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Allocuzione del Papa per l’incontro all’Università “La Sapienza”

16/01/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13157?l=italian

  

Allocuzione del Papa per l’incontro all’Università “La Sapienza” 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’allocuzione che Benedetto XVI avrebbe pronunciato nel corso della visita all’Università degli Studi « La Sapienza » di Roma, prevista per giovedì 17 gennaio e in seguito annullata. 

* * * 

Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti! 

È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della « Sapienza – Università di Roma » in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un « nuovo umanesimo per il terzo millennio ». 

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università « Sapienza », l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la « Sapienza » era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere. 

Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola « vescovo »–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a « sorvegliante », già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. 

Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi « ragionevole »? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione « pubblica », vede tuttavia nella loro ragione « non pubblica » almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. 

Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. 

Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: « Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero? » (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. 

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra « scientia » e « tristitia« : il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa. 

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come « arte » che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa « forma ragionevole » egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un « processo di argomentazione sensibile alla verità » (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico « processo di argomentazione » sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico. 

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla « ragione pubblica », come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. 

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il « sì » alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta « Facoltà degli artisti », fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro « senza confusione e senza separazione ». « Senza confusione » vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al « senza confusione » vige anche il « senza separazione »: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una « comprehensive religious doctrine » nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. 

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. 

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro. 

Dal Vaticano, 17 gennaio 2008 

BENEDICTUS XVI 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 18 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

17 gennaio : Sant’ Antonio Abate

dal sito:

http://santiebeati.it/

Sant’ Antonio Abate 

17 gennaio 

Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. (Avvenire) 

Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai 

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco 

Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T 

Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci. 

Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”. 

Autore: Antonio Borrelli 

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“Padre Nostro”, l’invocazione comune di ebrei e cristiani

16/01/2008, dal sito:
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“Padre Nostro”, l’invocazione comune di ebrei e cristiani 

XIX Giornata per il dialogo ebraico-cattolico 

Di Mirko Testa

 ROMA, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Questo giovedì si celebra la XIX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, sul tema “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano” (Esodo 20,7). 

Dal 1990, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana ha dato vita a questa iniziativa coordinata con autorità ed esponenti del mondo ebraico, ed estesa anche in Europa dopo l’incontro ecumenico di Graz (Austria) nel 1998, che fa da preludio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio). 

In questo modo la Chiesa cattolica intende rispondere ad un’esigenza di maggiore comprensione di sé attraverso la conoscenza delle sue origini ed esprimere un gesto di dialogo e di fraternità verso il popolo ebraico. 

Dal 2005, quale tema generale della Giornata, si è iniziato un programma di riflessione decennale che medita sulle “Dieci Parole” o Decalogo, rivelate a Mosè sul monte Sinai. 

Per accompagnare la ricorrenza ed illustrarne le prospettive ecclesiologiche ed ecumeniche, è stato approntato un Sussidio a firma del Vescovo Vincenzo Paglia, Presidente della Commissione Episcopale CEI per l’ecumenismo e il dialogo, e del Rabbino Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale Rabbinico di Milano e del Nord Italia. 

Nel sussidio si ricorda che “i precetti dati al Sinai, e in particolare i Dieci Comandamenti nei quali tutti sono come riassunti e unificati, sono dati all’uomo per la sua santificazione e nel contesto dell’Alleanza di salvezza”. 

“Ciò implica che ‘per l’uomo’ la fede, l’alleanza, il culto e l’etica personale e sociale sono radicalmente unite dinanzi al Signore”, si legge ancora. 

In particolare, il Comandamento che si pone come “Terzo” nell’ordine tradizionale seguito sia da ebrei, che da cristiani ortodossi e protestanti, suona: “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano. Poiché il Signore non lascerà impunito chi avrà pronunciato il Suo nome invano”. 

“Il Comandamento – spiega il testo – vieta l’uso sconsiderato del nome di Dio per fini falsi o superficiali”, nome che è anzitutto quello di “Avinu” (Is 63,16), “Padre nostro” (Mt 6,9), “l’invocazione più semplice e profonda che la Bibbia rivela al credente ebreo e cristiano”. 

“Il santo Nome si fa preghiera ardente e confidente, che sale dal cuore dei figli e delle figlie, come invocazione benedicente al Padre di tutti, rivoltagli ogni giorno nella Birkat ha-Torà (‘Benedizione della Torà’) ebraica e nel Pater cristiano”. 

Allo stesso tempo, però, Dio attraverso il suo “Nome santo e amorevole” esprime la relazione di Creatore e Redentore con i suoi figli. 

“Da questa fondamentale rivelazione che Dio è Creatore e Padre di tutti noi (cfr. Malachia 2, 10) – prosegue il Sussidio – discende la certezza del Suo amore eterno che si esprime in un’Alleanza irrevocabile, della quale le Dieci Parole costituiscono il sigillo etico per la condotta del popolo di Dio, figli e figlie dell’Altissimo”. 

“Il rispetto, la venerazione, l’adorazione, l’amore verso Dio – si legge ancora nel testo – si esprimono in particolare nelle forme della preghiera e della lode, personale e comunitaria, specialmente nella liturgia ebraica familiare e sinagogale, alla quale Gesù stesso prendeva normalmente parte, e dalla quale dopo di lui la Chiesa attinse per sviluppare i tesori della propria liturgia”. 

“Perciò nella proclamazione e nell’ascolto della Parola di Dio, così come nella recita e nel canto di Salmi e Inni, i cristiani possono tuttora apprendere e godere di quegli stessi tesori spirituali, che costituiscono e nutrono la vita di fede e di fedeltà ebraica ai doni di grazia divini”, conclude poi. 

