chiesa, edificano la Chiesa e per questo dobbiamo impegnarci nel risvegliare i carismi, dobbiamo curare questo vivo insieme che poi sostiene anche il sacerdote. Egli sostiene gli altri, gli altri sostengono lui, e soltanto in questo insieme complesso e variegato la Chiesa può

crescere oggi e verso il futuro.Da una parte, ci sar

à sempre bisogno del sacerdote che è completamente dedito al Signore e perciò completamente dedito all’uomo. Nell’Antico Testamento c’è la chiamata alla santificazione che più o meno corrisponde a quello che noi intendiamo con la consacrazione, anche con l’ordinazione sacerdotale: c’è qualche cosa che viene consegnata a Dio e perciò viene tolta dalla sfera del comune, data a Lui. Ma questo poi significa che ora è a disposizione di tutti. Poiché è stata tolta e data a Dio, proprio per questo ora non è isolata ma è stata sollevata nel «per», nel per tutti. Penso che questo si possa dire anche del sacerdozio della Chiesa. Significa che, da un lato, siamo consegnati al Signore, tolti dal comune, ma, dall’altro, siamo consegnati a Lui perché in questo modo possiamo appartenergli totalmente e totalmente appartenere agli altri. Penso che dovremmo continuamente cercare di mostrare questo ai giovani a loro che sono idealisti, che vogliono fare qualcosa per l’insieme mostrare che proprio questa «estrazione dal comune» significa «consegna all’insieme» e che questo è un modo importante, il modo più importante per servire i fratelli. E di questo poi fa parte anche quel mettersi a disposizione del Signore veramente nella completezza del proprio essere e trovarsi quindi totalmente a disposizione degli uomini. Penso che il celibato sia un’espressione fondamentale di questa totalità e già per questo un grande richiamo in questo mondo, perché esso ha senso soltanto se noi crediamo veramente alla vita eterna e se crediamo che Dio ci impegna e che noi possiamo esserci per Lui.

Quindi, il sacerdozio è insostituibile perché nell’Eucaristia esso, partendo da Dio, sempre edifica la Chiesa, perché nel Sacramento della Penitenza sempre ci conferisce la purificazione, perché nel Sacramento il sacerdozio è, appunto, un essere coinvolto nel «per» di Gesù Cristo. Ma io so bene, quanto oggi sia difficile quando un sacerdote si trova a guidare non più soltanto una parrocchia di facile gestione, ma più parrocchie, unità pastorali; quando deve essere a disposizione per questo consiglio e per quell’altro e così via quanto sia difficile vivere una tale vita. Credo che in questa situazione sia importante avere il coraggio di limitarsi e la chiarezza nel decidere le priorità. Una priorità fondamentale dell’esistenza sacerdotale è lo stare con il Signore e quindi l’avere tempo per la preghiera. San Carlo Borromeo diceva sempre: «Non potrai curare l’anima degli altri se lasci che la tua deperisca. Alla fine, non farai più niente nemmeno per gli altri. Devi avere tempo anche per il tuo essere con Dio». Vorrei quindi sottolineare: per quanti impegni possano sopraggiungere, è una vera priorità di trovare ogni giorno, direi, un’ora di tempo per stare in silenzio per il Signore e con il Signore, come la Chiesa ci propone di fare con il breviario, con le preghiere del giorno, per così potersi sempre di nuovo arricchire interiormente, per ritornare come dicevo rispondendo alla prima domanda nel raggio del soffio dello Spirito Santo. E a partire da ciò ordinare poi le priorità

: devo imparare a vedere cosa sia veramente essenziale, dove sia assolutamente richiesta la mia presenza di sacerdote e non posso delegare nessuno. E allo stesso tempo devo accettare umilmente quando molte cose che avrei da fare e dove sarebbe richiesta la mia presenza non posso realizzare perch

