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LE VIRTÙ TEOLOGALI E CARDINALI NELL’ARTE

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LE VIRTÙ TEOLOGALI E CARDINALI NELL’ARTE

Continuano le Catechesi della bellezza con Piero del Pollaiolo e Sandro Botticelli

4 FEBBRAIO 2013 NICOLA ROSETTI CULTURA & SOCIETÀ

Dopo aver parlato  di come i sette vizi capitali sono stati rappresentati da Hieronymus Bosch, illustriamo ora come vengono raffigurate le 7 virtù. Aiutiamoci con i dipinti di Piero del Pollaiolo e Sandro Botticelli (autore della sola Fortezza), attualmente conservati nella Galleria degli Uffizi e originariamente pensati per decorare il Tribunale della Mercanzia di Piazza della Signoria a Firenze. È fondamentale che nella catechesi si punti più sugli aspetti positivi che su quelli negativi. È tanto facile descrivere (e fare) ciò che è male, quanto è difficile parlare (e fare) del bene. Dobbiamo fare nella nostra pastorale invece una sorta di conversione, una vera e propria metanoia (=cambio di mentalità) di evangelica memoria e sforzarci di parlare del bene. Ricordiamo che le sette virtù si dividono in teologali e cardinali. Le prime sono tre e vengono così chiamate perché sono infuse direttamente da Dio e hanno Lui come “oggetto”, le rimanenti vengono chiamate cardinali perché sono il cardine di tutte le altre. Tutte vengono rappresentate da figure femminili con particolari attributi iconografici. Partiamo dalla Fede. Viene rappresentata da una donna che regge in una mano il calice e la patena (spesso si vede l’ostia), mentre nell’altra brandisce una croce. Il suo colore caratteristico è il bianco La Carità è rappresentata da una donna che allatta il suo bambino (spesso si trovano anche altri pargoli che attingono al seno materno). Nell’altra mano la Carità regge una fiamma, simbolo dell’amore ardente e disinteressato verso il prossimo. Il suo colore caratteristico è il rosso La Speranza è una donna vestita di verde con le mani giunte e lo sguardo rivolto verso il cielo da dove attende la salvezza. Anche se in questo dipinto manca, il suo caratteristico attributo iconografico è l’ancora dando così rappresentazione alle parole della Sacra Scrittura che in Eb 6,19 afferma: “In essa (cioè nella Speranza) noi abbiamo come un’ancora della nostra vita, sicura e salda”. La forma dell’ancora infine ricorda la croce, speranza di ogni credente. Passiamo ora alle virtù cardinali iniziando dalla Fortezza. È rappresentata come una donna che indossa un’armatura necessaria per il combattimento contro il male e il conseguimento del bene. Regge in mano uno scettro, simbolo della nobiltà di chi esercita questa virtù. In genere nelle rappresentazioni della virtù compare anche la colonna che sostiene chi vuole essere forte. La Giustizia tiene in mano il globo, mentre nell’altra regge una spada con la quale applica in modo imparziale le sentenza. Al posto del globo molto più frequentemente si trova la bilancia, simbolo di equità. La Temperanza è simboleggiata da una donna che stempera il vino con l’acqua. Infine abbiamo la Prudenza che regge in mano uno specchio col quale si guarda alle spalle. Tale attributo iconografico deriva dal passo del Libro della Sapienza che dice: “La sapienza è uno splendido riverbero della luce eterna, specchio puro dell’attività di Dio, immagine della sua bontà” (Sap 8,26).  Nell’altra mano la Prudenza regge un serpente. Anche questo attributo deriva dalla Sacra Scrittura e precisamente dal passo evangelico di Matteo dove Gesù afferma: “Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10,16).

(Articolo tratta da Àncora Online, il settimanale della Diocesi di San Benedetto del Tronto)

Publié dans:virtù cardinali, virtù teologali |on 11 février, 2016 |Pas de commentaires »

LA SPERANZA NELLA BIBBIA

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LA SPERANZA NELLA BIBBIA

Riportiamo una relazione dello scomparso sacerdote e biblista Prof. Giuseppe Barbaglio, datata nel tempo,(tenuta a Verbania Pallanza nel 1974) ma che conserva una impressionante attualità; la statura morale intellettuale e spirituale dell’autore sono garanzia non solo della modernità del testo, ma anche della sua efficacia per una lettura che aiuti il nostro cammino di fede.
Riportiamo una relazione dello scomparso sacerdote e biblista Prof. Giuseppe Barbaglio, datata nel tempo,(tenuta a Verbania Pallanza nel 1974) ma che conserva una impressionante attualità; la statura morale intellettuale e spirituale dell’autore sono garanzia non solo della modernità del testo, ma anche della sua efficacia per una lettura che aiuti il nostro cammino di fede.
Ripercorrendo la virtù della Speranza come delineata dalla Scrittura, l’autore lascia emergere il suo personale rapporto con la Speranza e si apre ad un colloquio senza reticenze e senza veli.
“Le speranze del postconcilio, anni 60-68, sono nate all’ombra sul terreno delle speranze entusiastiche. Il risultato delle speranze entusiastiche è sempre la delusione.
Noi oggi paghiamo nella Chiesa, per aver voluto sperare a basso prezzo, senza pagare molto di persona. La croce dice che la speranza costa, non esiste nella chiarezza, nella sicurezza e neppure nella tranquillità psicologica. A volte ci confessiamo di avere dei dubbi contro la fede, ma non è peccato averne, semmai sarebbe peccato il non averne o pretendere di non averne. La croce di Cristo ci dice che la speranza cristiana è una speranza debole. Il poeta francese Peguy dice che la speranza è come una bambina che ha bisogno di essere tenuta per mano, è fragile, debole.”
Ringraziamo il Signore per aver donato alla Chiesa tale personalità, al quale riconoscenti e oranti rendiamo grata memoria.
* * * * *
Per evitare di dire delle cose già scritte in modo tecnico, scelgo una pista di riflessione che mi occupa un po’ in questi ultimi tempi e mi interessa, non tanto come uno che « legge » la Bibbia, ma come uomo e come persona.
Pensavo una volta che Gesù amasse solamente, ma che non credesse, perché aveva naturalmente tutto chiaro, e che non sperasse, perché Egli possedeva tutto. Invece sembra che Gesù pure sperasse.
Puntiamo allora la riflessione su di un punto che è particolarmente interessante: il discorso della speranza cristiana legata al mistero della morte e della risurrezione, questo grande tema prediletto da S. Paolo: la croce (1Cor 1,18-25, ed eventualmente i primi quattro capitoli). Da alcuni anni, non solo ho scritto qualcosa, ma dentro di me questa realtà della speranza ha avuto un forte significato: è avvenuta in me una certa trasformazione. Se, all’inizio, preso da un grande entusiasmo, vedevo il tema della speranza in una determinata prospettiva, quella del Cristo risorto, prospettiva molto giovanile, ottimistica, un po’ pazza; ultimamente sto misurando come questa speranza cristiana non sembra abbia molto da condividere con delle attese entusiastiche, con desideri molto facili, con ottimismi umani estremamente diffusi, almeno in certi ambienti. Sarei arrivato ad una convinzione, non solo di studio, ma anche di esperienza: c’è una speranza che vive all’ombra della croce.
S. Paolo, parlando della croce, non intendeva la sofferenza in senso dolorifico. La croce è una sigla, un simbolo che indica il vero volto di Dio. Il vero volto di Dio si manifesta nella croce di Cristo e il vero volto nostro si manifesta nella croce di Cristo.
La croce come luogo dove il vero Dio mostra la sua carta di identità… e dove pure l’uomo è chiamato a mostrare la sua carta di identità… la vera carta di identità, non quelle tessere fasulle, che ci costruiamo facilmente. Un discorso sulla speranza cristiana dovrebbe misurarsi con quella realtà. Vorrei tentare con voi questo passaggio da una interpretazione un po’ ottimistica, un po’ giovanile della speranza cristiana ad una interpretazione che, mi sembrerebbe, allo stato attuale delle cose, più consona alla realtà cristiana: una speranza che vive all’ombra della croce.

Tre punti:
1. la croce esclude una speranza entusiastica;
2. la croce esclude una speranza di tipo titanico o prometeico;
3. la croce esclude una speranza di tipo spiritualistico.
Il mio discorso è limitato, è un tentativo di riflessione e di interpretazione. Ad ogni punto farò emergere un tipo di speranza.

1. La croce di Cristo esclude una speranza entusiastica
La croce di Cristo esclude prima di tutto la speranza entusiastica, anche una speranza cristiana entusiastica. San Paolo si è scontrato a Corinto con una speranza cristiana entusiastica che si riteneva cristiana, ma che lui non ha ritenuto cristiana.
La speranza cristiana entusiastica è quella che suppone il futuro sufficientemente facile: la speranza che si possa, con buona volontà o anche con qualche sforzo, ottenere dei risultati, anche a breve scadenza, e dei risultati importanti. La convinzione illusoria che si possa andare verso il futuro non pagando un prezzo alto. Per esempio la speranza che l’incontro di due persone nell’amore possa essere un incontro facile, una realtà splendida, radiosa, senza ombre, una realtà perseguibile e da vivere nella gioia più pura; un incontro fra due persone a livello molto profondo, ma con prospettive facili; da pagare, sì, ma a piccolo prezzo; comunque con la prospettiva di una vita di gioia grande, di esaltazione.
Se passiamo dal campo interpersonale a quello sociale: ritenere che con alcune tecniche, mettendoci anche un po’ di buona volontà, si possa anche in breve tempo cambiare il volto all’ambiente, alla società d’oggi, senza dover pagare un prezzo alto di delusioni, di fallimenti, di dubbi, di angosce. La speranza entusiastica: credere in un futuro a portata di mano, che riservi all’uomo solo le grandi gioie, le grandi soddisfazioni, il successo, la conquista. È una speranza entusiastica propria di certi cristiani poco realistici, di persone che non guardano in faccia al mondo così terribile in alcuni aspetti; persone che cercano di evadere dalla realtà. Una speranza entusiastica cristiana che si appoggia su un certo modo di vedere Dio, che pensa che Dio risparmi all’uomo la croce e la morte; la croce non in senso dolorifico (che non è nemmeno l’aspetto principale), ma la croce come dubbio, come angoscia, fallimento, smarrimento; speranza cristiana come fiducia rosea in un Dio potentissimo, capace di risparmiarci le difficoltà, la croce, la morte. Se leggiamo attentamente la Bibbia, il Dio che ha tirato fuori la sua vera carta di identità nel mistero della morte e risurrezione di Cristo, è un Dio che non risparmia, non ha risparmiato a Gesù la croce e la morte, la sofferenza del fallimento generale di tutta la sua vita. Il Padre che si compiaceva in Gesù, suo Figlio, non l’ha risparmiato, non l’ha amnistiato. E non poteva neppure risparmiarlo. Mi rifiuto di pensare a Dio Padre che, potendo risparmiare a Gesù la morte e la sofferenza, non l’abbia fatto.
La speranza cristiana entusiastica è la speranza che poggia su un Dio troppo potente o potente in una certa direzione, potente per risparmiare a noi la via stretta, l’angoscia, la morte; questo Dio potente da spianarci la strada davanti non esiste: è un idolo che ci fa comodo e per questo l’abbiamo creato. Il vero Dio è quello che ha tirato fuori la sua carta di identità sulla croce, Dio che non ha risparmiato la croce a Gesù e non la risparmia neppure a noi e non può risparmiarcela, altrimenti negherebbe se stesso. Il Dio cristiano è un Dio che non può salvarci dalla morte, non può evitarcela.
La speranza cristiana entusiastica è in un Dio potente, Deus ex machina nel mondo, pronto a spianarci la strada. La croce di Cristo ci dice che questa speranza entusiastica è un’illusione, una pura utopia, un sogno. La psicologia ci parla di una estrapolazione dei nostri desideri; cioè coviamo dentro di noi dei desideri e li buttiamo fuori ed in avanti, ma tutta la realtà della speranza in questo senso è la realtà di un desiderio che abbiamo dentro, una realtà effimera; è solo il prodotto artificiale dei nostri desideri. La croce annulla questa speranza entusiastica facile. La croce dice che non possiamo sperare a basso prezzo, l’unica speranza vera è quella ad alto prezzo, al prezzo della croce; non la si vive entusiasticamente, ma si paga a duro prezzo e la persona deve passare attraverso il dubbio, l’angoscia, l’incertezza. L’unica speranza vera ed autentica è la speranza ad alto prezzo: la speranza di una comunità cristiana (non è solo discorso del singolo ma anche delle comunità) che non si sente una comunità che possiede la verità, la sicurezza, la tranquillità psicologica, la sicurezza dell’onestà, della morale, della fede; la speranza di una comunità cristiana che cerca, attraverso il dubbio, l’angoscia, non sapendo che pesci pigliare in tanti casi.
Le speranze del postconcilio, anni 60-68, sono nate all’ombra sul terreno delle speranze entusiastiche. Il risultato delle speranze entusiastiche è sempre la delusione.
Noi oggi paghiamo nella Chiesa, per aver voluto sperare a basso prezzo, senza pagare molto di persona. La croce dice che la speranza costa, non esiste nella chiarezza, nella sicurezza e neppure nella tranquillità psicologica. A volte ci confessiamo di avere dei dubbi contro la fede, ma non è peccato averne, semmai sarebbe peccato il non averne o pretendere di non averne. La croce di Cristo ci dice che la speranza cristiana è una speranza debole. Il poeta francese Peguy dice che la speranza è come una bambina che ha bisogno di essere tenuta per mano, è fragile, debole.
Il mistero della croce è il mistero della debolezza, della precarietà, della provvisorietà. La croce cristiana annulla una speranza entusiastica e ci presenta, come unica possibilità, una speranza ad altissimo prezzo, difficile, dura, da difendere a denti stretti, contro tutto e contro tutti., non facilitata dall’esperienza, in opposizione all’esperienza, la speranza di chi deve salire la croce. Cristo ha sperato sulla croce, in un momento in cui non poteva sperare più niente. E questo Dio, fonte della nostra speranza, non è capace di amnistiarci, di fronte alla morte, al dubbio, all’angoscia della croce. Intesa la croce di Cristo nel senso più completo: morte e risurrezione, secondo S. Paolo.