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Benedetto XVI: una ragione sorda alla fede cristiana inaridisce

16/01/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13167?l=italian 

 Benedetto XVI: una ragione sorda alla fede cristiana inaridisce 

Allocuzione del Papa per l’incontro all’Università “La Sapienza” 

Di Mirko Testa

 CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Una cultura occidentale che, preoccupata della sua laicità e in nome di una “presunta purezza” della ragione, diventi sorda alle verità della fede cristiana rischia di inaridere, sostiene il Papa. 

E’ quanto si legge nel testo dell’allocuzione che Benedetto XVI avrebbe pronunciato nel corso della visita all’Università « La Sapienza » di Roma, prevista il 17 gennaio per l’inaugurazione dell’anno accademico e in seguito annullata a causa delle proteste di un gruppo di docenti e studenti dell’Ateneo. 

Nel discorso preparato per l’occasione, il Papa parla del particolare legame tra fede cristiana e ricerca della verità, come parte integrante della natura e della missione dell’Università, sin dalla sua nascita in epoca medievale. Infatti, la stessa Università “La Sapienza” venne fondata da Papa Bonifacio VIII nel 1303. 

Ponendo come premessa quella di parlare in qualità di “rappresentante di una comunità credente”, “che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità”, si chiede: “Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università?”. 

A questa domanda risponde spiegando che il suo compito sicuramente non è quello di “cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà”, ma di “mantenere desta la sensibilità per la verità”. 

Il Vescovo di Roma infatti intede “invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro”. 

A questo proposito, il Papa mette quindi in luce i presupposti di “ragionevolezza” su cui si fonda il cristianesimo chiamando in causa uno dei più influenti filosofi politici del Novecento, l’americano John Rawls. 

Infatti, questo pensatore, ha spiegato Benedetto XVI, “pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione ‘pubblica’, vede tuttavia nella loro ragione ‘non pubblica’ almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono”. 

Anche un altro grande filosofo tedesco, Jürgen Habermas, che nella sua ultima produzione ha esplorato il rapporto tra religione e Stato liberaldemocratico, ha parlato “della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico”, sottolinea il Pontefice. 

In particolare, continua Benedetto XVI, Rawls “vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina”. 

“In questa affermazione – osserva – mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato”. 

Infatti, i cristiani dei primi secoli “hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati”, ma “come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica” e una indagine “sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano”. 

Essi, “dovevano [...] riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera”, che “ha come scopo la conoscenza del bene”. 

In seguito, grazie anche all’apporto di San Tommaso D’Aquino e al confronto con le filosofie ebraiche ed arabe, nell’ambito dell’Università medievale venne messa in luce “l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze”. 

“Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza”, spiega Benedetto XVI. 

Tuttavia, nei tempi moderni, con il dischiudersi di “nuove dimensioni del sapere” nelle scienze naturali grazie al metodo scientifico-sperimentale, il mondo occidentale corre il rischio che “l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità”. 

“Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita”. 

“Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola”, afferma il Papa 

“Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma”, conclude poi. 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 17 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI e l’attualità della fede di Sant’Agostino (2)

dal sito:

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 Benedetto XVI e l’attualità della fede di Sant’Agostino 

Intervento all’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato ancora sulla figura di Sant’Agostino. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle! 

Oggi, come mercoledì scorso, vorrei parlare del grande Vescovo di Ippona, sant’Agostino. Quattro anni prima di morire, egli volle nominare il successore. Per questo, il 26 settembre 426, radunò il popolo nella Basilica della Pace, ad Ippona, per presentare ai fedeli colui che aveva designato per tale compito. Disse: « In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno di questa vita è per ogni individuo sempre incerto. Tuttavia nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza; nell’adolescenza alla giovinezza; nella giovinezza all’età adulta; nell’età adulta all’età matura; nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da poter sperare; la sua stessa durata è incerta… Io per volontà di Dio giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio » (Ep 213,1). A questo punto Agostino fece il nome del successore designato, il prete Eraclio. L’assemblea scoppiò in un applauso di approvazione ripetendo per ventitré volte: « Sia ringraziato Dio! Sia lodato Cristo! ». Con altre acclamazioni i fedeli approvarono, inoltre, quanto Agostino disse poi circa i propositi per il suo futuro: voleva dedicare gli anni che gli restavano a un più intenso studio delle Sacre Scritture (cfr Ep 213, 6). 

Di fatto, quelli che seguirono furono quattro anni di straordinaria attività intellettuale: portò a termine opere importanti, ne intraprese altre non meno impegnative, intrattenne pubblici dibattiti con gli eretici – cercava sempre il dialogo – intervenne per promuovere la pace nelle province africane insidiate dalle tribù barbare del sud. In questo senso scrisse al conte Dario, venuto in Africa per comporre il dissidio tra il conte Bonifacio e la corte imperiale, di cui stavano profittando le tribù dei Mauri per le loro scorrerie: « Titolo più grande di gloria – affermava nella lettera – è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se sono buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di spargere il sangue. Tu, al contrario, sei stato inviato proprio per impedire che si cerchi di spargere il sangue di alcuno » (Ep 229, 2). Purtroppo, la speranza di una pacificazione dei territori africani andò delusa: nel maggio del 429 i Vandali, invitati in Africa per ripicca dallo stesso Bonifacio, passarono lo stretto di Gibilterra e si riversarono nella Mauritania. L’invasione raggiunse rapidamente le altre ricche province africane. Nel maggio o nel giugno del 430 « i distruttori dell’impero romano », come Possidio qualifica quei barbari (Vita, 30,1), erano attorno ad Ippona, che strinsero d’assedio. 