é riconosco i miei limiti. Io credo che una tale umiltà sarà compresa dalla gente. E con ciò devo ora collegare l’altro aspetto: saper delegare, chiamare le persone alla collaborazione. Io ho l’impressione che la gente lo capisce e che anche lo apprezza, quando un sacerdote sta con Dio, quando bada al suo incarico di essere colui che prega per gli altri: Noi dicono non siamo capaci di pregare tanto, tu devi farlo per me: in fondo, è il tuo mestiere, per così dire, essere quello che prega per noi. Vogliono un sacerdote che onestamente si impegni a vivere con il Signore e poi sia a disposizione degli uomini i sofferenti, i moribondi, i bambini, i giovani (queste, direi, sono le priorità) ma che poi sappia anche distinguere le cose che altri possono fare meglio di lui, dando così spazio a quei carismi. Penso ai movimenti e a molteplici altre forme di collaborazione nella parrocchia. Su tutto questo si ragiona insieme anche nella Diocesi stessa, si creano forme e si promuovono gli interscambi. A ragione Lei ha detto che in ciò è importante guardare al di là della parrocchia verso la comunità della diocesi, anzi, verso la comunità della Chiesa universale, che a sua volta, deve poi rivolgere lo sguardo per vedere cosa succede in parrocchia e quali conseguenze ne derivano per il singolo sacerdote.

Poi Lei ha toccato ancora un altro punto, molto importante ai miei occhi: i sacerdoti, anche se magari vivono geograficamente più lontani gli uni dagli altri, sono una vera comunità di fratelli che devono sostenersi ed aiutarsi a vicenda. Questa comunione tra i sacerdoti è oggi quanto mai importante. Proprio per non piombare nell’isolamento, nella solitudine con le sue tristezze, è importante che possiamo incontrarci regolarmente. Sarà compito della Diocesi stabilire come realizzare al meglio gli incontri tra sacerdoti oggi c’è la macchina che facilità gli spostamenti affinché comunque sperimentiamo sempre di nuovo lo stare insieme, impariamo l’uno dall’altro, ci correggiamo a vicenda e vicendevolmente ci aiutiamo, ci rincuoriamo e ci consoliamo, affinché in questa comunione del presbiterio, insieme al Vescovo, possiamo rendere il nostro servizio alla Chiesa locale. Appunto: nessun sacerdote è sacerdote da solo, noi siamo presbiterio e solo in questa comunione con il Vescovo ognuno può rendere il suo servizio. Ora, questa bella comunione, da tutti riconosciuta su piano teologico deve poi anche tradursi in pratica, nei modi determinati dalla Chiesa locale. E deve allargarsi, perché anche nessun Vescovo è Vescovo da solo, ma soltanto Vescovo nel Collegio, nella grande comunione dei Vescovi. È questa comunione per la quale vogliamo sempre impegnarci. E penso che questo sia un aspetto particolarmente bello del cattolicesimo: attraverso il Primato, che non è una monarchia assoluta, ma un servizio di comunione, possiamo avere la certezza di questa unità, così che in una grande comunità

a tante voci, tutti insieme facciamo risuonare la grande musica della fede in questo mondo.

Preghiamo il Signore che ci consoli sempre quando pensiamo di non farcela più; sosteniamoci gli uni gli altri, e allora il Signore ci aiuterà a trovare insieme le strade giuste.

Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia all’Istituto Superiore di scienze religiose – Santo Padre, sono Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia all’Istituto Superiore di scienze religiose. Gradiremmo il suo parere pastorale sulla situazione riguardo ai sacramenti della Prima Comunione e della Confermazione. Sempre più spesso i bambini, i ragazzi e le ragazze che ricevono questi sacramenti si preparano con impegno per quanto riguarda gli incontri di catechesi, ma non partecipano all’Eucaristia domenicale e allora vien fatto di domandarsi: che senso ha tutto questo? Alle volte verrebbe voglia di dire: «Ma allora state a casa del tutto!». Invece si continua come sempre ad accettarli, pensando che in ogni caso è meglio non spegnere lo stoppino dalla fiamma tremolante. Si pensa cioè che comunque il dono dello Spirito possa incidere anche al di là di quello che vediamo e che in un’epoca di transizione come questa sia più prudente non prendere decisioni drastiche. Più in generale, trenta-trentacinque anni fa io pensavo che ci stessimo avviando ad essere un piccolo gregge, una comunità di minoranza più o meno in tutta l’Europa. Che si dovesse quindi donare i Sacramenti solo a chi si impegna veramente nella vita cristiana. Poi, anche per lo stile del pontificato di Giovanni Paolo II, ho riconsiderato le cose. Se è possibile fare previsioni per il futuro, Lei cosa pensa? Quali atteggiamenti pastorali ci può indicare? Grazie.