2. La croce di Cristo esclude una speranza titanica o prometeica
La speranza titanica è la speranza dell’uomo che si ritiene forte, potente. I titani erano uomini, eroi leggendari, mitologici, che tentarono la scalata del mondo degli dei per appropriarsene: la loro impresa finì col fallimento. Prometeo rappresenta l’uomo che tenta di impadronirsi di una realtà divina: il fuoco. La speranza titanica è la speranza dell’uomo che si sente un titano, forte, potente, che confida nelle sue capacità, nelle sue risorse. L’uomo titanico è l’opposto dell’entusiasta, il quale non vede nessuna difficoltà, che immagina di poter camminare su « l’autostrada dei fiori ». Il titano vede gli ostacoli: ma lui è l’uomo-Ercole delle grandi fatiche, che ha fiducia assoluta di abbattere tutti gli ostacoli e di raggiungere mete impossibili.
Al tempo di S. Paolo, la speranza titanica era quella dei giudei. Il giudeo si sentiva forte: credeva di costruire un’umanità nuova, basandosi sui suoi mezzi. Tipico il fariseo che confida nelle proprie opere buone, nell’osservanza della legge. Altro titano era l’uomo greco che credeva di salvarsi, di costruirsi, di salvare la storia, di rifare il mondo con la conoscenza religiosa, la gnosi. Oggi il titano è l’uomo tecnologico, che ha fatto conquiste enormi nel campo della scienza, della tecnologia, capace di dominare le forze della natura, di imbrigliarle e se ce ne fosse ancora qualcuna che possa sfuggirgli, si tratta solo di anni. L’uomo tecnologico è l’uomo potentissimo, che ha in mano il mondo. Pensiamo allo sviluppo delle scienze umane che oggi misurano il presente, il passato ed il futuro, per prevedere e programmare al millesimo.
La speranza dell’uomo titanico odierno è quella di salvarsi, di costruire l’umanità nuova, la società nuova, il mondo nuovo, basandosi sulle proprie forze, possibilità illimitate: salvare l’uomo, liberare l’umanità e la società da ogni alienazione. È l’uomo che crede di farcela, di avere le carte in regola, il giocatore fortunatissimo che ha sempre la carta decisiva per risolvere tutti i problemi dell’uomo, della società, dell’umanità, della storia; che crede di avere in tasca, per la prima volta, la soluzione dei problemi dell’oppressione e dell’ingiustizia, dell’odio, dell’inimicizia.
La croce giudica questa speranza titanica e non solo sul versante profano, ma anche su quello religioso, come è la convinzione di salvarsi con le nostre forze, con la nostra religione, con i nostri sacramenti, con la nostra morale ineccepibile: anche questa è una speranza titanica. Ma la croce (questo mistero che sembra sempre di più il centro di tutto il cristianesimo, e non per niente abbiamo la croce come segno e distintivo) giudica questa speranza titanica e la condanna. È il tentativo dei titani di scalare il cielo, di Prometeo di rubare il fuoco agli dei.
Come fallace, se entriamo nella mitologia orientale, è la avventura di Gilgamesh. È l’uomo di ogni tempo, l’eroe leggendario che arriva fino al mondo degli dei e prende la piantina della vita ed è ormai sulla strada del ritorno, sicuro di avercela fatta, e si ferma alla fontana a rinfrescarsi, ormai in vista della sua città di Uruk. Ma mentre si disseta lascia la piantina della vita sull’orlo della fontana e il serpente gliela rapisce.
La croce insegna che l’uomo, con le sole sue possibilità, non può liberarsi. L’impresa enorme di lanciarsi nell’avventura di liberazione radicale, di salvezza radicale, è destinata al fallimento. Sulla croce muoiono tutte le speranze umane fondate sull’uomo e sulle sue risorse. Muoiono tutte le speranze dell’uomo tecnologico, onnipotente. Non c’è mai stato nella storia umana un tempo così potente, nel dominare il mondo, da poter fare a meno di Dio. Ma la croce dice che quest’uomo, che ha in mano tante possibilità, non è capace di salvarsi da solo e di salvare la storia, di liberare l’umanità.
È il vecchio discorso dei profeti che ci hanno donato delle rivelazioni impressionanti sul senso dell’avventura umana.
Geremia si chiede: « Un etiope (era ai suoi tempi l’uomo nero, dalla pelle scura) potrebbe forse, per quanto si sforzasse, cambiare il colore della sua pelle? e la pantera può forse cambiare il suo pelo? ». Geremia ed Ezechiele ci dicono che il cuore dell’uomo, il centro decisionale dell’uomo, è stato posseduto dagli idoli: gli idoli sono penetrati nella profondità dell’essere dell’uomo: gli idoli del denaro, del successo, della potenza, del prepotere. Dice ancora che l’idolatria è stata scolpita nel cuore dell’uomo con la punta di diamante.
La speranza cristiana è assolutamente contraria alle speranze titaniche: è la speranza dell’uomo che si riconosce fallimentare per se stesso, fallimentare nelle sue risorse autosufficienti ed indipendenti per salvare la storia e se stesso. Cristo in croce era fallito, come uomo, una volta per sempre, non aveva più nemmeno uno spicciolo da spendere, totalmente finito; non pensate nemmeno all’anima di Gesù che andava chissà dove; di Gesù non restava più se non un cadavere. La croce dice che la speranza poggia sulla capacità di Dio di risuscitare i morti, è la speranza dei morti, dei crocifissi. Il crocifisso è l’uomo più impotente che esista, non può più muovere neppure le braccia: può solo attendere la morte.
La speranza cristiana giudica la speranza titanica, la speranza che sia fiducia in se stessi, nelle risorse, possibilità, capacità, forze umane e contrappone la speranza cristiana che è pura speranza nell’impossibile, nella resurrezione, come impossibile era il sogno dei titani, di Prometeo, di Gilgamesh. Ma l’impossibile della speranza cristiana è il possibile di Dio. La croce è il luogo, dice Paolo, dove si è manifestata la potenza di Dio che risuscita i morti. Dio non ha risparmiato la morte a Gesù né agli uomini; Dio è incapace di risparmiarci la morte, ma il Dio cristiano è il Dio che risuscita i morti. Meditate Romani 4: Dio è colui che risuscita i morti, che chiama le cose che non sono all’essere, che chiama la nostra impotenza radicale di salvarci a salvarci. Nel cap. 37 di Ezechiele, c’è la bellissima visione di Dio che scopre i sepolcri del suo popolo: era ridotto alla morte, ad una distesa di ossa aride. E la parola di Dio su queste ossa aride è: « Profetizza, figlio dell’uomo » ed Ezechiele dice la parola di Dio e quelle ossa incominciano a rianimarsi e a ricongiungersi, a crescere e a ricoprirsi di carne. E si alzano in piedi, tutti. Però non possono ancora camminare e bisogna dire la parola dello Spirito, soffiare lo Spirito di Dio, la potenza creatrice di Dio. Allora il profeta in nome di Dio soffia lo Spirito e questi si mettono in cammino. Alla fine del cap. 37, Ezechiele spiega la parabola. Il popolo si trovava in esilio, aveva perduto tutto: il re, la tenda, il tempio, la legge, il sacerdozio; il popolo era disperato, ma proprio su questa disperazione delle proprie possibilità di salvarsi, si ricostruisce un futuro, scende la parola di Dio che scoperchia i sepolcri del suo popolo.
Il Dio, che non è capace di risparmiarci la morte, è capace di risuscitarci: sono due cose ben diverse. La resurrezione suppone la croce, la morte, il coraggio di entrare nella via della croce, la decisione di pagare di tasca propria durissimamente, sapendo però che questa croce e questa morte non sono l’ultima parola, perché l’ultima parola è la risurrezione dalla morte. La speranza cristiana è la speranza nell’impossibile: l’impossibile della salvezza dell’uomo, della liberazione dell’uomo, della costruzione di una società e di un mondo diverso. Il deutero-Isaia ha una bellissima promessa di Dio: « Ecco io faccio nuove tutte le cose ». È l’ampiezza e l’enormità della speranza cristiana, la novità assoluta: che Dio crea risuscitando i morti. Naturalmente questo Dio che risuscita i morti non risuscita un qualsiasi morto: risuscita Cristo morto. Tanti erano morti come Cristo e anche crocifissi, ma Dio ha risuscitato Cristo, cioè ha risuscitato colui che è andato incontro alla morte ed alla croce, nella speranza, nella fiducia: non speranza in se stesso, né nelle sue risorse (perché le aveva prese tutte sulla croce), ma nella fiducia in Dio che risuscita i morti. La risurrezione è per chi affronta la croce, per chi affronta il fallimento, l’angoscia, il dubbio, l’incertezza, l’insicurezza, la sofferenza nella fiducia.
A questo punto S. Paolo chiama in causa Abramo che ha sperato contro ogni speranza umana, ma sulla parola di Dio. Lui che non poteva avere figli, perché diceva che era morto nella sua forza generatrice (come pure Sara sua moglie), ha sperato nella vita, lui che era il morto.

