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Il Cardinale Giovanni Lajolo inaugura l’albero di Natale in piazza San Pietro

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12890?l=italian

 Il Cardinale Giovanni Lajolo inaugura l’albero di Natale in piazza San Pietro 

Questo venerdì pomeriggio 

 

ROMA, venerdì, 14 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Verrà illuminato questo venerdì pomeriggio l’abete che ogni anno affianca il presepe di piazza San Pietro ricordando i tradizionali simboli del Natale. 

Quest’anno l’albero è offerto da cinque comuni della Val Badia (Trentino Alto Adige) – Marebbe, S. Martino in Badia, La Valle, Badia e Corvara – con il sostegno della Provincia autonoma di Bolzano. 

Si tratta di un abete rosso di circa 140 anni, alto 26 metri e del peso di oltre tre tonnellate. Verrà decorato con 2.000 sfere luminose e addobbi realizzati artigianalmente da volontari della Val Badia. 

La cerimonia sarà presieduta dal Cardinale Giovanni Lajolo, Governatore dello Stato della Città del Vaticano. Un coro e una banda musicale, in cui sono rappresentate tutte le comunità della Val Badia, allieteranno l’evento eseguendo canti e musiche tradizionali. 

All’inaugurazione saranno presenti una delegazione ufficiale della Provincia di Bolzano e il Vescovo di Bolzano – Bressanone, monsignor Wilhelm Emil Egger. Parteciperanno anche sacerdoti e presidenti dei Consigli parrocchiali dei comuni che hanno donato l’albero al Papa. 

Oltre all’abete, verranno offerti circa cinquanta esemplari più piccoli per la decorazione dell’Aula Paolo VI, della Sala Clementina, dell’appartamento pontificio e degli uffici della Curia Romana. 

A decorare l’Aula Paolo VI concorreranno anche opere giunte dal Messico: manufatti di ceramica da appendere ai rami dell’abete, un presepe realizzato per l’occasione e quattro angeli in legno dipinto destinati alla composizione presepiale “messicana”, che affiancheranno le statue tradizionali. 

Il Messico desidera in questo modo commemorare il 15° anniversario dello stabilimento delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede. 

Il presepe di piazza San Pietro verrà inaugurato, com’è tradizione, il 24 dicembre, e rimarrà esposto fino al 2 febbraio, festa della Presentazione di Gesù al Tempio. 

La tradizione del presepe e dell’albero in piazza San Pietro è stata iniziata da Giovanni Paolo II nel 1982. 

Il presepe ha 17 personaggi a grandezza naturale, 9 dei quali sono stati donati da San Vincenzo Pallotti nel 1842 per il presepe della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. 

Gli altri otto sono stati aggiunti nel corso degli anni. Come nel 2006, l’associazione “Amici del Presepio” di Tesero, nella Val di Fiemme (Trento), ha fornito le statue dei Re magi e di altri soggetti, così come gli utensili per la descrizione della vita quotidiana dell’epoca. 

Alle radici della pace

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12874?l=italian 

 

Alle radici della pace

 CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 12 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’editoriale apparso su “L’Osservatore Romano” del 12 dicembre a commento del messaggio di Benedetto XVI per la 41a Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2008 sul tema « Famiglia umana, comunità di pace« . 

* * * 

Sotto il segno della speranza. In questa chiave aperta a una fiducia ottimista – ma non per questo ignara dei problemi – Benedetto XVI invita a leggere il messaggio che ha preparato per la giornata mondiale della pace e che si rivolge esplicitamente « agli uomini e alle donne di tutto il mondo ». Il suo titolo – « Famiglia umana, comunità di pace » – risuona con efficace semplicità e il suo contenuto va alle radici di quanto sognano appunto tante donne e tanti uomini del nostro tempo. Sì, perché alle radici della pace c’è la famiglia, che nasce dall’amore tra un uomo e una donna, « prima forma di comunione tra persone ». E il modello della famiglia è quello che, secondo il vescovo di Roma, deve ispirare i rapporti « di solidarietà e di collaborazione » anche nell’unica « famiglia umana » a cui sono chiamati i popoli della terra. 

Il parallelismo tra famiglia naturale e famiglia umana percorre tutto il testo papale. È infatti nella famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna che « si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace »: giustizia e amore, ma anche l’autorità esercitata dai genitori, il servizio e l’aiuto a chi ne ha bisogno, fino all’accoglienza e al perdono. In una espressione, « il lessico familiare è un lessico di pace ». Per questo non si deve mai perdere di vista « quella « grammatica » che ogni bimbo apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima ancora che dalle loro parole ». Come a sottolineare l’importanza dei gesti concreti, dopo quella delle affermazioni di principio, anche nei rapporti internazionali. 

L’argomentare di Benedetto XVI è pure in questo messaggio per la giornata mondiale della pace pacato e ragionevole, quindi comprensibile e condivisibile anche al di là dei confini del cattolicesimo, delle confessioni cristiane e addirittura dei diversi mondi religiosi. Lo dimostrano il richiamo insistito da parte del Papa alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) – a cui si arrivò nel 1948 e di cui si sta dunque per celebrare il sessantesimo anniversario – e soprattutto il riferimento alla legge naturale, « iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione ». 

Il riconoscimento dei diritti della famiglia in quanto « nucleo naturale e fondamentale della società » presente nella dichiarazione dell’Onu (come anche nella Carta dei diritti della famiglia pubblicata dalla Santa Sede nel 1983) ha una conseguenza logica evidente: « La negazione o anche la restrizione dei diritti della famiglia, oscurando la verità sull’uomo, minaccia gli stessi fondamenti della pace« . La famiglia, secondo Benedetto XVI, va dunque protetta con misure concrete perché è una risorsa di pace.

Così come con misure concrete bisogna proteggere la famiglia umana: a cominciare dalla sua casa, che è l’ambiente naturale. Senza divinizzare la natura, s’intende: considerando per esempio più importante dello stesso essere umano « la natura materiale o animale ». Al contrario, senza dimenticare i poveri e procedendo con prudenza davvero scientifica, bisogna rafforzare una vera e propria « alleanza tra essere umano e ambiente ». Non solo a parole, ma puntando a un utilizzo delle risorse energetiche che ridimensioni i folli livelli del consumo caratteristici delle società opulente. E altrettanto bisogna incidere sull’economia che deve mirare a un « bene comune » mondiale. 

Criterio generale – ripete ancora una volta il Papa, con fiduciosa speranza, tanto ai credenti quanto ai non credenti – è « la norma morale basata sulla natura delle cose, che la ragione umana è capace di discernere ». Benedetto XVI va al cuore del problema: il fondamento morale naturale di questa « legge morale comune » è ciò che permette, « al di là delle differenze culturali », la comprensione tra esseri umani a proposito degli « aspetti più importanti del bene e del male ». Anche se tutto questo è presente negli accordi internazionali in modo frammentario « e non sempre coerente ». Lo sguardo del Papa non deriva da un ottimismo cieco di fronte a divisioni, conflitti e atti efferati, come l’ultimo spaventoso attentato che ha insanguinato Algeri. Prova di questo sguardo realistico agli ostacoli che impediscono la pace è la sua richiesta di accordi concreti per un’efficace smilitarizzazione e per lo smantellamento delle armi nucleari che distolgono enormi risorse indispensabili ai bisogni sempre più urgenti di tanti esseri umani. Che tutti fanno parte di un’unica famiglia. 

g.m.v. 


