Archive pour la catégorie 'VITA RELIGIOSA'

« LA CONVERSIONE A DIO CONSISTE SEMPRE NELLO SCOPRIRE LA SUA MISERICORDIA » (DM, VII, 13)

http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0091.htm

« LA CONVERSIONE A DIO CONSISTE SEMPRE NELLO SCOPRIRE LA SUA MISERICORDIA » (DM, VII, 13)

Domenico Cancian

Mi propongo di fare una semplice introduzione che aiuti la celebrazione dell’Amore Misericordioso nel momento in cui ci offre il perdono dei nostri peccati.
La celebrazione della Riconciliazione e della Eucaristia diventa il cuore del nostro incontro, verifica ed esperienza della verità di quanto abbiamo ascoltato in questi giorni. Ora, non « parliamo » della Misericordia divina; la ri-gustiamo, la ri-esperimentiamo in modo nuovo, lasciando che essa ci penetri l’animo, in un momento di preghiera calma che ci permetta di riscoprire questo privilegiato momento ecclesiale nel quale il Padre incontra e abbraccia i suoi figli.
Senza questo, il Convegno può correre il rischio di rappresentare solamente un’occasione di tipo teoretico e forse ideologico: abbiamo aumentato « il sapere », ma non la conoscenza-esperienza-viva dell’Amore di Dio che oggi vuole scuoterci per convertirci.
La conversione dell’uomo a Dio è centrale nel Vangelo: è messa in diretto rapporto con la salvezza. « Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc 5, 32). « … se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo » (Lc 13,5). « In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli » (Mt 18,3).
Ora dobbiamo prendere atto che tutto il processo della nostra conversione avviene sotto l’influsso e la spinta della Misericordia divina, alla quale noi nella fede diamo il nostro assenso.