3. La croce di Cristo esclude la speranza di tipo spiritualistico
Il terzo tipo di speranza che la croce di Cristo annulla è la speranza disincarnata, di tipo spiritualistico. Era, per esempio, la speranza dei cristiani di Corinto, che dicevano: il mondo, la storia, il tempo, il corpo, la nostra realtà sensibile sono da buttare via; non si possono redimere, sono una realtà malvagia da cui bisogna liberarsi. Perciò la nostra speranza consiste nella salvezza dell’anima. Salvarci l’anima! Il mondo, la storia si perdano pure. La speranza di tipo spiritualistico è dualista, di tipo gnostico: non esprime il mondo e la storia e ritiene che la carne, il corpo, la visibilità siano una realtà irredimibile e quindi l’abbandona. Salviamo il salvabile: l’anima, lo spirito! La croce di Cristo annulla questa speranza di tipo riduttivo che dice di lasciare andare il mondo, il corpo, la storia, il tempo, e di salvare l’anima.
La croce di Gesù vuol dire risurrezione dei corpi, dice Paolo nella lettera ai Corinti, cap. 15. La risurrezione cristiana non è la risurrezione dell’anima, la salvezza dell’anima, cioè solo della parte spirituale dell’uomo: la risurrezione è la salvezza dell’uomo integrale, è la salvezza del corpo, della storia, di questo mondo che deve essere salvato e non buttato a mare.
I cristiani di Corinto ritenevano che Gesù fosse risuscitato nell’anima. Quindi anche loro si ritenevano risuscitati nell’anima ed avevano anch’essi una speranza spiritualistica. Ma la speranza della croce è la speranza dell’uomo salvato in quanto corpo. E il corpo, secondo S. Paolo, non è la parte materiale dell’uomo, ma è tutto l’uomo in quanto si esprime all’esterno, si vede, si tocca, entra in rapporto con gli altri, si apre a Dio, si apre al mondo, è nel mondo. Questo è l’uomo in quanto corpo. La speranza cristiana è la speranza della salvezza non di un « io » interiore, spirituale, ma di questo uomo che è un essere al mondo, perché aperto a Dio. Quindi è la speranza nella salvezza del mondo, del tempo, della carne, della materialità. Non è una speranza disincarnata, dunque, non spiritualistica, ma la speranza nella risurrezione dei corpi, del mondo. In Romani 8, questo mondo è come una donna che sta per partorire il nuovo mondo e geme i gemiti del parto, avendo da partorire un uomo nuovo, un nuovo corpo. Non è una speranza avulsa dalla terra. L’Antico Testamento ha dei testi che richiamano questo legame fondamentale dell’uomo alla terra, al mondo, all’universo che gli ebrei chiamavano terra (adam = uomo, adamà = terra): l’uomo è il terrestre, il figlio della terra, il figlio di questo mondo. La speranza dell’uomo è la speranza del mondo, per la storia, per il nostro tempo, per questa esteriorità, per questa carnalità che è il nostro essere ed è la speranza integrale della salute, una speranza mondana, per questo mondo che deve nascere nuovo pur restando sempre mondo in tutta la sua visibilità.
La speranza cristiana vive all’ombra della croce, ma anche nella luce della croce. La speranza cristiana, non quella entusiastica, ma quella ad altissimo prezzo è una lotta contro ostacoli enormi, una lotta a sangue. Una speranza cristiana negazione della speranza titanica, cioè di una fiducia totale dell’uomo nelle sue risorse.
Alla luce della croce la speranza cristiana è una fiducia. È l’abbandono da parte dell’uomo al Dio che crea, che scoperchia i sepolcri, che risuscita quelli che sono morti per sempre.
Una fiducia operosa, non una attesa pigra, ma un poggiare su di Lui, sulla forza del suo Spirito, perché è quello Spirito che riesce, secondo l’immagine di Geremia, a cambiare il pelo della pantera ed il colore della pelle dell’etiope, a scrivere la legge nei cuori, a togliere il cuore di pietra e mettervi il cuore di carne, come dice Ezechiele.
Finalmente la speranza cristiana, all’ombra e alla luce della croce, giudica e condanna la speranza spiritualistica, una speranza non mondana, una speranza di evasione e di fuga ignobile da questo mondo. Dice invece una speranza mondana, la speranza di un nuovo mondo, di una nuova storia, di nuovi corpi, di nuove persone integrali, di nuove società umane.

Interventi e risposte
Int: Con il tipo di religiosità che ci siamo fatti, è ancora possibile avere una speranza?
Risp: Alle tre speranze che ho tentato di uccidere, ho opposto in senso alternativo tre speranze risorte: la speranza ad altissimo prezzo contro la speranza entusiastica, la speranza del Dio creatore contro l’esagerata fiducia nelle nostre risorse come autosufficienti, la speranza nella risurrezione dei corpi contro la speranza spiritualistica. Non resta che la speranza all’ombra della croce, dal momento che croce vuol dire risurrezione dalla morte. Dio non ci risparmia la morte, perché non ci può evitare la morte, ma ci può risuscitare da morte. Come Cristo non ha potuto evitare la morte, ma è risorto. La morte è la realtà da fronteggiare, non da evitare. Sempre intendo morte nel senso più vasto della parola. La Chiesa che vive oggi nell’incertezza e noi che non sappiamo cosa fare… Questa è morte… Per questo ci ribelliamo, perché vorremmo possedere la verità, presentare al mondo la soluzione dei problemi. È la speranza all’ombra della croce, contro ogni speranza (Rom 4).
Pensate per esempio a quanti gruppi giovanili pieni di entusiasmo (e l’entusiasmo non è un fenomeno deteriore) davanti all’ondata del Concilio: che cosa rimane di quei gruppi? Forse perché proprio speravano senza essere pronti a pagare molto. La speranza di accorciare le distanze, di avere dei risultati tangibili. E il fatto di non volere questi risultati non significa non agire, ma agire senza la pretesa di quei risultati. Si tratta di vivere la speranza nonostante dubbi, difficoltà, angosce ecc…

