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Omelia del Papa per i primi Vespri della prima Domenica di Avvento

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Omelia del Papa per i primi Vespri della prima Domenica di Avvento

 CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 2 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’omelia pronunciata questa domenica sera da Benedetto nel presiedere, all’inerno della Basilica Vaticana, la celebrazione dei primi vespri della Domenica I di Avvento.  

* * * 

Cari fratelli e sorelle! 

L’Avvento è, per eccellenza, il tempo della speranza. Ogni anno, questo atteggiamento fondamentale dello spirito si risveglia nel cuore dei cristiani che, mentre si preparano a celebrare la grande festa della nascita di Cristo Salvatore, ravvivano l’attesa del suo ritorno glorioso, alla fine dei tempi. La prima parte dell’Avvento insiste proprio sulla parusia, sull’ultima venuta del Signore. Le antifone di questi Primi Vespri sono tutte orientate, con diverse sfumature, verso tale prospettiva. La breve Lettura, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi (5,23-24), fa riferimento esplicito alla venuta finale di Cristo, usando proprio il termine greco parusia (v. 23). L’Apostolo esorta i cristiani a conservarsi irreprensibili, ma soprattutto li incoraggia a confidare in Dio, che « è fedele » (v. 24) e non mancherà di operare la santificazione in quanti corrisponderanno alla sua grazia. 

Tutta questa liturgia vespertina invita alla speranza indicando, all’orizzonte della storia, la luce del Salvatore che viene: « quel giorno brillerà una grande luce » (2ª ant.); « verrà il Signore in tutta la sua gloria » (3ª ant.); « il suo splendore riempie l’universo » (Antifone al Magnificat). Questa luce, che promana dal futuro di Dio, si è già manifestata nella pienezza dei tempi; perciò la nostra speranza non è priva di fondamento, ma si appoggia su un avvenimento che si colloca nella storia e al tempo stesso eccede la storia: è l’avvenimento costituito da Gesù di Nazaret. L’evangelista Giovanni applica a Gesù il titolo di « luce »: è un titolo che appartiene a Dio. Nel Credo infatti noi professiamo che Gesù Cristo è « Dio da Dio, Luce da Luce ». 

Al tema della speranza ho voluto dedicare la mia seconda Enciclica, che è stata pubblicata ieri. Sono lieto di offrirla idealmente a tutta la Chiesa in questa prima Domenica di Avvento, affinché, durante la preparazione al Santo Natale, le comunità e i singoli fedeli possano leggerla e meditarla, per riscoprire la bellezza e la profondità della speranza cristiana. Questa, in effetti, è inseparabilmente legata alla conoscenza del volto di Dio, quel volto che Gesù, il Figlio Unigenito, ci ha rivelato con la sua incarnazione, con la sua vita terrena e la sua predicazione, e soprattutto con la sua morte e risurrezione. La vera e sicura speranza è fondata sulla fede in Dio Amore, Padre misericordioso, che « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3,16), affinché gli uomini e con loro tutte le creature possano avere la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). L’Avvento, pertanto, è tempo favorevole alla riscoperta di una speranza non vaga e illusoria, ma certa e affidabile, perché « ancorata » in Cristo, Dio fatto uomo, roccia della nostra salvezza. 

Fin dall’inizio, come emerge dal Nuovo Testamento e segnatamente dalle Lettere degli Apostoli, una nuova speranza distinse i cristiani da quanti vivevano la religiosità pagana. Scrivendo agli Efesini, san Paolo ricorda loro che, prima di abbracciare la fede in Cristo, essi erano « senza speranza e senza Dio in questo mondo » (2,12). Questa espressione appare quanto mai attuale per il paganesimo dei nostri giorni: possiamo riferirla in particolare al nichilismo contemporaneo, che corrode la speranza nel cuore dell’uomo, inducendolo a pensare che dentro di lui e intorno a lui regni il nulla: nulla prima della nascita, nulla dopo la morte. In realtà, se manca Dio, viene meno la speranza. Tutto perde di « spessore ». E’ come se venisse a mancare la dimensione della profondità ed ogni cosa si appiattisse, privata del suo rilievo simbolico, della sua « sporgenza » rispetto alla mera materialità. E’ in gioco il rapporto tra l’esistenza qui ed ora e ciò che chiamiamo « aldilà »: esso non è un luogo dove finiremo dopo la morte, è invece la realtà di Dio, la pienezza della vita a cui ogni essere umano è, per così dire, proteso. A questa attesa dell’uomo Dio ha risposto in Cristo con il dono della speranza. 

L’uomo è l’unica creatura libera di dire di sì o di no all’eternità, cioè a Dio. L’essere umano può spegnere in se stesso la speranza eliminando Dio dalla propria vita. Come può avvenire questo? Come può succedere che la creatura « fatta per Dio », intimamente orientata a Lui, la più vicina all’Eterno, possa privarsi di questa ricchezza? Dio conosce il cuore dell’uomo. Sa che chi lo rifiuta non ha conosciuto il suo vero volto, e per questo non cessa di bussare alla nostra porta, come umile pellegrino in cerca di accoglienza. Ecco perché il Signore concede nuovo tempo all’umanità: affinché tutti possano arrivare a conoscerlo! E’ questo anche il senso di un nuovo anno liturgico che inizia: è un dono di Dio, il quale vuole nuovamente rivelarsi nel mistero di Cristo, mediante la Parola e i Sacramenti. Mediante la Chiesa vuole parlare all’umanità e salvare gli uomini di oggi. E lo fa andando loro incontro, per « cercare e salvare ciò che era perduto » (Lc 19,10). In questa prospettiva, la celebrazione dell’Avvento è la risposta della Chiesa Sposa all’iniziativa sempre nuova di Dio Sposo, « che è, che era e che viene » (Ap 1,8). All’umanità che non ha più tempo per Lui, Dio offre altro tempo, un nuovo spazio per rientrare in se stessa, per rimettersi in cammino, per ritrovare il senso della speranza. 

Ecco allora la sorprendente scoperta: la mia, la nostra speranza è preceduta dall’attesa che Dio coltiva nei nostri confronti! Sì, Dio ci ama e proprio per questo attende che noi torniamo a Lui, che apriamo il cuore al suo amore, che mettiamo la nostra mano nella sua e ci ricordiamo di essere suoi figli. Questa attesa di Dio precede sempre la nostra speranza, esattamente come il suo amore ci raggiunge sempre per primo (cfr 1 Gv 4,10). In questo senso la speranza cristiana è detta « teologale »: Dio ne è la fonte, il sostegno e il termine. Che grande consolazione in questo mistero! Il mio Creatore ha posto nel mio spirito un riflesso del suo desiderio di vita per tutti. Ogni uomo è chiamato a sperare corrispondendo all’attesa che Dio ha su di lui. Del resto, l’esperienza ci dimostra che è proprio così. Che cosa manda avanti il mondo, se non la fiducia che Dio ha nell’uomo? E’ una fiducia che ha il suo riflesso nei cuori dei piccoli, degli umili, quando attraverso le difficoltà e le fatiche si impegnano ogni giorno a fare del loro meglio, a compiere quel poco di bene che però agli occhi di Dio è tanto: in famiglia, nel posto di lavoro, a scuola, nei diversi ambiti della società. Nel cuore dell’uomo è indelebilmente scritta la speranza, perché Dio nostro Padre è vita, e per la vita eterna e beata siamo fatti. 