In città aveva cercato rifugio anche Bonifacio, il quale, riconciliatosi troppo tardi con la corte, tentava ora invano di sbarrare il passo agli invasori. Il biografo Possidio descrive il dolore di Agostino: « Le lacrime erano, più del consueto, il suo pane notte e giorno e, giunto ormai all’estremo della sua vita, più degli altri trascinava nell’amarezza e nel lutto la sua vecchiaia » (Vita, 28,6). E spiega: « Vedeva infatti, quell’uomo di Dio, gli eccidi e le distruzioni delle città; abbattute le case nelle campagne e gli abitanti uccisi dai nemici o messi in fuga e sbandati; le chiese private dei sacerdoti e dei ministri, le vergini sacre e i religiosi dispersi da ogni parte; tra essi, altri venuti meno sotto le torture, altri uccisi di spada, altri fatti prigionieri, perduta l’integrità dell’anima e del corpo e anche la fede, ridotti in dolorosa e lunga schiavitù dai nemici » (ibid., 28,8). 

Anche se vecchio e stanco, Agostino restò tuttavia sulla breccia, confortando se stesso e gli altri con la preghiera e con la meditazione sui misteriosi disegni della Provvidenza. Parlava, al riguardo, della « vecchiaia del mondo » – e davvero era vecchio questo mondo romano –, parlava di questa vecchiaia come già aveva fatto anni prima per consolare i profughi provenienti dall’Italia, quando nel 410 i Goti di Alarico avevano invaso la città di Roma. Nella vecchiaia, diceva, i malanni abbondano: tosse, catarro, cisposità, ansietà, sfinimento. Ma se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane. E allora l’invito: « Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, anche nel mondo vecchio. Egli ti dice: Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila » (cfr Serm. 81,8). Il cristiano quindi non deve abbattersi anche in situazioni difficili, ma adoperarsi per aiutare chi è nel bisogno. È quanto il grande Dottore suggerisce rispondendo al Vescovo di Tiabe, Onorato, che gli aveva chiesto se, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche, un Vescovo o un prete o un qualsiasi uomo di Chiesa potesse fuggire per salvare la vita: « Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno. In questo caso si trasferiscano pure tutti in luoghi sicuri; ma se alcuni hanno bisogno di rimanere, non siano abbandonati da quelli che hanno il dovere di assisterli col sacro ministero, di modo che o si salvino insieme o insieme sopportino le calamità che il Padre di famiglia vorrà che soffrano » (Ep 228, 2). E concludeva: « Questa è la prova suprema della carità » (ibid., 3). Come non riconoscere, in queste parole, l’eroico messaggio che tanti sacerdoti, nel corso dei secoli, hanno accolto e fatto proprio? 

Intanto la città di Ippona resisteva. La casa-monastero di Agostino aveva aperto le sue porte ad accogliere i colleghi nell’episcopato che chiedevano ospitalità. Tra questi vi era anche Possidio, già suo discepolo, il quale poté così lasciarci la testimonianza diretta di quegli ultimi, drammatici giorni. « Nel terzo mese di quell’assedio – egli racconta – si pose a letto con la febbre: era l’ultima sua malattia » (Vita, 29,3). Il santo Vegliardo profittò di quel tempo finalmente libero per dedicarsi con più intensità alla preghiera. Era solito affermare che nessuno, Vescovo, religioso o laico, per quanto irreprensibile possa sembrare la sua condotta, può affrontare la morte senza un’adeguata penitenza. Per questo egli continuamente ripeteva tra le lacrime i salmi penitenziali, che tante volte aveva recitato col popolo (cfr ibid., 31,2). 

Più il male si aggravava, più il Vescovo morente sentiva il bisogno di solitudine e di preghiera: « Per non essere disturbato da nessuno nel suo raccoglimento, circa dieci giorni prima d’uscire dal corpo pregò noi presenti di non lasciar entrare nessuno nella sua camera fuori delle ore in cui i medici venivano a visitarlo o quando gli si portavano i pasti. Il suo volere fu adempiuto esattamente e in tutto quel tempo egli attendeva all’orazione » (ibid.,31,3). Cessò di vivere il 28 agosto del 430: il suo grande cuore finalmente si era placato in Dio. 

« Per la deposizione del suo corpo – informa Possidio – fu offerto a Dio il sacrificio, al quale noi assistemmo, e poi fu sepolto » (Vita, 31,5). Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove anche oggi riposa. Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: « Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo » (Possidio, Vita, 31, 8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti anche noi lo « ritroviamo vivo ». Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da Cristo, Verbo Eterno Incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. E possiamo vedere che questa fede non è di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri oggi e per sempre. Egli è la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a trovare così la strada della vita.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

 Mi rivolgo ora con affetto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, rappresentanti dell’Associazione Italiana Allevatori, realtà importante per l’economia del Paese, e vi esorto ad operare sempre più nel rispetto dell’ambiente e in favore della sicurezza alimentare dei cittadini. La festa liturgica del vostro patrono sant’Antonio Abate, che celebreremo domani, susciti in voi il desiderio di aderire con crescente generosità a Cristo e testimoniare con gioia il suo Vangelo. Saluto poi gli esponenti della Biblioteca Roncioniana, di Prato e le Piccole Sorelle dei Poveri. Vi ringrazio tutti per la vostra presenza ed invoco su ciascuno la continua assistenza divina. 

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. L’esempio di Sant’Antonio Abate, insigne padre del monachesimo che molto lavorò per la Chiesa, sostenendo i martiri nella persecuzione, incoraggi voi, cari giovani, a ricercare costantemente e a seguire fedelmente Cristo; conforti voi, cari malati, nel sopportare con pazienza le vostre sofferenze e ad offrirle affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell’amore di Cristo nella vostra vita familiare.