Int: Un parroco, che parla di provvidenza e di preghiera, come le presenta sulla linea di queste riflessioni?
Risp: È la provvidenza di Dio che risuscita i morti e basta. Non un’altra provvidenza. Non ci sono difficoltà teoriche, ma semmai pratiche. È una provvidenza da non pensare come azione di Dio che risparmia la malattia, come un Dio super-collocatore del lavoro, un super-vigile urbano che misura il traffico in modo perfetto da evitare gli incidenti… Questo Dio non esiste. È un idolo, una maschera: l’unico Dio che esiste è quello della croce; il Dio incapace di salvare Gesù dalla croce, di salvare noi dalla croce, ma capace di risuscitare. La provvidenza è quella del Dio che risuscita dai morti e che non fa amnistia a nessuno della morte. Provvidenza facile quella di Renzo Tramaglino che, varcata l’Adda, dice « là c’è la provvidenza! ». Però anche Renzo ha avuto una speranza all’ombra della croce. Non è stata la storia di due innamorati che vanno fino all’altare tenendosi per mano… C’è un lieto fine, perché anche nella speranza cristiana c’è un lieto fine della resurrezione, ma attraverso la croce.
Int: Richiesta di spiegazioni sulla risurrezione dei corpi.
Risp: La risurrezione dei corpi è in opposizione all’immortalità dell’anima. Quando diciamo « anima » secondo la nostra tradizione, intendiamo la parte spirituale dell’uomo: l’uomo in quanto pensa, decide, sceglie. Questa è l’anima spirituale, intellettiva, volitiva.
Paolo non dice che la speranza nostra è nella salvezza dell’anima: dice « nella risurrezione dei corpi ». I corpi sono non solo la parte materiale dell’uomo, ma tutto l’uomo: l’integralità dell’uomo come persona che decide, sceglie e vuole, ma che si esteriorizza, si oggettivizza nel mondo e nella storia e che si apre anche a Dio. Questo è l’uomo come corpo. Quindi dire la risurrezione dell’uomo vuol dire la salvezza dell’uomo, del mondo, della storia, perché l’uomo è un essere al mondo. È una soluzione estremamente originale questa, in confronto con le utopie, le speranze dei popoli vicini alla Bibbia, presso i quali al massimo si aspettava una salvezza dell’anima. Su questa linea, del resto, si è disegnata tutta una morale ed una ascetica cristiana. Il mondo ed il corpo è come zavorra da gettare a mare. La speranza cristiana nella risurrezione di Gesù è lo scoperchiamento del suo sepolcro: presenta un Dio che vuol salvare questo mondo, questa storia, questo tempo, questo nostro essere come carne ed ossa. Salvare solo l’anima è un salvare solo una parte minima, questo io spirituale. E allora il mondo è la palestra dove le anime devono esercitarsi nella virtù. Visione strumentale del mondo.
E quando le anime sono bene esercitate, lasciano la palestra e volano via nel mondo di Dio. E la palestra? Non serve più e la si getta via. Ma il mondo non è la palestra dell’anima e nemmeno di tutto l’uomo: il mondo è una dimensione dell’uomo, è un corpo diffuso dell’uomo. Quindi la salvezza dell’uomo è anche salvezza del mondo, e la risurrezione dell’uomo è anche la risurrezione del mondo. S. Paolo nella lettera ai Romani dice che l’universo geme in attesa di questa nascita nuova. È importante, perché allora questa speranza diventa lotta durissima a caro prezzo, non solo per la salvezza dell’anima, ma per tutto il mondo, la storia, il tempo, la carnalità che sono da salvare.
Int: Nel vangelo si parla della gioia cristiana. « La mia gioia sia in voi, la vostra gioia sia piena ». Si riferisce solo a questa terra od anche all’aldilà? Ed in quale rapporto si trova la gioia con la croce?
Risp: La gioia non è solo dell’aldilà. È il dono del Cristo risorto ai suoi. San Paolo ripete: « Godete, ve lo ripeto: godete… Io sono ripieno di gioia… » Ma non è la gioia entusiastica, facile. Paolo è ripieno di gioia, ma è in carcere ad Efeso, quando scrive ai Filippesi: « Vi raccomando, siate continuamente nella gioia! » È in carcere. Allora non è che ci sia una gioia da aspettare dall’aldilà: in questa visione non c’è problema di aldilà o di aldiquà. È la gioia del Cristo, non la gioia a buon mercato, come spensieratezza, come chiusura degli occhi sui drammi dell’umanità. È la gioia come possesso pieno di una speranza contro ogni speranza. È la gioia di chi dice : « Va bene, questo sentiero si inerpica, è durissimo, ma alla fine arriverò ». È la gioia del cammino. Paolo è ripieno di speranza nonostante la sofferenza e la croce e la morte. Proprio perché è un cammino verso la risurrezione.
Come il Cristo sulla croce è morto in una fondamentale gioia. San Luca non dice che Gesù sulla croce fosse pieno di gioia. Ma dice: « Signore, affido la mia vita nelle tue mani ». Molto sereno.
Questo discorso giudica una gioia troppo chiassosa e soprattutto un gioia miope: la gioia di chi chiude gli occhi su questa realtà tremenda e drammatica che ci circonda. Quindi cantiamo la gioia, cantiamola pure, ma la gioia all’ombra della croce, nelle difficoltà, nelle lotte, nel sangue, ma nella fiducia.
Int: Intendiamo normalmente una gioia sentimentale, di tipo psicologico, al massimo intellettuale. Allora la gioia cristiana è una gioia che va un po’ al di là…
Risp: Certo. S. Paolo la chiama « il dono dello Spirito ». La gioia cristiana è la tranquillità dell’ultimo metro di acqua in un pozzo profondo. Poi il penultimo è più mosso e su, su, l’acqua diventa sempre più mossa. Ma l’ultimo metro della nostra anima, il più profondo riposa nella calma della fiducia, nella gioia. I primi metri sono pieni di cavalloni. Ecco perché mi preoccupano questi gruppi di giovanissimi che cantano così spensierati questa gioia… Poi sappiamo come vanno a finire queste gioie. Alle prime difficoltà, quella gioia non c’è più… e non ci sono più neppure i gruppi. Perché il gruppo deve costruirsi su questo senso realistico, ludico. Così come il rapporto tra due che si sposano. Ferrarotti dice: « L’incontro di due persone è uno scontro, una lotta a sangue ». Apparentemente sbalorditiva, ma è veramente realistica! Una lotta a sangue, lotta con speranza, con fiducia, di chi non si lascia nonostante tutto.
Int: Questa speranza non deve essere entusiastica, deve cioè riconoscere la presenza di ostacoli; non titanica, in quanto deve rendersi conto che queste difficoltà possono essere anche più grosse dell’uomo, deve essere una speranza alla luce della croce, cioè deve riconoscere anche la potenza di Dio che risuscita, che ci dà una mano. Però la speranza dell’uomo che è conscio delle difficoltà a cui va incontro e che può non superare per se stesso e crede nella potenza di Dio non mi sembra una bambina da tener per mano. Proprio perché carica della potenza del Dio che risuscita, sembra piuttosto una speranza potente e molto forte, se può sostenere uno che ha rinunciato all’entusiasmo e al titanismo ed è cosciente della propria nullità ed inefficienza.
Risp: È certamente una speranza robusta, più che maschia, non facile, ma anche bambina, perché se guardiamo a noi, la speranza che abbiamo è una bambina che ha bisogno di essere tenuta per mano. In sé è robusta, ma bambina perché in noi è sempre precaria, così difficile. Quella titanica è più facile di quella cristiana, quella spiritualistica poi è facilissima; è uno scappare dalla storia, dai drammi. La speranza cristiana è sostenuta dalla fede. I rapporti fra speranza e fede… Non esiste una speranza se non esiste una fede nel Cristo risorto dalla morte, nel Padre che ci ama. San Paolo ci chiede: « Chi ci potrà vincere? La nudità, la spada, la morte? L’amore di Dio è più forte di tutto ». È la fede nella presenza dello Spirito che ha risuscitato Gesù e che risusciterà anche noi. C’è un rapporto fondamentale fra speranza cristiana e fede. La speranza cristiane è una speranza di fede contro la speranza titanica che è una fede in noi stessi. Guillaume Apollinaire parla di una speranza « violenta »… Jean Cayrol: la speranza è bruciante… Di Charles Peguy è l’immagine della bambina… Tagore dice: « Sono uscito nella notte, sotto la pioggia, in cerca dell’amico. Nella notte scura di vento e di pioggia in cerca della speranza… ».
Int: La speranza entusiastica sembra essere una delle forme più condizionanti, pericolose, perché impedisce al cristiano di rimboccarsi le maniche e di immergersi nella realtà. Poi è una speranza discriminante della comunità cristiana di fronte al mondo. Anche oggi assistiamo alla tentazione, di molte comunità di credenti, di rinchiudersi ancora una volta in certezze cristiane, garanzie, speranze, rivolte che impediscono l’immergersi nella realtà, nel confronto con gli altri, nel riconoscersi non più avanti degli altri. Inoltre gli stessi sacramenti percepiti dalla gente come certezze garantite, acquisite, operanti per se stesse. In fondo impediscono che ci si senta salvati da Dio. Ancora una volta questo contribuisce a darci quelle certezze rassicuranti che non dovrebbero esserci. Perché la certezza rassicurante non è acquisibile attraverso dei gesti, anche se sono sacramenti. Il sacramento dovrebbe essere visto come speranza che stimola.
Risp: Sul problema della Chiesa aggiungerò che la Chiesa potrà sperare nel Signore e non in una speranza titanica, quando si sottometterà alla croce. Allora non si appoggerà (come dice Isaia) alla canna fessa dell’Egitto, che significa cadere. Allora si appoggerà al suo Signore, non si appoggerà alle leggi.
La speranza entusiastica che si può chiudere. Ed ecco i piccoli gruppi di amici nei quali regna l’amore, l’amicizia; dove non ci sono drammi, tensioni, conflitti. A questo proposito Kessman, esegeta protestante, dice in una osservazione sul cap. 8 della lettera ai Romani: « Paolo dice – noi gemiamo in attesa della risurrezione e con noi geme la creazione. Vedete la solidarietà della chiesa con il mondo nel gemere ». La chiesa non è la comunità di quelli ai quali Dio risparmia i gemiti, mentre il mondo è lasciato nel gemito; la Chiesa come comunità di quelli che sono nella luce, mentre il mondo resta nelle tenebre; la Chiesa comunità di quelli che sono nella sicurezza mentre il mondo lo è di quelli che brancolano nell’incertezza. La Chiesa è solidale con il mondo nel dubbio, nell’incertezza, nella ricerca, nella speranza all’ombra della croce e se non è il mondo nel senso deteriore della parola è perché spera nonostante tutto. Ecco perché bisogna ricuperare questo senso centrale della croce e non nel senso dolorifico della parola, ma questo è il punto decisivo del fatto cristiano e ciò che veramente dà una carta di identità ad un atteggiamento nostro. Il mistero della croce che è il mistero della morte e risurrezione. Dio incapace di salvare dalla morte, ma capace di salvare i morti. Anche nel credo degli apostoli che Paolo apostolo aveva ricevuto e trasmesso a quelli di Corinto è scritto: « Cristo morì per i nostri peccati e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve a Cefa ed agli altri… ». Tutto il credo cristiano vedetelo qui: quello che poi Paolo, nella prima lettera ai Corinti, chiama « il mistero della croce » e la predicazione della croce oppure Cristo crocifisso. E sulla croce dobbiamo rompere tutte le altre carte di identità…
Int: Si demolisce la speranza titanica, ma l’uomo non è il luogo della manifestazione di Dio?
Risp: La speranza titanica non è l’affermazione dell’uomo. È la speranza di un uomo che si crede titano, cioè alienato, per un complesso di inferiorità o di superiorità, non fa differenza. L’uomo alienato, cioè diverso da se stesso. La speranza titanica è quella dell’uomo che vuol fare a meno di Dio, che crede di avere in se stesso, in modo autosufficiente, le risorse per salvarsi e che quindi crede di poter fare a meno di Dio. L’uomo di oggi fa questo; ed è dentro di noi: l’uomo tecnologico e titanico siamo noi.
La speranza che vi si oppone non è una speranza di un uomo ridotto all’impotenza, all’ignavia, alla pigrizia, al disinteresse. È una speranza operativa nella storia, ma non chiusa nella propria autosufficienza. A questo punto il problema è che tutta la responsabilità della storia è sulle spalle dell’uomo, ma l’uomo è nelle mani di Dio: questo è decisivo. Perché altrimenti l’esito finale sarebbe la morte e non la risurrezione, la chiusura dei sepolcri e non il loro scoperchiamento. Bloch (Ateismo nel cristianesimo) dice: « La grande alienazione che colpisce l’uomo è la morte. Dobbiamo fare di tutto per liberare l’uomo, ma non sappiamo come fare ». Ed è una grande critica contro il comunismo ufficiale (Bloch è comunista eterodosso). « Finché non liberiamo l’uomo dalla morte, resterà l’alienazione fondamentale ». La speranza cristiana all’ombra della croce è la speranza della liberazione dell’uomo dalla morte, non del risparmio dalla croce.
La speranza cristiana è un prodigio, la speranza nel prodigio, nell’impossibile. C’è una rassomiglianza fra la speranza cristiana e quella titanica: l’una e l’altra sperano nell’impossibile, ma il cristiano fidando in Dio, il titano fidando in sé. Ed il fidarsi di Dio non esenta il cristiano dall’operosità, non lo libera dall’assenteismo e dalla pigrizia, lo libera dall’autosufficienza. Ci sarebbe da fare un discorso su come il dono di Dio non annulli l’operosità dell’uomo, ma sta alla radice della sua operosità.
Es. il giocatore di carte che fa la sua partita. Aveva in mano dieci carte e le ha giocate tutte con estrema tensione. Ha giocato la decima carta, come la carta sua ultima ed ha perso la partita. Questo uomo non ha più nessuna carta, la partita è persa irrimediabilmente. Se avesse ancora una carta, forse potrebbe rimediare alla mossa dell’avversario. È l’uomo concreto. E Dio è presente nella partita. Il giocatore senza carte è l’uomo nel sepolcro. Dio non si sostituisce all’uomo nel giocare la partita, come se dicesse: « Lascia fare a me, gioco io per te. Ti faccio vedere come si fa a giocare! ».
Dio dà invece al giocatore altre dieci carte ed il giocatore è responsabilizzato a giocare bene. Le dieci carte gliele ha date Dio: senza di esse l’uomo sarebbe ridotto all’impotenza. Con le dieci carte può giocare ancora, ma le gioca lui con tutta la sua responsabilità. E gioca le dieci carte ed alla fine della partita perde ancora. E Dio gli dà ancora dieci carte e si ritorna daccapo…
Il dono delle carte non esime il giocatore dal giocarle, ma gli rende possibile una nuova giocata, una nuova attività, una nuova responsabilità piena. Però senza Dio le carte per giocare non le avrebbe avute più...

LA SPERANZA NELLE LETTERE APOSTOLICHE (parte I)

http://www.cristomaestro.it/vrt_teologali/speranza/apostoliche/apostoliche_1.html

LA SPERANZA

LA SPERANZA NELLE LETTERE APOSTOLICHE (parte I)

L’insegnamento sul ritorno di Cristo e la restaurazione di tutte le cose ritorna più volte nelle lettere degli Apostoli. La prima generazione dei cristiani, è caratterizzata da un’attesa della parusia a breve termine. E ne abbiamo tante prove nel NT. In uno dei suoi primi discorsi, Pietro dice che Gesù rimarrà in cielo « fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose » (At 3,21). Il suo ritorno comporterà quindi la realizzazione dell’ultimo atto creativo di Dio, che avrà due obiettivi: Egli condurrà la creazione a nuovi e definitivi ordinamenti e l’umanità verso la rinascita della risurrezione corporea. I cristiani del primo secolo pensavano però che tutto ciò dovesse compiersi nel giro di pochi anni. L’Apostolo Paolo dice a chiare lettere, a proposito della risurrezione: « Vi annuncio un mistero: non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati… i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati » (1 Cor 15,51-52). Pensando al ritorno di Cristo e alla risurrezione concomitante, Paolo associa a sé la comunità di Corinto mettendola tra coloro che saranno vivi in quel momento: « i morti risorgeranno, noi saremo trasformati ». Solo alla fine del primo secolo, al tempo in cui Luca scrive il suo vangelo, comincia a farsi strada l’idea che i tempi di Dio non sono i nostri; e mentre la prima generazione concepiva l’opera della Redenzione in due tempi: Morte – Risurrezione e ritorno di Cristo nella gloria, col vangelo di Luca si comincia a capire che i tempi sono tre: Morte – Risurrezione, Missione della Chiesa, ritorno di Cristo nella gloria. Luca, infatti, sente il bisogno di aggiungere al suo vangelo il libro degli Atti, come una sezione integrante del suo servizio alla Parola.La lettera più antica tra quelle apostoliche è la prima ai Tessalonicesi. Essa ci riporta al tema del raduno degli eletti, già discusso nella prospettiva dei Sinottici. In particolare va menzionata la pericope in cui l’Apostolo parla esplicitamente della speranza teologale, che suscita nell’animo del cristiano dei sentimenti del tutto diversi da quelli di chi non ha speranza: « Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come quelli che non hanno speranza » (1 Ts 4,13). La conoscenza del disegno di Dio libera la persona dalle sue afflizioni, specialmente dagli enigmi legati al problema della morte. L’Apostolo dice che il disegno di Dio è quello di radunare intorno a Cristo, nel giorno della sua venuta, coloro che sono morti. E’ evidente che Paolo si mette anche qui dalla parte di coloro che, nel giorno della parusia, saranno ancora vivi: « Prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria » (1 Ts 4,16-17). Il raduno degli eletti è dunque presentato dall’Apostolo nella forma di un rapimento. Questa immagine va accostata a quella di Luca 17,34-35? Si parla infatti di qualcosa che richiama un rapimento o un sollevamento: « in quella notte due si troveranno in un letto: l’uno verrà preso e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà presa e l’altra lasciata ». Potrebbe essere senz’altro. Ciò significherebbe che la terra come pianeta abitabile, nel momento della parusia, avrebbe concluso il suo ciclo e la sua esistenza. Alla luce di questo potremo leggere anche la promessa di cieli nuovi e terra nuova, dopo la dissoluzione di questo cielo e di questa terra, della seconda di Pietro: « Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta » (3,16). Poco più avanti si ha la grande promessa: « Noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova » (v. 13). I risorti abiteranno dunque una creazione che non è quella che noi conosciamo attualmente.Nella prima ai Tessalonicesi, l’Apostolo enuncia anche talune circostanze che caratterizzeranno il giorno del Signore: « Quando si dirà: Pace e sicurezza, allora d’improvviso li colpirà la rovina » (1 Ts 4,3). Il versetto va accostato al discorso escatologico di Gesù, dove uno degli aspetti dell’umanità che sarà destinataria dell’ultima epifania di Cristo è la « superficializzazione ». Gesù paragona, infatti, l’umanità degli ultimi tempi a quella contemporanea a Noè e Lot: mangiavano e bevevano, si maritavano, vendevano e compravano.