(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2007) 
 

Scoperto il ritratto ufficiale di Benedetto XVI

quando trovo la foto del dipinto del Papa lo metto sul Blog, dal sito: 

 

http://www.zenit.org/article-12879?l=italian

  

Scoperto il ritratto ufficiale di Benedetto XVI 

Un’artista russa ortodossa presenta al Pontefice un suo dipinto 

 

Di Mary Shovlain

 

 CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 13 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Accade solo una volta durante un pontificato. Benedetto XVI ha ricevuto questo mercoledì il suo ritratto ufficiale dalla famosa pittrice russa Natalia Tsarkova. 

L’opera è stata scoperta durante un incontro privato nell’Aula Paolo VI tenutosi dopo la tradizionale Udienza generale del mercoledì. 

La Tsarkova è la prima donna ad essere diventata ritrattista ufficiale vaticana. Papa Giovanni Paolo II è stato il soggetto del suo primo lavoro ufficiale. Lo ha ritratto durante il Giubileo del 2000 e l’opera è ora ospitata nei Musei Vaticani. 

Parlando a ZENIT dopo il suo incontro con Benedetto XVI, la Tsarkova ha rivelato che il Pontefice l’ha ringraziata per il suo lavoro ed ha affermato di essere molto felice del risultato. Il Santo Padre ha detto di conoscere le sue opere e di ammirare i ritratti che ha fatto a Giovanni Paolo II e a vari Cardinali. 

Durante l’udienza, durata 20 minuti, la Tsarkova ha spiegato i “segreti” del dipinto, soprattutto gli angeli che adornano il trono papale, che – ha detto – “diventano vita”. 

Gli angeli sembrano essere l’aspetto del dipinto preferito dal Papa, ha affermato, notando che nel suo recente discorso sul ruolo dei Vescovi ha paragonato la loro opera proprio a quella degli angeli, i messaggeri di Dio. 

La pittrice ha voluto dare un carattere simbolico al dipinto fosse. “Il Santo Padre – ha spiegato – è seduto su un trono ed è circondato da angeli. Riposa simbolicamente su di loro, come sostegno al suo ministero”. 

“Nella mano, stringe un libro dei suoi discorsi come segno del suo dialogo con il mondo moderno”, ha proseguito. “E’ un segno di pace perché è attraverso il dialogo che possiamo raggiungere la pace”. 

La Tsarkova ha detto che l’idea del ritratto è venuta non appena Benedetto XVI è stato eletto nel 2005, quando lei ha iniziato ad andare alle celebrazioni liturgiche in Vaticano per osservarlo e trarre ispirazione. 

“Lo avevo incontrato quando era Cardinale e lo conoscevo attraverso i suoi molti scritti, ma dovevo conoscerlo come Papa”, ha commentato. 

Il dipinto è stato finanziato dai Patrons of the Arts in the Vatican Museums. Il sacerdote Mark Haydu, dei Legionari di Cristo, Direttore internazionale dell’ufficio dei Patroni, ha raccontato a ZENIT come la Tsarkova abbia ricevuto l’incarico. 

“L’allora Sostituto della Segreteria di Stato, il neo Cardinale Leonardo Sandri, ora Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, pensò a Natalia come autrice del ritratto del Santo Padre, e condivise l’idea con numerosi amici che erano Patroni delle Arti. Da allora la Tsarkova ha iniziato a lavorare per creare questo splendido ritratto”, ha ricordato. 

Padre Haydu ha affermato che non è stato difficile trovare persone disposte a sostenere quest’opera: “Sotto il mio predecessore, il sacerdote domenicano Allen Duston, l’ufficio ha aiutato a trovare sponsor per il ritratto della Tzarkova [...]. Il signor John Brogan, da tempo Patrono delle Arti, ha aiutato a trasformare questo ritratto in realtà, insieme al nostro capitolo nel Regno Unito”. 

Secondo padre Haydu, il fatto stesso che una donna ortodossa di origini russe abbia dipinto il ritratto di un Papa tedesco riveste un significato simbolico: “Trovo eloquente che due individui i cui popoli, Tedeschi e Russi, sono stati divisi nel passato recente, siano provvidenzialmente uniti in questo sforzo artistico”. 

“Come sappiamo – ha aggiunto – Benedetto XVI ha fatto dell’unità cristiana una delle caratteristiche del suo pontificato, e questo dipinto è solo un ulteriore gesto provvidenziale dell’unione delle fedi cattolica e ortodossa”. 


[Traduzione di Roberta Sciamplicotti]
 

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Benedetto XVI presenta la figura di San Paolino di Nola

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12866?l=italian 

 

Benedetto XVI presenta la figura di San Paolino di Nola 

Intervento all’Udienza generale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 12 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Paolino di Nola. 

 

* * * 

 

Cari fratelli e sorelle! 

Il Padre della Chiesa a cui oggi volgiamo l’attenzione è san Paolino di Nola. Contemporaneo di sant’Agostino, al quale fu legato da viva amicizia, Paolino esercitò il suo ministero in Campania, a Nola, dove fu monaco, poi presbitero e Vescovo. Era però originario dell’Aquitania, nel sud della Francia, e precisamente di Bordeaux, dove era nato da famiglia altolocata. Qui ricevette una fine educazione letteraria, avendo come maestro il poeta Ausonio. Dalla sua terra si allontanò una prima volta per seguire la sua precoce carriera politica, che lo vide assurgere, ancora in giovane età, al ruolo di governatore della Campania. In questa carica pubblica fece ammirare le sue doti di saggezza e di mitezza. Fu in questo periodo che la grazia fece germogliare nel suo cuore il seme della conversione. Lo stimolo venne dalla fede semplice e intensa con cui il popolo onorava la tomba di un Santo, il martire Felice, nel Santuario dell’attuale Cimitile. Come responsabile della cosa pubblica, Paolino si interessò a questo Santuario e fece costruire un ospizio per i poveri e una strada per rendere più agevole l’accesso ai tanti pellegrini. 

Mentre si adoperava per costruire la città terrena, egli andava scoprendo la strada verso la città celeste. L’incontro con Cristo fu il punto d’arrivo di un cammino laborioso, seminato di prove. Circostanze dolorose, a partire dal venir meno del favore dell’autorità politica, gli fecero toccare con mano la caducità delle cose. Una volta arrivato alla fede scriverà: « L’uomo senza Cristo è polvere ed ombra » (Carme X, 289). Desideroso di gettar luce sul senso dell’esistenza, si recò a Milano per porsi alla scuola di Ambrogio. Completò poi la formazione cristiana nella sua terra natale, ove ricevette il battesimo per le mani del Vescovo Delfino, di Bordeaux. Nel suo percorso di fede si colloca anche il matrimonio. Sposò infatti Terasia, una pia nobildonna di Barcellona, dalla quale ebbe un figlio. Avrebbe continuato a vivere da buon laico cristiano, se la morte del bimbo dopo pochi giorni non fosse intervenuta a scuoterlo, mostrandogli che altro era il disegno di Dio sulla sua vita. Si sentì in effetti chiamato a votarsi a Cristo in una rigorosa vita ascetica. 

