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IL MISTERO DELLA TRINITÀ: COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È «NATO» DAL PADRE?

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IL MISTERO DELLA TRINITÀ: COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È «NATO» DAL PADRE?

Un lettore chiede il significato di un’espressione del Credo: «Nato dal padre prima di tutti i secoli». Risponde don Angelo Pellegrini, docente di Teologia dogmatica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA – 24/04/2013   Siamo nell’Anno della fede. Il credo niceno-costantinopolitano (non quello degli apostoli) dice così: «Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli…» Se è nato vuol dire che «prima» non c’era. Sotto questo aspetto il Padre è «più» del Figlio. Allora si potrebbe dire che in questo punto questo Credo non esprime bene l’uguaglianza tra Padre e Figlio. È più vero allora Giovanni Evangelista: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio…». Mi può chiarire un teologo? Giovanni Manecchia

L’acuta osservazione del lettore impone una premessa necessaria, che traggo dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «La Trinità è un mistero della fede in senso stretto» (n. 237). Questo significa che le nostre affermazioni su Dio Trino hanno lo scopo di non deformare l’idea di Dio al punto da renderla incompatibile con quanto rivelato da Cristo. L’idea di un dio troppo razionalistica o umanizzata, ad esempio, andrebbe a scontrarsi con le affermazioni del profeta Isaia il quale sostiene, alla stregua di un idolo, che pregheremmo «un dio che non può salvare» (45,20). Al contempo non possiamo pretendere, proprio perché la Trinità è un mistero in senso stretto, che le nostre espressioni in merito siano totalmente chiare ed immediate. Il nostro linguaggio nasconde sempre una certa oscurità, ambiguità ed è pertanto suscettibile di spiegazioni utili alla sua precisazione. Data l’importanza e la complessità della questione, spero che queste mie brevi parole possano essere utili ad un chiarimento, anziché portare altra nebbia. In questo senso i Padri del Concilio di Costantinopoli (381) modificarono la frase in questione che, nel credo del Concilio di Nicea (325), suonava piuttosto diversamente. Il loro scopo era certamente chiarire che Padre e Figlio non sono subordinati, cioè sono «uguali nella natura divina», ma non in questo passaggio. Questo passaggio voleva spiegare piuttosto che essi sono sì uguali, secondo la natura, ma non sono interscambiabili, vanno perfettamente identificati, hanno una specificità propria non comparabile, ma soprattutto scambiabile con la specificità dell’altro. Ossia il Padre è Padre e non va confuso con il Figlio e viceversa. In questo senso noi traduciamo la parola greca del gennethénta con nato, mentre poco sotto lo stesso participio lo traduciamo con generato, nella frase «generato non creato». Il verbo al participio passato è lo stesso e va capito tenendo assieme le due espressioni. La seconda frase, infatti, fu inserita nel Concilio di Nicea contro il subordinazionismo di Ario il quale sosteneva che non soltanto Padre e Figlio non erano uguali, ma addirittura che, non avendo la stessa natura, il Figlio era semplicemente una creatura, creata da Dio prima delle altre. Dire che non era creato significava separare il Figlio dalle creature, escludere la sua natura creaturale e affermare la piena divinità della natura del Verbo, poiché generato dal Padre. Sono diverse le espressioni del credo che affermano questo concetto; ne ricordo due, che però non è possibile spiegare in questa sede: consustanziale, ossia della stessa sostanza; Dio vero da Dio vero. Nel nostro contesto però l’espressione nato/generato assume un valore aggiuntivo: pur affermando l’uguaglianza di Padre e Figlio, ci dice che non sono interscambiabili anzi indica la loro identità specifica. Il Padre è colui che dona, generando, pienamente la divinità e l’amore al Figlio eternamente; il Figlio è colui che, eternamente, riceve in pienezza il dono dell’amore e della divinità dal Padre. Questo dono eterno è pieno ed è totale, per cui pur non scambiando chi dona e chi riceve, l’espressione non nega la piena uguaglianza di Padre e Figlio secondo la divinità, ma li distingue in ordine alla identificazione personale. Il discorso andrebbe ovviamente completato mostrando come tutto ciò valga anche per lo Spirito Santo, uguale secondo la natura al Padre e al Figlio, ma distinto per identità personale e ruolo specifico. Sinteticamente il secondo Concilio di Costantinopoli (553) ha proprio voluto affermare questo concetto sostenendo che «il Padre e il Figlio hanno una sola natura o sostanza […] poiché essi sono una Trinità consustanziale, una sola divinità da adorarsi in tre ipostasi», ossia persone. Da questo punto di vista il Credo diventa anche una singolarissima spiegazione del primo versetto del Vangelo di San Giovanni opportunamente citato dal lettore. 

PADRE CANTALAMESSA- PREDICA DI QUARESIMA 2012, LO SPIRITO SANTO

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PADRE CANTALAMESSA- PREDICA DI QUARESIMA 2012, LO SPIRITO SANTO

«Lo Spirito Santo è colui che continuamente fa passare dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità». San Basilio e la fede nello Spirito Santo. Terza predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa

Scritto da Redazione de Gli scritti: 25 /03 /2012

Riprendiamo sul nostro sito la terza predica della Quaresima 2012 tenuta da p. Raniero Cantalamessa nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano alla presenza di Papa Benedetto XVI il 23/3/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per la prima e la seconda predica vai ai link Sant’Atanasio e la divinità di Cristo e San Gregorio di Nazianzo e la Trinità.I

Indice
1. La fede termina alle cose
2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
4. L’anima e lo Spirito
5. Una mortificazione “spirituale”
Note al testo
1. La fede termina alle cose

Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà, prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose[1].
San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli enunciati, ma alla realtà[2]. I Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del formalismo”[3]. Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di esprimere.
Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios, consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad accogliere termini per lui equivalenti, purché fosse chiaro che si intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.
Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui termini che a quello sui contenuti della fede. In anni recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi, diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione di fede vissuta.

2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.
Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure colui che lo conclude. Chi aprì il discorso sullo statuto ontologico dello Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.
Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza, ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.
Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella piena divinità dello Spirito usando espressioni equivalenti, come l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto ad essi. Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi nel credo.
Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”[4].
Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione dello Spirito Santo.
Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi oggi. A causa della nota questione del Filioque, la pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e alla vita contemplativa.
Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo, per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium[5]. Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua forza”[6]. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.

3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce più chiaramente della prima l’uguaglianza delle tre persone, coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo, la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.
Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia dall’opera dello Spirito nella creazione.
“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”[7].
Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”) egli osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”[8].
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos. Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia della terra” (cf. Sal 104,30).
Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli esseri alla perfezione mediante lo Spirito.
Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:
“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo ad opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie per mezzo della grazia dello Spirito?”[9]
A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo di recente si è cominciato a riprendere in considerazione[10]. Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli (cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.

Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:

“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito? Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito”[11].
Nell’Anafora che porta il nome di san Basilio – che l’attuale nostra Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo ha un posto centrale.
L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio – non sarà assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati, il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra l’anima e lo Spirito[12].