Publié dans:virtù teologali |on 14 mars, 2013 |Pas de commentaires »

La speranza nel mondo antico e nell’Antico Testamento

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La speranza nel mondo antico e nell’Antico Testamento

Di Marco Luscia – (2010)

Il mondo antico conobbe la speranza nei termini in cui ora stiamo tracciandone il profilo (vedi articoli precedenti)? Mi sento di dire di no. Per prima cosa vorrei dire qualcosa sul mondo Greco. Esso fu fondamentalmente segnato dalla dimensione del Tragico (nella foto: Eschilo, tragediografo greco)
Con belle parole Salvatore Natoli – filosofo contemporaneo – osserva: “ La tragedia è qualcosa di più del semplice soffrire o della stessa esperienza della morte(…)essa è lo scontro con l’ineluttabile(…)l’essenza del tragico risiede nell’assolutezza del contrasto, essa si istituisce nella tensione fra opposte necessità… il tragico non è, però, relativo a eventi più o meno dolorosi, ma costituisce una dimensione ontologica”.
La vita dell’uomo antico conobbe certamente il piacere, la frenesia, la bellezza, l’entusiasmo, ma fu sempre sotto la spada pendente del fato, di un destino che annienta, contro il quale, l’uomo non può nulla. Egli sapeva che la sua vita è decisa dal destino, la morte era inscritta nella vicenda di ciascuno già al momento della nascita. L’elemento che maggiormente caratterizza la religiosità Greca è comunque la valorizzazione del presente.
Come attesta il grande storico delle religioni Mircea Eliade: “ la gioia di vivere scoperta dai greci non è un godimento di tipo profano, rivela la beatitudine di esistere, di partecipare alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo. Come tanti altri, prima e dopo di loro, i Greci hanno appreso che il mezzo più sicuro di sfuggire al tempo è quello di sfruttare fino in fondo la ricchezza dell’attimo fuggente.”
Il nostro tempo, anche in questo, sembra riproporre un ottimismo vitale legato alla possibilità della longevità e della pienezza di ogni attimo secondo la logica del carpe diem. In questa prospettiva si inscrive l’emergere prepotente di un vero e proprio culto del presente e dell’autoaffermazione a scapito dell’altro. L’individualismo contemporaneo germina e prolifera infatti dentro la dimensione competitiva del nostro tempo. Gli uomini, la cui unica speranza, il cui unico ottimismo, si situa nella riuscita in tempi brevi dei propri progetti, necessariamente vedranno nel prossimo non un fratello, ma un potenziale avversario.
Non a caso i movimenti più aggressivi e “progressisti” che calcano la scena della politica contemporanea, insistono per affermare sempre più i diritti individuali a scapito della dimensione comunitaria. Ma torniamo alla religione greca: per i contemporanei di Omero, la morte consisteva in una forma di esistenza umbratile, larvale, priva di consistenza. Lo spirito di Achille evocato da Ulisse dichiarerà preferibile una vita da schiavo sulla terra piuttosto che una da sovrano nel regno dei morti. E fu così anche per l’uomo romano, che proprio in ragione di un bisogno insopprimibile d’eterno e perciò di senso, si lasciò sedurre dal fascino del cristianesimo. Perché l’uomo antico, come abbiamo visto appare segnato dalla sconfitta e la vita per quanto lunga muove verso un destino d’oblio e di dissoluzione. E poco consola l’idea che da tale contrasto, da tale distruzione, germinerà nuova vita; o che attraverso le virtù di una vita secondo natura-come insegnava lo stoicismo-si potesse pacificare il dissidio che era in ciascuno. Sul fondo di queste concezioni è presente un’idea pessimistica dell’esistenza, vinta e in qualche modo occultata dalla forte carica comunitaria e religiosa, densa di simbolismi e riti che rendeva il quotidiano accettabile e dotato di senso.
Questa dimensione è -tra l’altro- esattamente ciò che manca nel modo più assoluto alla civiltà occidentale secolarizzata. Ma il mondo greco ad un certo punto incontrò un’altra tradizione L’Ebraico-Cristiana. Osserva ancora George Weigel, nel suo bel libro “La cattedrale e il Cubo: “Nel mondo classico, così come nel mondo pagano del Mediterraneo orientale abitato da ebrei, come ricordato nella bibbia ebraica, gli dei o il Fato giocavano con uomini e donne, spesso con conseguenze letali; si ricordi per esempio l’interferenza degli dei nelle vicende umane dell’’Iliade e dell’ Odissea(…)L’apparizione nella storia di un Dio unico chè non era né un tiranno ostinato né un’astrazione lontana, fu percepita come una grande liberazione(…)La storia non era infatti un palcoscenico in cui gli esseri umani erano manovrati dagli dei e dalle divinità come burattini; la storia era piuttosto un’arena di responsabilità e di propositi.”
E’ a questo livello che può emergere la speranza, cioè nel momento in cui l’uomo può sentirsi protagonista di un destino, seppur legandosi liberamente in un rapporto con Dio che, come vedremo, diviene sorgente di libertà vera e di fondata speranza. E’ a partire da questa idea di vita e di storia che prenderà corpo dentro la teologia cristiana il coraggio di pensare l’intera vicenda umana come espressione di un piano divino carico di attenzione verso l’uomo e perciò portatore di una speranza che vince ogni timore.

La speranza nell’antico testamento.
A differenza degli altri popoli il popolo di Israele ha preso forma ed ha vissuto con una costante apertura verso il futuro. Esso ha sperimentato la speranza come elemento costitutivo della propria storia. Rispetto a tutti gli altri popoli il popolo ebraico ha concepito il tempo non più secondo una prospettiva circolare, bensì lineare. Il tempo per il pio israelita ha avuto un inizio e muove verso una fine, che ne realizza il senso e la pienezza. Eppure anche la storia del popolo ebraico mosse da un singolo interpellato, chiamato ad una nuova vita da Dio stesso. La vicenda di Abramo, in tal senso, fonda il cammino di Israele. Dio conosce, promette, provoca una speranza. Essa, per il padre della fede ebraica è individuata nella possibilità di una discendenza. In tal modo la vita del singolo appare riscattata dal pericolo dell’oblio. Abramo infatti non conosce e perciò non crede nella vita eterna.
Egli però crede nella promessa di Dio a tal punto da essere disposto a sacrificare la cosa che più ama, il figlio Isacco. Abramo credette contro ogni speranza, nella disperazione più nera; nel silenzio stesso di Dio egli ebbe il coraggio di dire sì, di rispondere ancora alla chiamata. Perciò la sua speranza non fu tradita. Emerge in tal modo con chiarezza un primo vincolo, quello che lega strettamente speranza e fede. La speranza di Abramo assume nella tradizione ebraica il volto di un’ attesa storica, di un riscatto del mondo dalla malasorte, grazie all’intervento di Dio, un Dio che non è più numen locale ma personale. Vorrei soffermarmi con una certa attenzione sull’episodio che forse più di ogni altro rivela la speranza del credente Ebreo: la storia di Isacco. Tutti sappiamo come Abramo visse e sperò. Egli, udita la voce di un Dio personale, lasciò le certezze del suo mondo, della sua città, dei rassicuranti riti offerti alle divinità caldee e si mise in viaggio. La speranza di avere un figlio si realizzò per lui quando sua moglie Sara era oramai vecchia.
Quel figlio crebbe e quando fu forte, un ragazzo nel cui sguardo Abramo poteva ora riconoscere se stesso, Dio gli comandò di salire sul monte Moira, per offrire un sacrificio. Mentre saliva sul monte certamente Isacco fu consapevole che mancava l’oggetto del sacrificio; si inquietò, non comprese, forse ebbe paura, ma si fidò di suo padre. E quando lo interpellò con la domanda che oramai in lui urge incessantemente, ricevette dal padre questa risposta: “ Dio provvederà…”( Gn.22,8). L’ansia, nel cuore di Isacco crebbe mentre lo spettro della disperazione si faceva strada nella granitica fede di suo padre. Giunti sul monte, con gesti lenti ed esperti prepararono l’altare, insieme; poi, credo, Isacco si dispose sul’ara e porse le mani e le caviglie al padre perché le legasse. Fra i due non ci furono parole, non credo, tutto accadde come si stesse svolgendo un tragico copione, come se l’antico e pagano Fato fosse riapparso a riscuotere il conto, e la colpa accumulata da quel temerario vecchio e dal suo sciagurato figlio. Ma quando il coltello si alzò e tutto sembrò perduto -il tempo, la promessa, l’attesa, il senso della nascita, della vita- Abramo ed Isacco simultaneamente videro un montone impigliato con le corna nella sterpaglia.
Osserva il nostro Papa BenedettoXVI: “Tutto il culto proviene da questo sguardo di Isacco, da ciò che egli ha visto in quel punto(…) In questo attimo è diventato evidente che la storia universale non è una tragedia, non è un irrisolvibile dramma di potenze in lotta tra loro, ma divina commedia: colui che aveva gettato uno sguardo sulla realtà ultima -la morte- poteva ridere.”
Se ci pensiamo, Isacco conosce sino in fondo il patire; ma in questo caso, il dolore ed ogni sofferenza, a ben vedere, non coincidono con l’attimo della morte, bensì con tutto ciò che precede questo istante. Isacco conobbe tutta l’angoscia e il non senso che precede la morte; in più, egli conobbe l’apparente abbandono di Dio. Egli, salendo al monte, ebbe modo di maturare la disperazione, di sentirla crescere dentro. Ma nell’attimo del morire per mano di chi gli aveva dato la vita, egli vide il montone e tutta la sua sofferenza assunse un valore: Dio provvede. Lasciamo, per ora, questa straordinaria storia per riprenderla fra un po’ ed assaporarne così il gusto pieno. Per fare questo dovremo però attendere la definitiva rivelazione, quella di Cristo. Torniamo, per ora alla speranza di Israele. Attraverso la storia di Abramo, dunque, si affaccia nel cuore dell’ebraismo la speranza; ma essa si precisa ulteriormente con la vicenda storica di Mosè. Anche lui fu provato, ma nonostante le molteplici prove egli si erse davanti al suo popolo come il liberatore. Con lui nella coscienza di Israele maturò l’idea di un Dio liberatore, di un Dio vincitore, di un Dio legislatore. Mosè sperò: quando mosso da pietà nei confronti del proprio popolo oppresso dal faraone cercò di liberarlo. Ma egli fallì, perché non comprese che solo affidandosi a Dio lo sforzo umano non risulta vano. Ci volle l’esperienza del deserto e l’abbandono della propria presunzione e la spogliazione di sé, perché, dopo l’epifania del roveto ardente, Mosè diventasse il condottiero, il “liberatore”.
Ma Mosè non entrò nella terra promessa; egli però insegnò al suo popolo come si può vedere Dio: “Seguire Dio, dovunque Egli ci porta, proprio questo significa vedere Dio”( Gregorio di Nissa.). L’esperienza di Abramo si ripropone dunque con Mosè; il seguire Dio, con lui però si connota di una nuova dimensione: quella morale. Questo significa che l’agire per conseguire la pienezza del bene cui ciascuno aspira, non può fare a meno del dono della legge di Dio. In tal senso la legge morale espressa nelle tavole che Dio consegna a Mosè, appare come fonte unica di liberazione, come la sola e vera via che affranchi l’uomo da ogni presunzione di autosufficienza. La legge morale appare dunque come l’insopprimibile base sulla quale scommettere la vita dentro una prospettiva di fondata speranza.
Ma la storia di Israele è storia di tradimenti. Ben presto, il regno di Dio assunse una valenza politica, troppo umana, poco attenta alla reale volontà del creatore, inoltre il primato della morale finì per moltiplicare la dimensione precettistica che pesò sempre più sulle spalle dei fedeli. Contro questo modo di concepire l’Alleanza con Dio, un modo che sembra volere possedere il futuro attraverso una costruzione umana, reagì la critica profetica. Il profetismo biblico sviluppò l’attesa messianica su una linea di profonda interiorizzazione dei valori. In tal senso l’uomo appare come la causa del male e questo per la sua incapacità di corrispondere al volere di Dio, al suo appello. L’esilio è letto dai profeti come il castigo attraverso il quale Dio converte, purifica, rende sapiente il popolo, che attende un’azione futura di Dio capace di liberarlo dai propri idoli.
Con la letteratura del tardo giudaismo e con la letteratura Apocalittica emergono due nuovi elementi. Si intravvede, come radice della speranza, in primis, la possibilità della resurrezione, ovvero di un Dio che vince la morte, ripianando le ingiustizie e dando a ciascuno la propria mercede. Il libro dei Maccabei si caratterizza in particolare per questo annuncio, in un conteso globale in cui molti movimenti messianici avevano conosciuto l’onta della disfatta. Secondariamente emerge la convinzione che l’intera vicenda umana riveli progressivamente il piano salvifico di Dio, anzi che la storia sia proprio una storia di salvezza e perciò meritevole di speranza totale. E’ questo il senso della letteratura apocalittica ossia della rivelazione di ciò che era nascosto.