Ogni bambino che nasce è segno della fiducia di Dio nell’uomo ed è conferma, almeno implicita, della speranza che l’uomo nutre in un futuro aperto sull’eterno di Dio. A questa speranza dell’uomo Dio ha risposto nascendo nel tempo come piccolo essere umano. Ha scritto sant’Agostino: « Avremmo potuto credere che la tua Parola fosse lontana dal contatto dell’uomo e disperare di noi, se questa Parola non si fosse fatta carne e non avesse abitato in mezzo a noi » (Conf. X, 43, 69, cit. in Spe salvi, 29). Lasciamoci allora guidare da Colei che ha portato nel cuore e nel grembo il Verbo incarnato. O Maria, Vergine dell’attesa e Madre della speranza, ravviva in tutta la Chiesa lo spirito dell’Avvento, perché l’umanità intera si rimetta in cammino verso Betlemme, dove è venuto, e di nuovo verrà a visitarci il Sole che sorge dall’alto (cfr Lc 1,78), Cristo nostro Dio. Amen. 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 3 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Il predicatore del Papa: “Tutto passa. Dio solo resta »

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Il predicatore del Papa: “Tutto passa. Dio solo resta » 

Commento di padre Cantalamessa alla liturgia di domenica prossima 

 

ROMA, venerdì, 30 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia –, alla liturgia di domenica prossima, I Domenica di Avvento. 

  

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  Isaia 2, 1-5; Romani 13, 11-14; Matteo 24, 37-44 

  Vegliate!  

  Inizia oggi il primo anno del ciclo liturgico triennale, detto anno A. Ci accompagna in esso il Vangelo di Matteo. Alcune caratteristiche di questo Vangelo sono: l’ampiezza con cui sono riportati gli insegnamenti di Gesù (i famosi discorsi, come quello della montagna), l’attenzione al rapporto Legge–Vangelo (il Vangelo è la « nuova Legge »). È considerato il Vangelo più « ecclesiastico » per il racconto del primato a Pietro e per l’uso del termine Ecclesia, Chiesa, che non si incontra negli altri tre Vangeli. 

  La parola che si staglia su tutte, nel Vangelo di questa prima domenica di Avvento, è: « Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà…State pronti, perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo verrà! ». Ci si chiede a volte perché Dio ci nasconde una cosa così importante com’è l’ora della sua venuta, che per ognuno di noi, singolarmente preso, coincide con l’ora della morte. La risposta tradizionale è: « Perché fossimo vigilanti, ritenendo ognuno che il fatto può accadere ai suoi giorni » (S. Efrem Siro). Ma il motivo principale è che Dio ci conosce; sa quale terribile angoscia sarebbe stata per noi conoscere in anticipo l’ora esatta e assistere al suo lento e inesorabile approssimarsi. È quello che più spaventa di certe malattie. Più numerosi sono oggigiorno quelli che muoiono per malattie improvvise di cuore, che quelli che muoiono dei cosiddetti « mali brutti ». Eppure, quanta più paura fanno queste ultime malattie, perché ci sembra che tolgano quell’incertezza che ci permette di sperare. 

  L’incertezza dell’ora non deve spingerci a vivere da spensierati, ma da persone vigilanti. Se l’anno liturgico è ai suoi inizi, l’anno civile volge al suo termine. Un’ottima occasione, questa, per dare spazio a una riflessione sapienziale sul senso della nostra esistenza. La stessa natura in autunno ci invita a riflettere sul tempo che passa. Quello che il poeta Giuseppe Ungaretti diceva dei soldati in trincea sul Carso, durante la prima guerra mondiale, vale per tutti gli uomini: « Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie ». Cioè, in procinto di cadere da un momento all’altro. « Vàssene il tempo -diceva il nostro Dante Alighieri- e l’uom non se n’avvede », il tempo scorre e l’uomo non se ne accorge. 

  Un filosofo antico ha espresso questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre: panta rei, cioè: tutto scorre. Succede nella vita come sullo schermo televisivo: i programmi, cosiddetti palinsesti, si susseguono rapidamente e ognuno cancella il precedente. Lo schermo resta lo stesso, ma le immagini cambiano. Così è di noi: il mondo rimane, ma noi ce ne andiamo uno dopo l’altro. Di tutti i nomi, i volti, le notizie che riempiono i giornali e i telegiornali di oggi -di me, di te, di tutti noi- cosa resterà da qui a qualche anno o decennio? Nulla di nulla. L’uomo non è che « un disegno creato dall’onda sulla spiaggia del mare che l’onda successiva cancella ». 

  Vediamo cosa ha da dirci la fede a proposito di questo dato di fatto che tutto passa. « Il mondo passa, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno » (1 Gv 2, 17). C’è dunque qualcuno che non passa, Dio, e c’è un modo per non passare del tutto neanche noi: fare la volontà di Dio, cioè credere, aderire a Dio. In questa vita noi siamo come persone su una zattera trasportata dalla corrente di un fiume in piena verso il mare aperto, da cui non c’è ritorno. A un certo punto, la zattera si viene a trovare vicino alla riva. Il naufrago dice: « O ora o mai più! » e spicca il salto sulla terra ferma. Che respiro di sollievo quando sente la roccia sotto i suoi piedi! È la sensazione che ha spesso colui che arriva la fede. Potremmo ricordare, a conclusione di questa riflessione, le parole che S. Teresa d’Avila ha lasciato come una specie di testamento spirituale: « Niente ti turbi, niente ti spaventi. Tutto passa. Dio solo resta ». 

 

Publié dans:Padre Cantalamessa, ZENITH |on 30 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Efrem, il Siro

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Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Efrem, il Siro 

Catechesi per l’Udienza generale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 28 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Sant’Efrem, il Siro. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle, 

secondo l’opinione comune di oggi, il cristianesimo sarebbe una religione europea, che avrebbe poi esportato la cultura di questo Continente in altri Paesi. Ma la realtà è molto più complessa, poiché la radice della religione cristiana si trova nell’Antico Testamento e quindi a Gerusalemme e nel mondo semitico. Il cristianesimo si nutre sempre a questa radice dell’Antico Testamento. Anche la sua espansione nei primi secoli si è avuta sia verso occidente – verso il mondo greco-latino, dove ha poi ispirato la cultura europea – sia verso oriente, fino alla Persia, all’India, contribuendo così a suscitare una specifica cultura, in lingue semitiche, con una propria identità. Per mostrare questa pluriformità culturale dell’unica fede cristiana degli inizi, nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato di un rappresentante di questo altro cristianesimo, Afraate il saggio persiano, da noi quasi sconosciuto. Nella stessa linea vorrei parlare oggi di sant’Efrem Siro, nato a Nisibi attorno al 306 in una famiglia cristiana. Egli fu il più importante rappresentante del cristianesimo di lingua siriaca e riuscì a conciliare in modo unico la vocazione del teologo e quella del poeta. Si formò e crebbe accanto a Giacomo, Vescovo di Nisibi (303-338), e insieme a lui fondò la scuola teologica della sua città. Ordinato diacono, visse intensamente la vita della locale comunità cristiana fino al 363, anno in cui Nisibi cadde nelle mani dei Persiani. Efrem allora emigrò a Edessa, dove proseguì la sua attività di predicatore. Morì in questa città l’anno 373, vittima del contagio contratto nella cura degli ammalati di peste. Non si sa con certezza se era monaco, ma in ogni caso è sicuro che è rimasto diacono per tutta la sua vita ed ha abbracciato la verginità e la povertà. Così appare nella specificità della sua espressione culturale la comune e fondamentale identità cristiana: la fede, la speranza — questa speranza che permette di vivere povero e casto in questo mondo ponendo ogni aspettativa nel Signore — e infine la carità, fino al dono di se stesso nella cura degli ammalati di peste. 