4. L’anima e lo Spirito
San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito, egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”[13].
Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:
“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l’a­nima, non è un avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare all’incorporeo corporal­mente? — ma piuttosto consiste nell’esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro attrazio­ne per la carne, giungono all’anima e la separano dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era impastati attra­verso il peccato e tornati alla bellezza naturale, come avendo restituito a una immagine regale l’antica forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostar­si al Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l’oc­chio purificato, ti mostrerà in se stesso l’immagine dell’Invisibile. Nella beata contemplazione dell’immagi­ne, vedrai la indicibile bellezza dell’archetipo. Per mez­zo di lui si elevano i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo Spirito; esse stesse diven­gono pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose future; la com­prensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”[14].
Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso, in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo – la contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo.
Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita. L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:
“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive. Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo”[15].
Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri della carne, per avanzare nella vita nuova:
“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito. Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace; infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo; e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è all’origine di una delle metafore più universali della vita spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:
“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”[16].
Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Miche­langelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: « In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori! ». E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all’angelo che aveva intravisto. Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grez­za, con addosso tanta « terra » e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: « In questo pezzo di pietra è nascosta l’immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo! » E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci pota (cf. Gv. 15,2)
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall’esterno, ma collaborano anch’essi, per quanto è lo­ro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre deserto:
« Se vogliamo es­sere completamente liberati, impariamo a spezzare la nostra volontà, e così, poco a poco, con l’aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: ‘Guarda là!’, ma lui ri­sponde al suo pensiero: ‘No, non guardo!’, e spezza la sua vo­lontà »[17].
Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica. Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: « Partecipa anche tu; di’ quello che sai. Ma tu rispondi: « No! ». E mortifichi l’uomo vecchio … Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si ricopre.
Finché si vive assecondando i desideri della carne noi somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano all’impresa.

5. Una mortificazione “spirituale”
C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita. San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.
I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo. Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”[18].
Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio Nisseno. “È da questo punto – nota il Bouyer – che il pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia, prenderà il suo avvio”[19]. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.
Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa. Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.
Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa: in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola); nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta contro il male e guida nel discernimento del bene.
Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo, dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza della grazia.

Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.

O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.

Note al testo sul sito

LA REGOLA DI FEDE – Sant’lreneo *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_j.htm

LA REGOLA DI FEDE

Sant’lreneo *

Sant’lreneo di Lione (seconda metà del Il secolo), originario dell’Asia Minore, è il primo grande teologo dell’età patristica. li suo pensiero, d’ispirazione profondamente biblica, è al tempo stesso semplice, vigoroso e profondo. Opposto al dualismo gnostico, tale pensiero si sintetizza in una visione d’unità: la ricapitolazione universale nel Cristo. Nella Testimonianza della predicazione apostolica di cui riportiamo qui un brano caratteristico, con pacato entusiasmo egli espone le verità fondamentali della fede cristiana.

Ecco la regola della nostra fede, le fondamenta del nostro edificio, ciò che dà fermezza al nostro comportamento.
Primo articolo della nostra fede: Dio Padre, increato, illimitato, invisibile; Dio uno, creatore dell’universo. Secondo articolo: il Verbo di Dio, Figlio di Dio, Gesù Cristo, nostro Signore; rivelato ai profeti conformemente al genere delle loro profezie ed al disegno del Padre; per sua mediazione, tutto è stato fatto; alla fine dei tempi, per riassumere in sé ogni cosa, s’è degnato di farsi uomo fra gli uomini, visibile, tangibile, per distruggere in tal modo la morte, fare apparire la vita ed operare la riconciliazione tra Dio e l’uomo. Infine, terzo articolo: lo Spirito Santo; tramite lo Spirito, i profeti hanno profetizzato, i nostri padri hanno appreso le cose di Dio ed i giusti sono stati guidati lungo la via della giustizia; alla fine dei tempi, è stato diffuso sugli uomini in modo nuovo, affinché su tutta la terra essi fossero rinnovati, per Dio.
Questa è la ragione per cui il battesimo della nostra nuova nascita è posto sotto il segno di questi tre articoli. Dio Padre ce l’accorda in vista della nuova nascita nel suo Figlio tramite lo Spirito Santo. Poiché coloro che portano in sé lo Spirito Santo sono condotti al Verbo che è il Figlio, ed il Figlio li conduce al Padre, ed il Padre ci concede l’incorruttibilità. Senza lo Spirito, è impossibile vedere il Verbo di Dio, e senza il Figlio non ci si può accostare al Padre. Poiché la conoscenza del Padre, è il Figlio, e la conoscenza del Figlio si fa tramite lo Spirito Santo, ed il Figlio dona lo Spirito in conformità al beneplacito del Padre.
Per lo Spirito, il Padre è chiamato l’Altissimo, l’Onnipotente, il Signore delle potestà. Così noi perveniamo alla conoscenza di Dio; noi sappiamo che Dio esiste, che è creatore del cielo e della terra e di tutte le cose, creatore degli angeli e degli uomini, Signore, per cui tutto ha avuto origine, da cui tutto procede, ricco di misericordia, di grazia, di compassione, di bontà, di giustizia.
E’ il Dio di tutti: degli Ebrei, dei pagani, dei credenti. Per i credenti è Padre: perché alla fine dei tempi, egli ha aperto il testamento della loro filiazione adottiva. Per gli Ebrei è Signore e legislatore: perché nei tempi intermedi, allorché gli uomini l’avevano dimenticato, abbandonato, e si erano a lui ribellati, Dio li sottomise alla Legge, onde insegnare loro che hanno un Signore che è loro creatore ed autore, che ha dato loro il soffio di vita e che essi sono tenuti ad adorare giorno e notte. Per i pagani Dio è creatore, autore, Signore supremo. E per tutti egli è sostentatore, re e giudice. Nessuno sfuggirà al suo giudizio, sia egli ebreo o pagano, sia egli peccatore credente o spirito angelico. E coloro che ora rifiutano di credere nella sua bontà, conosceranno la sua potenza nel giorno del giudizio, secondo la parola del santo Apostolo: Non vedi che la bontà di Dio ti spinge a penitenza? Or tu, con la tua durezza e col tuo cuore impenitente, accumuli sopra di te ira per il giorno dell’ira e della manifestazione del giudizio di Dio. Allora egli darà a ciascuno secondo le sue opere (Rom. 2, 4-6).
Tale è colui che, nella Legge, è chiamato Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe: Dio dei viventi. Di questo Dio, l’altezza e la grandezza superano ogni descrizione.

* Démonstration de la prédication apostolique, paragrafi da 6 a 8. Traduzione di Pierre Patrick Verbraken leggermente modificata, in Les Pères de l’Eglise, panorama patristique, Epi, Parigi 1970 pp. 31-33.

 

GIOVANNI PAOLO II, LA CREAZIONE È OPERA DELLA TRINITÀ, 5 MARZO 1986

http://www.disf.org/Documentazione/05-1-860305-CatMer_ita.asp

GIOVANNI PAOLO II, LA CREAZIONE È OPERA DELLA TRINITÀ, 5 MARZO 1986

1. L’onnipotenza del Creatore. 2. Colui che dona, ama. 3. L’inizio del piano di salvezza. 4. La traccia della Trinità. 5. Per mezzo del Verbo e in vista di Cristo. 6. Il mondo creato nel Verbo-Figlio. 7. Parole del Verbo. 8. Il mondo “restituito” al Padre.