Allora, non posso dare una risposta infallibile in questo momento, posso solo cercare di rispondere secondo quanto vedo io. Devo dire che io ho percorso una strada simile alla sua. Quando ero più giovane ero piuttosto severo. Dicevo: i Sacramenti sono i Sacramenti della fede, e quindi dove la fede non c’è, dove non c’è prassi di fede, anche il Sacramento non può essere conferito. E poi ho sempre discusso quando ero arcivescovo di Monaco con i miei parroci: anche qui vi erano due fazioni, una severa e una larga. E anch’io nel corso dei tempi ho capito che dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era molto aperto anche con le persone ai margini dell’Israele di quel tempo, era un Signore della misericordia, troppo aperto secondo molte autorità ufficiali con i peccatori, accogliendoli o lasciandosi accogliere da loro nelle loro cene, attraendoli a sé nella sua comunione.

Quindi io direi sostanzialmente che i Sacramenti sono naturalmente Sacramenti della fede: dove non ci fosse nessun elemento di fede, dove la Prima Comunione fosse soltanto una festa con un grande pranzo, bei vestiti, bei doni, allora non sarebbe più un Sacramento della fede. Ma, dall’altra parte, se possiamo vedere ancora una piccola fiamma di desiderio della comunione nella Chiesa, un desiderio anche di questi bambini che vogliono entrare in comunione con Gesù, mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi. Naturalmente, certo, deve essere un aspetto della nostra catechesi far capire che la Comunione, la Prima Comunione, non è un fatto «puntuale», ma esige una continuità di amicizia con Gesù, un cammino con Gesù. Io so che i bambini spesso avrebbero intenzione e desiderio di andare la domenica a Messa, ma i genitori non rendono possibile questo desiderio. Se vediamo che i bambini lo vogliono, che hanno il desiderio di andare, mi sembra sia quasi un Sacramento di desiderio, il «voto» di una partecipazione alla Messa domenicale. In questo senso dovremmo naturalmente fare il possibile nel contesto della preparazione ai Sacramenti, per arrivare anche ai genitori e diciamo così svegliare anche in loro la sensibilità per il cammino che fanno i bambini. Dovrebbero aiutare i loro bambini a seguire il proprio desiderio di entrare in amicizia con Gesù, che è forma della vita, del futuro. Se i genitori hanno il desiderio che i loro bambini possano fare la Prima Comunione, questo loro desiderio piuttosto sociale dovrebbe allargarsi in un desiderio religioso, per rendere possibile un cammino con Gesù

.

Direi quindi che, nel contesto della catechesi dei bambini, sempre il lavoro con i genitori è molto importante. E proprio questa è una delle occasioni di incontrarsi con i genitori, rendendo presente la vita della fede anche agli adulti, perché dai bambini mi sembra possono reimparare loro stessi la fede e capire che questa grande solennità ha senso soltanto, ed è vera ed autentica soltanto, se si realizza nel contesto di un cammino con Gesù, nel contesto di una vita di fede. Quindi convincere un po’, tramite i bambini, i genitori della necessità di un cammino preparatorio, che si mostra nella partecipazione ai misteri e comincia a far amare questi misteri. Direi che questa è certamente una risposta abbastanza insufficiente, ma la pedagogia della fede è sempre un cammino e noi dobbiamo accettare le situazioni di oggi, ma anche aprirle a un di più, perché non rimanga alla fine solo qualche ricordo esteriore di cose, ma sia veramente toccato il cuore. Nel momento nel quale veniamo convinti, il cuore è toccato, ha sentito un po’ l’amore di Gesù, ha provato un po’ il desiderio di muoversi in questa linea e in questa direzione. In quel momento, mi sembra, possiamo dire di aver fatto una vera catechesi. Il senso proprio della catechesi, infatti, dovrebbe essere questo: portare la fiamma dell’amore di Gesù, anche se piccola, ai cuori dei bambini e tramite i bambini ai loro genitori, aprendo così di nuovo i luoghi della fede nel nostro tempo.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 20 août, 2008 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto – Omelia per L’Assunzione di Maria 2007

dal sito: 

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20070815_castel-gandolfo_it.html

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ
DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Parrocchia di San Tommaso da Villanova, Castel Gandolfo
Mercoledì, 15 agosto 2007