Sant’Efrem ci ha lasciato una grande eredità teologica: la sua considerevole produzione si può raggruppare in quattro categorie: opere scritte in prosa ordinaria (le sue opere polemiche, oppure i commenti biblici); opere in prosa poetica; omelie in versi; infine gli inni, sicuramente l’opera più ampia di Efrem. Egli è un autore ricco e interessante per molti aspetti, ma specialmente sotto il profilo teologico. La specificità del suo lavoro è che in esso si incontrano teologia e poesia. Volendoci accostare alla sua dottrina, dobbiamo insistere fin dall’inizio su questo: sul fatto cioè che egli fa teologia in forma poetica. La poesia gli permette di approfondire la riflessione teologica attraverso paradossi e immagini. Nello stesso tempo la sua teologia diventa liturgia, diventa musica: egli era infatti un grande compositore, un musicista. Teologia, riflessione sulla fede, poesia, canto, lode di Dio vanno insieme; ed è proprio in questo carattere liturgico che nella teologia di Efrem appare con limpidezza la verità divina. Nella sua ricerca di Dio, nel suo fare teologia, egli segue il cammino del paradosso e del simbolo. Le immagini contrapposte sono da lui largamente privilegiate, perché gli servono per sottolineare il mistero di Dio. 

Non posso adesso presentare molto di lui, anche perchè la poesia è difficilmente traducibile, ma per dare almeno un’idea della sua teologia poetica vorrei citare in parte due inni. Innanzitutto, anche in vista del prossimo Avvento, vi propongo alcune splendide immagini tratte dagli inni Sulla natività di Cristo. Davanti alla Vergine Efrem manifesta con tono ispirato la sua meraviglia: 

« Il Signore venne in lei 

per farsi servo. 

Il Verbo venne in lei 

per tacere nel suo seno. 

Il fulmine venne in lei 

per non fare rumore alcuno. 

Il pastore venne in lei 

ed ecco l’Agnello nato, che sommessamente piange. 

Poiché il seno di Maria 

ha capovolto i ruoli: 

Colui che creò tutte le cose 

ne è entrato in possesso, ma povero. 

L’Altissimo venne in lei (Maria), 

ma vi entrò umile. 

Lo splendore venne in lei, 

ma vestito con panni umili. 

Colui che elargisce tutte le cose 

conobbe la fame. 

Colui che abbevera tutti 

conobbe la sete. 

Nudo e spogliato uscì da lei, 

egli che riveste (di bellezza) tutte le cose » 

(Inno « De Nativitate« 11, 6-8). 

Per esprimere il mistero di Cristo Efrem usa una grande diversità di temi, di espressioni, di immagini. In uno dei suoi inni, egli collega in modo efficace Adamo (nel paradiso) a Cristo (nell’Eucaristia): 

« Fu chiudendo 

con la spada del cherubino, 

che fu chiuso 

il cammino dell’albero della vita. 

Ma per i popoli, 

il Signore di quest’albero 

si è dato come cibo 

lui stesso nell’oblazione (eucaristica). 

Gli alberi dell’Eden 

furono dati come alimento 

al primo Adamo. 

Per noi, il giardiniere 

del Giardino in persona 

si è fatto alimento 

per le nostre anime. 

Infatti tutti noi eravamo usciti 

dal Paradiso assieme con Adamo, 

che lo lasciò indietro. 

Adesso che la spada è stata tolta 

laggiù (sulla croce) dalla lancia 

noi possiamo ritornarvi » 

(Inno 49,9-11). 

Per parlare dell’Eucaristia Efrem si serve di due immagini: la brace o il carbone ardente, e la perla. Il tema della brace è preso dal profeta Isaia (cfr 6,6). E’ l’immagine del serafino, che prende la brace con le pinze, e semplicemente sfiora le labbra del profeta per purificarle; il cristiano, invece, tocca e consuma la Brace, che è Cristo stesso: 

« Nel tuo pane si nasconde lo Spirito 

che non può essere consumato; 

nel tuo vino c’è il fuoco che non si può bere. 

Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino: 

ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra. 

Il serafino non poteva avvicinare le sue dita alla brace, 

che fu avvicinata soltanto alla bocca di Isaia; 

né le dita l’hanno presa, né le labbra l’hanno inghiottita; 

ma a noi il Signore ha concesso di fare ambedue cose. 

Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori, 

ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane. 

Invece del fuoco che distrusse l’uomo, 

abbiamo mangiato il fuoco nel pane 

e siamo stati vivificati » 

(Inno « De Fide« 10,8-10). 

E ancora un ultimo esempio degli inni di sant’Efrem, dove parla della perla quale simbolo della ricchezza e della bellezza della fede: 

« Posi (la perla), fratelli miei, sul palmo della mia mano, 

per poterla esaminare. 

Mi misi ad osservarla dall’uno e dall’altro lato: 

aveva un solo aspetto da tutti i lati. 

(Così) è la ricerca del Figlio, imperscrutabile, 

perché essa è tutta luce. 

Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido, 

che non diventa opaco; 

e nella sua purezza, 

il simbolo grande del corpo di nostro Signore, 

che è puro. 

Nella sua indivisibilità, io vidi la verità, 

che è indivisibile » 

(Inno « Sulla Perla » 1, 2-3). 

La figura di Efrem è ancora pienamente attuale per la vita delle varie Chiese cristiane. Lo scopriamo in primo luogo come teologo, che a partire dalla Sacra Scrittura riflette poeticamente sul mistero della redenzione dell’uomo operata da Cristo, Verbo di Dio incarnato. La sua è una riflessione teologica espressa con immagini e simboli presi dalla natura, dalla vita quotidiana e dalla Bibbia. Alla poesia e agli inni per la liturgia, Efrem conferisce un carattere didattico e catechetico; si tratta di inni teologici e insieme adatti per la recita o il canto liturgico. Efrem si serve di questi inni per diffondere, in occasione delle feste liturgiche, la dottrina della Chiesa. Nel tempo essi si sono rivelati un mezzo catechetico estremamente efficace per la comunità cristiana. 

E’ importante la riflessione di Efrem sul tema di Dio creatore: niente nella creazione è isolato, e il mondo è, accanto alla Sacra Scrittura, una Bibbia di Dio. Usando in modo sbagliato la sua libertà, l’uomo capovolge l’ordine del cosmo. Per Efrem è rilevante il ruolo della donna. Il modo in cui egli ne parla è sempre ispirato a sensibilità e rispetto: la dimora di Gesù nel seno di Maria ha innalzato grandemente la dignità della donna. Per Efrem, come non c’è Redenzione senza Gesù, così non c’è Incarnazione senza Maria. Le dimensioni divine e umane del mistero della nostra redenzione si trovano già nei testi di Efrem; in modo poetico e con immagini fondamentalmente scritturistiche, egli anticipa lo sfondo teologico e in qualche modo lo stesso linguaggio delle grandi definizioni cristologiche dei Concili del V secolo. 