[APPELLO DEL SANTO PADRE]

 Dopodomani, venerdì 18 gennaio, inizia la consueta Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno riveste un valore singolare poichè sono trascorsi cento anni dal suo avvio. Il tema è l’invito di San Paolo ai Tessalonicesi: « Pregate continuamente » (1 Tes 5,17); invito che ben volentieri faccio mio e rivolgo a tutta la Chiesa. Sì, è necessario pregare senza sosta chiedendo con insistenza a Dio il grande dono dell’unità tra tutti i discepoli del Signore. La forza inesauribile dello Spirito Santo ci stimoli ad un impegno sincero di ricerca dell’unità, perché possiamo professare tutti insieme che Gesù è l’unico Salvatore del mondo. 

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Benedetto XVI: il Battesimo ci apre il cielo

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Benedetto XVI: il Battesimo ci apre il cielo 

 

Intervento in occasione dell’Angelus domenicale 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 13 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate questa domenica a mezzogiorno da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano per recitare la preghiera mariana dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in piazza San Pietro in Vaticano. 

* * * 

   

Cari fratelli e sorelle! 

Con l’odierna festa del Battesimo di Gesù si chiude il tempo liturgico del Natale. Il Bambino, che a Betlemme i Magi vennero ad adorare dall’oriente offrendo i loro doni simbolici, lo ritroviamo ora adulto, nel momento in cui si fa battezzare nel fiume Giordano dal grande profeta Giovanni (cfr Mt 3,13). Nota il Vangelo che quando Gesù, ricevuto il battesimo, uscì dall’acqua, si aprirono i cieli e scese su di lui lo Spirito Santo come una colomba (cfr Mt 3,16). Si udì allora una voce dal cielo che diceva: « Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto » (Mt 3,17). Fu quella la sua prima manifestazione pubblica, dopo trent’anni circa di vita nascosta a Nazaret. Testimoni oculari del singolare avvenimento furono, oltre al Battista, i suoi discepoli, alcuni dei quali divennero da allora seguaci di Cristo (cfr Gv 1,35-40). Si trattò contemporaneamente di cristofania e teofania: anzitutto Gesù si manifestò come il Cristo, termine greco per tradurre l’ebraico Messia, che significa « unto »: Egli non fu unto con l’olio alla maniera dei re e dei sommi sacerdoti d’Israele, bensì con lo Spirito Santo. Al tempo stesso, insieme con il Figlio di Dio apparvero i segni dello Spirito Santo e del Padre celeste.  

Qual è il significato di questo atto, che Gesù volle compiere – vincendo la resistenza del Battista – per obbedire alla volontà del Padre (cfr Mt 3,14-15)? Il senso profondo emergerà solo alla fine della vicenda terrena di Cristo, cioè nella sua morte e risurrezione. Facendosi battezzare da Giovanni insieme con i peccatori, Gesù ha iniziato a prendere su di sé il peso della colpa dell’intera umanità, come Agnello di Dio che « toglie » il peccato del mondo (cfr Gv 1,29). Opera che Egli portò a compimento sulla croce, quando ricevette anche il suo « battesimo » (cfr Lc 12,50). Morendo infatti si « immerse » nell’amore del Padre ed effuse lo Spirito Santo, affinché i credenti in Lui potessero rinascere da quella sorgente inesauribile di vita nuova ed eterna. Tutta la missione di Cristo si riassume in questo: battezzarci nello Spirito Santo, per liberarci dalla schiavitù della morte e « aprirci il cielo », l’accesso cioè alla vita vera e piena, che sarà « un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia » (Spe salvi, 12). 

E’ quanto è avvenuto anche per i 13 bambini ai quali ho amministrato il sacramento del Battesimo questa mattina nella Cappella Sistina. Per essi e per i loro familiari invochiamo la materna protezione di Maria Santissima. E preghiamo per tutti i cristiani, affinché possano comprendere sempre più il dono del Battesimo e si impegnino a viverlo con coerenza, testimoniando l’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.  

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Si celebra oggi la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che quest’anno pone al centro dell’attenzione i giovani migranti. Numerosi sono infatti i giovani che vari motivi spingono a vivere lontani dalle loro famiglie e dai loro Paesi. Particolarmente a rischio sono le ragazze e i minori. Alcuni bambini e adolescenti sono nati e cresciuti in « campi-profughi »: anch’essi hanno diritto ad un futuro! Esprimo il mio apprezzamento per quanti si impegnano in favore dei giovani migranti, delle loro famiglie e per la loro integrazione lavorativa e scolastica; invito le comunità ecclesiali ad accogliere con simpatia giovani e giovanissimi con i loro genitori, cercando di comprenderne le storie e di favorirne l’inserimento. Cari giovani migranti! Impegnatevi a costruire insieme ai vostri coetanei una società più giusta e fraterna, adempiendo i vostri doveri, rispettando le leggi e non lasciandovi mai trasportare dalla violenza. Vi affido tutti a Maria, Madre dell’intera umanità.  

Saluto cordialmente i pellegrini di lingua italiana, in particolare i responsabili diocesani della Società di San Vincenzo de’ Paoli, augurando ogni bene per la loro associazione. Saluto inoltre i cosiddetti « Consigli Comunali dei Ragazzi » della Provincia di Catania, che apprezzo per l’impegno di educazione civica, i cresimandi della parrocchia di Santa Maddalena di Canossa in Roma e la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, che oggi offre speciale assistenza agli immigrati ed ai rifugiati in Italia. A tutti auguro una buona domenica. 

Publié dans:Angelus Domini, ZENITH |on 14 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

Omelia di Benedetto XVI per la festa del Battesimo di Gesù

dal sito:

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Omelia di Benedetto XVI per la festa del Battesimo di Gesù 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 13 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata questa domenica da Benedetto XVI in occasione della festa del Battesimo di Gesù. 