Cari fratelli e sorelle,

nella sua grande opera « La Città di Dio », Sant’Agostino dice una volta che tutta la storia umana, la storia del mondo, è una lotta tra due amori: l’amore di Dio fino alla perdita di se stesso, fino al dono di se stesso, e l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, fino all’odio degli altri. Questa stessa interpretazione della storia come lotta tra due amori, tra l’amore e l’egoismo, appare anche nella lettura tratta dall’Apocalisse, che abbiamo sentito ora. Qui, questi due amori appaiono in due grandi figure. Innanzitutto vi è il dragone rosso fortissimo, con una manifestazione impressionante ed inquietante del potere senza grazia, senza amore, dell’

egoismo assoluto, del terrore, della violenza.Nel momento in cui san Giovanni scrisse l

’Apocalisse, per lui questo dragone era realizzato nel potere degli imperatori romani anticristiani, da Nerone fino a Domiziano. Questo potere appariva illimitato; il potere militare, politico, propagandistico dell’impero romano era tale che davanti ad esso la fede, la Chiesa appariva come una donna inerme, senza possibilità di sopravvivere, tanto meno di vincere. Chi poteva opporsi a questo potere onnipresente, che sembrava in grado di fare tutto? E tuttavia, sappiamo che alla fine ha vinto la donna inerme, ha vinto non l’egoismo, non l’odio; ha vinto l’amore di Dio e l’impero romano si è aperto alla fede cristiana.

Le parole della Sacra Scrittura trascendono sempre il momento storico. E così, questo dragone indica non soltanto il potere anticristiano dei persecutori della Chiesa di quel tempo, ma le dittature materialistiche anticristiane di tutti i periodi. Vediamo di nuovo realizzato questo potere, questa forza del dragone rosso nelle grandi dittature del secolo scorso: la dittatura del nazismo e la dittatura di Stalin avevano tutto il potere, penetravano ogni angolo, l’ultimo angolo. Appariva impossibile che, a lunga scadenza, la fede potesse sopravvivere davanti a questo dragone così forte, che voleva divorare il Dio fattosi bambino e la donna, la Chiesa. Ma in realtà, anche in questo caso alla fine, l’amore fu più forte dell’

odio.Anche oggi esiste il dragone in modi nuovi, diversi. Esiste nella forma delle ideologie materialiste che ci dicono:

è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservare i comandamenti di Dio; è cosa di un tempo passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere. E di nuovo, sembra assurdo, impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la sua forza mediatica, propagandistica. Sembra impossibile oggi ancora pensare a un Dio che ha creato l’uomo e che si è fatto bambino e che sarebbe il vero dominatore del mondo.

Anche adesso questo dragone appare invincibile, ma anche adesso resta vero che Dio è più forte del dragone, che l’amore vince e non l’egoismo. Avendo considerato così le diverse configurazioni storiche del dragone, vediamo ora l’altra immagine: la donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi, circondata da dodici stelle. Anche quest’immagine è multidimensionale. Un primo significato senza dubbio è che è la Madonna, Maria vestita di sole, cioè di Dio, totalmente; Maria che vive in Dio, totalmente, circondata e penetrata dalla luce di Dio. Circondata dalle dodici stelle, cioè dalle dodici tribù d’Israele, da tutto il Popolo di Dio, da tutta la comunione dei santi, e ai piedi la luna, immagine della morte e della mortalità. Maria ha lasciato dietro di sé la morte; è totalmente vestita di vita, è assunta con corpo e anima nella gloria di Dio e così, posta nella gloria, avendo superato la morte, ci dice: Coraggio, alla fine vince l’amore! La mia vita era dire: Sono la serva di Dio, la mia vita era dono di me, per Dio e per il prossimo. E questa vita di servizio arriva ora nella vera vita. Abbiate fiducia, abbiate il coraggio di vivere così

anche voi, contro tutte le minacce del dragone.Questo

è il primo significato della donna che Maria è arrivata ad essere. La « donna vestita di sole » è il grande segno della vittoria dell’amore, della vittoria del bene, della vittoria di Dio. Grande segno di consolazione. Ma poi questa donna che soffre, che deve fuggire, che partorisce con un grido di dolore, è anche la Chiesa, la Chiesa pellegrina di tutti i tempi. In tutte le generazioni di nuovo essa deve partorire Cristo, portarlo al mondo con grande dolore in questo modo sofferto. In tutti i tempi perseguitata, vive quasi nel deserto perseguitata dal dragone. Ma in tutti i tempi la Chiesa, il Popolo di Dio vive anche della luce di Dio e viene nutrito – come dice il Vangelo – di Dio, nutrito in se stesso col pane della Santa Eucaristia. E così in tutta la tribolazione, in tutte le diverse situazioni della Chiesa nel corso dei tempi, nelle diverse parti del mondo, soffrendo vince. Ed è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo.