Efrem, onorato dalla tradizione cristiana con il titolo di « cetra dello Spirito Santo », restò diacono della sua Chiesa per tutta la vita. Fu una scelta decisiva ed emblematica: egli fu diacono, cioè servitore, sia nel ministero liturgico, sia, più radicalmente, nell’amore a Cristo, da lui cantato in modo ineguagliabile, sia infine nella carità verso i fratelli, che introdusse con rara maestria nella conoscenza della divina Rivelazione. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i religiosi Fatebenefratelli, le Suore della Carità Domenicane della Presentazione, i partecipanti alla Scuola di formazione promossa dal Movimento dei Focolari, i rappresentanti del Centro Italiano di Solidarietà di Viterbo e i fedeli provenienti da Cervia. Cari amici, auguro che la sosta presso i luoghi sacri vi rinsaldi nell’adesione a Cristo e alimenti la carità nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità. Saluto gli incaricati della diffusione nel mondo de L’Osservatore Romano, accompagnati dal Direttore responsabile prof. Giovanni Maria Vian e dal Direttore generale Don Elio Torrigiani. Cari amici, vi ringrazio per il vostro impegno nel promuovere gli insegnamenti del Papa in tutto il mondo e vi accompagno con un particolare ricordo nella preghiera, perché il Signore vi ricolmi di copiosi doni spirituali. 

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. La figura dell’apostolo Andrea, la cui festa si celebrerà nei prossimi giorni, sia per voi, cari giovani, un modello di fedele e coraggiosa testimonianza cristiana. Sant’Andrea interceda per voi, cari ammalati, affinché la consolazione divina promessa da Gesù agli afflitti riempia i vostri cuori e vi fortifichi nella fede. E voi, cari sposi novelli, impegnatevi a corrispondere sempre al progetto di amore del quale Cristo vi ha resi partecipi con il sacramento del matrimonio.

 

 

[APPELLO DEL SANTO PADRE]

 

 Il 1° dicembre prossimo ricorrerà la Giornata Mondiale contro l’AIDS. Sono spiritualmente vicino a quanti soffrono per questa terribile malattia come pure alle loro famiglie, in particolare a quelle colpite dalla perdita di un congiunto. Per tutti assicuro la mia preghiera. 

Desidero, inoltre, esortare tutte le persone di buona volontà a moltiplicare gli sforzi per fermare la diffusione del virus HIV, a contrastare lo spregio che sovente colpisce quanti ne sono affetti, e a prendersi cura dei malati, specialmente quando sono ancora fanciulli. 

 

Publié dans:catechesi del mercoledì, ZENITH |on 29 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

L’uomo: un virus per il pianeta?

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L’uomo: un virus per il pianeta? 

Si è perso il verso senso della questione ambientale 

 

Di Padre John Flynn, LC 

ROMA, mercoledì, 28 novembre 2007 (ZENIT.org).- Mentre si moltiplicano annunci catastrofici sullo stato del nostro ambiente, risorgono anche le pressioni dirette a tenere sotto controllo la crescita demografica. Falsi allarmismi come quelli contenuti nel libro di Paul Ehrlich del 1968 “The Population Bomb”, sono spesso pretesto per l’adozione di misure abusive come le politiche di aborto coatto e di sterilizzazione forzata.

In passato la preoccupazione era che il cibo e le risorse naturali sarebbero presto diventate scarse. Oggi invece vengono giustificate le misure di riduzione della popolazione in nome della salvaguardia dell’ambiente.

L’europarlamentare britannico Chris Davies ha avvertito che l’umanità sta “distruggendo il pianeta” come un “virus”, secondo quanto riportato dalla BBC il 13 novembre. Davies, membro del Partito liberaldemocratico, ha sostenuto che le famiglie dovrebbero essere incoraggiate a non fare più di un figlio, nel tentativo di contrastare i cambiamenti climatici.

Davies non è il solo a considerare gli esseri umani alla stregua di un virus. Secondo Paul Watson, fondatore e presidente della Sea Shepherd Conservation Society, ha scritto un interessante commento, pubblicato il 4 maggio. Secondo quanto si legge sul suo sito Internet, questa società dell’Oregon è attiva nel campo della protezione degli oceani.

Gli esseri umani agiscono sulla Terra – ha scritto Watson – “nello stesso modo in cui agisce un virus, con il risultato di indebolire il sistema immunitario ecologico”. Egli ha poi anche ribadito la sua precedente affermazione secondo cui gli esseri umani sono come “l’AIDS della Terra”.

“Dobbiamo ridurre la popolazione umana in modo radicale e intelligente a meno di un miliardo”, ha raccomandato. Watson ha sostenuto anche che gli esseri umani non sono diversi dalle altre specie che vivono sul pianeta.

Sebbene la visione di Watson possa essere più estremista rispetto alla media, egli è tutt’altro che isolato. L’Economist ha ricordato ai suoi lettori, nell’articolo del 10 settembre intitolato “Population and its Discontents” che Al Gore, vincitore del Premio Nobel per la pace, nel suo libro “Earth in Balance” afferma che “un mondo sovrapopolato è inevitabilmente un mondo inquinato”.

L’agenda

Intanto, la stampa britannica ha pubblicato numerosi articoli nelle ultime settimane, in cui si fa appello a rafforzare il controllo demografico per salvare l’ambiente.

“Mentre la questione ambientale finalmente ottiene la considerazione che merita, alcuni ambientalisti sono pronti a cogliere l’occasione per asserire la necessità di un contenimento demografico”, ha scritto Madeleine Bunting sul quotidiano Guardian del 10 settembre.

Secondo il parlamentare conservatore Boris Johnson, la sfida principale del pianeta è l’eccessiva crescita demografica, riferisce il quotidiano Telegraph del 25 ottobre.

Melanie Reid, opinionista del quotidiano Times, scrivendo sull’edizione del 29 ottobre, invita le femministe a riconoscere che il controllo demografico non è cosi tremendo come si può pensare e, inoltre, che il surriscaldamento terrestre è una questione secondaria rispetto alla necessità di tenere sotto controllo la crescita della popolazione.

Questi appelli al controllo demografico hanno però trovato anche delle risposte. Il sociologo Frank Furedi ha sostenuto in un commento del 30 ottobre pubblicato sul sito Internet “Spiked”: “Oggi, più che in qualsiasi altro periodo a partire dal XIX secolo, domina un determinismo demografico semplicistico”.

“Le nostre élites politiche e culturali sembrano aver perso di vista il fatto che, nel corso della storia, l’impatto complessivo dell’azione umana sull’ambiente è stato benefico”, ha sostenuto.

Anche l’Economist, in un articolo del 10 settembre, ha sottolineato che, per quanto riguarda l’emissione di anidride carbonica, il problema non sono i Paesi con una popolazione in crescita, ma quelli più ricchi che hanno già raggiunto una stabilità demografica.

Mantenere l’equilibrio

Anche la Chiesa cattolica ha partecipato attivamente al dibattito, apportando una posizione basata sui principi morali ed etici relativi all’ambiente. Tuttavia, spesso i media hanno riportato in modo parziale i commenti formulati da Benedetto XVI sulla questione ambientale.

In questo senso, l’omelia che il Pontefice ha pronunciato durante la sua visita al santuario mariano di Loreto, è stata riportata dalla stampa come una sorta di appello alla tutela dell’ambiente. Il testo dell’omelia del 2 settembre in effetti parla dell’importanza di prendersi cura del pianeta.

Tuttavia, la parte ambientale dell’omelia è solo l’ultimo di una serie di punti sollevati dal Papa. Dopo aver parlato dell’esempio di Maria, il Papa ha affrontato una riflessione sulla chiamata di Gesù ai giovani, sull’importanza dell’umiltà e sulla vocazione alla santità.