1. È l’Amore Misericordioso di Dio che ci fa prendere coscienza del nostro peccato.
Le culture non possono avere la pretesa che quanto non è da loro compreso non esista. Non possono, ad esempio, convincerci che l’uomo non è peccatore. Tuttavia, le culture del sospetto hanno paradossalmente (perché questa non era proprio la loro intenzione) contribuito a purificare la nostra comprensione di ciò che il peccato non è (teologia negativa). Non è un tabù che tradizionalmente ci blocca, non è l’errore puro e semplice, non è il condizionamento storico o psicologico, non è il limite umano, non è il complesso di colpa.
Che cos’è il peccato ce lo dice l’incontro interpersonale dell’Amore Misericordioso di Dio con l’uomo, finalmente disponibile ad ascoltare la verità tutta intera sulla sa vita. Proprio perché ci ama con Amore e con Misericordia, Dio scuote e sveglia la nostra coscienza fin nelle sue ultime pieghe. Con tutti i mezzi e con tutti i modi, inventando sempre occasioni, come la mamma col figlio, rispettando sempre, fino all’ultimo, la nostra libertà, e obbedendo Lui alla forza invincibile del suo Immenso Amore.
Abbiamo esempi svariati di interpellazioni di Dio che si dirigono alla responsabilità dell’uomo. Ora viene chiamato per nome e interrogato (« Adamo, dove sei?… Chi ti ha fatto sapere che eri nudo »? E a Caino: « Dov’è Abele, tuo fratello? …Che hai fatto »? cf Gen 3,9.11.13; 4.9-10).
In altre occasioni Dio incomincia un dialogo appassionato, teso a mostrare come il peccato sia un tradimento all’Amore suo (« Ascolta popolo mio, voglio parlare, testimonierò contro di te Israele… Hai fatto questo e dovrei tacere? cf Sal 50; « O mio popolo, che male ti ho fatto? » cf Liturgia del venerdì santo. « Accusate vostra madre, accusatela, perché essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito! » cf Os 2.2).
Oppure, cosa per noi straordinaria, Dio ci lascia partire per le nostre strade senza dirci una parola. Ma Egli è lì ad aspettare col cuore in mano, sicuro del ritorno del figlio, pronto a riabbracciarlo e a fargli festa, vincendo in questo modo ogni dubbio sulla serietà dell’Amore capace di perdonare così (cf Lc 15, 11ss). Addirittura va incontro a chi si perde e arriva fino al fondo del burrone dove quel tale, che è pur sempre suo figlio, si è cacciato: lo prende su, lo cura, se lo mette sulle spalle (cf Lc 15, 4 ss).
Tantissimi sono i modi con cui il Signore interviene, ma sempre in essi riscopriamo la fantasia del Suo Amore che non ha il gusto di rimproverare con l’aria offesa e arrabbiata, come siamo soliti fare noi. Egli ci fa il servizio della verità. « Che farò quando ti accuserò?… Farò che tu ti veda… Perché vuoi nasconderti a te stesso? » (Sant’Agostino, Commento al Salmo 51). Il suo Amore, paziente, infinito, luminoso, ci fa prendere atto con onestà della triplice tentazione (cf Mt 4,1-11), o della triplice concupiscenza (cf 1 Gv 2,16) e del conseguente peccato (quando si dà il nostro consenso) che è in noi. Scopriamo che le matrici culturali dalle quali provengono il bene e il male del nostro mondo, radicano in noi. L’istinto di (pre)potenza, di violenza, di desiderio (cf relazione di Morra), insomma ogni forma di egoismo, con un certo gusto farisaico, muovono proprio dal cuore dei singoli uomini (cf Mt 7,15ss; 12,33ss).
Che cos’è il peccato se non l’inferno del nostro egoismo che respinge il mondo dell’Amore di Dio? « Voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo… se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati » (Gv 8,23 s).
Lo Spirito di Cristo ci è dato per far luce sulla nostra situazione, per smascherare le nostre ingiustizie, per snidare le nostre responsabilità che ci impediscono il cammino della libertà, per suscitare in noi il desiderio e la volontà dell’entrare nel mondo di Dio come figli. Lui « convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio » (Gv 16,8 s). L’Amore di Cristo Crocifisso e Risorto, essendo l’Amore assoluto (= fino alla fine, fino all’incredibile) scopre la radicalità della nostra libertà, rispettata fino alla scelta dell’inferno e pur sempre chiamata ad arrendersi all’Amore che salva. « L’Amore di Dio – scrive U. Von Balthasar! – scopre la vera paura e il vero inferno » (Solo l’amore è credibile, Borla 1977, p. 95 s). Proprio perché egli è la nostra grazia, è anche il nostro vero giudice, ma per essere il nostro Liberatore. Allorché è stato conosciuto l’Amore, il peccato emerge con tutta chiarezza, le cose hanno il loro nome e finalmente possiamo superare la confusione di Babele. Anche perché l’uomo alla fine… deve pur sapere dove andare.
Quello sguardo d’Amore Crocifisso ci penetra fino in fondo, perché ci ha amati fino in fondo. « Se non fossi venuto e non avessi parlato non avrebbero alcun peccato: ma ora non hanno scusa per il loro peccato » (Gv 15,22). « Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me » (Gv 12,32). Dio si è fatto Logos e questo si è fatto Amore (charis) e Verità (Aletheia): ecco la gloria di Dio!
Non ci resta che accogliere riconoscenti questa Grazia. « O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? » (Rom 2,4).