In pieno accordo con la moglie Terasia, vendette i suoi beni a vantaggio dei poveri e, insieme con lei, lasciò l’Aquitania per Nola, dove i due coniugi presero dimora accanto alla Basilica del protettore San Felice, vivendo ormai in casta fraternità, secondo una forma di vita alla quale anche altri si aggregarono. Il ritmo comunitario era tipicamente monastico, ma Paolino, che a Barcellona era stato ordinato presbitero, prese ad impegnarsi pure nel ministero sacerdotale a favore dei pellegrini. Ciò gli conciliò la simpatia e la fiducia della comunità cristiana, che, alla morte del Vescovo, verso il 409, volle sceglierlo come successore sulla cattedra di Nola. La sua azione pastorale si intensificò, caratterizzandosi per un’attenzione particolare verso i poveri. Lasciò l’immagine di un autentico Pastore della carità, come lo descrisse san Gregorio Magno nel capitolo III dei suoi Dialoghi, dove Paolino è scolpito nel gesto eroico di offrirsi prigioniero al posto del figlio di una vedova. L’episodio è storicamente discusso, ma rimane la figura di un Vescovo dal cuore grande, che seppe stare vicino al suo popolo nelle tristi contingenze delle invasioni barbariche. 

La conversione di Paolino impressionò i contemporanei. Il suo maestro Ausonio, un poeta pagano, si sentì « tradito », e gli indirizzò parole aspre, rimproverandogli da un lato il « disprezzo », giudicato dissennato, dei beni materiali, dall’altro l’abbandono della vocazione di letterato. Paolino replicò che il suo donare ai poveri non significava disprezzo per i beni terreni, ma semmai una loro valorizzazione per il fine più alto della carità. Quanto agli impegni letterari, ciò da cui Paolino aveva preso congedo non era il talento poetico, che avrebbe continuato a coltivare, ma i moduli poetici ispirati alla mitologia e agli ideali pagani. Una nuova estetica governava ormai la sua sensibilità: era la bellezza del Dio incarnato, crocifisso e risorto, di cui egli si faceva adesso cantore. Non aveva lasciato, in realtà, la poesia, ma attingeva ormai dal Vangelo la sua ispirazione, come egli dice in questo verso: « Per me l’unica arte è la fede, e Cristo la mia poesia » (« At nobis ars una fides, et musica Christus« : Carme XX, 32). 

I suoi carmi sono canti di fede e di amore, nei quali la storia quotidiana dei piccoli e grandi eventi è colta come storia di salvezza, come storia di Dio con noi. Molti di questi componimenti, i cosiddetti « Carmi natalizi« , sono legati all’annuale festa del martire Felice, che egli aveva eletto quale celeste Patrono. Ricordando san Felice, egli intendeva glorificare Cristo stesso, convinto com’era che l’intercessione del Santo gli avesse ottenuto la grazia della conversione: « Nella tua luce, gioioso, ho amato Cristo » (Carme XXI, 373). Questo stesso concetto egli volle esprimere ampliando lo spazio del Santuario con una nuova basilica, che fece decorare in modo che i dipinti, illustrati da opportune didascalie, costituissero per i pellegrini una catechesi visiva. Così egli spiegava il suo progetto in un Carme dedicato a un altro grande catecheta, san Niceta di Remesiana, mentre lo accompagnava nella visita alle sue Basiliche: « Ora voglio che tu contempli le pitture che si snodano in lunga serie sulle pareti dei portici dipinti… A noi è sembrata opera utile rappresentare con la pittura argomenti sacri in tutta la casa di Felice, nella speranza che, alla vista di queste immagini, la figura dipinta susciti l’interesse delle menti attonite dei contadini » (Carme XXVII, vv. 511.580-583). Ancora oggi si possono ammirare i resti di queste realizzazioni, che collocano a buon diritto il Santo nolano tra le figure di riferimento dell’archeologia cristiana. 

Nell’asceterio di Cimitile la vita scorreva nella povertà, nella preghiera e tutta immersa nella « lectio divina« . La Scrittura letta, meditata, assimilata, era la luce sotto il cui raggio il Santo nolano scrutava la sua anima nella tensione verso la perfezione. A chi rimaneva ammirato della decisione da lui presa di abbandonare i beni materiali, egli ricordava che tale gesto era ben lontano dal rappresentare già la piena conversione: « L’abbandono o la vendita dei beni temporali posseduti in questo mondo non costituisce il compimento, ma soltanto l’inizio della corsa nello stadio; non è, per così dire, il traguardo, ma solo la partenza. L’atleta infatti non vince allorché si spoglia, perché egli depone le sue vesti proprio per incominciare a lottare, mentre è degno di essere coronato vincitore solo dopo che avrà combattuto a dovere » (cfr Ep. XXIV, 7 a Sulpicio Severo). 

Accanto all’ascesi e alla Parola di Dio, la carità: nella comunità monastica i poveri erano di casa. Ad essi Paolino non si limitava a fare l’elemosina: li accoglieva come fossero Cristo stesso. Aveva riservato per loro un reparto del monastero e, così facendo, gli sembrava non tanto di dare, ma di ricevere, nello scambio di doni tra l’accoglienza offerta e la gratitudine orante degli assistiti. Chiamava i poveri suoi « patroni » (cfr Ep. XIII,11 a Pammachio) e, osservando che erano alloggiati al piano inferiore, amava dire che la loro preghiera faceva da fondamento alla sua casa cfr Carme XXI, 393-394). 

San Paolino non scrisse trattati di teologia, ma i suoi carmi e il denso epistolario sono ricchi di una teologia vissuta, intrisa di Parola di Dio, costantemente scrutata come luce per la vita. In particolare, emerge il senso della Chiesa come mistero di unità. La comunione era da lui vissuta soprattutto attraverso una spiccata pratica dell’amicizia spirituale. In questa Paolino fu un vero maestro, facendo della sua vita un crocevia di spiriti eletti: da Martino di Tours a Girolamo, da Ambrogio ad Agostino, da Delfino di Bordeaux a Niceta di Remesiana, da Vittricio di Rouen a Rufino di Aquileia, da Pammachio a Sulpicio Severo, e a tanti altri ancora, più o meno noti. Nascono in questo clima le intense pagine scritte ad Agostino. Al di là dei contenuti delle singole lettere, impressiona il calore con cui il Santo nolano canta l’amicizia stessa, quale manifestazione dell’unico corpo di Cristo animato dallo Spirito Santo. Ecco un brano significativo, agli inizi della corrispondenza tra i due amici: « Non c’è da meravigliarsi se noi, pur lontani, siamo presenti l’uno all’altro e senza esserci conosciuti ci conosciamo, poiché siamo membra di un solo corpo, abbiamo un unico capo, siamo inondati da un’unica grazia, viviamo di un solo pane, camminiamo su un’unica strada, abitiamo nella medesima casa » (Ep. 6, 2). Come si vede, una bellissima descrizione di che cosa significhi essere cristiani, essere Corpo di Cristo, vivere nella comunione della Chiesa. La teologia del nostro tempo ha trovato proprio nel concetto di comunione la chiave di approccio al mistero della Chiesa. La testimonianza di san Paolino di Nola ci aiuta a sentire la Chiesa, quale ce la presenta il Concilio Vaticano II, come sacramento dell’intima unione con Dio e così dell’unità di tutti noi e infine di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1). In questa prospettiva auguro a tutti voi un buon tempo di Avvento.

 

 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

 

 Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana: grazie per la vostra presenza. In particolare, saluto i Militari del 6° Reggimento Genio Pionieri di Roma, e auguro a ciascuno di aderire sempre più a Cristo e al suo Vangelo. Saluto, poi, i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e li ringrazio per il gradito dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa: grazie di cuore. 