* * * 

   

Cari fratelli e sorelle, 

l’odierna celebrazione è sempre per me motivo di gioia speciale. Amministrare il sacramento del Battesimo, nel giorno della festa del Battesimo del Signore, è infatti uno dei momenti più espressivi della nostra fede, in cui possiamo quasi vedere, attraverso i segni della liturgia, il mistero della vita. In primo luogo, vita umana, rappresentata qui in particolare da questi 13 bambini che sono il frutto del vostro amore, cari genitori, ai quali rivolgo il mio cordiale saluto, estendendolo ai padrini, alle madrine e agli altri parenti ed amici presenti. C’è poi il mistero della vita divina, che oggi Dio dona a questi piccoli mediante la rinascita dall’acqua e dallo Spirito Santo. Dio è vita, come è anche stupendamente rappresentato da alcune pitture che impreziosiscono questa Cappella Sistina.  

Non sembri però fuori luogo se accostiamo subito, all’esperienza della vita, quella opposta e cioè la realtà della morte. Tutto ciò che ha inizio sulla terra prima o poi finisce, come l’erba del campo, che spunta al mattino e avvizzisce la sera. Però nel Battesimo il piccolo essere umano riceve una vita nuova, la vita della grazia, che lo rende capace di entrare in relazione personale con il Creatore, e questo per sempre, per tutta l’eternità. Sfortunatamente l’uomo è capace di spegnere questa nuova vita con il suo peccato, riducendosi ad una situazione che la Sacra Scrittura chiama « morte seconda ». Mentre nelle altre creature, che non sono chiamate all’eternità, la morte significa soltanto la fine dell’esistenza sulla terra, in noi il peccato crea una voragine che rischia di inghiottirci per sempre, se il Padre che è nei cieli non ci tende la sua mano. Ecco, cari fratelli, il mistero del Battesimo: Dio ha voluto salvarci andando lui stesso fino in fondo all’abisso della morte, perché ogni uomo, anche chi è caduto tanto in basso da non vedere più il cielo, possa trovare la mano di Dio a cui aggrapparsi e risalire dalle tenebre a rivedere la luce per la quale egli è fatto. Tutti sentiamo, tutti percepiamo interiormente che la nostra esistenza è un desiderio di vita che invoca una pienezza, una salvezza. Questa pienezza di vita ci viene data nel Battesimo. 

Abbiamo sentito poco fa il racconto del battesimo di Gesù nel Giordano. Fu un battesimo diverso da quello che questi bambini stanno per ricevere, ma non privo di un profondo rapporto con esso. In fondo, tutto il mistero di Cristo nel mondo si può riassumere con questa parola, « battesimo », che in greco significa « immersione ». Il Figlio di Dio, che condivide dall’eternità con il Padre e con lo Spirito Santo la pienezza della vita, è stato « immerso » nella nostra realtà di peccatori, per renderci partecipi della sua stessa vita: si è incarnato, è nato come noi, è cresciuto come noi e, giunto all’età adulta, ha manifestato la sua missione iniziando proprio con il « battesimo di conversione » dato da Giovanni il Battista. Il suo primo atto pubblico, come abbiamo ascoltato poco fa, è stato scendere al Giordano, confuso tra i peccatori penitenti, per ricevere quel battesimo. Giovanni naturalmente non voleva, ma Gesù insistette, perché quella era la volontà del Padre (cfr Mt 3,13-15).  

Perché dunque il Padre ha voluto questo? Perché ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo come Agnello a prendere su di sé il peccato del mondo (cfr Gv 1,29)? Narra l’evangelista che, quando Gesù uscì dall’acqua, scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza di colomba, mentre la voce del Padre dal cielo lo proclamava « Figlio prediletto » (Mt 3,17). Fin da quel momento dunque Gesù fu rivelato come Colui che è venuto a battezzare l’umanità nello Spirito Santo: è venuto a portare agli uomini la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), la vita eterna, che risuscita l’essere umano e lo guarisce interamente, corpo e spirito, restituendolo al progetto originario per il quale è stato creato. Il fine dell’esistenza di Cristo è stato appunto donare all’umanità la vita di Dio, il suo Spirito d’amore, perché ogni uomo possa attingere da questa sorgente inesauribile di salvezza. Ecco perché san Paolo scrive ai Romani che noi siamo stati battezzati nella morte di Cristo per avere la sua stessa vita di risorto (cfr Rm 6,3-4). Ecco perché i genitori cristiani, come quest’oggi voi, portano appena possibile i loro figli al fonte battesimale, sapendo che la vita, che essi hanno loro comunicato, invoca una pienezza, una salvezza che solo Dio può dare. E in questo modo i genitori diventano collaboratori di Dio nel trasmettere ai loro figli non solo la vita fisica ma anche quella spirituale. 

Cari genitori, insieme con voi ringrazio il Signore per il dono di questi bambini ed invoco la sua assistenza perché vi aiuti ad educarli e a inserirli nel Corpo spirituale della Chiesa. Mentre offrite loro ciò che è necessario alla crescita e alla salute, voi, aiutati dai padrini, siete impegnati a sviluppare in essi la fede, la speranza e la carità, le virtù teologali che sono proprie della vita nuova ad essi donata nel sacramento del Battesimo. Assicurerete ciò con la vostra presenza, con il vostro affetto; l’assicurerete prima di tutto e soprattutto con la preghiera, presentandoli quotidianamente a Dio, affidandoli a Lui in ogni stagione della loro esistenza. Certo per crescere sani e forti, questi bambini e bambine avranno bisogno di cure materiali e di tante attenzioni; ciò però che sarà loro più necessario, anzi indispensabile è conoscere, amare e servire fedelmente Dio, per avere la vita eterna. Cari genitori, siate per loro i primi testimoni di una fede autentica in Dio! 