2. L’Amore Misericordioso ci attira al pentimento e suscita la nostalgia del ritorno alla casa del Padre.
Noi seguiamo Cristo, ma è più vero che Lui cerca noi. Noi andiamo a Cristo, ma è più vero che Lui viene a noi. Come il pastore in cerca della pecora perduta, Lui rifà tutta la strada del nostro allontanamento dalla sua casa: « ci insegue ». Ci viene dietro per prenderci come siamo e dove siamo, per offrirci le sue cure, caricarci sulle sue spalle e portarci dove dobbiamo andare.
È sempre là, a suscitare la nostalgia della sua casa, del suo seno, da dove siamo venuti e dove è giusto, bello, rimanere e vivere. « Vi supplichiamo in nome di Dio: lasciatevi riconciliare con Cristo » (2 Cor 5,20).
L’Amore solo convince l’uomo: è la violenza più dirompente, lo apre alla speranza, quella che non è utopia, ma realtà di salvezza riconosciuta e accettata. « Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo: rinnova i nostri giorni » (Lam 5,21).
Lo stesso castigo o correzione, molto presente nella bibbia, è il richiamo dell’amore. Il non-castigo sarebbe il disinteresse di Dio sulla nostra perdizione. La passione dell’Amore divino escogita tutti i modi per non lasciare che l’uomo si perda. Una preghiera di Madre Speranza, che poi è diventata il titolo di una raccolta di pensieri suoi, dice: « Castigami e salvami »!. Una Benedizione dell’Antico Testamento dice: « Il Signore nostro Dio sia con noi come è stato con i nostri Padri; non ci abbandoni e non ci respinga, ma volga piuttosto i nostri cuori verso di lui, perché seguiamo tutte le sue vie… Il vostro cuore sarà tutto dedito al Signore nostro Dio, perché cammini secondo i suoi decreti » (1Re 8,57 ss).
Il pentimento è dunque il riconoscere di essere inseguiti dall’Amore appassionato di Dio, pronto a rifare il nostro volto; è il lasciarsi conquistare (cf Fil 3,12), il lasciarsi sedurre (cf Ger 20, 7), dall’Amore di Dio, arrendendoci ad esso al fine di fare un’altra strada, quella dietro di Lui.

3. L’Amore Misericordioso perdonando cambia il nostro cuore
La giustificazione in Cristo, il suo perdono, è una nuova creazione che comporta una vera dimensione ontologica, un nuovo modo di essere da cui nasce un nuovo modo di agire. A partire da questa grazia del perdono comprendiamo come il peccato sia una profonda ferita che lacera le fibre del nostro essere, toccandoci nell’essenziale.
Infatti i termini che la Parola di Dio impiega per farci capire il perdono di Dio sono: cancellare, lavare, purificare, gettare via, dimenticare, togliere la sentenza di condanna, rimuovere, allontanare, dissipare, rimettere… Ma quello che più esprime l’intervento di Dio è il verbo « creare », collegato proprio come nella creazione all’opera dello Spirito. « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi » (Gv 20,22). Il passaggio dall’egoismo (peccato) all’amore (grazia) è opera dello Spirito di Dio, un intervento che comporta una vera creazione come progressivo inserimento ontologico nella vita del Risorto, per cui l’uomo diventa figlio di Dio. La remissione dei peccati sta per il cambio dell’uomo vecchio, ossia peccatore, in giusti-ficato, ossia nuovo. Muore il peccatore e risorge l’uomo secondo Dio: mistero di Cristo nel cristiano.
Nel Salmo 51 chiediamo: « Oh Dio, crea in me un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso » (12,14). L. Alonso Schökel scrive: « Il verbo creare suona con tutta la sua forza all’inizio di questi tre versi che chiamerò « epiclesi » perché sono una triplice petizione di spirito. Come nella creazione (Gen 1) lo Spirito di Dio si librava sull’oceano per formare il cosmo, così in questa preghiera si chiede che un triplice spirito ricrei il penitente. L’uomo non può con le sue forze alzarsi dal regno del peccato al regno della grazia: deve essere azione e dono di Dio. E trasferire un uomo dal peccato alla grazia è un modo di creare. Paolo dirà che dov’è un cristiano c’è una nuova creazione (2 Cor 5,17) » (Treinta Salmos: Poesia y Oraciòn, ed. Cristiandad, Madrid 1981, p. 217).
Infatti nel nuovo rito della Riconciliazione il Sacerdote stende la mano sul penitente, come quando stende la mano sulle offerte del pane e del vino per invocare lo Spirito (epiclesi), al fine di chiedere alla forza dello Spirito la trasformazione sostanziale del pane (Eucaristia) e del peccatore (Penitenza o Riconciliazione).
Un altro testo che, se non è ispirato direttamente al Salmo 51, appartiene allo stesso ambiente spirituale è il testo profetico di Ex 36,25 ss. Si tratta di un oracolo composto da un profeta che era stato sacerdote e che ora intende pronunciare in nome di Dio la formula di assoluzione o di perdono durante l’esilio (cf Ib, p. 224). Le espressioni più significative sono: « Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati… vi darò un cuore nuovo… metterò dentro di voi uno spirito nuovo… vi farò vivere secondo i miei statuti… voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio ».
Tutto questo si concretizza nei « perdonati » del Vangelo: vedi Zaccheo, la peccatrice, l’adultera, Matteo. Tutte persone che la grazia del perdono ha letteralmente trasformato. L’unica situazione che non è raggiungibile da questo intervento che è miracolo, è quella farisaica. Dei farisei Gesù dice: « Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane » (Gv 9,41). È la vera crisi della speranza, ben riconoscibile ai nostri giorni.
Laddove invece l’uomo si apre (crede) all’Amore di Dio, comincia l’esperienza umana che può essere intitolata: « L’uscita dalla caverna e la salita al monte Moria » (Cf. S. GRYGIEL, L’uomo visto dalla Vistola, CSEO, Bologna 1978, p. 96).