Saluto, infine, i, giovani, i malati e gli sposi novelli. A voi, cari giovani, auguro di disporre i vostri cuori ad accogliere Gesù, che ci salva con la potenza del suo amore. A voi, cari malati, che nella vostra malattia sperimentate ancor più il peso della croce, le prossime feste natalizie apportino serenità e conforto. E voi, cari sposi novelli, che da poco tempo avete formato la vostra famiglia, crescete sempre più in quell’amore che Gesù nel suo Natale è venuto a donarci. 

 

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Congresso a Roma su “Comunicare la Chiesa nella cultura della controversia

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http://www.zenit.org/article-12845?l=italian 

 

Congresso a Roma su “Comunicare la Chiesa nella cultura della controversia” 

VI Seminario sugli uffici di comunicazione della Chiesa 

 

Di Miriam Díez i Bosch

 

 ROMA, lunedì, 10 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Comunicare la bellezza del cristianesimo in un contesto culturale polemico e controverso. Con questa idea nasce il VI Seminario professionale sugli uffici di comunicazione della Chiesa, organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce. 

L’incontro avrà luogo dal 28 al 30 aprile 2008 ed è destinato soprattutto a responsabili di uffici di comunicazione della Chiesa e professionisti dell’informazione. 

E’ prevista la partecipazione di rappresentanti di diocesi, Conferenze Episcopali e altre realtà ecclesiali di circa 70 Paesi. 

Tra le esperienze che si analizzeranno durante il Seminario, figurano la campagna “What have you done for your marriage today?” (“Cos’hai fatto oggi per il tuo matrimonio?”) – promossa dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti a favore della stabilità familiare – , i negoziati di pace e il programma di lotta all’Aids promossi dalla Comunità di Sant’Egidio o lo sviluppo di www.sqpn.com, la rete cattolica di podcast più premiata ai “People’s Choice Podcast Awards”. 

Un Arcivescovo australiano, un Arcivescovo argentino e un Vescovo italiano rifletteranno su “Cosa si aspetta un Vescovo dall’ufficio di comunicazione”. 

Il programma prevede sessioni pratiche sulla preparazione degli interventi dei portavoce della Chiesa e sul loro ruolo di fronte alle telecamere. 

Lo scrittore e giornalista nordamericano John L. Allen analizzerà come mostrare le “altre” notizie della Chiesa, quelle che non sono pubblicate perché non vengono scoperte. 

Jean-Etienne Rime, presidente dell’impresa di comunicazioni Giotto (Francia), condividerà la sue esperienze di consulente della comunicazione nel lavoro con imprese che attraversano momenti di difficoltà. 

Di altre sessioni si incaricheranno giornalisti internazionali come Andreas Englisch, corrispondente a Roma di Axel Springel (Germania), Delia Gallagher, analista vaticana della CNN International (Stati Uniti), o Eugenia Roccella, scrittrice e collaboratrice di vari quotidiani (Italia). 

Tra le altre attività, il programma include una visita alla Sala Stampa della Santa Sede e un colloquio con il suo direttore, il gesuita p.Federico Lombardi. 

Il professor Diego Contreras, presidente del Comitato organizzatore, ha spiegato che “di fronte ai dibattiti che mettono in discussione la famiglia, il rispetto della libertà religiosa, le questioni bioetiche o la protezione dei più deboli e bisognosi, il rischio per gli uffici di comunicazione della Chiesa è di vedersi costretti a svolgere una comunicazione di reazione, con tutti i connotati peggiorativi che questa comporta”. 

Per questo motivo, il Seminario desidera chiedersi come presentare la proposta cristiana in modo efficace. 

Il professor Marc Carroggio, membro del Comitato organizzatore, ha detto a ZENIT che “il Seminario si propone come un’occasione per riflettere sul modo di comunicare la bellezza del cristianesimo”. 

“Secondo me – ha spiegato il docente di Comunicazione istituzionale – questo si raggiunge raccontando la storia di persone la cui vita si vede arricchita dal dono della fede. E’ anche importante che gli uffici di comunicazione della Chiesa sviluppino tutta la loro capacità argomentativa; intervenire pubblicamente spiegando le ragioni della nostra fede è il modo più adeguato per mostrare che i cristiani hanno proposte attraenti da offrire agli altri”. 

Il programma del Seminario ha previsto uno spazio per la presentazione di Comunicazioni, sia nella formula tradizionale di papers accademici che nell’esposizione di esperienze e iniziative di particolare utilità per gli uffici di comunicazione. 

Il professor Contreras ha detto a ZENIT che “è evidente che un requisito imprescindibile per svolgere un efficace compito comunicativo è contare sulle persone adatte a realizzarlo. Persone adeguate vuol dire anche persone preparate. Mi sembra che uno dei problemi di fondo sia proprio questo. E’ inutile parlare della necessità di potenziare la comunicazione se non si è poi disposti a dedicare a questo – in futuro – persone, risorse e tempo. Naturalmente, le esigenze sono molte in tutti i settori, ma sarebbe un errore pensare che la comunicazione occupi l’ultimo posto”.

 

Benedetto XVI: il Natale richiede conversione

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Benedetto XVI: il Natale richiede conversione 

Intervento in occasione dell’Angelus domenicale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 9 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano per recitare la preghiera mariana dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro in Vaticano. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle! 

Ieri, solennità dell’Immacolata Concezione, la liturgia ci ha invitato a volgere lo sguardo verso Maria, madre di Gesù e madre nostra, Stella di speranza per ogni uomo. Oggi, seconda domenica di Avvento, ci presenta l’austera figura del Precursore, che l’evangelista Matteo introduce così: « In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» » (Mt 3,1-2). La sua missione è stata quella di preparare e spianare la via davanti al Messia, chiamando il popolo d’Israele a pentirsi dei propri peccati e a correggere ogni iniquità. Con parole esigenti Giovanni Battista annunciava il giudizio imminente: « Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco » (Mt 3,10). Metteva in guardia soprattutto dall’ipocrisia di chi si sentiva al sicuro per il solo fatto di appartenere al popolo eletto: davanti a Dio – diceva – nessuno ha titoli da vantare, ma deve portare « frutti degni di conversione » (Mt 3,8). 

Mentre prosegue il cammino dell’Avvento, mentre ci prepariamo a celebrare il Natale di Cristo, risuona nelle nostre comunità questo richiamo di Giovanni Battista alla conversione. E’ un invito pressante ad aprire il cuore e ad accogliere il Figlio di Dio che viene in mezzo a noi per rendere manifesto il giudizio divino. Il Padre – scrive l’evangelista Giovanni – non giudica nessuno, ma ha affidato al Figlio il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo (cfr Gv 5,22.27). Ed è oggi, nel presente, che si gioca il nostro destino futuro; è con il concreto comportamento che teniamo in questa vita che decidiamo della nostra sorte eterna. Al tramonto dei nostri giorni sulla terra, al momento della morte, saremo valutati in base alla nostra somiglianza o meno con il Bambino che sta per nascere nella povera grotta di Betlemme, poiché è Lui il criterio di misura che Dio ha dato all’umanità. Il Padre celeste, che nella nascita del suo Unigenito Figlio ci ha manifestato il suo amore misericordioso, ci chiama a seguirne le orme facendo, come Lui, delle nostre esistenze un dono di amore. E i frutti dell’amore sono quei « degni frutti di conversione » a cui fa riferimento san Giovanni Battista, mentre con parole sferzanti si rivolge ai farisei e ai sadducei accorsi, tra la folla, al suo battesimo. 