La speranza: il futuro che riempie il presente

dal sito:

http://www.teclise.it/parola_frame.htm

La speranza: il futuro che riempie il presente

di  tecle vetrali

Se la speranza è l’ultima dea a lasciarci, verrebbe da pensare che la speranza sia la virtù dei disperati. Sembra un paradosso e una contraddizione di termini, ma alle volte siamo portati a parlare di speranza solo quando il presente è talmente negativo da indurci a legare le nostre attese esclusivamente al futuro, e quindi a sfuggire dal presente svuotandolo il presente di ogni fondamento e di ogni ruolo nella ricerca di una legittima speranza. In questa maniera la speranza ci proietterebbe nel futuro per la negatività del presente. Nessun legame, quindi, fra presente e futuro, anzi, solo l’attesa di una radicale discontinuità.
Nessuno nega che in alcuni casi questo meccanismo abbia un fondamento. Ma altro è il discorso quando parliamo della speranza cristiana. Ci sono stati certamente nella tradizione ebraico-cristiana dei filoni che sganciavano la speranza dalla storia per legarla esclusivamente all’escatologia futura, come è attestato dalla testimonianza della letteratura apocalittica, ma il messaggio biblico nella sua unità e integrità è molto più bilanciato: non ci può essere vera speranza in un futuro che sia sganciato dalla storia attuale. La speranza ci spinge verso il futuro, ma ha il suo fondamento nell’esperienza attuale. Possiamo dire che la speranza fa sì che il futuro riempia e trasformi il presente.
Se diamo uno sguardo alla storia religiosa del popolo di Dio la possiamo interpretare come una storia di speranza, proprio per il posto che tiene il futuro in questa storia. Di fatto, è una storia di promesse che si realizzeranno, partendo dal paradiso terrestre dopo il peccato (Gn 3,16), passando per la storia di Abramo fino al compimento delle promesse in Gesù Cristo (cf. At 13,32s; 2 Cor 1,20). Ma anche noi viviamo di promesse e siamo lanciati verso il futuro, fino a quando ci sarà donata definitivamente quella vita eterna che ci permetterà di essere simili a Dio (1Gv 2,25; 3,2).

1. La fiducia nella promessa: la storia indirizzata a Cristo

La bibbia ci mostra chiaramente che sperare non significa attendere qualche cosa di imprevedibile e puramente possibile. Sperare vuol dire avere già nel presente un serio fondamento che ci fa guardare al futuro con una fiducia che significa certezza, e questo fondamento sono le promesse di Dio. Sperare, quindi, significa prendere sul serio la promessa e la parola di Dio. La speranza è come iniettata nella storia fin dalle origini dell’umanità, quando il peccato ha allontanato Adamo ed Eva dal paradiso terrestre: Dio promette che la stirpe della donna schiaccerà il capo alla stirpe del serpente (Gn 3,15). Dopo il castigo del diluvio, Dio, attraverso un’alleanza, promette che non distruggerà più la discendenza di Noè né la terra con gli esseri viventi (Gn 8,15-9,17).
Tutta la storia di Abramo è una storia della fiducia nelle promesse di Dio (Gn 12,1s). Egli non dubita della promessa della discendenza anche quando riceve l’ordine di sacrificare l’unico figlio (Gn 22).
Missione dei profeti è suscitare la speranza nei momenti in cui la situazione sembra precludere ogni via per il futuro. Nel momento del castigo i profeti annunciano “un futuro di speranza” (cf. Ger 29,11; 31,17). Essi mostrano come la parola e la promessa di Dio sono più forti di ogni potenza umana. Basti leggere le grandi sezioni profetiche di Ger 30-33; Ez 34-48; Is 40-55.
Ma nel castigo e nella sofferenza la speranza si purifica. Prima di tutto viene riconosciuto e proclamato il motivo e il fondamento della speranza: non è la riconquista delle proprie forze e possibilità di rivalsa, ma solo la fedeltà e la misericordia del Signore (cf. Ger 14,8; 17,13s).
La lunga esperienza delle proprie infedeltà e dei successivi castighi da parte di Dio induce anche a una nuova lettura e comprensione della storia d’Israele. Se il popolo ripone la speranza della benedizione di Dio nella propria fedeltà, il futuro rimane chiuso, perché l’esperienza insegna che per sua natura il popolo è debole e infedele. Allora ci si accorge che Dio ha fatto le sue promesse prima di dare una legge. Infatti, le promesse sono state fatte ad Abramo e a Noè, mentre la legge è venuta dopo, attraverso Mosè. Ci si accorge, allora, che la salvezza è un puro dono gratuito di Dio e che il motivo della speranza è solo l’amore e la misericordia di Dio e la sua fedeltà alle proprie promesse. Così la speranza è rinforzata.[1]
Ma è anche l’oggetto della speranza che viene purificato attraverso la predicazione profetica. L’attesa non è più solo legata alla terra o ai beni materiali, ma il popolo aspira alla conoscenza di Dio (cf. Is 11,9; Ab 2,14). Ciò avverrà non attraverso un approfondimento teorico della nozione di Dio, ma attraverso il rinnovamento dei cuori (Ger 31,33ss; Ez 36,25ss). Anche le nazioni si convertiranno (Is 2,3; Ger 3,17). La speranza futura è verso un culto perfetto (Ez 40,48) al quale parteciperanno tutti i popoli (Is 56,8; Zac 14,16s). Quindi, Dio diventa la speranza d’Israele e dei popoli (cf. Is 60,19s; 63,19), 51,5).

2. La speranza compiuta in Gesù Cristo

La risposta alla speranza di Israele e dell’umanità e il compimento della promessa di Dio è Gesù, nel mistero della sua persona. Lo afferma esplicitamente S. Pietro  agli inizi della predicazione apostolica: “Noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù” (At 13,32s). La risurrezione è il compimento di tutte le promesse di Dio al suo popolo (cf. Ga 3,16-22; 2 Cor 1,19s; Lc 24,25-27.44.47); ma contemporaneamente è il lieto annuncio per noi e il fondamento della nostra speranza, perché Gesù non è risorto solo per se stesso, ma come “primogenito di molti fratelli” e “spirito che dà la vita” (1 Cor 15,20-57; Ro 8,29; Col 1,18; At 26,23).
La risurrezione di Gesù è speranza perché lancia la nostra vita verso il futuro, cioè, verso un compimento esaltante. Possiamo dire che Gesù ha inaugurato l’inizio di quel compimento che sarà veramente “compiuto” con il suo ritorno alla fine della storia (cf. At 1,11; Eb 9,28; 10,23). La risurrezione di Gesù è l’annuncio della pienezza della nostra vita che supererà la morte, perché noi aspettiamo la redenzione del nostro corpo (Ro 8,23)  che sarà trasformato (1 Cor 15,51). Per questo, non credere alla risurrezione del nostro corpo significa vivere senza speranza (1 Tes 4,13; 1 Cor 15,19).  La speranza sa legare la nostra sorte futura alla risurrezione di Gesù (1 Tes 4,14).
Ma la speranza non è solo paziente attesa di ciò che accadrà: essa attinge dal futuro la forza che trasforma la vita presente, per cui il cristiano vive già la risurrezione futura. Un battezzato è già risuscitato (Ro 6,1-7; Col 3,1) e la gloria futura brilla già nel suo volto (2Cor  3,18-4,6).
Tutto ciò è reso possibile attraverso il dono dello Spirito che ci è dato come “caparra”, cioè come realtà anticipata (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14).
Un rischio che noi corriamo è di ridurre la speranza a una nostra esperienza interna spirituale, quasi considerandola un semplice atteggiamento psicologico. S. Paolo, invece, ci offre una visione grandiosa degli effetti e della ripercussione che ha la Risurrezione di Gesù su tutta la creazione. Il capitolo 8 della lettera ai Romani può essere definito il vangelo della speranza universale. Infatti non è solo l’uomo ma tutta la creazione ad essere coinvolta nell’attesa e nella tensione verso il compimento (cf. Ro 8,19-23): l’universo intero partecipa alla redenzione dell’uomo, come frutto della redenzione di Cristo[2]. Riallacciandosi alla tradizione apocalittica giudaica sul coinvolgimento della terra nel giudizio di Dio, Paolo vede l’uomo e il creato indissolubilmente legati nella redenzione e nella nuova creazione, basata sulla risurrezione di Cristo[3]: “La stessa intera creazione anela, in ansiosa attesa, alla manifestazione gloriosa dei figli di Dio; quella stessa creazione che è stata sottomessa alla vanità non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottomessa, sostenuta tuttavia dalla speranza che anch’essa, la creazione, verrà affrancata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, infatti, che tutta la creazione fino al momento presente geme e soffre i dolori del parto. E non essa soltanto: anche noi, che già possediamo le primizie dello Spirito, noi pure gemiamo dentro di noi, anelando alla redenzione del nostro corpo”.
Questo anelito è percepibile solo da chi vede nella creazione l’opera del creatore e contemporaneamente la maledizione a cui è sottomessa a causa della colpa di Adamo (cf. Gn 3,16-19): “responsabilità e rispetto nei confronti della natura nascono dalla consapevolezza della fede che Dio stesso è presente nella creazione come suo creatore e che quindi essa pure ‘geme’ e ‘soffre’ per la contraddizione fra la sua situazione attuale e il fine che Dio le ha stabilito, come essa nutre l’attesa, anzi la speranza, che Dio a suo tempo toglierà questa contraddizione”[4].
Paolo si collega a tutta quella tradizione biblica che, nella fede nell’unico creatore, considera la sorte dell’uomo e quella della creazione strettamente legate. Il settimo giorno della creazione, che è quello di Dio, dà significato ed è garanzia di questo legame. Ma con il peccato dell’uomo, al compiacimento e alla benedizione di Dio subentra la maledizione e con essa la contraddizione (cf. Gn 3,16-19). La riconciliazione e la benedizione ridonata da Dio all’uomo dopo il diluvio è accompagnata dalla benedizione offerta anche alla creazione: “io non maledirò più la terra a causa dell’uomo” (Gn  8,21s); la stessa alleanza viene offerta da Dio all’uomo e alla creazione: “Questo è il segno dell’alleanza che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi … Io pongo il mio arco nelle nubi, ed esso sarà un segno di alleanza fra me e la terra” (Gn 9,9-13).
Creato a immagine di Dio, cioè in intima relazione con lui[5], l’uomo non viene costituito despota del mondo e degli animali. L’umanità viene benedetta perché, una volta cresciuta, possa diventare molti popoli che si espandono su tutta la terra, occupando ciascuno il proprio territorio e prendendo possesso dei territori precedentemente occupati dagli animali[6]. La sorte dell’uomo trascina con sé la sorte della creazione e quindi la speranza dell’uomo è speranza di tutta la creazione. La speranza cristiana, quindi, fa vedere con ottimismo il futuro del mondo “l’universo non è destinato ad essere annichilito ma trasformato, ad essere glorificato anch’esso a suo modo, come il corpo umano”[7]. Così, la speranza diventa impegno cristiano nel portare a compimento il perfezionamento del mondo attraverso la forza positiva infusa da Cristo risorto nel mondo e nella storia degli uomini.
Ciò fa emergere un’altra evidenza e, cioè, che la speranza cristiana è principio di unità fra gli uomini e con il creato perché nella risurrezione di Cristo è racchiuso il futuro di tutti gli uomini in stretta unità con il mondo rinnovato.
Ma si deve trattare di speranza vera, cioè basata su un presente fermentato dai germi di vita nuova che emanano dalla risurrezione di Gesù e che non si lascia scuotere da nessuna situazione  o calcolo umano: una speranza come quella di Abramo che “credette sperando contro ogni speranza (umana)” (Ro 4,18). Solo la fede in Gesù risorto può generare speranza e riempire il presente di un futuro di gloria.
Un’altra caratteristica della speranza emerge con evidenza: essa è fondata e irrefutabile solo perché non poggia su prestazioni umane ma sull’amore e sulla gratuita iniziativa di Dio (cf. 1 Cor 4,4; Ro 3,27)