Vediamo certamente che anche oggi il dragone vuol divorare il Dio fattosi bambino. Non temete per questo Dio apparentemente debole. La lotta è già cosa superata. Anche oggi questo Dio debole è forte: è la vera forza. E così la festa dell’Assunta è l’invito ad avere fiducia in Dio ed è anche invito ad imitare Maria in ciò che Ella stessa ha detto: Sono la serva del Signore, mi metto a disposizione del Signore. Questa è la lezione: andare sulla sua strada; dare la nostra vita e non prendere la vita. E proprio così siamo sul cammino dell’amore che è un perdersi, ma un perdersi che in realtà è l’

unico cammino per trovarsi veramente, per trovare la vera vita.Guardiamo Maria, l’Assunta. Lasciamoci incoraggiare alla fede e alla festa della gioia: Dio vince. La fede apparentemente debole è la vera forza del mondo. L’amore è più forte dell’odio. E diciamo con Elisabetta: Benedetta sei tu fra tutte le donne. Ti preghiamo con tutta la Chiesa: Santa Maria prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

Predicatore del Papa: Gesù chiede la comunione delle risorse della terra

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15154?l=italian

Predicatore del Papa: Gesù chiede la comunione delle risorse della terra

ROMA, giovedì, 31 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia -, alla liturgia di domenica prossima, XVIII del tempo ordinario.

* * *

XVIII Domenica del tempo ordinario

Isaia 55, 1-3; Romani

8,35.37-30; Matteo 14, 13-21

TUTTI MANGIARONO E FURONO SAZIATI

Un giorno Gesù si era ritirato in un luogo solitario, lungo la sponda del mare di Galilea. Ma quando fece per sbarcare, trovò una grande folla che lo attendeva. Egli « sentì compassione per loro e guarì i loro malati ». Parlò loro del regno di Dio. Intanto però si era fatto sera. Gli apostoli gli suggeriscono di congedare le folle, perché si procurino da mangiare nei villaggi vicini. Ma Gesù li lascia di stucco, dicendo loro, in modo che tutti sentano: « Date loro voi stessi da mangiare! ». « Non abbiamo, gli rispondono sconcertati, che cinque pani e due pesci! » Gesù ordina di portarglieli. Invita tutti a sedersi. Prende i cinque pani e i due pesci, prega, ringrazia il Padre, poi ordina di distribuire il tutto alla folla. « Tutti mangiarono e furono saziati e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati ». Erano cinquemila uomini, senza contare, dice il Vangelo, le donne e i bambini. Fu il picnic più gioioso nella storia del mondo!

Cosa ci dice questo vangelo? Primo, che Gesù si preoccupa e « sente compassione » di tutto l’uomo, corpo e anima. Alle anime distribuisce la parola, ai corpi la guarigione e il cibo. Voi direte: allora, perché non lo fa anche oggi? Perché non moltiplica il pane per i tanti milioni di affamati che ci sono sulla terra? Il vangelo della moltiplicazione dei pani contiene un dettaglio che ci può aiutare a trovare la risposta. Gesù non fece schioccare le dita e apparire, come per magia, pane e pesci a volontà. Chiese che cosa avevano; invitò a condividere quel poco che avevano: cinque pani e due pesci. Lo stesso fa oggi. Chiede che mettiamo in comune le risorse della terra.

È risaputo che, almeno dal punto di vista alimentare, la nostra terra sarebbe in grado di mantenere ben più miliardi di esseri umani di quelli attuali. Ma come possiamo accusare Dio di non fornire pane a sufficienza per tutti, quando ogni anno distruggiamo milioni di tonnellate di scorte alimentari, che chiamiamo « eccedenti », per non abbassare i prezzi? Migliore distribuzione, maggiore solidarietà e condivisione: la soluzione è qui.