C’è nel rito del Battesimo un segno eloquente, che esprime proprio la trasmissione della fede ed è la consegna, per ognuno dei battezzandi, di una candela accesa alla fiamma del cero pasquale: è la luce di Cristo risorto che voi vi impegnate a trasmettere ai vostri figli. Così, di generazione in generazione, noi cristiani ci trasmettiamo la luce di Cristo, in modo che quando Egli ritornerà, possa trovarci con questa fiamma ardente tra le mani. Nel corso del rito io vi dirò: « A voi, genitori e padrini, è affidato questo segno pasquale, fiamma che sempre dovete alimentare ». Alimentate sempre, cari fratelli e sorelle, la fiamma della fede con l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio e l’assidua comunione con Gesù Eucaristia. Vi aiutino in questa stupenda, anche se non facile, missione i santi Protettori dei quali questi tredici bambini prenderanno i nomi. Aiutino, questi Santi, soprattutto loro, i battezzandi, a corrispondere alle vostre premure di genitori cristiani. Sia in particolare la Vergine Maria ad accompagnare loro e voi, cari genitori, ora e sempre. Amen! 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 14 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

L’imperativo alla preghiera incessante riunisce tutti i cristiani

dal sito:

http://www.zenit.org/article-13114?l=italian 

L’imperativo alla preghiera incessante riunisce tutti i cristiani

Nel centenario della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani 

Di Mirko Testa 
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 13 gennaio 2008 (ZENIT.org).- L’appello lanciato da san Paolo ai primi cristiani a fondare sulla preghiera la vita in comunità risuonerà in occasione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, a partire da lunedì prossimo. 

Quest’anno, in particolare, si celebrano i 100 anni dal primo Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, svoltosi per la prima volta dal 18 al 25 gennaio 1908 e considerato come gli inizi della “Settimana”.  Inoltre, ricorrono i 40 anni dalla prima uscita di un testo per la “Settimana” elaborato in collaborazione tra il Consiglio Ecumenico delle Chiese – l’organo che riunisce 348 Chiese in tutto il mondo in rappresentanza di più di 560 milioni di cristiani, e a cui la Chiesa Cattolica collabora senza essere membro – e il Segretariato per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (l’allora Dicastero vaticano per l’ecumenismo). 

Oggi è infatti divenuta una prassi comune fra chiese, parrocchie e comunità anglicane, protestanti, ortodosse e cattoliche quella di preparare e celebrare, per la stragrande maggioranza, la “Settimana di preghiera” sulla base degli stessi testi.  Il tema scritturale della “Settimana di Preghiera” 2008 è tratto dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi. Il testo “pregate incessantemente” (1 Ts 5, 17) – si legge nei sussidi preparati per l’occasione – “ribadisce il ruolo essenziale della preghiera nella comunità cristiana per far crescere i fedeli nella loro relazione con Cristo e fra loro”. 

“Il testo si snoda in una serie di ‘imperativi’, affermazioni con cui Paolo incoraggia la comunità a manifestare l’unità data da Dio in Cristo, perché possa essere in concreto ciò che è di principio: l’unico Corpo di Cristo, reso visibilmente uno in quel luogo”.  In questa lettera, in cui si riflettono le preoccupazioni per la nascente chiesa di Tessalonica perseguitata dall’esterno e divisa al suo interno, san Paolo “ci ricorda che la vita in una comunità cristiana è possibile solo attraverso una vita di preghiera”. 

“Ancora di più – aggiunge –, Paolo afferma che la preghiera è parte integrante della vita dei cristiani proprio quando vogliono manifestare l’unità che è stata data loro in Cristo – un’unità che non si limita a punti dottrinali e a dichiarazioni ufficiali, ma si esprime in ‘tutto ciò che contribuisce alla pace’ – con azioni concrete che testimoniano la loro unità in Cristo e tra loro e che la fanno accrescere”.  Il Vescovo Brian Farrell, Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, in una lettera alle diverse Commissioni ecumeniche degli episcopati cattolici e ai Sinodi della Chiese cattoliche orientali ribadisce che “nell’attuale situazione ecumenica, abbiamo riconosciuto ancora una volta l’importanza e il valore del pregare intensamente per l’unità”. 

Infatti, la preghiera in comune, un ambito in cui i fedeli laici possono apportare un importante contributo spirutale alla Chiesa, è stata posta nel Decreto conciliare Unitatis redintegratio quale nucleo centrale che costituisce il motore di propulsione dell’ecumenismo: “[La] conversione del cuore e [la] santità di vita, insieme alle preghiere private e pubbliche [...], si devono ritenere come l’anima di tutto il movimento ecumenico” (cfr. n.8).  Le lontane origini della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani risalgono alla metà del XIX secolo e derivano da specifiche iniziative di alcuni movimenti e circoli ecclesiali in ambito anglicano e protestante. 

Padre Paul Wattson, un sacerdote anglicano, co-fondatore della Society of Atonement, introdusse un Ottavario per l’unità dei cristiani che fu celebrato per la prima volta dal 18 al 25 gennaio del 1908.  Per il padre Wattson l’unità significava un « ritorno » alla Chiesa cattolica romana, da qui la scelta delle date simboliche del 18 gennaio, giorno in cui si allora celebrava la festa della Cattedra di Pietro, e del 25 gennaio, festa della Conversione di Paolo. 

Dopo che, nel 1909, la Society of Atonement venne ufficialmente incorporata nella Chiesa cattolica, Papa Pio X approvò l’Ottava per l’Unità ed incoraggiò l’idea di pregare affinché tutti i cristiani si riunissero con la Chiesa cattolica, secondo il disegno di Dio.  Nel 1936, un pioniere dell’ecumenismo, l’Abbé Paul Couturier di Lione (Francia), avanzò una diversa interpretazione dell’Ottava per l’Unità, constatando come l’idea del « ritorno » costituisse una difficoltà dal punto di vista teologico che impediva a molti cristiani di unirsi alla preghiera con i cattolici. 