1. La riflessione sulla verità della creazione, con cui Dio chiama all’esistenza il mondo dal nulla, spinge lo sguardo della nostra fede alla contemplazione di Dio Creatore, il quale rivela nella creazione la sua onnipotenza, la sua sapienza e il suo amore. L’onnipotenza del Creatore si mostra sia nel chiamare le creature dal nulla all’esistenza, sia nel mantenerle nell’esistenza. «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?», chiede l’Autore del libro della Sapienza (Sap 11,25).
2. L’onnipotenza rivela anche l’amore di Dio che, creando, dona l’esistenza ad esseri diversi da lui e insieme differenti tra di loro. La realtà del suo dono permea tutto l’essere e l’esistere del creato. Creare significa donare (donare soprattutto l’esistenza). E colui che dona, ama. Lo afferma l’Autore del libro della Sapienza, quando esclama: «Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato, se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata»; e aggiunge: «Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,24.26).
3. L’amore di Dio è disinteressato: mira soltanto a che il bene venga all’esistenza, perduri e si sviluppi secondo la dinamica che gli è propria. Dio Creatore è colui «che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà» (Ef 1,11). E tutta l’opera della creazione appartiene al piano della salvezza, il misterioso progetto «nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo» (Ef 3,9). Mediante l’atto della creazione del mondo, e in particolare dell’uomo, il piano della salvezza inizia a realizzarsi. La creazione è opera della Sapienza che ama, come la Sacra Scrittura ricorda a più riprese.
E chiaro quindi che la verità di fede sulla creazione si contrappone in modo radicale alle teorie della filosofia materialistica, che vedono il cosmo come risultato di una evoluzione della materia riconducibile a puro caso e necessità.
4. Sant’Agostino dice: «E necessario che noi, guardando il Creatore attraverso le opere da lui compiute, ci eleviamo alla contemplazione della Trinità, di cui la creazione in una certa e giusta proporzione porta la traccia» («De Trinitate», VI, 10,12). E verità di fede che il mondo ha il suo inizio nel Creatore, il quale è Dio Uno e Trino. Benché l’opera della creazione venga attribuita soprattutto al Padre – così infatti professiamo nei simboli della fede («Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra«) – è anche verità di fede che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono l’unico e indivisibile «principio» della creazione.
5. La Sacra Scrittura conferma in diversi modi questa verità: prima di tutto per quanto riguarda il Figlio, il Verbo, la parola consostanziale al Padre. Sono già presenti nell’Antico Testamento alcuni accenni significativi, come ad esempio questo eloquente versetto del Salmo: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli» (Sal 33,6). E una affermazione che trova la sua piena esplicitazione nel Nuovo Testamento, come ad esempio nel Prologo di Giovanni: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste… e il mondo fu fatto per mezzo di lui» (Gv 1,1-2.10). Le lettere di Paolo proclamano che ogni cosa è stata fatta «in Gesù Cristo»: vi si parla infatti di «un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui» (1Cor 8,6). Nella lettera ai Colossesi leggiamo: «Egli (Cristo) è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché, per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1,15-17).
L’Apostolo sottolinea la presenza operante di Cristo sia come causa della creazione («per mezzo di lui»), sia come suo fine («in vista di lui»). E un tema sul quale occorrerà tornare. Intanto notiamo che anche la lettera agli Ebrei afferma che Dio per mezzo del Figlio «ha fatto anche il mondo» e che il «Figlio… sostiene tutto con la potenza della sua parola» (1,2-3).
6. Così il Nuovo Testamento, e in particolare gli scritti di san Paolo e di san Giovanni, approfondiscono e arricchiscono il richiamo alla Sapienza e alla Parola creatrice già presente nell’Antico Testamento… «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli» (Sal 33,6). Precisano che quel Verbo creatore non soltanto era «presso Dio», ma «era Dio», e anche proprio in quanto Figlio consostanziale al Padre, il Verbo ha creato il mondo in unione con il Padre: «e il mondo fu fatto per mezzo di lui» (Gv 1,10).
Non solo: il mondo è stato anche creato in riferimento alla persona (ipostasi) del Verbo. «Immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), il Verbo, che è l’eterno Figlio, «irradiazione della gloria del Padre e impronta della sua sostanza» (cf. Eb 1,3) è anche colui che è stato «generato prima di ogni creatura» (Col 1,15), nel senso che tutte le cose sono state create nel Verbo-Figlio, per diventare, nel tempo, il mondo delle creature, chiamato dal nulla all’esistenza «al di fuori di Dio». In questo senso «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3).
7. Si può dunque affermare che la rivelazione presenta, dell’universo, una struttura «logica» (da «Logos»: Verbo) e una struttura «iconica» (da «eikon»: immagine, immagine del Padre). Fin dai tempi dei Padri della Chiesa si è consolidato infatti l’insegnamento, secondo cui il creato porta in sé «le vestigia della Trinità» («vestigia Trinitatis»). Esso è opera del Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Nella creazione si rivela la Sapienza di Dio: in essa l’accennata duplice struttura «logico-iconica» delle creature è intimamente unita alla struttura del dono, come dicono alcuni teologi moderni.
Le singole creature non sono soltanto «parole» del Verbo, con cui il Creatore si manifesta alla nostra intelligenza, ma sono anche «doni» del Dono: esse portano in sé l’impronta dello Spinto Santo, Spirito creatore.
Non è forse detto già nei primi versetti della Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra (l’universo)… e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,1-2)? L’accenno, suggestivo anche se vago, all’azione dello Spirito in quel primo «principio» dell’universo, appare molto significativo per noi che lo leggiamo alla luce della piena rivelazione neotestamentaria.
8. La creazione è opera di Dio Uno e Trino. Il mondo «creato» nel Verbo-Figlio viene «restituito» insieme con il Figlio al Padre, mediante quel Dono increato consostanziale ad entrambi, che è lo Spirito Santo. In tal modo il mondo viene «creato» in quell’Amore che è lo Spirito del Padre e del Figlio. Questo universo abbracciato dall’eterno Amore, incomincia a esistere nell’istante scelto dalla Trinità come inizio del tempo.
In tal modo la creazione del mondo è opera dell’Amore; l’universo, dono creato, scaturisce dal Dono increato, dall’Amore reciproco del Padre e del Figlio, dalla santissima Trinità.

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO

http://www.mondocrea.it/itriflessioni/story$num=577&sec=16

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO

Invocazioni allo Spirito Santo
Vieni Santo Spirito, dà un senso alla mia vita.
Vieni Santo Spirito trasfigura ai miei occhi il dolore e la sofferenza .
Vieni Santo Spirito, dona alla mia morte un senso.
Vieni Santo Spirito aiutami a non vedere negli altri presenze ingombranti od oggetti da sfruttare per i miei comodi, ma persone destinate ad una dignità immensa.
Vieni Santo Spirito, aiutami a scorgere i segni della tua presenza anche nella natura e negli eventi quotidiani.
Vieni Santo Spirito, fa che ogni legame terreno non venga avvolto dal mio egoismo.
Vieni Santo Spirito, rinvigorisci ed anima i legami familiari col tuo amore universale.
Vieni Santo Spirito,aiutami a non sentirmi un agglomerato di polvere disperso nel cosmo, ma tuo Tempio unificante.
Vieni Santo Spirito, dona ad ogni uomo, compreso me, l’identità in Gesù Cristo.
Vieni Santo Spirito, agisci nelle mie occupazioni quotidiane affiché siano secondo la tua volontà.
Spirito Santo, raccogli ogni disagio e malattia per l’edificazione del Regno.
Spirito Santo, donami occhi per vedere la tua infinita creatività in me e negli altri.
Spirito Santo, guida ogni mio passo alla luce del tuo amore.
Spirito Santo, conferisci un senso ad ogni cosa buona che faccio.
Spirito Santo, donami lo stupore per ammirare tutto ciò che di buono esiste nel Creato.
Spirito Santo, scalda il mio cuore affinché possa accogliere calorosamente ogni persona che metti sul mio cammino.
Spirito Santo donami il vero discernimento : che io possa conoscere la differenza tra il bene ed il male per mettere in pratica la tua volontà.
Spirito Santo anima e vivifica la mia mente, il mio cuore, la mia anima, affinché mi renda conto come tutto passa in questa breve vita terrena e fissi in ogni momento le cose di lassù e non quelle della terra.
Spirito Santo fa che non si inorgoglisca il mio cuore ma aiutami a servirti nell’umiltà.
Spirito Santo trasforma i miei rapporti con il prossimo: scendi su ogni persona che incontro e vivificala, in modo che possa essere edificata.
Spirito Santo, fa che nessuno si allontani da me scontento e rattristato, ma ognuno sia contagiato dal tuo immenso amore.
Spirito Santo aiutami ad essere riconoscente per tutti i doni che mi hai dato,che mi dai e che mi darai. Per l’esistenza, per la gioia e il dolore, per i cinque sensi, per la salute e la malattia, per la povertà e l’abbondanza, per ogni situazione che a te piace donarmi.
Spirito Santo aiutami a riconoscere il tuo tempio in me e negli altri e fa che non mi senta superiore a nessuno.
Spirito Santi, rinnova e rinforza in me la fede, la speranza e soprattutto la carità.
Spirito Santo, che io creda fermamente nella presenza corporale e divina di Gesù Cristo nell’Eucaristia.
Spirito Santo rinnova in me la vera contrizione dei miei peccati con il proposito di non più commetterli in ogni confessione.
Spirito Santo che io creda fermamente nella tua presenza vivificante nella mia famiglia e in tutte le famiglie del mondo.
Spirito Santo donami il vero discernimento della tua parola nelle Sacre Scritture, affinché diventino ogni giorno il mio nutrimento spirituale.
Spirito Santo, donami lo zelo per te e per tutti coloro che metti sul mio cammino.
Spirito Santo aiutami ad amare il Signore mio Dio con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima, con tutte le mie forze, con tutta la mia mente.
Spirito Santi aiutami ad amare il prossimo mio come me stesso.
Spirito Santo aiutami a credere nel tuo infinito ed incommensurabile amore misericordioso. Fa che la mia limitatissima visuale non limiti la tua Onnipotenza.
Spirito Santo, aiutami a credere realmente nell’Onnipotenza di Dio in ogni situazione della mia vita.
Spirito Santo che io ti adori profondamente in ogni momento della mia vita fino all’ultimo respiro terreno, in modo che canti la misericordia del Signore per tutta l’eternità.