4. L’Amore Misericordioso ci fa vivere da uomini nuovi in questo mondo
Se il perdono trasforma il nostro essere, segue una nuova vita. Eccone le caratteristiche: – ci accompagna la gioia della nostra identità vera: sappiamo chi siamo, abbiamo un volto. Usciamo dalla confusione dell’istinto, del desiderio, del sentimento, della sola ragione, della sola volontà, intese o in modo separato o giustapposto o contraddittorio. Siamo figli di fronte al Padre, generati dal suo Amore. – riscopriamo il volto degli altri. Non sono più degli antagonisti, dei concorrenti, oppure degli amici perché la pensano come noi, senza mai dirci la verità. Sono fratelli, luogo della Presenza di Dio, perdonati anche loro da Dio, bisognosi del nostro perdono così come noi lo siamo del loro. Nasce l’amore fraterno: diventiamo capaci di amarci e di comprenderci, di sostenerci e di costruire insieme la comunione.
Nel rapporto con gli altri riscopriamo il senso del gratuito, per cui si supera la « cerchia » degli amici. « Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?… E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? » (Mt 5,46 s). E così amiamo disinteressatamente i poveri, i bisognosi, i bambini, i vecchi, i malati, certi che, proprio da loro che non hanno, riceviamo più di quel che diamo.
Impariamo lo stile dell’Amore Misericordioso. « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro » (Lc 6,36). – Capiamo il senso del nostro andare, cioè della nostra storia personale e comunitaria. Il lavoro non è più la produzione semplice e meccanica dei beni di consumo, ma l’espressione di tutta la nostra creatività animata dall’amore. La famiglia non è la casa dove si mangia, si dorme, ci sono tutte le nostre comodità, ma l’ambiente accogliente e aperto alle necessità dei poveri, il luogo dove si sta bene perché si fa comunione, anzitutto con Dio. Il tempo libero non è gestito sulla base della soddisfazione dei bisogni artificiosi o indotti, ma servizio e festa allo stesso tempo, liberazione e distensione. Non abbiamo quella fretta assurda che ci fa frenetici, superficiali, disordinati. I fatti della storia, il presente e il futuro, non sono letti in chiave di pessimismo o di ottimismo, in modo unilaterale e di parte, ma con verità, realismo e fiducia in Dio e nell’uomo, convinti che è in atto una vera storia della salvezza che supera anche le nostre contraddizioni.
Viviamo il nostro tempo con molta Pace e con grande Responsabilità: la Pace di poter essere e rimanere nell’Amore di Dio che mai si stanca di operare con noi cose meravigliose, la Responsabilità di non tradire l’Amore di Dio e l’appello del fratello; la Pace come certezza che Dio ci può e ci vuole salvare in ogni situazione, anche la più disperata, la Responsabilità come sentire sulle nostre spalle il sempre possibile fallimento.
La Grazia dell’Amore che ci perdona, ci colloca al di là dell’autosufficienza presuntuosa o eroica e al di là della paura. Ci libera come uomini che hanno senso pieno nell’orizzonte di Dio (figli), popolo che sa vivere nella gioia e nel dolore, nelle fatiche e nel riposo, con l’animo contento, come un Inno all’Amore che si sta salvando. 