Lo so: non è così semplice. C’è la mania degli armamenti, ci sono governanti irresponsabili che contribuiscono a mantenere tante popolazioni nella fame. Ma una parte di responsabilità ricade anche sui paesi ricchi. Noi siamo ora quella persona anonima (un ragazzo, secondo uno degli evangelisti) che ha cinque pani e due pesci; solo che ce li teniamo stretti e ci guardiamo bene dal consegnarli perché siano divisi tra tutti. Per il modo in cui è descritta (« prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, li benedisse, spezzò i pani e li diede ai discepoli »), la moltiplicazione dei pani e dei pesci ha fatto sempre pensare alla moltiplicazione di quell’altro pane che è il corpo di Cristo. Per questo le più antiche rappresentazioni dell’Eucaristia ci mostrano un canestro con cinque pani e, ai lati, due pesci, come il mosaico scoperto a Tabga, in Palestina, nella chiesa eretta sul luogo della moltiplicazione dei pani, o nell’affresco famoso delle catacombe di Priscilla.

In fondo, anche quello che stiamo facendo in questo momento è una moltiplicazione dei pani: il pane della parola di Dio. Io ho spezzato il pane della parola e Internet ha moltiplicato le mie parole, sicché ben più di cinquemila uomini, anche questa volta, hanno mangiato e si sono saziati. Resta un compito: « raccogliere i pezzi avanzati », far giungere la parola anche a chi non ha partecipato al banchetto. Farsi « ripetitori » e testimoni del messaggio.

Publié dans:Padre Cantalamessa, ZENITH |on 1 août, 2008 |Pas de commentaires »

L’uomo per la cultura (Ravasi) del Papa analizza il nuovo interesse per la Bibbia

dal sito: 

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L’uomo per la cultura del Papa analizza il nuovo interesse per la Bibbia

Intervista all’Arcivescovo Ravasi in preparazione del Sinodo della Parola

di Paolo Centofanti

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 31 luglio 2008 (ZENIT.org).- L’uomo per la cultura di Benedetto XVI, l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, constata un rinnovato interesse per le Sacre Scritture e la volontà di sostenerne lo studio e l’analisi. Lo testimoniano una recente indagine realizzata sulla conoscenza della Bibbia da parte dei fedeli e il progetto che ne vedr

à a ottobre la lettura in tv, su Rai 1 (cfr. ZENIT, 3 luglio 2008).

I Sacri testi saranno declamati da Papa Benedetto XVI (che aprirà e chiuderà i 7 giorni continui di lettura), da esponenti delle comunità che basano la propria religione sul Vecchio Testamento (come il Rabbino Capo della Comunità Ebraica, Riccardo Di Segni) e dai fedeli che si iscriveranno online. L’iniziativa è organizzata in occasione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio.

ZENIT ne ha parlato con monsignor Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione dei Beni Culturali, che ha spiegato il progetto e ha illustrato i risultati dell’indagine.

Nei mesi scorsi è stata presentata in Vaticano una ricerca sociale sulla Bibbia e la sua conoscenza. Può dirci quali sono state le motivazioni e quali sono gli obiettivi?

Monsignor Ravasi: Questa ricerca è stata effettuata dalla Federazione Biblica Cattolica internazionale, che è una istituzione a sé stante, che ha connessioni con il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani.E’ una ricerca che

è stata realizzata soprattutto in connessione con il Sinodo dei Vescovi, che quest’anno sarà dedicato proprio alla Bibbia.

Una ricerca che aveva anche il significato di fare il punto, dopo circa 40 anni dal Concilio Vaticano II, che aveva segnato quasi una sorta di riappropriazione della Bibbia da parte del mondo dei cattolici e della Chiesa Cattolica.

La Bibbia era certamente conosciuta anche precedentemente, soprattutto attraverso la liturgia, la catechesi, ma non in una maniera così sistematica e continua come è avvenuto dopo, soprattutto dopo quel documento fondamentale che è stato la Dei Verbum, questo testo sulla divina rivelazione del Concilio Vaticano II

Questo quindi era lo scopo principale, riuscire in qualche modo a testare la sensibilità nei confronti della Bibbia delle comunità ecclesiali di nove Nazioni, a cui si aggiungeranno tra poco altre quattro, in modo da poter avere una visione articolata e completa del rapporto tra la parola di Dio e le comunità.

Quali sono stati i risultati dell’indagine? Monsignor Ravasi: Devo dire che i risultati sono stati molto articolati, proprio perché lo schema e la struttura dell’investigazione erano molto accurati, entrando anche in aspetti inediti, e la campionatura era molto vasta.