Spirito Santo, donami la speranza che anticipa la gioia futura. Aiutami a credere nell’infinita misericordia del Padre che desidera ardentemente la salvezza di tutti. Fammi credere profondamente al fatto che il Paradiso è stato preparato anche per me, misero peccatore. Fammi capire quanto La Santissima Trinità mi ami così come sono ed attende da me ogni gesto di riconoscenza. Spirito Santo, fa’ nascere in me la convinzione che Dio-Padre ha già riservato per tutti noi un posto in Paradiso tramite il Figlio che ci ha riscattati con la sua passione e morte. Fa che questa speranza effonda la gioia in ogni più nascosto cantuccio del mio animo, nel mio più remoto inconscio. Fa che desideri ardentemente il giorno della salvezza e che non tema la morte. Fa che il mio slancio quotidiano d’amore non venga smorzato dalle paure, dai dubbi, dalle perversità che semina in me il maligno. Fa che i miei rapporti con il prossimo non vengano sbiaditi dal velo della tiepidezza, della superficialità, del pregiudizio, dell’orgoglio, dell’egoismo e della perversione. Fammi vedere in ogni creatura umana il tuo sacro tempio.
Vieni Santo Spirito a purificare questo povera anima travagliata. Crea in me un cuore puro ed estingui il fuoco delle passioni che mi distolgono da te. Dona pace e serenità a me e a tutti coloro che incontro nel mio cammino. Fa che il mio amore si dilati e diventi universale. Spirito di discernimento, aiutami a capire che gli scrupoli sono solo il frutto di un profondo orgoglio, una inconscia presunzione di innocenza davanti al vero Innocente. Donami la pace interiore anche nella consapevolezza dell’inquinamento che c’è in me. A Te basta che io riconosca il mio nulla obiettivo, perché sei Spirito di verità e detesti ogni forma di menzogna. Se io mi credo innocente vivo nella menzogna. Quando riconosco le mie colpe, vivo nella Verità. E Tu sei pronto a irradiare il tuo infinito amore per queste povere creature bisognose di perdono. Tu le hai riscattate tramite il sangue di tuo Figlio e ciò dimostra quanto ci ami. Aiutami a credere profondamente nel tuo Amore, amore che perdona, che redime, che salva, che effonde gioia, pace, sicurezza. Amore che spazza via gli scrupoli negativi, i quali inibiscono l’azione, immobilizzano lo slancio d’amore, creano tristezza e depressione. Aiutami, o Spirito, a contemplare in ogni momento l’Amore trinitario.
Che la mia miseria sia neutralizzata dalla tua misericordia, la mia tristezza dalla tua gioia, la mia pigrizia dalla tua attività, la mia tiepidezza dal tuo entusiasmo, la mia supeficialita dalla tua profondità, la mia carnale passionalità dalla tua Passione divina, il mio orgoglio dalla tua umiltà, il mio egoismo dal tuo altruismo, la mia incostanza dalla tua determinazione, la mia fragilità dalla tua potenza, la mia ignoranza dalla tua sapienza, la mia freddezza dal tuo calore, la mia falsità dalla tua verità, la mia iposcrisia dalla tua sincerità, la mia artificiosità dalla tua spontaneità.
Ogni desiderio sia il tuo, ogni mio sguardo il tuo sguardo, ogni mia parola la tua parola, ogni mia azione la tua azione, ogni mio pensiero il tuo pensiero. Rivestimi di te, o Santo Spirito, e fa di me uno strumento d’amore per ogni essere che incontro lungo il mio cammino.

Publié dans:preghiere, TRINITÃ - SPIRITO SANTO |on 12 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO: ESISTENZA ETERNA DELLO SPIRITO

http://www.myriobiblos.gr/texts/italian/christou_insegnamento_4.html

PANAGIOTIS CHRISTOU

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO

Π. Κ Χρήστου, Θεολογικά Μελετήματα 2,
Γραμματεία του Δ’ αιώνος, Θεσσαλονίκη, 1975