L’Abbé Couturier diede pertanto inizio alla « Settimana di Preghiera Universale per l’Unità dei Cristiani », mantenendo le stesse date del 18-25 gennaio ma esortando a pregare per l’unità della Chiesa « secondo la volontà di Cristo ».  Da allora questa iniziativa si celebra a gennaio per i Paesi che si trovano nell’emisfero nord, mentre per i Paesi dell’emisfero sud, in cui gennaio è periodo di vacanza, le chiese celebrano la Settimana di preghiera in altre date, per esempio nel tempo di Pentecoste. 

Fu in seguito al Concilio Vaticano II (1962-1965), annunciato da Giovanni XXIII proprio a conclusione della Settimana di Preghiera nel 1959, che si ebbe l’ingresso ufficiale della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico, e l’avvio della collaborazione tra il Consiglio Ecumenico delle Chiese e l’allora Segretariato per l’Unità dei Cristiani.  Nel 1968, i testi della Settimana di Preghiera vennero preparati congiuntamente, ma la loro pubblicazione avveniva separatamente, a Ginevra e a Roma. Solo nel 2004 la Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese e il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani pubblicarono insieme i sussidi per la Settimana di Preghiera. 

Dal 1973 ogni anno un gruppo ecumenico, da diverse parti del mondo, viene invitato a preparare la prima bozza del materiale della Settimana, che viene poi rivisto dal gruppo preparatorio internazionale nominato dalla Commissione “Fede e Costituzione” e dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.  In questa occasione, la bozza iniziale dei testi è stato preparata da un gruppo ecumenico degli Stati Uniti, il Graymoor Ecumenical & Interreligious Institute (GEII), in ricordo della prima Settimana che si tenne a Graymoor (Garrison, New York).    

 [Per leggere i sussidi per la Settimana di Preghiera:  

settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 18-25 gennaio 2008, sul sito Vaticano tutta la presentazione e le le informazioni (non c’è ancora la presentazione in italiano):

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/sub-index/index_weeks-prayer_it.htm 

Publié dans:preghiere, ZENITH |on 13 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

Alessio II: la testimonianza del Vangelo, base dell’unità dei cristiani

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http://www.zenit.org/article-13106?l=italian 

Alessio II: la testimonianza del Vangelo, base dell’unità dei cristiani 

ROMA, venerdì, 11 gennaio 2008 (ZENIT.org).- La testimonianza comune dei valori evangelici è una delle basi principali sulle quali procedere nel cammino verso l’unità dei cristiani, ha affermato il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Alessio II. In un’intervista che verrà pubblicata sul prossimo numero del mensile “30Giorni”, in uscita il 16 gennaio, il Patriarca affronta il delicato tema dell’unità tra cattolici e ortodossi.

Alessio II, al secolo Alexei Michailovich Ridiger, è nato a Tallinn (Estonia) nel 1929 ed è salito al trono patriarcale di Mosca il 10 giugno del 1990, tre giorni dopo la sua elezione. 

Secondo lui, “ogni divisione nell’ambito ecclesiale è frutto della volontà umana peccatrice, mentre l’unità è dono dello Spirito Santo”. 

“Il processo di ricostruzione dell’unità – ha commentato – richiede tempi lunghi e un impegno serio”. 

Nell’intervista, il Patriarca si è detto “profondamente convinto che la fedeltà all’antica tradizione apostolica e all’eredità patristica possa diventare il fondamento della collaborazione tra la Chiesa romano-cattolica e quella ortodossa nella loro testimonianza dei valori del Vangelo di fronte al mondo contemporaneo”. 

La necessità di questo “è evidente, in quanto la cultura del relativismo morale imposta alla società, il consumismo, la tendenza irrefrenabile al benessere e ai piaceri non sono in grado di accontentare la sete spirituale che è sempre presente nell’uomo”. 

Alessio II ha notato con rammarico che “purtroppo, una perversa rincorsa a un tale sistema di valori ‘avanzato’ si manifesta sempre più spesso anche in alcune confessioni cristiane”. 

Per questo motivo, la Chiesa ortodossa e quella cattolica “dovrebbero unire le forze in una sequela senza compromessi dei comandamenti di Cristo, e non, invece, adattarsi continuamente al mondo secolare che è in continuo mutamento”. 

Per “la costruzione di un dialogo autentico e ampio, che non si rinchiuda soltanto nell’ambito ufficiale”, ha sottolineato, i contatti personali e le iniziative comuni dei rappresentanti delle due Chiese significano molto. 

In Russia i cattolici rappresentano una ridottissima minoranza, “in buona parte composta da stranieri, soprattutto tra il clero”. 

“La Chiesa ortodossa russa, alla quale appartiene la stragrande maggioranza della popolazione, è attentissima a rispettare il diritto dei cattolici a una propria vita ecclesiastica in Russia, e per questo tende alla costruzione di relazioni cordiali e di mutuo rispetto con la comunità cattolica russa”. 

In questo senso, ha osservato il Patriarca, il dialogo “‘dal basso’ è semplicemente insostituibile. E se c’è da entrambe le parti questa volontà, allora un tale dialogo deve aiutare a eliminare nei nostri rapporti le tracce delle passate incomprensioni e a evitarne di nuove”. 

La comprensione è stata un elemento fondamentale anche per ritrovare l’unità con la Chiesa ortodossa russa all’estero, avvenuta nel maggio scorso con la firma di un documento di riunificazione tra Alessio II e il Metropolita Laurus, leader della Chiesa ortodossa all’estero, con sede a New York. 