MILLE ANNI SONO COME UN GIORNO SOLO DAVANTI A DIO

http://www.zenit.org/article-31750?l=italian

MILLE ANNI SONO COME UN GIORNO SOLO DAVANTI A DIO

Intervista al priore dei camaldolesi, padre Alessandro Barban, nel millennio dalla fondazione

ROMA, martedì, 17 luglio 2012 (ZENIT.org).- Fondati mille anni fa da San Romualdo, monaco benedettino ed eremita, il Sacro Eremo e il Monastero di Camaldoli sono immersi nella suggestiva foresta dell’appennino tosco-romagnolo.
Vi sorgono due realtà diverse: la comunitaria del monastero e quella solitaria dell’eremo che formano una sola comunità, la quale trova le sue radici nell’antica tradizione dell’oriente cristiano e dell’occidente che si riconosce in San Benedetto.
In questo millenario della loro fondazione, Zenit ha chiesto al priore generale dei Camaldolesi, padre Alessandro Barban, originario di Ferrara, sacerdote, laureato in storia contemporanea a Bologna, con studi di teologia a Roma a Sant’Anselmo e alla Gregoriana, attratto dal Signore giovanissimo e monaco dal 1989, come stanno vivendo questo evento.
Un ordine che compie mille anni: emozionante, vero?
Padre Barban: Ho chiesto ai miei confratelli di viverlo con molta umiltà e di non cadere nel rischio di una autoglorificazione o di fare discorsi un po’ apologetici, perché mille anni sono come un giorno solo davanti a Dio, come dice la lettera a Pietro. E quindi dobbiamo mettere in conto che è vero che per la storia mille anni sono tanti, ma dobbiamo mantenere i piedi per terra, essere umili, essere consapevoli anche della nostra marginalità, del nostro numero ridotto, perché composta da cento membri in tutto il mondo. Il Signore ci ha benedetto in questi mille anni e spero continuerà a benedirci, ma siamo consapevoli dei nostri limiti, delle potenzialità che possiamo avere ma anche della situazione oggettiva delle nostre case e congregazione.
Quale è il carisma vostro attraverso i secoli ma forse principalmente oggi?
Padre Barban: Il nostro carisma è un po’ complesso, perché abbiamo sia la vita cenobitica, con il nostro monastero a ottocento metri di altitudine, sia la vita di stampo eremitico e parlo del nostro eremo a milleduecento metri. Poi abbiamo un terzo bene, come lo chiamiamo noi. Il primo consiste nella vita comunitaria, il secondo nella vita solitaria, mentre il terzo bene è quello dell’evangelizzazione.
Si riferisce all’ospitalità e ai corsi che si svolgono nelle vostre case?
Padre Barban: Ecco perché le nostre comunità, le nostre foresterie sono un “polmone” molto aperto, una realtà di accoglienza di formazione, di teologia, di Bibbia, di cultura generale. Abbiamo questo aspetto di non poco conto come l’incontro con l’uomo e la donna di oggi, pratichiamo anche una ospitalità che ha una finalità di evangelizzazione.
So che svolgete anche un importante lavoro ecumenico e interreligioso…
Padre Barban: Sì, da circa trent’anni abbiamo ogni anno una settimana dedicata al dialogo ebraico cristiano. Siamo stati i primi a iniziare questo cammino in Italia, questa forma di dialogo stretto e unico tra cristiani, cattolici ed ebrei.
E come monaci?