4. Esistenza eterna dello Spirito

San Basilio, come molti altri Padri greci della stessa epoca, riconduce la teologia ad una triadologia e non sviluppa la triadologia come un prodotto del pensiero filosofico, ma come una verità empirica. Parte dalle ipostasi concrete, attive nel mondo, per raggiungere l’unità di Dio.
Le ipostasi divine si manifestano in diverse maniere e in diversi luoghi ma sono apparse in particolari attività in maniera più totale; il Padre nella creazione, il Figlio nell’opera della rigenerazione e lo Spirito nella vita della Chiesa. Il Figlio e lo Spirito sono venuti nel mondo in un senso reale. Alcuni Padri, come Cirillo di Gerusalemme (26) e Gregorio il Teologo (27) ad esempio, parlano della venuta, o dell’incarnazione dello Spirito. Anche Basilio parla della discesa e della dimora nell’uomo dello Spirito anche se non usa lo stesso vocabolario.
La causalità provoca in Dio la distinzione delle persone che occupano un determinato posto nella Trinità. Il Padre è ingenerato, il Figlio generato e lo Spirito procede (28); i loro attributi distintivi corrispondenti sono la paternità, la filialità e la santificazione (29). Ma dal momento che il termine gennasthai esprime globalmente un modo di derivazione in maniera comprensibile, non è la stessa cosa per quanto riguarda il termine ekporeuesthai poiché tale termine non descrive precisamente l’origine dello Spirito. È questa la ragione per cui san Basilio afferma che lo Spirito procede in maniera ineffabile (30) dal Padre; la processione designa la familiarità e preserva un modo d’esistenza inesprimibile. Tuttavia egli non dubita mai sulla personalità dello Spirito.
In nessuna epoca i Padri, chiunque essi fossero, hanno dichiarato che lo Spirito procede anche dal Figlio. Certi passi di Cirillo d’Alessandria, parlando della derivazione dello Spirito dal Figlio, fanno allusione non alla causa ma alla sua missione; l’intera Trinità partecipa alla sua missione tramite un’energia comune poiché tutte le energie divine sono comuni all’insieme della Trinità. Il fatto che le due ipostasi derivino solo dal Padre crea l’impressione facilmente dissipabile della monarchia dell’ipostasi paterna. Ma le proprietà del Figlio e dello Spirito non sono certo ritenute inferiori a quelle del Padre; esse non sono effettivamente distinte che in rapporto alla causa che deve rimanere rigorosamente unica per evitare ogni specie di dualismo, ma esse non lo sono in rapporto alla natura increata. Le ipostasi non sono prima, seconda e terza; esse sono d’uguale valore – e non numerate -, sono designate dal loro santo nome, un solo Dio, Padre, un solo ingenerato, il Figlio, un solo Santo Spirito. Ogni genere di subordinazione conduce al politeismo. (31)
Queste distinte ipostasi sono legate in tal maniera che alcuna può essere concepita senza le altre e che ciascuna presuppone le altre due. Esse costituiscono tre persone perfette, inseparabilmente unite: « Poiché dov’è presente il Santo Spirito là è anche il Cristo e dov’è il Cristo anche il Padre è presente » (32). In tal modo che chiunque non crede nello Spirito non può certamente credere al Figlio e chi non crede al Figlio non può certamente credere in Dio Padre (33).
In che consiste l’unità delle ipostasi? Prima di tutto essa può consistere nella comune ousia. Secondo Aristotele, ousia può significare due cose: a) quant’è comune a tutti e non può essere percepito che dall’intelletto e b) l’esistenza individuale. In alcune sue lettere, san Basilio impiega due espressioni aristoteliche per definire l’ousia (nel primo senso) e l’ipostasi (ousia nel secondo senso) (34). Di queste categorie non è completamente soddisfatto perché la logica aristotelica esige delle divisioni e delle classificazioni ch’egli rigetta assolutamente perché inapplicabili a Dio. A volte caratterizza le ipostasi come realtà aventi la stessa ousia, homoousios (35). Egli è conforme al dogma niceno ma cerca d’integrare questa nozione nelle strutture della triadologia della scuola di Cappadocia nella quale ousia non si pone ad un livello più elevato rispetto alle persone, come se fosse una sorta di sorgente dalla quale le persone trarrebbero la loro origine.
Il termine ousia, inoltre, infonde di primo acchito l’impressione d’una realtà materiale e creata, benché il suo uso in teologia ne abbia fatto divenire un termine particolare. La maniera con la quale san Basilio evita d’applicare il termine homoousios al Santo Spirito può spiegarsi considerando le sue esitazioni davanti al termine ousia, per le ragioni menzionate e per l’altra ragione che la stessa parola era utilizzata dai pneumatomachi per designare una subordinazione. San Basilio non si serve di tal termine se non quando è assolutamente indispensabile. I suoi principi teologici non gli permettevano d’insistere troppo sull’ homoousios. Egli non vuole dare l’impressione che Dio consiste in questa o quell’ ousia, perché è incomprensibile e non può essere definito. Non esplica l’homoousios identificando l’essenza e l’ipostasi poiché la persona si confonderebbe, ma distinguendo l’essenza dall’ipostasi, ciò che stabilisce la distinzione delle persone. Così, in quanto ousia, permane l’illimitata e incomprensibile visione di Dio. Per evitare ogni malinteso, san Basilio scarta deliberatamente il termine homoousios per quanto concerne il Santo Spirito, come farà ulteriormente il secondo concilio ecumenico. Secondo quest’ottica, la Trinità non è composta da una pluralità di ousia, ma è costituita da tre persone definite. Poiché le persone hanno il loro valore e la loro individuale dignità – uguale per tutte e tre – il Santo Spirito possiede lo stesso onore delle altre persone della Trinità, egli è homotimos.
San Basilio è più a suo agio quando impiega i termini physis e theotês: « Il Padre, il Figlio e il Santo Spirito hanno la stessa natura e sono un solo Dio »(36). Il Santo Spirito è « una natura divina e santa »(37). Natura è il termine che meglio conviene alla persona perché non descrive la costituzione materiale d’una cosa ma caratterizza il modo d’esistenza.
San Basilio non attribuisce allo Spirito il nome di Dio. Atanasio ha motivato questo rifiuto per la dispensazione dell’oikonomia e Gregorio il Teologo l’ha giustificato per ragioni di prudenza. Ma quest’ultimo a volte è rimasto turbato da tale riserva e gli ha apertamente chiesto fino a quando nasconderà la luce sotto il moggio (38). Altri hanno considerato Basilio progressista per quanto riguarda il punto in oggetto mentre gli ariani lo ritenevano modernista per delle ragioni contrarie. Le opinioni secondo le quali san Basilio ha formulato il suo insegnamento trinitario, sia per ragioni d’opportunismo politico sia per simpatia per gli homeousiani, non sembrano rispondere alla situazione di fatto. Vi sono altre ragioni teologiche importanti. Nel sistema teologico di Basilio, troviamo Dio (= il Padre), Dio da Dio (= il Figlio) e Colui che procede da Dio (= lo Spirito). Non dubita che i tre siano Dio; ma se nomina con logica le tre persone divine, teme d’essere accusato di adottare tre dei perché sarebbe costretto a porli in un certo ordine progressivo: primo, secondo e terzo; egli teme inoltre di distruggere il carattere unico della casualità nella Trinità. Per questa ragione, preferisce dare alle tre persone i nomi che le distinguono: Padre, Figlio e Santo Spirito. Il nome del Santo Spirito significa parecchie cose, tra le altre quella ch’Egli è Dio e ciò rivela che egli accetta l’ homoousios. Lo ha chiaramente dichiarato in conversazioni private da quanto ne afferma Gregorio il Teologo (39). Inoltre quanto ha detto sullo Spirito era comunque più di quanto altri facevano. Infatti, altri denominavano il Santo Spirito senza impiegare la formula syn to pneumati nella dossologia. Ma se è molto importante chiamare Dio il Santo Spirito, in certe condizioni anche l’uomo viene chiamato Dio! Ecco perché è molto più importante rivolgerGli preghiere coma ad un Dio.
L’unità delle ipostasi della triade è espressa felicemente dall’identificazione della potenza, dell’energia e della volontà. Esiste una corrente indivisa d’energia tra il Padre, il Figlio e lo Spirito: « Così la maniera di conoscere Dio proviene dall’unico Spirito attraverso il Figlio e va all’unico Padre e, inversamente, la naturale bontà, la santificazione e l’ufficio reale vengono dal Padre attraverso il Figlio unigenito verso lo Spirito » (40). L’attività della Trinità è comune benché certe energie paiano a volte separarsi a causa delle ipostasi. Nella creazione, ad esempio, il Padre è la causa iniziale di tutto quanto è creato nel mondo, il Figlio la causa creatrice e lo Spirito la causa perfezionatrice, ma la sorgente è unica. Senza dubbio nessuna ipostasi ha attività imperfetta in modo da rendere necessaria l’attività delle altre. Si tratta d’una volontà unificata; ciascuna ipostasi ha la volontà d’agire in accordo con le altre (41). Soprattutto l’unità delle ipostasi è espressa dalla loro comune sorgente, il Padre, com’è stato precedentemente detto.
San Basilio caratterizza lo Spirito con una perifrasi, come immagine del Figlio (42), perché in Lui e attraverso di Lui gli uomini vedono il Figlio. Le ipostasi si fanno ciascuna rivelatrice delle altre agli uomini; lo Spirito riflette in Se stesso l’immagine del Figlio, il Figlio quella del Padre. Così l’itinerario della conoscenza di Dio parte dallo Spirito, attraverso il Figlio per arrivare al Padre. Ma nella Trinità non esiste un’immagine dello Spirito che lo rende meno conosciuto rispetto alle altre ipostasi. Il Figlio ha parlato del Padre ed è stato manifestato dallo Spirito che ha parlato nel passato ai profeti come oggi parla alla Chiesa. Nelle scritture troviamo abbondanti testimonianze su queste due persone, il Padre e il Figlio. Inoltre, la loro opera è oggettiva – la creazione del mondo e l’istituzione delle condizioni della rigenerazione dell’uomo – e cade immediatamente sotto i sensi. Quanto allo Spirito la Scrittura lo menziona solo occasionalmente. Senza dubbio egli abita nella Chiesa e si fa conoscere attraverso le sue energie ma l’esperienza spirituale acquisita dagli illuminati è spesso poco precisa e non permette una completa comprensione della sua personalità. Per questa ragione i Padri hanno evitato di precisare le sue origini. Pure il termine di « processione », come abbiamo detto altrove, non dissipa la nostra ignoranza del modo della sua esistenza, ignoranza che san Basilio considera d’altronde come senza importanza (43).
È la ragione per cui, interpretando l’origine del Santo Spirito in termini non biblici, abbiamo proceduto con prudenza: « Poiché è tipico dell’uomo pio non dire nulla sullo Spirito Santo su ciò che le scritture tacciono e questo perché è nostra convinzione che l’esperienza e la comprensione a suo riguardo risiedono per noi nel mondo futuro » (44). Era ugualmente prudente quando caratterizzava lo Spirito come homoousios e come Dio, come abbiamo già detto. La Chiesa ha sempre saputo e ha sempre concepito quest’attitudine di prudenza. Benché abbia composto degli inni allo Spirito non ha composto preghiere che gli fossero rivolte ad eccezione di una sola. Nelle sue preghiere a Dio essa chiama in modo generico lo Spirito Santo utilizzando le espressioni: coeterno, di identico valore, di uguale gloria ed homoousios. L’innologia della Chiesa riflette l’insegnamento di Gregorio il Teologo che, nella sua maniera di presentare la divinità dello Spirito era più ardito mentre le preghiere della Pentecoste riflettono l’insegnamento di Basilio il Grande.