Per Alessio II, si è trattato di “un avvenimento di importanza epocale nella vita della nostra Chiesa e in quella del popolo russo in generale”. 

“La divisione, durata ottant’anni, era dovuta ai cataclismi storici di cui la Russia fu teatro agli inizi del XX secolo. A molti toccò bere l’amaro calice dell’esilio, mentre quanti rimasero in patria dovettero assistere all’ancora più terribile persecuzione della Chiesa”, ha ricordato. 

Per superare la divisione, ha spiegato, “occorreva che tutti comprendessero a fondo quello che era accaduto nel XX secolo e traessero una lezione ben precisa da quanto la Chiesa aveva dovuto subire”. 

“I fratelli all’estero hanno preso a interessarsi sempre più della vita in patria. [...] E il ghiaccio della diffidenza ha cominciato a sciogliersi”. 

L’elemento più importante che ha portato alla riunificazione, ha commentato, è stata “la graduale conoscenza reciproca attraverso l’esperienza della preghiera e della vita cristiana”. 

“È lo Spirito di Dio ad averci condotto all’unità, questo è ciò che ha avvertito chi ha preso parte ai colloqui. E dove opera lo Spirito Santo svaniscono le offese umane transeunti, le incomprensioni e le parzialità che per lunghi anni hanno reso più grande la separazione”, ha detto. 

Perché, ha concluso, “l’amore e la gioia nel Signore vincono”. 

Publié dans:ZENITH |on 12 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

L’esperienza di Dio nell’arte benedettina

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http://www.zenit.org/article-13085?l=italian 

L’esperienza di Dio nell’arte benedettina

Intervista al professore e frate Eduardo López-Tello García

Di Miriam Díez i Bosch 


ROMA, mercoledì, 9 gennaio 2008 (ZENIT.org).- I benedettini hanno plasmato la storia dell’Europa, dando un contributo incisivo alla cultura, come dimostra un libro sulla loro eredità artistica.

Il professore e benedettino Eduardo López-Tello García è uno dei coeditori di un voluminoso libro su Benedetto e l’arte, pubblicato in tedesco e in italiano, e presentato a Roma presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo.

Secondo questo benedettino spagnolo del monastero tedesco di Sankt Ottilien, i benedettini hanno visto nell’arte una maniera per avvicinarsi a Dio.

Il libro curato insieme al professor Cassanelli si intitola “Benedetto. L’eredità artistica” (ed. Jaca Book, Milano 2007).

I benedettini hanno cercato Dio attraverso l’arte. Si tratta di un’eredità diretta di San Benedetto da Norcia?

López-Tello: San Benedetto non ha fondato un ordine, ma ha lasciato un’eredità spirituale che ha impregnato tutta la cultura occidentale europea.

I monaci benedettini hanno cercato Dio e hanno espresso questa ricerca anche attraverso l’arte. A testimoniarlo sono le innumerevoli produzioni artistiche di ogni tipo che si conservano nelle abbazie, nei musei e nelle biblioteche europee legate direttamente o indirettamente all’esperienza benedettina di Dio.

Questo libro non vuole essere una storia esaustiva dell’arte benedettina, ma raccoglie nelle sue pagine quell’esperienza di Dio che i monaci hanno vissuto nel corso dei secoli.

Il libro ha unito benedettini e non benedettini grazie all’arte. È questa la principale novità di questa pubblicazione?

López-Tello: La grande novità sta nel fatto che si tratta di una pubblicazione che, per la prima volta, cerca di riflettere, in tutta la sua complessità, sul fenomeno artistico nell’arco della storia benedettina e in tutto l’ambito geografico benedettino, sia in Europa che in America.

Inoltre, costituisce una novità il fatto di essere un luogo di incontro fra il mondo intellettuale benedettino e professori non benedettini.

Sono in totale undici i monaci che hanno dato il loro apporto di conoscenza e di esperienza di Dio, mentre sono venti gli esperti esterni all’ambito benedettino che hanno offerto la loro visione dell’arte.

È un libro dai molteplici contributi, in cui le diverse voci trovano risonanza, formando così un riflesso adeguato di quello che sono 1500 anni di storia artistica, e instaurando indirettamente un dialogo tra Chiesa e società, in linea con il Concilio Vaticano II.

Perché i benedettini hanno avuto questa influenza così forte nell’architettura, nell’arte e nella cultura europea?

López-Tello: I benedettini, nati durante il tramonto della cultura romana (VI secolo), accolsero l’eredità spirituale di questo mondo che soccombeva e seppero conservarla e ricrearla per fare di essa un veicolo di espressione di come l’uomo può parlare del Dio infinito attraverso una varietà e pluralità sempre limitata di linguaggi artistici.

I monaci ebbero un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione dell’Europa (per questo San Benedetto è il patrono principale dell’intero continente) e la loro presenza diede la possibilità a numerose aree del vecchio mondo di usare le arti figurative in modo creativo, per trasmettere il Vangelo.

In questo libro si troveranno numerosi esempi di come i monaci hanno trasmesso la loro ricerca di Dio nei diversi linguaggi, dal VI secolo al XX secolo.

È facile associare i benedettini con le abbazie medievali, ma non con l’arte moderna. Si tratta di un pregiudizio?

López-Tello: Questa possibilità espressiva non si limita al Medioevo, come molti possono credere, ma, superando il Barocco e gli storicismi del XIX secolo, usa le possibilità espressive dell’architettura, della pittura, della scultura o persino della fotografia, del XX secolo. È un riflesso di come l’uomo di ogni tempo riesca a parlare di Dio attraverso il linguaggio dell’arte. 

Publié dans:Approfondimenti, ZENITH |on 11 janvier, 2008 |Pas de commentaires »
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