Riguardo alla questione della presenza umana sul pianeta, Benedetto XVI ha spesso sottolineato l’importanza di non perdere di vista il principio della dignità della persona umana e della salvaguardia della vita. Un esempio recente è quello del suo discorso rivolto il 15 settembre a Noel Fahey, nuovo Ambasciatore irlandese presso la Santa Sede.

“La promozione dello sviluppo sostenibile e una particolare attenzione ai cambiamenti climatici sono certamente questioni di grande importanza per l’intera famiglia umana e nessuna nazione o settore economico dovrebbe ignorarle”, ha affermato il Papa.

Il testo poi passa subito a ribadire l’importanza di avere una visione chiara del rapporto fra ecologia della persona umana ed ecologia della natura. Il Pontefice ha sottolineato il contrasto intrinseco in coloro che sono pronti a riconoscere la maestà di Dio nella creazione, ma che non percepiscono altrettanto chiaramente la dignità della persona umana.

“Ne deriva una sorta di morale dissociata”, ha aggiunto. “È sconcertante vedere che, non di rado, gli stessi gruppi sociali e politici che lodevolmente sono i più inclini al rispetto della creazione di Dio, prestano scarsa attenzione alla meraviglia della vita nel grembo materno”, ha osservato Benedetto XVI.

“Dobbiamo sperare che, soprattutto fra i giovani, il crescente interesse per l’ambiente possa rafforzare la conoscenza del giusto ordine della meravigliosa creazione di Dio, di cui l’uomo e la donna sono il centro e il vertice”, ha concluso il Papa.

Ecologia umana

Benedetto XVI, nel porre in collegamento la vita umana e l’ecologia, si pone in linea con il cammino intrapreso da Giovanni Paolo II. Nell’enciclica “Centesimus Annus”, del 1991, Giovanni Paolo II esprime la sua inquietudine per i danni arrecati all’ambientale, ritenendo un errore quello di pensare di poterlo sfruttare senza limiti o di poterne consumare le risorse in modo disordinato e sproporzionato.

Ma Giovanni Paolo II aggiunge subito che “oltre all’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione” (n. 38).

Di questa ecologia umana, come l’ha definita Giovanni Paolo II, dobbiamo farci carico. E la prima e fondamentale struttura di questa ecologia è la famiglia, aggiunge il Papa. La famiglia fondata sul matrimonio è un santuario della vita e deve essere protetta contro gli attacchi provenienti dalla cultura della morte.

L’arcivescovo Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, ha ribadito l’esigenza di mantenere un corretto rapporto fra l’attenzione all’ambiente e l’attenzione alla persona umana, in un discorso pronunciato il 29 ottobre davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

“La tutela dell’ambiente implica una visione più positiva dell’essere umano, nel senso che la persona non è considerata un elemento di disturbo o una minaccia all’ambiente, ma la responsabile della cura e della gestione dell’ambiente”, ha osservato il rappresentante del Vaticano.

Non esiste, quindi, contrapposizione tra il genere umano e l’ambiente, quanto piuttosto una “alleanza in cui l’ambiente condiziona essenzialmente la vita e lo sviluppo dell’uomo mentre l’essere umano perfeziona e nobilita l’ambiente mediante la propria attività creativa”, ha aggiunto l’Arcivescovo. 

La questione ambientale più essenziale, quindi, riguarda la persona umana, che non può essere sacrificata in ragione di un distorto zelo per la tutela dell’ambiente naturale.

 

 [Traduzione di Francesco Peca] 

 

La storia del mondo, “meravigliosa sinfonia” composta e diretta da Dio, afferma il Papa

dal sito:

http://www.zenit.org/article-9878?l=italian 

 

La storia del mondo, “meravigliosa sinfonia” composta e diretta da Dio, afferma il Papa

 CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 19 novembre 2006 (ZENIT.org).- La storia del mondo è una “meravigliosa sinfonia”, ha affermato Benedetto XVI questo sabato in occasione del concerto del « Philarmonia Quartett Berlin » in onore del Papa, offerto dal Presidente della Repubblica Federale di Germania, Horst Köhler.

Secondo il Vescovo di Roma, la storia del mondo può essere infatti vista come “una meravigliosa sinfonia che Dio ha composto e la cui esecuzione Egli stesso, da saggio maestro d’orchestra, dirige”.

“Anche se a noi la partitura a volte sembra molto complessa e difficile, Egli la conosce dalla prima fino all’ultima nota”, ha osservato.

Il Papa ha ricordato che noi “non siamo chiamati a prendere in mano la bacchetta del direttore, e ancora meno a cambiare le melodie secondo il nostro gusto”, ma, ciascuno “al suo posto e con le proprie capacità, a collaborare con il grande Maestro nell’eseguire il suo stupendo capolavoro”.

“Nel corso dell’esecuzione ci sarà poi anche dato di comprendere man mano il grandioso disegno della partitura divina”.

In questo modo, il Santo Padre ha constatato come la musica possa condurre alla preghiera: “essa ci invita ad elevare la mente verso Dio per trovare in Lui le ragioni della nostra speranza e il sostegno nelle difficoltà della vita”.

“Fedeli ai suoi comandamenti e rispettosi del suo piano salvifico, possiamo insieme costruire un mondo nel quale risuoni la melodia consolante di una trascendente sinfonia d’amore”, ha proseguito, spiegando che sarà anzi “lo stesso Spirito divino a renderci tutti strumenti ben armonizzati e collaboratori responsabili di una mirabile esecuzione in cui si esprime lungo i secoli il piano della salvezza universale”.

Rivolgendosi ai quattro musicisti del « Philarmonia Quartett Berlin » – Daniel Stabrawa, Christian Stadelmann, Neithard Resa e Jan Diesselhorst –, il Papa ha ricordato che il suonare da solisti richiede dal singolo “non solo l’impegno di tutte le sue capacità tecniche e musicali nell’esecuzione della propria parte, ma al contempo sempre anche il sapersi ritirare nell’ascolto attento degli altri”.

“Solo se questo riesce, se cioè ciascuno non pone al centro se stesso, ma, in spirito di servizio, si inserisce nell’insieme e, per così dire, si mette a disposizione come ‘strumento’, affinché il pensiero del compositore possa diventare suono e raggiungere così il cuore degli ascoltatori, solo allora si ha un’interpretazione veramente grande”.

Questa immagine, ha sottolineato Benedetto XVI, si adatta bene “anche per noi che, nell’ambito della Chiesa, ci impegniamo ad essere ‘strumenti’ per comunicare agli uomini il pensiero del grande ‘Compositore’, la cui opera è l’armonia dell’universo”. 

 

Publié dans:ZENITH |on 20 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI: “In ogni genuino atto di amore c’è tutto il senso dell’universo”

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http://www.zenit.org/article-12577?l=italian 

 

Benedetto XVI: “In ogni genuino atto di amore c’è tutto il senso dell’universo”

 Discorso introduttivo alla preghiera mariana dell’Angelus 

 

ROMA, domenica, 18 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI nell’introdurre la preghiera dell’Angelus, recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle! 

Nell’odierna pagina evangelica, san Luca ripropone alla nostra riflessione la visione biblica della storia e riferisce le parole di Gesù, che invitano i discepoli a non avere paura, ma ad affrontare difficoltà, incomprensioni e persino persecuzioni con fiducia, perseverando nella fede in Lui. « Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni – dice il Signore -, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine » (Lc 21,9). Memore di questo ammonimento, sin dall’inizio la Chiesa vive nell’attesa orante del ritorno del suo Signore, scrutando i segni dei tempi e mettendo in guardia i fedeli da ricorrenti messianismi, che di volta in volta annunciano come imminente la fine del mondo. In realtà, la storia deve fare il suo corso, che comporta anche drammi umani e calamità naturali. In essa si sviluppa un disegno di salvezza a cui Cristo ha già dato compimento nella sua incarnazione, morte e risurrezione. Questo mistero la Chiesa continua ad annunciare ed attuare con la predicazione, con la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità. 