Padre Barban: Come monaci siamo molto aperti alle tradizioni delle Chiese orientali e ortodosse. È chiaro che, essendo monaci, siamo nati prima della divisione tra il mondo latino e il mondo greco, bizantino. Quindi noi conserviamo, in qualche modo, un legame con la tradizione monastica e teologica e con le Chiese ortodosse bizantine.
Si tratta, quindi, di un dialogo ecumenico ma anche interreligioso?
Padre Barban: Il fatto che abbiamo una casa anche in India, fa sì che portiamo avanti un dialogo interreligioso, perché la maggioranza degli indiani sono ovviamente induisti. Essendo presenti in India, come monaci siamo in contatto con la tradizione monastica indù ma anche con quella buddista, quindi ci troviamo in un contesto di accoglienza e comprensione.
La Nuova Evangelizzazione si svolge soltanto con la preghiera o anche con il contatto diretto?
Padre Barban: Come monaci camaldolensi nella nostra regola innanzitutto abbiamo il silenzio e la preghiera ma questo non ci isola, non cerchiamo la separazione dal mondo ma il confronto, attraverso il dialogo e l’ospitalità. Noi pratichiamo l’ospitalità, sia con persone in qualche modo credenti, sia con i cattolici convinti, sia con persone che sono in ricerca. Ci sono tante persone che fanno fatica a mettere piede in una chiesa cattolica, forse non vanno più a messa o hanno difficoltà con la propria fede. Forse però, in un ambiente come il nostro, si sentono più a loro agio. Quindi svolgiamo una pratica di ospitalità e di accoglienza di queste persone che sono alla ricerca di un chiarimento anche interiore del loro essere cattolici, cristiani o credenti.
Che tipo d accoglienza offrite?
Padre Barban: Noi offriamo vari tipi di ospitalità. Qui all’Eremo è per coloro che vogliono coltivare la preghiera e il silenzio, quindi dei ritiri spirituali. Invece al monastero sono previste delle settimane organizzate. Le persone si iscrivono perché sono interessate a un tema o a una certa settimana, con contenuti specifici. L’ospitalità si svolge nell’arco di una settimana. Poi in qualche modo permettiamo anche i ritiri di sacerdoti, suore, eccetera.
Quindi studio e silenzio?
Padre Barban: Si alternano tutte queste cose, quindi abbiamo una dimensione più di studio nella proposta di ospitalità del monastero ma nell’eremo la dimensione è più contemplativa, incline al silenzio, alla preghiera e alla meditazione.
Siete l’ordine monastico più antico?
Padre Barban: Non so se siamo i più antichi tra gli ordini monastici ma sicuramente siamo tra i pochissimi con una storia millenaria.
Per prendere contatto con i monaci camaldolesi e vivere alcuni giorni di preghiera e ritiro a contatto con la loro comunità, è possibile visitare il loro sito www.monasterodicamaldoli.it.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, VITA RELIGIOSA |on 18 juillet, 2012 |Pas de commentaires »

« L’uomo è religioso dal tempo dell’australopiteco Lucy »

http://www.cardinalrating.com/cardinal_290__article_11030.htm

« L’uomo è religioso dal tempo dell’australopiteco Lucy »

Jan 25, 2012

Il cardinale Ries: “Il cristiano comprenda le altre culture »