Possiamo veramente dire che sono risultati interessanti e fondati, sempre naturalmente con tutti i limiti che hanno queste rilevazioni.

Si potrebbero fare almeno due considerazioni su questa base, questo paniere enorme di dati.

La prima è che indubbiamente in alcuni Paesi rispetto ad altri c’è ancora una distanza notevole dal testo sacro, dalla Bibbia.

Facciamo solo un esempio di un modello di questa investigazione, che può diventare significativo. Vi

è per esempio la domanda sulla lettura di una pagina biblica nell’arco dell’ultimo anno.Negli Stati Uniti è il 73% della popolazione ad aver letto un testo biblico nell’ultimo anno. Il che vuol dire quasi la totalità di tutti coloro che hanno abitudine alla lettura.

Dall’altra parte arriviamo invece ad esempio in Italia, e troviamo che soltanto un quarto dei lettori italiani ha preso in mano nell’arco dell’ultimo anno almeno una pagina biblica.

Questo è un esempio. Le risposte sono appunto molto variegate e in alcuni Paesi il cammino è molto lungo da fare. Curiosamente, uno dei Paesi ultimi in assoluto, a sorpresa anche perch

é è un Paese cattolico di grandi tradizioni, ma che probabilmente segna veramente una sorta di iato con il suo passato, è la Spagna, che risulta quasi sempre ultima in questo approccio.

La seconda considerazione è che però c’è indubbiamente, in molti, il desiderio di ritornare a questo testo, soprattutto considerandolo non soltanto, come è ovvio per il credente, norma di vita, lampada per i passi nel cammino della vita (per usare una frase della Bibbia stessa), ma anche come grande testo della cultura; quello che si suol dire « il Grande Codice », usando questa espressione che era di un poeta e pittore inglese, William Blake, che è stata ripresa da grande critico canadese, Norton Frye, che l’ha fatto diventare il titolo di un suo saggio molto importante. Grande Codice perch

é era il punto di riferimento della cultura.

E qui voglio citare un elemento molto significativo: in Italia un numero notevole di persone, il 63%, esige che nella scuola si inserisca la lettura della Bibbia.

Alcune settimane fa è stato presentato un progetto di lettura in televisione della Bibbia, può parlarcene?

Monsignor Ravasi: E’ stato un progetto concepito soprattutto da Rai1, la quale ha voluto che in occasione del Sinodo dei Vescovi di ottobre vi fosse la possibilità di proporre in maniera integrale tutte le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Ad aprire questa lettura, che durerà un’intera settimana, giorno e notte, sarà il Papa stesso che leggerà in diretta la prima pagina in assoluto della Bibbia e delle Scritture ebraiche e cristiane, cioè il capitolo I della Genesi.Questo testo verr

à poi subito dopo letto in ebraico dal Rabbino Capo di Roma, in modo tale da avere anche la testimonianza della comunità che ha al centro le Scritture dell’Antico Testamento.

Poi ci saranno voci delle varie confessioni cristiane, e dopo le voci cristiane naturalmente vi saranno tutti coloro che ritenendo significativo il loro desiderio di proclamare questo testo lo leggeranno.

Naturalmente saranno dei brani già definiti, ci si iscriverà attraverso via informatica e si comincerà questo lungo itinerario che avrà al suo interno soprattutto questo scopo: cercare di proporre la Parola.

Una parola che risuoni solenne in mezzo alle molte chiacchiere che la stessa televisione offre, e che il nostro mondo attualmente usa, così da costituire quasi una specie di brusio, di rumore di fondo della civiltà contemporanea. Queste invece sono parole che in qualche modo « incidono » ferite nell’abitudine, « incidono » messaggi, ed

è per questa ragione che è significativo che la Parola sia letta in questa forma corale, in modo tale che non sia più concepita soltanto come una componente religiosa, ma sia una vera e propria testimonianza della cultura, della civiltà, dell’umanità.

Tant’è vero che qualora un non credente, un ateo, un agnostico o anche un musulmano o un appartenente ad un’altra religione desiderasse proclamare questa parola, non si esclude che lo possa fare.

L’importante è che appunto sia iscritto a questa lunga voce ininterrotta, che propone la Parola di Dio per i credenti, il grande testo della cultura e della civiltà occidentale per tutti.

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