Cari fratelli e sorelle, raccogliamo l’invito di Cristo ad affrontare gli eventi quotidiani confidando nel suo amore provvidente. Non temiamo per l’avvenire, anche quando esso ci può apparire a tinte fosche, perché il Dio di Gesù Cristo, che ha assunto la storia per aprirla al suo compimento trascendente, ne è l’alfa e l’omega, il principio e la fine (cfr Ap 1,8). Egli ci garantisce che in ogni piccolo ma genuino atto di amore c’è tutto il senso dell’universo, e che chi non esita a perdere la propria vita per Lui, la ritrova in pienezza (cfr Mt 16,25). 

A tener viva tale prospettiva ci invitano con singolare efficacia le persone consacrate, che hanno posto senza riserve la loro vita a servizio del Regno di Dio. Tra queste vorrei ricordare particolarmente quelle chiamate alla contemplazione nei monasteri di clausura. Ad esse la Chiesa dedica una Giornata speciale mercoledì prossimo, 21 novembre, memoria della presentazione al Tempio della Beata Vergine Maria. Tanto dobbiamo a queste persone che vivono di ciò che la Provvidenza procura loro mediante la generosità dei fedeli. Il monastero, « come oasi spirituale, indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi alla fine l’unica cosa decisiva: esiste un’ultima ragione per cui vale la pena vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile » (Heiligenkreuz, 9 settembre 2007). La fede che opera nella carità è il vero antidoto contro la mentalità nichilista, che nella nostra epoca va sempre più estendendo il suo influsso nel mondo. 

Ci accompagna nel pellegrinaggio terreno Maria, Madre del Verbo incarnato. A Lei chiediamo di sostenere la testimonianza di tutti i cristiani, perché poggi sempre su una fede salda e perseverante. 

  


[Dopo l'Angelus:] 

Nei giorni scorsi un tremendo ciclone ha colpito il sud del Bangladesh, causando numerosissime vittime e gravi distruzioni. Nel rinnovare l’espressione del mio profondo cordoglio alle famiglie e all’intera nazione, a me tanto cara, faccio appello alla solidarietà internazionale, che già si è mossa per far fronte alle immediate necessità. Incoraggio a porre in atto ogni possibile sforzo per soccorrere questi fratelli così duramente provati. 

Si apre oggi in Giordania l’8ª Assemblea degli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione sul divieto di impiego, stoccaggio, produzione e trasferimento delle mine antiuomo e sulla loro distruzione. Di tale Convenzione, adottata dieci anni or sono, la Santa Sede è tra i principali promotori. Esprimo pertanto di cuore il mio augurio e il mio incoraggiamento per il buon esito della conferenza, affinché questi ordigni, che continuano a seminare vittime, tra cui molti bambini, siano completamente banditi. 

Oggi pomeriggio verrà beatificato a Novara il venerabile Servo di Dio Antonio Rosmini, grande figura di sacerdote e illustre uomo di cultura, animato da fervido amore per Dio e per la Chiesa. Testimoniò la virtù della carità in tutte le sue dimensioni e ad alto livello, ma ciò che lo rese maggiormente noto fu il generoso impegno per quella che egli chiamava « carità intellettuale », vale a dire la riconciliazione della ragione con la fede. Il suo esempio aiuti la Chiesa, specialmente le comunità ecclesiali italiane, a crescere nella consapevolezza che la luce della ragione umana e quella della Grazia, quando camminano insieme, diventano sorgente di benedizione per la persona umana e per la società. 

Saluto i pellegrini di lingua italiana. In particolare i giovani della Fondazione « Nicolò Galli », il coro « Don Lorenzo Perosi » di Valbrona, i fedeli della parrocchia « Cuore Immacolato di Maria » in Brindisi, i rappresentanti delle Cooperative di ispirazione cristiana e i membri della Comunità di Sant’Egidio provenienti dal Continente africano. A tutti auguro una buona domenica! 

 

Publié dans:ZENITH |on 19 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Bernardo di Clairvaux, umile ricercatore della verità

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http://www.zenit.org/article-12525?l=italian

 

Bernardo di Clairvaux, umile ricercatore della verità

 

 CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 13 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la lettera del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione del II Convegno su “Bernardo di Clairvaux, attualità di un messaggio e di una esperienza”, organizzato a Roma dal Centro Studi Cisterciense « Benedetto XVI » (8 – 10 novembre 2007) e tenutosi presso la Facoltà di Teologia « Angelicum » e l’Abbazia di Santa Croce in Gerusalemme. 

* * * 


Reverendissimo Padre Abate,

grato per l’invito rivoltomi e non potendo purtroppo intervenire come avevo preventivato al 2° Convegno « Bernardo di Clairvaux », organizzato da codesta Abbazia e dalla Pontificia Università San Tommaso, sono lieto di far pervenire con il presente messaggio il beneaugurante saluto del Santo Padre Benedetto XVI alle Autorità, ai relatori e a tutti i convenuti.

Il tema del Convegno – « Attualità di un messaggio e di un’esperienza » – offre l’opportunità di riflettere sul ruolo svolto da San Bernardo nella sua epoca, quando l’Europa stava entrando in una fase importante della sua storia ed il pensiero filosofico stava mutando l’attenzione nei confronti dell’uomo. Con la sua autorevole parola, Bernardo di Chiaravalle ha posto bene in luce la radice del vero umanesimo cristiano, fondato sulla dignità dell’uomo, che si manifesta nella creazione e nella redenzione.

Volendo mettere in rilievo l’attualità del messaggio di San Bernardo per l’uomo di oggi, che è assetato di veri fondamenti spirituali talora persino inconsapevolmente, giova ricordare l’intimo nesso esistente nel pensiero e nella vita di questo grande Dottore della Chiesa, tra la ricerca della verità e l’esercizio dell’umiltà, ed insieme il triplice amore, al centro della spiritualità cistercense, per Dio, per se stessi e per il prossimo.

San Bernardo insegna che la conoscenza della verità su se stessi, sul prossimo e su Dio procede di pari grado con lo sviluppo di un triplice amore nel cuore umano. L’uomo, quando rientra in sé e si converte, sente il bisogno di ricambiare l’amore di Dio, totalmente manifestatosi in Cristo, ed è spinto ad imitarne a sua volta l’amore misericordioso, amando tutti gli uomini.

Singolarmente attuale è pure l’intuizione profonda di colui che qualcuno ha definito « ultimo Padre della Chiesa non inferiore ai primi » concernente l’unione tra azione e contemplazione: la contemplazione non è puro esercizio dell’intelletto, bensì vera pratica dell’amore verso Dio. E l’azione, a sua volta, non è semplice prassi, ma contemplazione dell’immagine di Dio presente nei fratelli da amare e servire, anzi da amare servendoli.

Le illuminazioni ricevute nell’esperienza contemplativa, insegna San Bernardo, sono così elevate da non poter divenire oggetto di predicazione: vanno allora offerte a Dio per il bene dei fratelli. Ai monaci, in particolare, egli ricorda che la loro vita, in forza della professione monastica, non può consistere soltanto in un esercizio privato di spiritualità, ma è missione e servizio ecclesiale da compiere a vantaggio di tutto il Popolo di Dio e dell’intera umanità.
Sua Santità auspica di cuore che quanti si ispirano al grande Santo di Chiaravalle possano continuare sulla sua stessa scia, sì da essere per gli uomini di questo tempo testimonianza credibile del fatto che non possiamo vivere senza Dio.