3. La speranza nella storia

La visione appena enucleata è certamente affascinante, ma se guardiamo al mondo concreto nel quale viviamo e alla nostra stessa esperienza quotidiana ci ritorna sempre la domanda: certamente la speranza ci rimanda a un futuro nel quale si compirà il piano di Dio, ma possiamo trovare motivi di speranza anche nella nostra situazione presente e nella storia in cui siamo immersi?
Già la chiesa primitiva canta con due inni l’opera di Cristo risorto che con la sua risurrezione ha inaugurato un mondo nuovo che unifica tutta l’umanità con la sua storia e tutte le cose che sono sul cielo e sulla terra (cf. Col 1,15-20; Ef 1,10.20-23). Possiamo dire che la nuova forza inserita da Cristo è invisibile a chi non la sa percepire attraverso la fede, ma essa è realmente presente e costituisce l’anima della storia.
Questo messaggio è presente in modo particolare nel libro dell’Apocalisse. Nell’immaginario popolare l’Apocalisse è il libro del terrore e della paura. In realtà, è il libro che contiene il messaggio più forte ed elevato di speranza. Esso offre fondati motivi di speranza proprio in una situazione che sembra ormai definitivamente soggetta alle forze del male.
Il messaggio di speranza è trasmesso attraverso immagini scultoree destinate a rimanere impresse nell’animo del lettore. Prima di tutto l’immagine dei quattro cavalli che compaiono all’apertura dei primi quattro sigilli del libro che è in mano all’agnello (Ap 6,1-8).
All’apertura dei primi quattro sigilli entrano in scena quattro cavalli che percorrono la terra: sono le forze che agiscono nella storia. L’impressione prevalente della scena può sembrare terrificante, sia per i colori dei tre ultimi cavalli; sia per la descrizione dell’opera svolta rispettivamente dai tre cavalieri. Il cavallo rosso e il suo cavaliere sono segno di violenza, guerra, odio, omicidio (Ap 6,4); il cavallo nero rappresenta l’arbitrio e l’ingiustizia (Ap 6,5-6); il cavallo verde e il suo cavaliere seminano morte, fame e malattie (Ap 6,8). Tutte queste immagini compongono un quadro spaventoso della storia e della realtà sociale: « fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra » (Ap 6,8). Il loro influsso sarà effettivo ed evidente, come apparirà nella successiva descrizione degli avvenimenti.
Questa è un’immagine reale della storia, però vista solo dall’esterno. Invece, il lettore accorto e sensibile, che nutre la sua fede nel Cristo risorto con l’ascolto della parola di Dio, sa guardare all’interno della storia, e nota la presenza anche di un quarto cavallo, che è nominato per primo, al quale non è attribuita nessuna azione particolare, ma che è proclamato vincitore (Ap 6,2). L’insieme della descrizione, il colore bianco, la vittoria già conseguita e una vittoria definitiva alla quale è destinato, ci fanno vedere in questo cavaliere la presenza positiva del Cristo risorto. Con la sua morte e risurrezione Gesù ha inserito nella storia quelle energie positive che risulteranno vincenti alla verifica finale.
Tutti i mali raffigurati dai tre cavalli dai colori negativi ricompariranno, legati a quelle realtà della società umana che hanno ricevuto dal drago, cioè dal diavolo, il loro potere. Nel drago, nelle due bestie suoi emissari (cf. Ap 13-14) e nelle relative zone di influenza e di potere, sotto altre immagini ricompaiono la guerra e la violenza, l’odio e l’omicidio, l’arbitrio e l’ingiustizia, la morte, la fame e la malattia. Il tutto è concentrato in Babilonia, la grande prostituta, la città mondana e atea, edonista e consumistica, sorretta da uno stato assolutista, ateo e blasfemo (cf. Ap 17-18). Essa domina su popoli, folle, genti e lingue (Ap 17,15.18), autosufficiente (Ap 18,7) e immersa nel lusso (18,11-13); è la città omicida, che non può sopportare la presenza di una testimonianza del mondo di Dio, e perciò ebbra del sangue dei testimoni di Gesù (Ap 17,6). Si tratta sempre dei tre cavalli che alla fine si dimostreranno perdenti.
Infatti, i ruoli cambiano con la ricomparsa del cavallo bianco e il confronto finale in Ap 19,11-21. Egli ricompare accompagnato da una schiera di altri cavalieri vincitori, vestiti di lino bianco: sono gli uomini riscattati dalla terra, che sono rimasti vergini, cioè integri e incontaminati dalla menzogna (cf. Ap 14,1-5), « sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’agnello » (Ap 7,14) E’ proprio la presenza di questo cavaliere, impercettibile dall’esterno, che costituisce l’anima e il senso della storia. Anche se non appare superficialmente, ma proprio perché interna alla storia, la forza redentrice e liberatrice di Cristo risorto raggiunge la sua pienezza con il trionfo finale di tutta la schiera che è al seguito di Cristo. Alla distruzione della città pagana e corrotta, la grande prostituta, è contrapposto il trionfo della Gerusalemme celeste, la città sposa. Il vero senso della storia, quindi, va visto dalla sua conclusione che rende palese ciò che prima era nascosto all’interno. Ma tale visione sfugge a chi non sa cogliere la presenza di Cristo risorto nella realtà di ogni giorno. L’agnello di Ap 5, poi cavallo vincente, rimane l’anima della storia. E’ questo il fondamento della speranza cristiana.
Ma anche nella sua esperienza personale presente il cristiano è radicato nella speranza, perché egli ha già ottenuto la vittoria sul male. Infatti, egli è già un risuscitato. Per la sua adesione a Cristo il fedele è già un vincitore, perché partecipa alla vittoria di Cristo (Ap 3,21; cf. 5,5s). Il fondamento e l’arma della sua vittoria sono il sangue dell’agnello e la parola della testimonianza (Ap 12,11). Anche se l’anticristo ha il potere di sopraffare  e può vantare un’effimera vittoria (Ap 13,7), il vero trionfatore è sempre colui che rimane fedele a Cristo (Ap 15,2), poiché, come per Cristo, anche per lui la morte è vittoria, in quanto la forza della risurrezione di Cristo opera già in lui. Egli, infatti, è inserito nella vita e dignità di Cristo. L’attento lettore dell’Apocalisse, quindi, è in grado di vedere i vincitori non nei potenti o prepotenti, ma nei fedeli, nei credenti, nei martiri (cf. Ap 2,7.11.17.26; 3,5.12.21; 12,11; 15,2; 21,7)[8].
Nessuna meraviglia, quindi, se il cristiano, già vincitore e associato a Cristo, è considerato un risuscitato: egli vive la prima risurrezione (Ap 20,4-6). Siamo così introdotti nel problema dell’interpretazione del regno millenario[9]. Data la molteplicità dei riferimenti, non meraviglia la varietà e diversità di interpretazioni di questo periodo[10]. Il contesto generale e l’insieme dei motivi presenti in Ap 20,4-6 sembrano indirizzarci a leggere il periodo dei mille anni in una prospettiva non cronologica ma qualitativa: è la situazione di coloro che si sono aggregati alla vita del Cristo risorto e con lui concorrono all’attuazione del regno di Dio; sono inclusi i credenti e soprattutto i martiri, accomunati dalla loro vittoria su satana[11]. Letto alla luce di Dan 7 che sta sul suo sfondo, Ap 20,4-6 segna come una rivalsa dei martiri nei confronti della bestia; il regno viene tolto al mostro e consegnato ad essi. Solo chi si è contrapposto alla bestia avrà la vittoria e la vita. E’ la risposta alla richiesta di giustizia da parte dei martiri in Ap 6,10[12].
Il cristiano, quindi, con il battesimo è un risuscitato, perché vive già la nuova vita pasquale, cioè la vita eterna, che è più forte della morte fisica e quindi egli non ha motivo di temere la morte seconda, cioè la condanna eterna (Ap 2,11; 20,6.14).
Con la vita pasquale, frutto della prima risurrezione, il cristiano ha acquisito una dignità regale e sacerdotale (Ap 1,6; 5,10) e, vivendo il regno di Dio, domina sovrano sugli eventi del mondo e regna nella storia. Pur soggetto alle prove e alle sofferenze (Ap 1,9), egli partecipa alla vita di Cristo, morto e risorto, che tiene in mano le sorti del mondo (Ap 5,6-7). E’ il periodo dei mille anni, nel quale la comunità cristiana è chiamata a svolgere la sua missione nella storia.
Anche all’interno della storia, quindi, il cristiano non è un perdente o un rassegnato, ma un vincitore: egli ha già vinto il male nelle sue radici più profonde e nelle sue espressioni esistenziali, e già vive quella presenza salvifica che gli fa pregustare la vittoria finale[13].
Letto in questa prospettiva non si può negare che il libro dell’Apocalisse sia un forte messaggio di speranza. L’esperienza presente del cristiano, che vive già la forza trasformatrice della risurrezione di Cristo, è il più solido fondamento della speranza per il futuro.

4. Il futuro, compimento della realtà presente: il messaggio di Giovanni

Questa visione sul rapporto fra la storia e gli ultimi tempi propria dell’Apocalisse risulta maggiormente comprensibile se considerata all’interno degli scritti giovannei. E’ nota la concezione di Giovanni sui tempi ultimi che, in termini ormai acquisiti, viene definita « escatologia realizzata ». Anche se qualche autore afferma che « è chiaro che l’Apocalisse e il quarto Vangelo rappresentano opposte opzioni escatologiche »[14], dagli elementi che sono stati rilevati sopra non sembra difficile ravvisare un rapporto fra il pensiero dei vari scritti giovannei riguardo a questo tema. Anzi, con alcuni autori[15], forse si può parlare di uno sviluppo che passa dal vangelo, alla prima lettera fino all’Apocalisse.