Mediante il Vangelo, Giovanni Battista continua a parlare attraverso i secoli, ad ogni generazione. Le sue chiare e dure parole risultano quanto mai salutari per noi, uomini e le donne del nostro tempo, in cui anche il modo di vivere e percepire il Natale risente purtroppo, assai spesso, di una mentalità materialistica. La « voce » del grande profeta ci chiede di preparare la via al Signore che viene, nei deserti di oggi, deserti esteriori ed interiori, assetati dell’acqua viva che è Cristo. Ci guidi la Vergine Maria ad una vera conversione del cuore, perché possiamo compiere le scelte necessarie per sintonizzare le nostre mentalità con il Vangelo.

 

 

[Dopo l'Angelus, il Papa ha salutato i presenti in varie lingue. In italiano ha detto:]

 

 Nel pomeriggio di giovedì 13 dicembre prossimo incontrerò gli universitari degli Atenei romani, al termine della Santa Messa che sarà presieduta dal Cardinale Camillo Ruini. Vi attendo numerosi, cari giovani, per prepararci al santo Natale invocando il dono dello Spirito di sapienza per tutta la comunità universitaria. 

Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Burgio e da Trebisacce, i ragazzi dell’unità pastorale di Fagnano Olona (Diocesi di Milano), gli scout di Passignano sul Trasimeno, l’associazione « C’era una volta » di Villamiroglio e il gruppo della Polizia Municipale di Agropoli. A tutti auguro una buona domenica. 

 

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Predicatore del Papa: L’Immacolata scuote dalla “narcosi da peccato”

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 Predicatore del Papa: L’Immacolata scuote dalla “narcosi da peccato” 

Commento di padre Cantalamessa a questa festa mariana 

ROMA, giovedì, 6 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia – per la Solennità dell’Immacolata Concezione. 

  

* * * 

SENZA PECCATO 

  Solennità dell’Immacolata Concezione 

  Genesi 3, 9-15.20; Efesini 1,3-6.11-12; Luca 1, 26-38  

Con il dogma dell’Immacolata Concezione la Chiesa cattolica afferma che Maria, per singolare privilegio di Dio e in vista dei meriti della morte di Cristo, è stata preservata dal contrarre la macchia del peccato originale ed è venuta all’esistenza già tutta santa.  Quattro anni dopo essere stata definita dal papa Pio IX, questa verità fu confermata dalla Madonna stessa a Lourdes in una delle apparizioni a Bernardetta con le parole: « Io sono l’Immacolata Concezione. 

  La festa dell’Immacolata ricorda all’umanità che c’è un sola sola cosa che inquina veramente l’uomo ed è il peccato. Un messaggio quanto mai urgente da riproporre. Il mondo ha perso il senso del peccato. Ci scherza come se fosse la cosa più innocente del mondo. Condisce con l’idea di peccato i suoi prodotti e i suoi spettacoli per renderli più attraenti. Parla del peccato, anche dei peccati più gravi, al vezzeggiativo: peccatucci, vizietti, passioncelle. L’espressione « peccato originale » viene usata nel linguaggio pubblicitario per indicare qualcosa di ben diverso dalla Bibbia: un peccato che conferisce un tocco di originalità a chi lo commette! 

  Il mondo ha paura di tutto, fuorché del peccato. Ha paura dell’inquinamento atmosferico, dei « mali oscuri » del corpo, della guerra atomica, oggi del terrorismo; ma non ha paura della guerra a Dio che è l’Eterno, l’Onnipotente, l’Amore, mentre Gesù dice di non temere coloro che uccidono il corpo, ma di temere solo colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna (cf Lc 12, 4-5). 

  Questa situazione « ambientale » esercita un influsso tremendo anche sui credenti che pure vogliono vivere secondo il Vangelo. Produce in essi un addormentamento delle coscienze, una specie di anestesia spirituale. Esiste una narcosi da peccato. Il popolo cristiano non riconosce più il suo vero nemico, il padrone che lo tiene schiavo, solo perché si tratta di una schiavitù dorata. Molti che parlano di peccato, hanno di esso un’idea del tutto inadeguata. Il peccato viene spersonalizzato e proiettato unicamente sulle strutture; si finisce con identificare il peccato con la posizione dei propri avversari politici o ideologici. Un’inchiesta su che cosa pensa la gente che sia il peccato darebbe dei risultati che probabilmente ci spaventerebbero. 

  Anziché nel liberarsi dal peccato, tutto l’impegno è concentrato oggi nel liberarsi dal rimorso del peccato; anziché lottare contro il peccato, si lotta contro l’idea di peccato, sostituendola con quella assai diversa del « senso di colpa ». Si fa quello che in ogni altro ambito è ritenuta la cosa peggiore di tutte e cioè negare il problema anziché risolverlo, ricacciare e seppellire il male nell’inconscio anziché rimuoverlo. Come chi crede di eliminare la morte, eliminando il pensiero della morte, o come chi si preoccupa di stroncare la febbre, senza curarsi della malattia, di cui essa è solo un provvidenziale sintomo rivelatore. San Giovanni diceva che se affermiamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e facciamo di Dio un bugiardo (cf 1 Gv 1, 8-10); Dio, infatti, dice il contrario, dice che abbiamo peccato. La Scrittura dice che Cristo « è morto per i nostri peccati » (cf 1 Cor 15, 3). Togli il peccato e hai vanificato la stessa redenzione di Cristo, hai distrutto il significato della sua morte. Cristo avrebbe lottato contro dei semplici mulini a vento; avrebbe versato il suo sangue per niente. 

  Ma il dogma dell’Immacolata ci dice anche qualcosa di sommamente positivo: che Dio è più forte del peccato e che dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia (cf. Rom 5,20). Maria è il segno e la garanzia di questo. La Chiesa intera, dietro di lei, è chiamata a divenire « tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Ef 5, 27). Un testo del concilio Vaticano II dice: « Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima vergine la perfezione, con la quale è senza macchia e senza ruga, i fedeli si sforzano ancora di crescere nella santità debellando il peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti » (LG, 65).   

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Cardinal Kasper: “La cattedra di Pietro è diventata un centro ecumenico”

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Cardinal Kasper: “La cattedra di Pietro è diventata un centro ecumenico”

 Tutto il mondo cristiano riconosce “la promessa” nel ministero petrino 

 

Di Mirko Testa

 

 CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 5 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Le diverse confessioni cristiane riconoscono il contributo vitale del “ministero petrino” al movimento ecumenico, afferma il Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. 

Di ritorno dall’incontro con il Patriarca ecumenico Bartolomeo I a Istanbul (Turchia), per il tradizionale scambio di delegazioni in occasione della festa di Sant’Andrea apostolo (30 novembre), il porporato tedesco ha riferito a “L’Osservatore Romano” che il clima al Fanar (la sede del Patriarcato) “è stato molto disteso e amichevole”. 

“Abbiamo sperimentato che non c’è soltanto il ‘documento di Ravenna’ ma anche lo ‘spirito di Ravenna’”, ha detto in riferimento al testo approvato, ad ottobre, al termine della riunione della Commissione mista di dialogo cattolico-ortodossa. 

“Tutti – ha continuato – sono soddisfatti di questo documento” che costituisce un accordo tra cattolici e ortodossi su una piattaforma comune su cui fondare la discussione sul primato del Vescovo di Roma. 