NOTE SUL SITO

LO SPIRITO: COME NELLA VERGINE COSÌ NELLA LITURGIA

http://www.latheotokos.it/modules.php?name=News&file=article&sid=814

LO SPIRITO: COME NELLA VERGINE COSÌ NELLA LITURGIA

Inserito da latheotokos Sabato 13 Ottobre 2012,

 Articolo di Domenico Marcucci in Madre di Dio del 4 aprile 1998

È la presenza dello Spirito Santo che dà alle parole e ai gesti della Liturgia il potere di rendere presente ed operante l’opera della salvezza. Maria, con il suo mistero di cui è portatrice e con il suo atteggiamento, conferma, illumina l’opera dello Spirito.
In modo molto deciso il ben noto liturgista P. Achille Triacca afferma che «non c’è azione liturgica che non sia azione dello Spirito Santo» (Nuovo Dizionario di Liturgia, p. 1406). Prima, in modo più analitico, aveva affermato: «Nella sua dimensione discendente la liturgia è comunicazione dello Spirito Santo che attua la presenza di Cristo glorificato, il quale conferisce lo Spirito ai suoi fratelli. Nella sua dimensione ascendente la liturgia è « voce dello Spirito Santo in Cristo-Chiesa »» (p. 1405).

Tutto parte dalla Trinità e a lei torna
Ma forse è da fare un passo indietro e coinvolgere nel concetto di Liturgia lo stesso mistero trinitario, che è e rimane nello stesso tempo il punto di partenza e il punto di arrivo della storia della salvezza e quindi anche della sua celebrazione nella liturgia. Tutto, infatti, parte dalla Trinità e tutto ritorna alla Trinità, nel cui mistero l’uomo salvato – reso figlio del Padre per Cristo e nello Spirito Santo – entra, in modo inaudito, a far parte. Lo stesso Triacca afferma che la Liturgia «nel qui e adesso celebrativo avvera e realizza… il mistero pasquale nella sua pienezza» (o.c., p. 1409). Ora il mistero pasquale – inteso nel suo significato più ampio di mistero della salvezza – inizia con l’Incarnazione (o meglio ancora con lo stesso Adamo) e termina nella gloria del Cristo, seduto fra il Padre e lo Spirito Santo con il suo corpo di uomo, caparra della gloria del nostro stesso corpo. La gloria è sempre la gloria della Trinità ed è quella stessa che Cristo ci ha promesso: entrare a far parte della vita intratrinitaria, coinvolti nell’amore eterno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Forse più di uno si sarà chiesto se le preghiere del Postcommunio della celebrazione eucaristica non siano eccessivamente monotone: finiscono infatti molto spesso con la preghiera rivolta al Padre di poter «godere dei beni eterni », o con espressioni equivalenti. La liturgia eucaristica (ma in fondo ogni altra celebrazione liturgica) ha lo scopo di far pregustare i beni eterni, in attesa che passi questo mondo e si manifesti definitivamente la gloria di Dio; il Vaticano II – ripreso alla lettera dal Catechismo della Chiesa Cattolica, afferma che «nella Liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola a quella celeste,… dove Cristo siede alla destra di Dio» (Sacrosanctum Concilium, 8) Nelda Vettorazzo, Croce di Pentecoste (ispirata a modelli orientali – @ Centro Russia Ecumenica).

L’azione dello Spirito nella liturgia
Stando a Mons. Mariano Magrassi, il compito della Liturgia, in estrema sintesi, è questo: far sì che «ciò che è accaduto in Cristo accada anche a noi, attraverso la celebrazione stessa» (Il Vivere Cristiano, p. 77); ora ciò che è accaduto a Cristo è «il suo passaggio da questo mondo al Padre» (cf. Gv 13,1), quindi il suo cammino, come Dio fatto uomo, attraverso l’incarnazione, la sofferenza e la morte verso la gloria. Questo cammino di Cristo, attraverso le celebrazioni e in modo proprio per ogni celebrazione, diventa il cammino del cristiano, il quale dalla caducità del mondo in cui ancora vive, sperimenta già adesso la gloria dei figli di Dio. Chiaramente anche il modo in cui è avvenuto tale « passaggio » in Cristo, deve verificarsi nel cristiano; ora tutta la vita di Cristo è tutto sotto l’azione dello Spirito. In particolare possiamo citare due episodi, che rappresentano delle vere e proprie liturgie. Il primo episodio è il battesimo nel Giordano Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22; Gv 1,31-34), durante il quale si aprono i cieli, «ed egli vide lo Spirito di Dio di Dio scendere come una colomba e venire su di lui» (Mt 3,16). Siamo all’inizio della vita pubblica: il Figlio nel battesimo accetta la condizione di uomo e la riposta di Dio avviene attraverso l’intervento delle altre due persone della Trinità, che si manifestano attraverso i segni della colomba (Spirito Santo ) e della voce (Padre). Il secondo episodio lo troviamo nel discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,14-30): qui abbiamo una celebrazione liturgica nel senso formale del termine, che quasi rappresenta una trasposizione terrena della precedente liturgia celeste: infatti Luca accosta i due episodi, anche dal punto di vista temporale, mettendone il luce la stretta connessione. Qui Cristo legge il passo di Isaia dove si afferma: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo (il Signore) mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto annuncio…» (Is 6,1-2). Poi Gesù aggiunge che proprio allora quella parola profetica si compiva. Quindi, attraverso la mediazione della parola di Dio annunciata si attua lo stesso mistero trinitario: il Padre che consacra, mediante lo Spirito, il Figlio per la missione: è esattamente quanto è avvenuto nel racconto del Battesimo. Aggiungiamo solo una semplice notazione, ma fondamentale: quando lo Spirito Santo si manifesta è sempre per esprimere la figliolanza di Cristo e la sua missione come atto di obbedienza al Padre, quindi sempre in un contesto trinitario.