Il primato della contemplazione, che orienta tutta la vita monastica, incoraggi ogni monaco a subordinare qualsiasi interesse ed attività all’amicizia con il Signore, dalla quale sgorga l’impegno a coltivare un’autentica carità fraterna. Quanto ha bisogno il nostro mondo di una simile testimonianza! Possa il vostro incontro contribuire a diffondere ancor più nella Chiesa il messaggio di San Bernardo, insigne per santità e per zelo, cantore ammirabile di Maria, Vergine Madre. Mediatore nella Chiesa di concordia, di unità e di pace, egli interceda per ogni Comunità perché sia fucina di ardente fervore evangelico.

Mentre assicuro la mia spirituale partecipazione, ben volentieri trasmetto la Benedizione di Sua Santità a Lei ed a tutti i partecipanti a così significativo incontro, ed unisco il mio cordiale saluto. 

 

Publié dans:ZENITH |on 15 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Angelus di ieri: Il Papa ricorda l’esempio di carità di San Martino

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Il Papa ricorda l’esempio di carità di San Martino 

Intervento in occasione dell’Angelus domenicale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 11 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico per recitare la preghiera dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro in Vaticano. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle!

La Chiesa ricorda oggi, 11 novembre, san Martino, Vescovo di Tours, uno dei santi più celebri e venerati d’Europa. Nato da genitori pagani in Pannonia, l’attuale Ungheria, intorno al 316, fu indirizzato dal padre alla carriera militare. Ancora adolescente, Martino incontrò il Cristianesimo e, superando molte difficoltà, si iscrisse tra i catecumeni per prepararsi al Battesimo. Ricevette il Sacramento intorno ai vent’anni, ma dovette ancora a lungo rimanere nell’esercito, dove diede testimonianza del suo nuovo genere di vita: rispettoso e comprensivo verso tutti, trattava il suo inserviente come un fratello, ed evitava i divertimenti volgari. Congedatosi dal servizio militare, si recò a Poitiers, in Francia, presso il santo Vescovo Ilario. Da lui ordinato diacono e presbitero, scelse la vita monastica e diede origine, con alcuni discepoli, al più antico monastero conosciuto in Europa, a Ligugé. Circa dieci anni più tardi, i cristiani di Tours, rimasti senza Pastore, lo acclamarono loro Vescovo. Da allora Martino si dedicò con ardente zelo all’evangelizzazione delle campagne e alla formazione del clero. Anche se a lui vengono attribuiti molti miracoli, san Martino è famoso soprattutto per un atto di carità fraterna. Ancora giovane soldato, incontrò per la strada un povero intirizzito e tremante per il freddo. Prese allora il proprio mantello e, tagliatolo in due con la spada, ne diede metà a quell’uomo. La notte gli apparve in sogno Gesù, sorridente, avvolto in quello stesso mantello.

Cari fratelli e sorelle, il gesto caritatevole di san Martino si iscrive nella stessa logica che spinse Gesù a moltiplicare i pani per le folle affamate, ma soprattutto a lasciare se stesso in cibo all’umanità nell’Eucaristia, Segno supremo dell’amore di Dio, Sacramentum caritatis. E’ la logica della condivisione, con cui si esprime in modo autentico l’amore per il prossimo. Ci aiuti san Martino a comprendere che soltanto attraverso un comune impegno di condivisione, è possibile rispondere alla grande sfida del nostro tempo: quella cioè di costruire un mondo di pace e di giustizia, in cui ogni uomo possa vivere con dignità. Questo può avvenire se prevale un modello mondiale di autentica solidarietà, in grado di assicurare a tutti gli abitanti del pianeta il cibo, l’acqua, le cure mediche necessarie, ma anche il lavoro e le risorse energetiche, come pure i beni culturali, il sapere scientifico e tecnologico.

Ci rivolgiamo ora alla Vergine Maria, perché aiuti tutti i cristiani ad essere, come san Martino, testimoni generosi del Vangelo della carità e infaticabili costruttori di condivisione solidale.

[Il Papa ha quindi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

L’Assemblea Nazionale libanese sarà prossimamente chiamata ad eleggere il nuovo Capo dello Stato. Come dimostrano le numerose iniziative intraprese in questi giorni, si tratta di un passaggio cruciale, dal quale dipende la stessa sopravvivenza del Libano e delle sue istituzioni. Faccio mie le preoccupazioni espresse recentemente dal Patriarca maronita, Sua Beatitudine il Cardinale Nasrallah Sfeir, e il suo auspicio affinché nel nuovo Presidente possano riconoscersi tutti i Libanesi. Supplichiamo insieme Nostra Signora del Libano, perché ispiri a tutte le parti interessate il necessario distacco dagli interessi personali e una vera passione per il bene comune.

Si celebra oggi in Italia la Giornata del Ringraziamento, che ha per tema: « Custodi di un territorio amato e servito ». Ai nostri giorni, infatti, gli agricoltori sono non soltanto produttori di beni essenziali, ma anche custodi dell’ambiente naturale e del suo patrimonio culturale. Perciò, mentre rendiamo grazie a Dio per i doni del creato, preghiamo perché i lavoratori della terra possano vivere e operare in serenità e prosperità e prendersi cura dell’ambiente, per il bene di tutti.

Rivolgo un saluto speciale alla comunità argentina di Roma. Cari amici, siete venuti numerosi in occasione della beatificazione di Zeffirino Namuncurá, che avrà luogo oggi a Chimpay, in Argentina, dove la celebrazione sarà presieduta dal Cardinale Tarcisio Bertone, là recatosi a mio nome. Il Beato Zeffirino interceda per voi e per le vostre famiglie!

Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i partecipanti al convegno della Confederazione italiana dei Consultori familiari di ispirazione cristiana, incoraggiandoli a proseguire nella preziosa opera che da 30 anni svolgono a servizio delle famiglie. Saluto inoltre i fedeli provenienti da Bologna – tra cui un gruppo di donne polacche –, da Trieste, Morolo e Tecchiena; come pure i ragazzi di Montevarchi, di Empoli e del Mugello che hanno ricevuto la Cresima o ad essa si stanno preparando; l’Associazione sportiva « Aniene 80″ e il VII Distretto del Panathlon International. A tutti auguro una buona domenica. 

 

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Alla scuola spirituale di padre Rebora

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http://www.zenit.org/article-12491?l=italian 

 

Alla scuola spirituale di padre Rebora

 

 ROMA, sabato, 10 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la lettera inviata da monsignor Antonio Riboldi, Vescovo emerito di Acerra, al Convegno tenutosi presso l’Università Cattolica di Milano, il 30 e il 31 ottobre scorso, sul tema “A verità condusse poesia. Per una rilettura di Clemente Rebora”, nel cinquantesimo della morte di questo sacerdote rosminiano. 

* * * 


“La Parola zittì chiacchiere mie
la Provvidenza sue vie dispose;
mi feci attento a Pietro e alla sua Chiesa
dei Martiri la Fede venne accesa”
(dai Frammenti)

Queste sono, per me, le parole di Rebora, con cui esprime ciò che caratterizzava la sua vita dopo la conversione. Padre Rebora era mio padre spirituale durante il Noviziato e mi colpiva, ogni volta, quanto desse peso anche alle piccole mancanze, che erano il ‘bagaglio’ di una vita chiusa nel silenzio del Calvario.