“Sono necessari ancora molti passi – ha poi ammesso –. La via non è facile. Ma Roma e Costantinopoli sono fermamente decise ad andare avanti nel dialogo. Speriamo, con l’aiuto di Dio, di poter ricomporre alla fine la piena comunione”. 

A questo proposito il Cardinale Kasper ha detto che si incontrerà con il Metropolita Kyrill, Direttore del Dipartimento dei Rapporti Esteri con le Chiese del Patriarcato di Mosca (seconda autorità dopo il Patriarca Alessio II), in visita a Roma dal 5 all’8 dicembre in occasione della festa patronale della parrocchia ortodossa russa di santa Caterina d’Alessandria. 

L’incontro servirà in primo luogo a superare l’impasse venutasi a creare a Ravenna dopo che la delegazione del Patriarcato di Mosca si è ritirata dall’incontro in segno di protesta contro la partecipazione all’evento dei membri della cosiddetta Chiesa apostolica estone, creata nel 1996 in Estonia dal Patriarcato di Costantinopoli e da questo dichiarata “autonoma” (uno statuto che non viene riconosciuto dal Patriarcato moscovita). 

Il tentativo di distensione nel dialogo è fatto anche in vista della prossima Plenaria della Commissione mista cattolico-ortodossa, che si riunirà nell’ autunno 2009 per riflettere su “Il ruolo del Vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio”. 

Lo stesso Benedetto XVI ha espresso l’auspicio di una piena partecipazione del Patriarcato di Mosca a questo incontro nel messaggio fatto pervenire a Bartolomeo I per la festa di sant’Andrea. 

Da parte sua, il porporato tedesco ha detto di aver “insistito molto” nelle conversazioni private che ha avuto con Bartolomeo I e al Patriarcato di Costantinopoli: “Mi hanno risposto di essere d’accordo e si sono detti convinti che non serve a nulla una divisione nell’ortodossia”.

Secondo il Cardinale Kasper, due sono gli apetti che caratterizzano attualmente i rapporti tra cattolici e ortodossi: “Innanzitutto cresce sempre più l’amicizia tra noi”; “in secondo luogo c’è la precisa volontà di tutte le parti in causa, perché sappiamo bene che l’unità della Chiesa è un mandato di Gesù stesso”.

Circa i temi toccati durante le conversazioni a Istanbul, il porporato ha accennato alla questione del ruolo del Vescovo di Roma nella comunione di tutte le Chiese: “La parte ortodossa dice che c’è un primato anche a livello universale: questo non vuol dire che abbiamo già risolto tutto”.

Tuttavia il Cardinale Kasper ha detto di aver “l’impressione che tutti nella cristianità sentano la promessa che ha in sè il ministero petrino: la cattedra di Pietro, che presiede nell’amore e nella carità, è diventata un centro ecumenico”. 

“Tutti hanno l’impressione che c’è un carisma di unità di cui abbiamo bisogno in questo mondo globalizzato. Si dice che ‘tutte le strade portano a Roma’: in un certo senso questo adagio vale anche a livello spirituale”. 

“Tutti guardano a Roma, al Papa, che in certi casi è già adesso il portavoce della cristianità. Quanti vogliono un po’ frenare il movimento ecumenico non vedono abbastanza questo aspetto molto positivo non solo per la Chiesa cattolica, ma per la cristianità, per la pace e la riconciliazione”, ha poi aggiunto. 

Il 30 novembre, nel presentare invece il messaggio di Benedetto XVI, durante una celebrazione tenutasi nella Cattedrale di San Giorgio al Fanar, il Cardinale Kasper ha ammesso che il cammino verso la piena unità visibile dei cristiani “può ancora essere impervio e difficile”. 

“Tuttavia – ha aggiunto –, nel frattempo, sperimentiamo nuovamente con gratitudine che la nostra speranza e il nostro desiderio di piena comunione non sono vuoti auspici”. 

“Sì, l’unità di tutti i discepoli di Cristo è necessaria se dobbiamo offrire la comune testimonianza cristiana di non violenza, tolleranza, rispetto reciproco, giustizia e pace, di cui il nostro mondo ha tanto bisogno”. 

“È già una grande benedizione l’essere desiderosi di cooperare al raggiungimento di questo sacro obiettivo e per il bene di tutta l’umanità”, ha poi concluso. 

 

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Benedetto XVI presenta la figura di San Cromazio d’Aquileia

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Benedetto XVI presenta la figura di San Cromazio d’Aquileia

 CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 5 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Cromazio d’Aquileia.

 

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Cari fratelli e Sorelle! 

nelle ultime due catechesi abbiamo fatto un’escursione attraverso le Chiese d’Oriente di lingua semitica, meditando su Afraate persiano e sant’Efrem siro; oggi ritorniamo nel mondo latino, al Nord dell’Impero Romano, con san Cromazio di Aquileia. Questo Vescovo svolse il suo ministero nell’antica Chiesa di Aquileia, fervente centro di vita cristiana situato nella Decima regione dell’Impero romano, la Venetia et Histria. Nel 388, quando Cromazio salì sulla cattedra episcopale della città, la comunità cristiana locale aveva già maturato una storia gloriosa di fedeltà al Vangelo. Tra la metà del terzo e i primi anni del quarto secolo le persecuzioni di Decio, di Valeriano e di Diocleziano avevano mietuto un gran numero di martiri. Inoltre, la Chiesa di Aquileia si era misurata, come tante altre Chiese del tempo, con la minaccia dell’eresia ariana. Lo stesso Atanasio – l’alfiere dell’ortodossia nicena, che gli ariani avevano cacciato in esilio –, per qualche tempo trovò rifugio ad Aquileia. Sotto la guida dei suoi Vescovi, la comunità cristiana resistette alle insidie dell’eresia e rinsaldò la propria adesione alla fede cattolica. 

Nel settembre del 381 Aquileia fu sede di un Sinodo, che vide convenire circa 35 Vescovi dalle coste dell’Africa, dalla valle del Rodano e da tutta la Decima regione. Il Sinodo si proponeva di debellare gli ultimi residui dell’arianesimo in Occidente. Al Concilio prese parte anche il presbitero Cromazio, in qualità di esperto del Vescovo di Aquileia, Valeriano (370/1-387/8). Gli anni intorno al Sinodo del 381 rappresentano « l’età d’oro » della comunità aquileiese. San Girolamo, che era nativo della Dalmazia, e Rufino di Concordia parlano con nostalgia del loro soggiorno ad Aquileia (370-373), in quella specie di cenacolo teologico che Girolamo non esita a definire tamquam chorus beatorum, « come un coro di beati » (Cronaca: PL XXVII,697-698). In questo cenacolo – che ricorda per alcuni aspetti le esperienze comunitarie condotte da Eusebio di Vercelli e da Agostino – si formarono le più notevoli personalità delle Chiese dell’Alto Adriatico. 

Ma già nella sua famiglia Cromazio aveva imparato a conoscere e ad amare Cristo. Ce ne parla, con termini pieni di ammirazione, lo stesso Girolamo, che paragona la madre di Cromazio alla profetessa Anna, le sue due sorelle alle vergini prudenti della parabola evangelica, Cromazio stesso e il suo fratello Eusebio al giovane Samuele (cfr Ep VII: PL XXII,341). Di Cromazio e di Eusebio Girolamo scrive ancora: « Il beato Cromazio e il santo Eusebio erano fratelli per il vincolo del sangue, non meno che per l’identità degli ideali » (Ep. VIII: PL XXII,342). 