Lo Spirito Santo nella Chiesa che celebra
La liturgia, come affermano gli autori, ha due dimensioni: discendente, in quanto esprime l’opera della Trinità attuata con la missione del Figlio, e ascendente, in quanto opera del Corpo mistico, di Cristo capo e delle sue membra. E’ attraverso di essa che sale a Dio l’inno di lode e di benedizione da parte della Chiesa, la quale si unisce alla liturgia celeste. Come l’opera salvifica di Cristo avviene nello Spirito, così anche l’opera della Chiesa avviene nello Spirito. Basterebbe citare un solo passo: Gesù risorto, apparendo agli apostoli e dopo aver alitato su di loro (segno forte e tipico della trasmissione dello Spirito) dice: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23): quindi Gesù, donando il suo stesso Spirito, dona il suo stesso potere, in questo caso quello inaudito di rimettere i peccati e quindi di celebrare il sacramento della Riconciliazione. Nella liturgia occidentale si era un po’ perso, anche a livello rituale, la cosapevolezza del ruolo fondamentale dello Spirito Santo, per cui, nella recente riforma liturgica, si è dovuto provveduto a rimettere in luce tale ruolo, soprattutto per l’epiclesi, o invocazione dello Spirito Santo sulle offerte nella celebrazione eucaristica. Quindi è lo Spirito Santo che fa sì che le parole e i gesti che la Chiesa compie nella liturgia, che per quanto ricercati e solenni, sono sempre semplici parole e poveri gesti, divengano capaci di esprimere e di attuare il mistero della salvezza e di essere accettati dal Padre come « sacrificio a lui gradito ». Ma come agisce nella Chiesa e nel cristiano, lo Spirito Santo? Mons. Magrassi ci dà una indicazione preziosa: «La sua persona rimane misteriosa. Egli non agisce se non attraverso un’altra persona, prendendone possesso e trasformandola. Più che la sua persona, ci si rivela dunque la sua azione nel mondo e nell’uomo, quale energia divina che anima e sospinge avanti la storia verso il suo compimento». (O.c., p. 29-30). Lo Spirito trasforma e dà, anche dal punto di vista dei gesti esteriori, forza e coraggio; Gesù esorta i suoi a non avere paura quando saranno chiamati davanti a «governatori e re», perché «non sarete voi a parlare, ma lo Spirito Santo» (Mc 13,11). Lo stesso aviene nel’assemblea liturgica: lo Spirito prende possesso di essa e la rende capace di rendere attuale il mistero divino della salvezza.

L’azione dello Spirito in Maria
Il nostro compito era ed è quello di mettere in luce la presenza e il compito di Maria in questo mistero: siamo partiti da lontano, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo. Abbiamo presenti due episodi del Nuovo Testamento significativi da questo punto di vista: l’Annunciazione e la Pentecoste; essi stessi possono essere intesi come vere e proprie liturgie, comunque sono oggetto di due solennità e quindi diventano il nostro mistero di salvezza attraverso l’attualizzazione liturgica. Prima di tutto, si è detto che lo scopo della liturgia è quello di far nascere e crescere in noi il figlio di Dio, l’altro Cristo e questo attraverso la parola annunciata ed attuata in quanto accolta nella fede. Nell’Annunciazione, alla parola dell’angelo accettata da Maria nel « fiat », segue l’incarnazione del Figlio di Dio nel suo seno. Ma questo non è tutto, perché come afferma in una celebre frase S. Agostino, Maria concepì più felicemente nel « cuore » che non nel « grembo », per cui tutta la sua persona (pur tenendo fermo il mistero dell’Immacolata Concezione) è divenuta un altro Cristo; in questo caso il mistero della salvezza (Incarnazione di Cristo) e il frutto di tale mistero (il dono all’uomo della filiazione divina) hanno coinciso perfettamente. Tutto questo perché lo Spirito Santo è sceso su di lei; Maria si è resa totalmente disponibile alla azione dello Spirito, quasi annullandosi in lui: proprio per questo è avvenuto in lei l’indicibile mistero. In Maria possiamo veramente contemplare e comprendere quanto sia potente l’azione dello Spirito Santo. Anonimo, Pentecoste. La discesa dello Spirito Santo trasforma Maria e gli Apostoli e li abilita alla missione; la stessa cosa avviene per la Chiesa attraverso l’intervento dello Spirito nella Liturgia.

Maria modello della Chiesa che celebra
Questo è l’aspetto discendente: il mistero che si compie. Ma Maria illumina anche l’aspetto ascendente, in quanto opera del Corpo mistico di Cristo. Di questo aspetto possiamo stabilire tre momenti:
A) La proclamazione-ascolto della parola
Sull’atteggiamento di ascolto di Maria – che significa anche attesa e docilità – si è detto tanto: qui vogliamo solo rilevare che esso rappresenta l’atteggiamento tipico del cristiano che si accosta alla liturgia. Gesù non poté fare miracoli fra i Nazaretani «a causa della loro incredulità» (Mt 13,58). Si tratta quindi di una disposizione di cuore che è frutto dello Spirito e che apre, nello stesso tempo, alla sua azione. Tutto è possibile a Dio, dice l’angelo e Maria, perché egli invierà il suo Spirito. Chi si accosta alla Liturgia non può farlo senza la fede nel potere dello Spirito di « trasformare » l’umano in divino. Dio attende il « fiat » di Maria, così come attende il nostro « fiat »: senza di esso l’opera di Dio non si attua e l’uomo rimane uomo, nei suoi peccati.
B) La lode per le grandi cose operate da Dio
Lode per le grandi cose di Dio. La liturgia è lode al Padre nello Spirito per le grandi cose compite nel Figlio. Gesù esultò « nello Spirito »; altrettanto fa il cristiano nella liturgia, che trova il suo momento culminante nel canto angelico del « Santo », ripreso dalla visione di Isaia, quando egli assistette alla liturgia del Cielo (Is 6,1-3). La lode sorge quando uno sperimenta il mistero della salvezza; coloro che erano stati guariti da Gesù se ne andavano «glorificando e lodando Dio». Maria ha fatto altrettanto dopo l’incarnazione del Figlio di Dio nel suo grembo, intonando il « Magnificat », che giustamente è diventato il canto tipico di ringraziamento della Chiesa. Tuttavia, anche se i Vangeli non ce ne parlano, la lode più alta Maria l’avrà elevata dopo la Risurrezione del Figlio: forse ne abbiamo un’eco nella preghiera di lode degli Apostoli e di Maria dopo l’effusione dello Spirito Santo.
 C) La missione, come ultimo atto della celebrazione liturgica che poi si prolunga nella vita
Una volta l’«Ite Missa est» significava presso a poco: «Finalmente possiamo andarcene»; in realtà significava: «Andate, questa è la missione», ma erano ben pochi coloro che lo intendevano così. Giustamente una delle formule di congedo consigliate dal muovo Messale dice: «Andate e annunciate le meraviglie del Signore». La missione fondamentalmente è annunciare quanto si è sperimentato; è quello che fanno gli apostoli subito dopo la Pentecoste, come frutto dello Spirito ricevuto. Gesù stesso, nel Battesimo, viene presentato dal Padre come il «Figlio prediletto» e quindi come suo inviato, dopo che lo Spirito è sceso su di lui. Lo Spirito Santo, quindi, « abilita » per la missione e a sua volte questa è lo sbocco naturale della liturgia: il suo anello di congiunzione con la vita, che diventa fondamentalmente un continuo e multiforme annuncio.
Il riferimento mariano inevitabilmente corre alla Visita ad Elisabetta: Maria, trasformata dallo Spirito Santo e « piena » del Verbo della vita, « corre » dalla cugina, non tanto e non solo per assisterla, ma soprattutto per condividere con lei la grazia che aveva ricevuto; ed Elisabetta, al solo saluto di Maria, comprende il mistero di cui lei è portatrice. Anche in questo caso, come sempre del resto, guardare a Maria significa essere immessi nel cuore del mistero salvifico; lei è testimone non solo di quello che opera tale mistero, ma anche di come a tale mistero ci si accosta, perché possa essere pienamente fruttuoso in noi. Perciò possiamo veramente concludere con l’esortazione di S. Ambrogio: «Dev’essere in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore, dev’essere in ciascuno il suo spirito per esultare in Dio».