Non sapevo nulla di lui e nessuno ne parlava. Ebbi la fortuna di averlo confratello, durante le vacanze alla Sacra di San Michele. Ogni volta veniva lassù, chiedeva con umiltà, all’Abate, di avere la cella vicina alla Cappella interna; non solo, ma chiedeva il ‘permesso’ – cosa davvero incredibile – di disporre il letto in modo che fosse rivolto verso la parete della Cappella, perché – diceva – ‘così riposo testa a testa con Gesù’.

In quella cella trascorreva la sua giornata in un silenzio, che era contemplazione, meditazione e scrittura. Quando – a volte per metterlo alla prova! – bussavo alla sua porta, si alzava e mi veniva subito incontro con un ‘caro’, che era la grande carità, che andava oltre i miei scherzi e il mio disturbo. Quel suo modo di ‘vivere Cristo’, metteva in crisi la mia voglia giovanile, che amava il chiasso, la gioia. La luminosità del suo sguardo, con il suo sorriso sempre stampato in volto, erano come una ‘guida’ alla serietà di una vita donata a Dio, totalmente.

Davvero, dopo la conversione, il Rebora di ‘prima’ non c’era più. C’era il Rebora del ‘dopo’, che doveva recuperare i ‘passi smarriti’. Tanti pomeriggi uscivamo insieme per una passeggiata attorno alla Sacra. Allora la Sacra era poco conosciuta e, quindi, facile il silenzio. Mi camminava a fianco, sempre in silenzio. Io cercavo la conversione e, siccome ero – allora – ‘un divoratore di libri’, tentavo di trasmettergli ciò che leggevo, a volte aggiungendo la mia critica.

Continuavo a non sapere nulla del suo passato, rendendo vere: ‘la Parola zittì chiacchiere mie’. Leggevo i romanzi russi e, a mio modo, facevo commenti e osservazioni. Ascoltava, senza mai dire ‘parole sue’ e neppure scrollando il capo, per farmi capire quanto poco ne capissi. Non sapevo che era uno dei pochi grandi conoscitori della letteratura russa!

Se poi incontravamo una cappella aperta al culto, appena vedeva il tabernacolo correva e letteralmente si prostrava in adorazione, come avesse incontrato Cristo, il suo grande Bene, in carne ed ossa. Da parte lo guardavo e mi interrogavo: “Ma chi è Rebora?”.

Per toglierlo dalla sua ‘estasi’, dopo un certo tempo dicevo: “Padre, l’obbedienza ci attende, perché presto ci sarà la visita al Sacramento e il Rosario”. Immediatamente mi seguiva…mai rimproverandomi della bugia detta! Poi le nostre vie si divisero: io nella vita pastorale, lui in quella formativa. E lentamente cominciai ad accostarmi alle sue poesie.

In un certo senso mi fu guida il ‘suo silenzio contemplativo’, la seria ricerca, senza limiti, della santità, la grande e totale carità. Non ci si poteva accostare a Don Clemente, senza portarsi appresso un continuo richiamo all’Assoluto. Mi rimane la sofferenza di non esserci tra voi, oggi, per ricordarlo. Ma faccio gli auguri e dico a don Clemente di donarvi il suo spirito. 

 

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Anche se muta, la voce del martirio è incisiva, riconosce monsignor Ravasi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12476?l=italian 

 

Anche se muta, la voce del martirio è incisiva, riconosce monsignor Ravasi 

Presidente del Consiglio di Coordinamento delle Pontificie Accademie 

 

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 8 novembre 2007 (ZENIT.org).- Il vero martirio racchiude il paradosso della testimonianza: parla anche se la sua voce è muta, “perché parla con l’essere intero”, riconosce l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e anche del Consiglio di Coordinamento delle Pontificie Accademie.

In questa veste, ha presieduto questo giovedì in Vaticano la XII Sessione Pubblica delle Pontificie Accademie, convocata sul tema “‘Testimoni del suo amore’. L’amore di Dio manifestato dai Martiri e dalle opere della Chiesa”.

Punto di riferimento del tema scelto, ha sottolineato monsignor Ravasi introducendo l’incontro, è l’insegnamento di Benedetto XVI relativo al martirio, in particolare la sua enciclica “Deus caritas est” e l’esortazione apostolica “Sacramentum caritatis”. 

“È fuor di dubbio, anche per chi non ha una grande pratica teologica, che il martirio si connette spontaneamente con la categoria sacrificio”, ha affermato. “Si può facilmente immaginare come la connessione sia spontanea tra il martirio e il sacrificio; dall’altra parte, il sacrificio della croce, l’Eucaristia”.

Il presule si è riferito a un agnostico, Albert Camus, citandone la frase: “Oh martiri, voi dovete scegliere tra essere dimenticati, scherniti o ridotti a strumenti. Quanto ad essere capiti, questo mai”. 

Questa dichiarazione racchiude una “profonda verità”, ha riconosciuto monsignor Ravasi avvertendo di certe interpretazioni e strumentalizzazioni che si fanno della parola “martire”.

“Pensiamo che cosa vuol dire una certa concezione del martirio radicale, del martirio che alla fine diventa più un’esplosione”; “bisogna riconoscere che è molto più facile certe volte morire per una religione che non vivere coerentemente e costantemente per essa per tutta la vita”, ha osservato. 

Etimologicamente “martirio” vuol dire “testimonianza”, ha spiegato il presule, e, in linea con il tema della Sessione Pubblica, due voci si sono incaricate di evidenziarlo: da un lato, con l’iconografia, la forma incisiva di rappresentare il volto del martire – attraverso l’intervento del professor Fabrizio Bisconti, magister dell’Accademia Pontificia Cultorum Martyrum –; dall’altro, “mostrando come il vero martirio sia nelle opere di carità e in una Chiesa che continua ad essere testimone dell’amore”, ad opera della professoressa Letizia Pani Ermini, Presidente dell’Accademia Pontificia Romana di Archeologia.

L’Arcivescovo Ravasi ha voluto citare, nella sua introduzione, due elementi che aiutano a fissare lo sguardo sull’autentico martirio: “Il valore del martirio come voce incisiva, anche quando è muta”, perché “questo é il grande paradosso della testimonianza”, “si parla con l’essere intero”. 

Uno è di don Primo Mazzolari, sacerdote e scrittore del secolo scorso: “La testa del Battista grida molto di più quando è sul vassoio che non quando era sul collo”. 

“Il martire, anche quando è stato fatto tacere, anche quando è emarginato, e qui io parlo dei martiri, dei testimoni quotidiani, ha sempre però una sua forza”, ha sottolineato monsignor Ravasi. 

“Il martire riesce ad irradiare attorno a sé una luce che colpisce anche coloro che gli occhi chiudono o che reagiscono in maniera negativa contro di lui”, ha sottolineato. 

L’altra voce si sintetizza in un motto “della cultura sia ebraica che musulmana, che riguarda proprio il martire nel suo senso autentico: il martire è come il legno profumato del sandalo, profuma anche l’ascia che lo colpisce e lo taglia”, ha concluso. 

Il Pontificio Istituto di Musica Sacra, grazie al suo Direttore – monsignor Valentín Miserachs Grau – e alle voci del suo coro, si è incaricato di offrire interpretazioni musicali del tema della Sessione. 

 

Publié dans:ZENITH |on 9 novembre, 2007 |Pas de commentaires »
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