Cromazio era nato ad Aquileia verso il 345. Venne ordinato diacono e poi presbitero; infine fu eletto Pastore di quella Chiesa (a. 388). Ricevuta la consacrazione episcopale dal Vescovo Ambrogio, si dedicò con coraggio ed energia a un compito immane per la vastità del territorio affidato alla sue cure pastorali: la giurisdizione ecclesiastica di Aquileia, infatti, si estendeva dai territori attuali della Svizzera Baviera, Austria e Slovenia, giungendo fino all’Ungheria. Quanto Cromazio fosse conosciuto e stimato nella Chiesa del suo tempo, lo si può arguire da un episodio della vita di san Giovanni Crisostomo. Quando il Vescovo di Costantinopoli fu esiliato dalla sua sede, scrisse tre lettere a quelli che egli riteneva i più importanti Vescovi d’Occidente, per ottenerne l’appoggio presso gli imperatori: una lettera la scrisse al Vescovo di Roma, la seconda al Vescovo di Milano, la terza al Vescovo di Aquileia, Cromazio appunto (Ep. CLV: PG LII, 702). Anche per lui, quelli erano tempi difficili a motivo della precaria situazione politica. Molto probabilmente Cromazio morì in esilio, a Grado, mentre cercava di scampare alle scorrerie dei barbari, nello stesso anno 407 nel quale moriva anche il Crisostomo. 

Quanto a prestigio e importanza, Aquileia era la quarta città della penisola italiana, e la nona dell’Impero romano: anche per questo motivo essa attirava le mire dei Goti e degli Unni. Oltre a causare gravi lutti e distruzioni, le invasioni di questi popoli compromisero gravemente la trasmissione delle opere dei Padri conservate nella biblioteca episcopale, ricca di codici. Andarono dispersi anche gli scritti di san Cromazio, che finirono qua e là, e furono spesso attribuiti ad altri autori: a Giovanni Crisostomo (anche per l’equivalente inizio dei due nomi, Chromatius come Chrysostomus); oppure ad Ambrogio e ad Agostino; e anche a Girolamo, che Cromazio aveva aiutato molto nella revisione del testo e nella traduzione latina della Bibbia. La riscoperta di gran parte dell’opera di Cromazio è dovuta a felici e fortunose vicende, che hanno consentito solo in anni recenti di ricostruire un corpus di scritti abbastanza consistente: più di una quarantina di sermoni, dei quali una decina frammentari, e oltre sessanta trattati di commento al Vangelo di Matteo. 

Cromazio fu sapiente maestro e zelante pastore. Il suo primo e principale impegno fu quello di porsi in ascolto della Parola, per essere capace di farsene poi annunciatore: nel suo insegnamento egli parte sempre dalla Parola di Dio, e ad essa sempre ritorna. Alcune tematiche gli sono particolarmente care: anzitutto il mistero trinitario, che egli contempla nella sua rivelazione lungo tutta la storia della salvezza. Poi il tema dello Spirito Santo: Cromazio richiama costantemente i fedeli alla presenza e all’azione della terza Persona della Santissima Trinità nella vita della Chiesa. Ma con particolare insistenza il santo Vescovo ritorna sul mistero di Cristo. Il Verbo incarnato è vero Dio e vero uomo: ha assunto integralmente l’umanità, per farle dono della propria divinità. Queste verità, ribadite con insistenza anche in funzione antiariana, approderanno una cinquantina di anni più tardi alla definizione del Concilio di Calcedonia. La forte sottolineatura della natura umana di Cristo conduce Cromazio a parlare della Vergine Maria. La sua dottrina mariologica è tersa e precisa. A lui dobbiamo alcune suggestive descrizioni della Vergine Santissima: Maria è la « vergine evangelica capace di accogliere Dio »; è la « pecorella immacolata e inviolata », che ha generato l’ »agnello ammantato di porpora » (cfr Sermo XXIII,3: Scrittori dell’area santambrosiana 3/1, p. 134). Il Vescovo di Aquileia mette spesso la Vergine in relazione con la Chiesa: entrambe, infatti, sono « vergini » e « madri ». L’ecclesiologia di Cromazio è sviluppata soprattutto nel commento a Matteo. Ecco alcuni concetti ricorrenti: la Chiesa è unica, è nata dal sangue di Cristo; è veste preziosa intessuta dallo Spirito Santo; la Chiesa è là dove si annuncia che Cristo è nato dalla Vergine, dove fiorisce la fraternità e la concordia. Un’immagine a cui Cromazio è particolarmente affezionato è quella della nave sul mare in tempesta — e i suoi erano tempi di tempesta, come abbiamo sentito — : « Non c’è dubbio », afferma il santo Vescovo, « che questa nave rappresenta la Chiesa » (cfr Tract. XLII,5: Scrittori dell’area santambrosiana 3/2, p. 260). 

Da zelante pastore qual è, Cromazio sa parlare alla sua gente con linguaggio fresco, colorito e incisivo. Pur non ignorando il perfetto cursus latino, preferisce ricorrere al linguaggio popolare, ricco di immagini facilmente comprensibili. Così, ad esempio, prendendo spunto dal mare, egli mette a confronto, da una parte, la pesca naturale di pesci che, tirati a riva, muoiono; e, dall’altra, la predicazione evangelica, grazie alla quale gli uomini vengono tratti in salvo dalle acque limacciose della morte, e introdotti alla vita vera (cfr Tract. XVI,3: Scrittori dell’area santambrosiana 3/2, p. 106). Sempre nell’ottica del buon pastore, in un periodo burrascoso come il suo, funestato dalle scorrerie dei barbari, egli sa mettersi a fianco dei fedeli per confortarli e per aprirne l’animo alla fiducia in Dio, che non abbandona mai i suoi figli. 

Raccogliamo infine, a conclusione di queste riflessioni, un’esortazione di Cromazio, ancor oggi perfettamente valida: « Preghiamo il Signore con tutto il cuore e con tutta la fede – raccomanda il Vescovo di Aquileia in un suo Sermone -preghiamolo di liberarci da ogni incursione dei nemici, da ogni timore degli avversari. Non guardi i nostri meriti, ma la sua misericordia, lui che anche in passato si degnò di liberare i figli di Israele non per i loro meriti, ma per la sua misericordia. Ci protegga con il solito amore misericordioso, e operi per noi ciò che il santo Mosè disse ai figli di Israele: Il Signore combatterà in vostra difesa, e voi starete in silenzio. È lui che combatte, è lui che riporta la vittoria… E affinché si degni di farlo, dobbiamo pregare il più possibile. Egli stesso infatti dice per bocca del profeta: Invocami nel giorno della tribolazione; io ti libererò, e tu mi darai gloria » (Sermo XVI,4: Scrittori dell’area santambrosiana 3/1, pp. 100-102). 

Così, proprio all’inizio del tempo di Avvento, san Cromazio ci ricorda che l’Avvento è tempo di preghiera, in cui occorre entrate in contatto con Dio. Dio ci conosce, conosce me, conosce ognuno di noi, mi vuol bene, non mi abbandona. Andiamo avanti con questa fiducia nel tempo liturgico appena iniziato. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della parrocchia San Cromazio d’Aquileia in Udine e quelli di Gorizia, guidati dall’Arcivescovo Mons. Dino De Antoni, qui convenuti in occasione dell’apertura dell’Anno cromaziano. Saluto i membri del gruppo Follereau-de Foucauld, accompagnati dall’Arcivescovo di Pompei Mons. Carlo Liberati, e i rappresentanti dell’Istituto bancario Artigiancassa, di Roma. Saluto, inoltre, le Ancelle dell’Amore Misericordioso, che stanno celebrando in questi giorni il loro capitolo, e le incoraggio ad andare incontro a Cristo con la coerenza della fede per testimoniare con rinnovato ardore apostolico la divina misericordia. 