«L’uomo è stato fin dalla sua origine uomo religioso». Il sacerdote belga Julien Ries, 92 anni, a lungo docente all’università cattolica di Lovanio, è il fondatore di un nuovo campo del sapere, l’antropologia religiosa fondamentale. Fautore del dialogo tra le religioni, Ries sarà creato cardinale il prossimo 18 febbraio. La sua esistenza è stata dedicata agli studi sul sacro nelle diverse culture: ha una bibliografia immensa e la sua opera omnia viene pubblicata in italiano dall’Editoriale Jaca Book.
Lei arriva alla porpora dopo una vita di ricerca: è stato tra i primi a insistere sulla dimensione religiosa come originaria nell’uomo. Il senso religioso è davvero connaturato?
«Sono molto d’accordo con il paleoantropologo Yves Coppens, lo scopritore di Lucy, il quale da anni ripete che l’uomo è da subito uomo religioso».
Come si documenta questa affermazione?
«Consideriamo questo uomo religioso quale lo conosciamo attraverso i fatti e i gesti della storia: se analizziamo le sue pitture ritrovate in centinaia di grotte, sinora scoperte, le sue migliaia di incisioni rupestri, se esaminiamo il suo comportamento riguardo ai defunti, se cerchiamo di interpretare i gesti della sue mani levate verso la volta celeste – il “Ka” degli antichi egizi – siamo obbligati a pensare a un’esperienza di relazione vissuta in maniera cosciente dall’uomo arcaico con la realtà misteriosa e ultra terrena».
Qual è il ruolo dei testi sacri delle varie religioni?
«I libri sacri dell’umanità costituiscono un prodigioso patrimonio che storici e altri specialisti tentano di analizzare per comprendere il discorso con cui l’uomo religioso e simbolico ha tradotto la propria esperienza. L’insieme di questo discorso è coerente dal paleolitico fino ai nostri giorni. Cosa che ci porta a pensare a un’unità dell’esperienza spirituale dell’umanità».
Oggi certi simboli religiosi sembrano dividere piuttosto che unire. È possibile la convivenza tra religioni differenti nelle nostre società?
«Il cristiano è tenuto a comprendere e a beneficiare dell’apporto delle altre culture. I padri della Chiesa avevano già compreso questo. Da ciò la ricchezza dell’epoca ellenistica per la cultura cristiana dei primi secoli e la grande importanza del Rinascimento. La sua domanda sottintende l’obiezione di Claude Levis Strauss che ha tentato di determinare il funzionamento dello spirito umano rifiutando però di cercare nei miti un senso che sarebbe rivelatore delle aspirazioni dell’umanità. Per lui i miti non dicono nulla sulle origini dell’uomo e sul suo destino. La sua ricerca sfocia in una visione completamente materialistica della cultura. Siamo così in presenza di un vero pessimismo».
Che novità ha portato il cristianesimo nella storia religiosa dell’umanità?
«Nel suo discorso costruito sotto forma di parabole, Gesù riprende in parte il simbolismo cosmico e lo pone al servizio dell’annuncio del Vangelo. Vi aggiunge allegorie tratte dalla vita quotidiana. È una teofania nel senso pieno del termine. E questa stessa esistenza è la più grande rivoluzione religiosa della storia. Cristo, dopo avere inviato lo Spirito sugli apostoli, mediante il suo corpo che è la Chiesa continua ad essere presente nella storia».
Quale considera essere la sua scoperta scientifica più importante?
«L’avere individuato la possibilità di costruire un nuovo campo del sapere, l’antropologia religiosa fondamentale. La prima sperimentazione di questa costruzione è stata organizzare su richiesta del mio editore Jaca Book, il Trattato di antropologia del sacro a cui hanno collaborato un centinaio di studiosi e in cui si  documenta che il concetto di homo religiosus è operativo e fondamentale per la ricerca sulle religioni e sulle culture. Un lavoro che mette in evidenza l’uomo religioso e la sua esperienza del sacro basandosi sulle tre costanti dell’esperienza stessa: il simbolo, il mito e il rito.  L’antropologia fondamentale affronta tutto questo e ci apre nuovi orizzonti sull’uomo anche in tempi di crisi come il nostro».
Che effetto le fa essere nominato cardinale a 92 anni?
«La nomina a cardinale mi riempie di gioia. Non mi riempie di gioia, invece, avere l’età che ho!».