La concezione del vangelo di Giovanni sui tempi ultimi è espressa anche mediante il concetto dell’ora. Significativi sono soprattutto due detti di Gesù: « verrà l’ora, ed è adesso, quando i veri adoratori adoreranno il Padre nello Spirito e nella Verità » (Gv 4,23). Il tempo della salvezza è identificato con la presenza di Gesù, il messia che la samaritana attendeva per il futuro. Ma soprattutto in Gv 5,25-28 Gesù esprime la pregnanza di futuro che è racchiusa nella sua presenza: « verrà l’ora, ed è adesso, quando i morti udranno la voce del figlio di Dio, e quelli che l’avranno udita vivranno… verrà l’ora nella quale coloro che saranno nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno… ». Per Giovanni c’è un presente nel quale è già racchiuso il futuro, poiché il momento decisivo è l’impatto di fede con Gesù rivelatore.
Nella prima lettera di Giovanni, invece, ferma restando l’affermazione esplicita di una salvezza già realizzata, la tensione verso un compimento futuro è più accentuata: « carissimi, già adesso noi siamo figli di Dio, anche se non è stato ancora rivelato che cosa noi saremo. Sappiamo che quando si sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è » ( 1 Gv 3,2). Questa coscienza viene definita una speranza purificatrice (1 Gv 3,3), la quale proietta il presente verso un compimento futuro che è atteso. Questa attesa è rafforzata dalla presa di coscienza degli anticristi che già sono apparsi e che, quindi, preannunciano la parusia: « Figlioli, questa è l’ultima ora, e come avete udito che viene l’anticristo, di fatto ora sono sorti molti anticristi. Da questo conosciamo che è l’ultima ora » (1Gv 2,18). L’autore della lettera, di fronte agli anticristi, si sente collocato negli ultimi tempi, ma con una salvezza che può essere attesa, nella sua piena rivelazione, solo dal futuro.
In questo filone si colloca il messaggio dell’Apocalisse, con tutti gli elementi che sono già stati rilevati. C’è un presente salvifico, una venuta di Gesù nella storia, ma tutto è in cammino verso la Gerusalemme celeste, dove la storia trova il suo compimento. Lo scontro fra il bene e il male che si verifica nella storia fa già intravvedere la venuta futura e vittoriosa di Cristo. Come in 1 Gv 2,18, e già in 2 Tess 2,1-12, la presenza dell’anticristo[16], principio di ogni iniquità, ci indirizza verso l’apparizione finale del Signore. Ma l’attesa dell’imminente venuta di Cristo non è solo il frutto di una situazione di difficoltà in cui versa la chiesa: essa appartiene alla stessa identità cristiana, in quanto sottolinea l’aspetto del compimento che la tensione verso il ritorno finale di Cristo, proiettando l’esistenza presente verso quella salvezza che si identifica con la persona stessa di Gesù[17].
Siamo nel cuore del messaggio della speranza cristiana: essa manifesta il dinamismo della fede che vive nel presente il mistero della risurrezione di Gesù, proiettata verso il compimento. In questo senso, la speranza attingendo dal futuro trasforma il presente.

                                                                                  da Vita Minorum, 2006, n. 5, pp. 13-28.

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[1]  E’ la rilettura della storia fatta dal cosiddetto “Autore sacerdotale”.  Per le caratteristiche e la teologia di quest’autore cf: W. Groß, Zukunft für Israel, Kath. Bibelwerk, Stuttgart 1998, pp. 45-70; B. Renaud, L’Alliance un mystère de miséricorde, Ed. Cerf, Paris 1998, pp. 261-294; R. Rendtorff, La “formula dell’alleanza”, Paideia, Brescia 2001, pp. 29-40; J. Vermeylen, Le Dieu de la promesse et le Dieu de l’alliance, Ed. Cerf, Paris 1986, 158-162; W. Zimmerli, Sinaibund und Abrahambund, in Theologische Zeitschrift 16 (1960) 268-280.

[2] Cf. S. Lyonnet, La storia della salvezza nella lettera ai Romani, D’Auria, Napoli 1966, pp. 221-240.

[3] Cf. E. Käsemann, An die Römer, Mohr, Tübingen 1973, pp. 220-227.

[4] Cf. U. Wilckens, Der Brief an die Römer, II (Evangelisch-Katholischer Kommentar zum N.T.), Benziger-Neukirchener Verl., Neukirchen 1980, p. 156.

[5] Cu. C. Westermann, Creazione, Queriniana, Brescia 1984, pp. 104-106; A. Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1988, p. 211.

[6] Cf. N. Lohfink, Macht euch die Erde untertan, in Orientierung 38 (1974) 137s; Id., Le nostre grandi parole, Paideia, Brescia 1986, pp. 178-182.

[7]  S. Lyonnet, La storia della salvezza, p. 235.

[8] Sul significato del verbo vikào (= vincere) nell’Apocalisse cf. O. Bauernfeind, in GLNT, VII, 1017-1020; A. Feuillet, Le premier cavalier de l’Apocalypse, in ZNW  57 (1966) 229-259; qui: 240; F. Hahn, Die Sendschreiben der Johannesapokalypse, in Tradition und Glauben, Fs. K.G. Kuhn, Göttingen 1971, pp. 381-390.

[9] Le difficoltà di interpretazione di questo periodo, o meglio, di questa categoria, dipendono dall’impossibilità di comporre in una visione unitaria e conseguente motivi a noi non familiari, ma presenti in altri testi della letteratura apocalittica (cf. 4 Esr 7,28-31; Bar sir 29,3-30,1). Nella tradizione biblica la benedizione e l’alleanza sono legate al tema della terra e di un regno messianico, naturalmente temporale (cf. Gen 13,14ss; 15,18ss…; 2 Sam 7,11ss; Is 4,2ss; 10,20ss; Ger 50,4s; Ez 36,24ss…); ma sono soprattutto le descrizioni ideali e paradisiache dei tempi messianici che ci offrono le immagini di un mondo in cui trionfa solo il bene: la pace, la giustizia… (cf. Is 2,4; 11,6ss; 30,26; 35,3-10; 36,8-11; 65,16-25; Ez 36,8-11; Mi 4,3ss; Os 2,18-19…). Si aggiunga, poi, la testimonianza nel N.T., soprattutto di Paolo, sulla partecipazione dei cristiani alla risurrezione di Cristo, e quindi anche al suo trionfo (cf. 1 Tes 4,13-18; 1 Cor 15,23.50-53). Sono tutti punti di riferimento che aiutano a comprendere singole componenti della descrizione del periodo di mille anni in Ap 20,4-6.

[10] Per una panoramica delle varie interpretazioni cf. H. Bietenhard, Das tausendjährige Reich, Berne 1944; Ch. Brütsch, La clarté de l’Apocalypse, Labor et Fides, Genève 1966, pp. 322-335; P. Prigent, L’Apocalisse di S. Giovanni, Borla, Roma 1985,pp. 596-600; per il periodo delle origini cf. G. Kretschmar, Die Offenbarung des Johannes. Die Geschichte ihrer Auslegung im 1. Jahrtausend, Calwer Verlag, Stuttgart 1985, 71s; C. Mazzucco e E. Pietrella, Il rapporto tra la concezione del millennio nei primi autori cristiani e l’Apocalisse di Giovanni, in Augustinianum 18 (1978) 29-45. Per una visione del tema all’interno della vasta storia dell’interpretazione dell’Apocalisse cf. G. Maier, Die Johannesoffenbarung und die Kirche, Mohr, Tübingen 1981.

Pur con varie sfumature o sostanziali differenziazioni interne, possiamo raggruppare le varie interpretazioni in due filoni: quello dell’esegesi letterale, millenarista, proiettata verso un futuro storico, e quello dell’interpretazione simbolica, spirituale, applicata alla realtà salvifica presente. Il primo filone, appoggiandosi soprattutto alla tradizione apocalittica e a quella biblica sulla trasformazione di questo mondo, e al contesto narrativo, che pone il regno millenario prima degli ultimi eventi e dopo che Satana è stato legato, fra la prima e la seconda risurrezione, con la partecipazione anche delle nazioni (cf. Ap 20,3-8), assieme ai martiri e ai confessori, vede nei mille anni una anticipazione in terra delle benedizioni divine che avranno il loro compimento nel futuro (cf. H. Stadelmann, Das Zeugnis der Johannesoffenbarung vom tausendjährigen Königreich Christi auf Erden, in G. Maier, Zukunftserwartung in biblischer Sicht. Beiträge zur Eschatologie, Brockhaus/Brunnen, Wuppertal/Giessen 1984, pp. 144-160). In una visione profetica, verrebbe presentato un periodo storico futuro in cui Dio manifesterà la sua gloria. Il secondo filone, invece, appoggiandosi al contesto prossimo e remoto e alla simbologia generale del libro, vede nel millennio il periodo inaugurato dalla risurrezione di Cristo, che si estende fino alla consumazione finale.

                Alcuni motivi della scena sembrano indirizzarci verso quest’ultima linea interpretativa. Protagonisti del trionfo sono « le anime dei martiri »: l’espressione, che ci ricorda le anime dei martiri che gridano in Ap 6,9,  sembra non volerci portare necessariamente al periodo successivo alla risurrezione dei corpi. Inoltre, l’Apocalisse contiene altre descrizioni delle anime dei testimoni in attesa della risurrezione, analoghe a quella di Ap 20,4-6; cf. Ap 7; 14,1-5; 15,2-3; 1,5-6; 5,9-10  (cf. J. Comblin, Le Christ dans l’Apocalypse, Desclée, Tournai 1965, pp. 214-218).  Infine, la prima risurrezione è quella che non fa temere la seconda morte, cioè la condanna eterna, e introduce alla dignità sacerdotale e regale (Ap 20,6): è la comunione con Cristo che libera dal giudizio.

[11] Cf. U. Vanni, La promozione del regno come responsabilità sacerdotale del cristiano, in Id., L’Apocalisse. Ermeneutica, esegesi, teologia, EDB, Bologna 1988, pp. 366s; Id., Regno “non da questo mondo” ma “Regno del mondo”. Il Regno di Cristo dal quarto Vangelo all’Apocalisse, in Ibid., p. 300. Secondo J.W. Taeger, Johannesapokalypse und johanneischer Kreis, De Gruiter, Berlin 1989, pp. 163-171 l’autore dell’Apocalisse si rifà al pensiero di una risurrezione riservata ai soli giusti e la congiunge con la concezione di un interregno messianico; in considerazione dell’urgenza di una disponibilità al martirio la prima risurrezione e il susseguente potere sono da leggere come riservati ai martiri.

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[12]Cf. Bauckham R., La teologia dell’Apocalisse, Paideia, Brescia 1994, 128.
[13] Cf. T. Vetrali, Il messaggio spirituale dell’Apocalisse, in G. Barbaglio (a c.), La Spiritualità del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1988, pp. 319-343.
[14] Cf. Schüßler Fiorenza E., The Quest for the Johannine School: The Apocalypse and the Fourth Gospel, in « New Testament Studies » 23 (1977) 426.
[15] Cf. Taeger, Johannesapokalypse, 120-205; U. Vanni, Dalla venuta dell’ “ora” alla venuta di Cristo, in Id., L’Apocalisse. Ermeneutica esegesi teologia, EDB, Bologna 1988, pp. 305-332.
[16] Sulla funzione di « anticristo » degli emissari del drago basti vedere la descrizione delle due bestie di Ap 13.
[17] Cf. Taeger, Johannesapokalypse, 159.

Publié dans:virtù teologali |on 11 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

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