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Ci stiamo preparando a celebrare tra qualche giorno la solennità della Vergine Immacolata. Sia Lei a guidarvi, cari giovani, nel vostro cammino di adesione a Cristo. Per voi, cari malati, sia sostegno nella sofferenza e susciti in voi rinnovata speranza, e guidi voi, cari sposi novelli, a scoprire sempre più l’amore di Cristo. 

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“La Messa è come una poesia, non tollera alcun abbellimento”

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“La Messa è come una poesia, non tollera alcun abbellimento” 

La scrittrice brasiliana Adélia Prado difende la bellezza nella liturgia 

 

Di Alexandre Ribeiro

 

 APARECIDA, martedì, 4 dicembre 2007 (ZENIT.org).- “La Messa è come una poesia, non tollera alcun abbellimento”, sostiene la scrittrice brasiliana Adélia Prado che parla dell’accuratezza e della bellezza nelle celebrazioni liturgiche come di una “necessità fondamentale”. 

“La Messa è la cosa più poetica che esista. E’ l’assolutamente nuovo sempre. E’ Cristo incarnato, con la sua Passione, morte e resurrezione. Non dobbiamo aggiungere nient’altro, è questo”, ha spiegato. 

Poetessa e scrittrice, una delle più famose oggi in Brasile, Adélia Prado, 71 anni, ha tenuto una conferenza ad Aparecida (San Paolo), il 29 novembre scorso, sul rapporto tra linguaggio poetico e religioso, nel contesto del festival musicale e culturale “Voci della Chiesa”. 

A questo proposito ha confessato di avere a cuore “da molti anni” il dibattito sul riscatto della bellezza nelle celebrazioni liturgiche: “Come cristiana di confessione cattolica, credo di avere il dovere di non ignorare la questione”, ha detto. 

“Ci sono alcune celebrazioni in cui le persone escono dalla chiesa con la voglia di cercare un luogo in cui pregare”, ha constatato. 

Da subito, la Prado ha menzionato la questione del canto usato nella liturgia, soprattutto quello “che ha un nuovo significato per la partecipazione popolare”, che “molte volte non aiuta a pregare”. 

Il canto è “fatto, fabbricato. E’ indispensabile riscoprire il canto-preghiera”, ha detto citando il sacerdote cattolico Max Thurian, che, osservatore nel Concilio Vaticano II come calvinista, si è in seguito convertito al cattolicesimo ed è stato ordinato. 

Adélia Prado ha ribadito le sue affermazioni sottolineando che “il canto rumoroso, con strumenti forti, i microfoni altissimi, non favorisce la preghiera, e non lascia spazio per il silenzio, per la serenità contemplativa”. 

Secondo la poetessa, “la parola è stata inventata per essere messa a tacere. Solo quando essa tace, la gente ascolta. La bellezza di una celebrazione e di qualunque cosa, la bellezza dell’arte, è puro silenzio e puro ascolto”. 

“Nelle nostre chiese non troviamo più lo spazio per il silenzio. Sto parlando della mia esperienza, Dio non voglia che faccia la stessa esperienza qui”, ha commentato. 

“Sembra che ci sia il terrore del vuoto. Non ci si può fermare un minuto”. “Non c’è silenzio. Non essendoci silenzio, non c’è ascolto. Io non sento le parole perché non sento il mistero, e sto celebrando il mistero”, ha aggiunto. 

Per la scrittrice, “molte cose che facciamo sono un tentativo di addomesticare ciò che è ineffabile, che non può essere addomesticato, che è assolutamente altro”. 

“Perché la realtà è così indicibile, la grandezza è tanta che io non ho parole. E cosa significa non avere parole? Che esiste qualcosa di ineffabile che devo trattare con tutto il rispetto dovuto”. 

Adélia Prado ha quindi mosso delle critiche sulle interpretazioni erronee che hanno fatto seguito al Concilio Vaticano II in materia di riforma liturgica. 

“Non è il fatto di essere passati dal latino alla lingua volgare, nel nostro caso il portoghese. Ma in questo passaggio c’è stato un baratto. Abbiamo barattato la lingua e il culto è rimasto impoverito di quella che è la sua vera natura, ovvero la bellezza”. 

“Cosa celebra la liturgia?”, ha chiesto. “Il mistero. Che mistero è? E’ il mistero di una creatura che si prostra davanti al Creatore. E’ l’umano di fronte al divino. Non si può collocare questo procedimento a un livello di cose banali o comuni”. 

Secondo la Prado, l’errore è nel presupporre che per avvicinare il popolo a Dio si debba parlare il linguaggio del popolo. 

“Ma cos’è il linguaggio del popolo? E’ lì che c’è l’equivoco”, ha osservato. “Non c’è nessuno che si avvicini con maggiore deferenza al mistero di Dio del popolo stesso”. 

“Il popolo è quello che ha più deferenza per il sacro e il mistero”, ha sottolineato. 

“Come posso offrire a questo popolo una musica con sovrastrutture, preghiere fabbricate, moltiplicate e collocate nei banchi delle chiese, che non hanno niente a che vedere con quella grandezza che è l’uomo, umano, peccatore, che si avvicina al mistero?”. 

Secondo la scrittrice brasiliana, lo spazio del sacro e della liturgia è stato barattato “con brutte parole, brutte musiche, comportamenti volgari in chiesa”. 

“Tutto questo è così banalizzato nelle nostre chiese, che perfino il modo di parlare di Dio è cambiato”, ha aggiunto, spiegando che si parla di “Colui che sta lassù”, il “Compagno”, ecc. 

“Dio non è un ‘Compagno’”, ha denunciato. “Io sto parlando di un’altra cosa. E’ allora necessario un linguaggio diverso, perché il popolo di Dio possa davvero sperimentare o cercare ciò che la Parola sta annunciando”, ha affermato. 

Per Adélia Prado, “il linguaggio religioso è il linguaggio della creatura che riconosce di essere creatura, che Dio non è manipolabile, e che io dipendo da lui per muovere la mia mano”. 

Con questo spirito, ha sottolineato, “la nostra Chiesa può creare naturalmente riti e comportamenti, canti assolutamente meravigliosi, perché veri”. 

Sottolineando che la Messa è come una poesia e che non tollera alcun abbellimento, Adélia Prado ha affermato che la celebrazione dell’Eucaristia “è perfetta” nella sua semplicità. 

“Noi mettiamo sovrastrutture, cartelloni in ogni parte, processione di questo, processione di quello, processione dell’offertorio, processione della Bibbia, battiamo le mani per Gesù. Sono cose che spezzano il ritmo. E la Messa ha un ritmo, sono la liturgia della Parola, le offerte, la consacrazione… ha tutto”. 

“La gente non comprende l’arte. La gente non capisce la fede”, che per la Prado è diretta “al sentimento, alla sensibilità. Non è necessario inventare niente, niente, niente”, ha detto. 

La scrittrice ha quindi concluso leggendo il passaggio di una sua poesia: 

Nessuno vede l’agnello sgozzato sulla tavola, 

il sangue sulle tovaglie, 

il suo grido lancinante, 

nessuno”

[Traduzione di Roberta Sciamplicotti] 

 

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