Publié dans:Cardinali, VITA RELIGIOSA |on 17 février, 2012 |Pas de commentaires »

Eremiti oggi, il fascino imperituro del «deserto» (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_bianchi20.htm

Eremiti oggi,  il fascino imperituro del «deserto»

ENZO BIANCHI
(« Avvenire », 9/3/’08)

Fin dalle origini della vita monastica l’ »eremitismo » è letto e interpretato in modo « ambivalente »: da un lato lo si considera la forma « eccellente » di vita monastica, adatta a pochi, d’altro lato se ne scorgono i limiti nell’annessa impossibilità a servire i fratelli nel quotidiano e nel rischio di scambiare la volontà propria con quella del Signore.
Proprio per questo la tradizione monastica d’occidente come d’oriente – dalla « Regola » di Benedetto fino alla « prassi » contemporanea nel deserto egiziano – ha sempre ritenuto possibile l’approdo alla vita « eremitica » solo dopo un tempo prolungato di vita comunitaria e l’assenso di un padre spirituale. Storicamente così è avvenuto molte volte, continua ad avvenire e sarebbe per certi versi « auspicabile » che sempre avvenisse. Ma anche l’inverso è attestato: quasi tutte le nuove forme di vita « cenobitica » – a cominciare da Benedetto stesso – hanno origine dal ritirarsi nel deserto dell’eremo di un uomo solo, che abbandona tutto e tutti e che soltanto in seguito viene raggiunto da alcuni discepoli per i quali accetta di fare da guida e di stendere una « regola » di vita. Così il « cenobio » nasce spesso da un eremita e successivamente può favorire la nascita di nuovi eremiti, non senza aver prima generato « cenobiti »: appare allora tutta la fecondità di questa tensione « dialettica », a volte vissuta o interpretata solo in termini di rivalità o « preminenza ». Ma come leggere allora l’attuale « rifiorire » della vita eremitica, proprio in una stagione in cui il monachesimo « cenobitico » conosce una fase di « riflusso » se non di vera e propria crisi? Non c’è il rischio che, in una cultura che subisce la tentazione della religione « fai-da-te », anche la vita di celibato per il Regno subisca l’attrazione verso una forma « plasmata » da ciascuno a modo suo?
Indubbiamente il pericolo è presente, eppure la Chiesa ha sempre conosciuto questa feconda « dialettica » tra « eremo » e « cenobio », e oggi accompagna con vigilanza amorosa il « riemergere », anche in occidente e anche tra le donne, della vita eremitica, che l’oriente cristiano ha sempre continuato ad avere, soprattutto in ambito maschile: pur fortemente minoritaria, com’è naturale che sia, e a volte « discreditata » dall’eccentricità di alcuni suoi esponenti, la vita eremitica ha tuttavia fatto la sua « ricomparsa » sotto diverse forme: da quella più classica del solitario che si ritira in un luogo appartato, all’ »eremitismo urbano », vissuto lavorando e pregando nel deserto delle nostre anonime città; dalla riedizione moderna delle « colonie » di eremiti presenti in un’area « limitrofa », alla « reinterpretazione » del carisma « certosino » di profonda solitudine vissuta in un spazio fisico e strutturale fortemente comunitario. Il « deserto » si rivela, ancora oggi, una categoria spirituale più che geografica o fisica: ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza, accettare la prova e la privazione per saggiare cosa si ritiene davvero « essenziale », fare silenzio per imparare l’ascolto, custodire la solitudine per saper leggere nel proprio cuore e in quello altrui, sono tutti elementi che alcuni individui – in ogni tempo e in ogni luogo – colgono come propria verità fino ad assumerli come totalità della propria condizione e come segno capace di destare maggiore consapevolezza in quanti a loro si accostano, direttamente o attraverso i loro scritti e le loro parole tramandate. 

Publié dans:Enzo Bianchi, primi secoli, VITA RELIGIOSA |on 10 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

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