IL MISTERO DELLA TRINITÀ: COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È «NATO» DAL PADRE?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Il-mistero-della-Trinita-cosa-significa-che-Gesu-e-nato-dal-Padre

RISPONDE IL TEOLOGO

IL MISTERO DELLA TRINITÀ: COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È «NATO» DAL PADRE?

Un lettore chiede il significato di un’espressione del Credo: «Nato dal padre prima di tutti i secoli». Risponde don Angelo Pellegrini, docente di Teologia dogmatica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
24/04/2013
Siamo nell’Anno della fede. Il credo niceno-costantinopolitano (non quello degli apostoli) dice così: «Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli…» Se è nato vuol dire che «prima» non c’era. Sotto questo aspetto il Padre è «più» del Figlio. Allora si potrebbe dire che in questo punto questo Credo non esprime bene l’uguaglianza tra Padre e Figlio. È più vero allora Giovanni Evangelista: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio…». Mi può chiarire un teologo?

Giovanni Manecchia
L’acuta osservazione del lettore impone una premessa necessaria, che traggo dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «La Trinità è un mistero della fede in senso stretto» (n. 237). Questo significa che le nostre affermazioni su Dio Trino hanno lo scopo di non deformare l’idea di Dio al punto da renderla incompatibile con quanto rivelato da Cristo.
L’idea di un dio troppo razionalistica o umanizzata, ad esempio, andrebbe a scontrarsi con le affermazioni del profeta Isaia il quale sostiene, alla stregua di un idolo, che pregheremmo «un dio che non può salvare» (45,20). Al contempo non possiamo pretendere, proprio perché la Trinità è un mistero in senso stretto, che le nostre espressioni in merito siano totalmente chiare ed immediate.
Il nostro linguaggio nasconde sempre una certa oscurità, ambiguità ed è pertanto suscettibile di spiegazioni utili alla sua precisazione. Data l’importanza e la complessità della questione, spero che queste mie brevi parole possano essere utili ad un chiarimento, anziché portare altra nebbia.
In questo senso i Padri del Concilio di Costantinopoli (381) modificarono la frase in questione che, nel credo del Concilio di Nicea (325), suonava piuttosto diversamente. Il loro scopo era certamente chiarire che Padre e Figlio non sono subordinati, cioè sono «uguali nella natura divina», ma non in questo passaggio. Questo passaggio voleva spiegare piuttosto che essi sono sì uguali, secondo la natura, ma non sono interscambiabili, vanno perfettamente identificati, hanno una specificità propria non comparabile, ma soprattutto scambiabile con la specificità dell’altro. Ossia il Padre è Padre e non va confuso con il Figlio e viceversa.
In questo senso noi traduciamo la parola greca del gennethénta con nato, mentre poco sotto lo stesso participio lo traduciamo con generato, nella frase «generato non creato». Il verbo al participio passato è lo stesso e va capito tenendo assieme le due espressioni. La seconda frase, infatti, fu inserita nel Concilio di Nicea contro il subordinazionismo di Ario il quale sosteneva che non soltanto Padre e Figlio non erano uguali, ma addirittura che, non avendo la stessa natura, il Figlio era semplicemente una creatura, creata da Dio prima delle altre.
Dire che non era creato significava separare il Figlio dalle creature, escludere la sua natura creaturale e affermare la piena divinità della natura del Verbo, poiché generato dal Padre. Sono diverse le espressioni del credo che affermano questo concetto; ne ricordo due, che però non è possibile spiegare in questa sede: consustanziale, ossia della stessa sostanza; Dio vero da Dio vero.
Nel nostro contesto però l’espressione nato/generato assume un valore aggiuntivo: pur affermando l’uguaglianza di Padre e Figlio, ci dice che non sono interscambiabili anzi indica la loro identità specifica. Il Padre è colui che dona, generando, pienamente la divinità e l’amore al Figlio eternamente; il Figlio è colui che, eternamente, riceve in pienezza il dono dell’amore e della divinità dal Padre.
Questo dono eterno è pieno ed è totale, per cui pur non scambiando chi dona e chi riceve, l’espressione non nega la piena uguaglianza di Padre e Figlio secondo la divinità, ma li distingue in ordine alla identificazione personale.
Il discorso andrebbe ovviamente completato mostrando come tutto ciò valga anche per lo Spirito Santo, uguale secondo la natura al Padre e al Figlio, ma distinto per identità personale e ruolo specifico.
Sinteticamente il secondo Concilio di Costantinopoli (553) ha proprio voluto affermare questo concetto sostenendo che «il Padre e il Figlio hanno una sola natura o sostanza […] poiché essi sono una Trinità consustanziale, una sola divinità da adorarsi in tre ipostasi», ossia persone.
Da questo punto di vista il Credo diventa anche una singolarissima spiegazione del primo versetto del Vangelo di San Giovanni opportunamente citato dal lettore.

QUEL CHE RESTA DEL DOLORE: IL TRAUMA E LA TESTIMONIANZA DELLO SPIRITO (ROBERT CHEAIB)

http://www.zenit.org/it/articles/quel-che-resta-del-dolore

QUEL CHE RESTA DEL DOLORE

IL TRAUMA E LA TESTIMONIANZA DELLO SPIRITO

ROMA, 13 MAGGIO 2013 (ZENIT.ORG) ROBERT CHEAIB

I cristiani sono talmente abituati al passaggio teorico dalla croce alla risurrezione da vedere ormai quasi una logica continuità: prima vi è la sofferenza, l’ignominiosa morte e dopo arriva the happy ending e il canto dell’alleluia. La vita emerge trionfale e annienta la morte. Questo passaggio indelicato non solo dimentica la storia umana, i suoi irrisolti «perché» sulla sofferenza e sulla morte, ma soprattutto non rispetta il «sabato santo», la spaccatura e il contrasto, quel quadro dipinto con sfumature di un silenzio non qualsiasi, del silenzio della Parola, del silenzio in/di Dio. Questo passaggio dimentica anche che il risorto è sempre il risorto crocifisso che porta i segni della passione, che sono, sì, segni d’amore, ma pur sempre segni di ingiustizia, di dolore, di «amore non amato»… sono «quel che resta del dolore».
Nel suo volume Quel che resta del dolore. Il trauma e la testimonianza dello Spirito, la teologa americana Shelly Rambo dedica la sua riflessione e la sua sensibilità all’analisi di quest’interstizio dell’esperienza umana tra la tempesta che passa e il «dopo la tempesta» che rimane. La traduzione italiana del volume, curata da Giuseppe Mazza, si inserisce nella collana Universo teologia Limina delle Edizioni San Paolo dedicata alle tematiche «limite» spesso marginalizzate nella riflessione teologica, ma non tali nel vissuto quotidiano di credenti e non.

Il trauma
Il trauma è per natura ciò che non va via. È la trasformazione dell’esperienza di sofferenza in sintomi che sopravvivono nel corpo, nei ricordi che tornano e che forse ci perseguitano. Il trauma è «un incontro con la morte» che non è, però, morte in senso letterale. È un’esperienza intermedia che fa sì che la vita assuma una «definizione sostanzialmente diversa» la cui vulnerabilità la qualifica come «vita sempre mista alla morte» (22-23).
Le «teodicee» tentano di riconciliare il rapporto antitetico tra le affermazioni religiose su Dio (bontà, onnipotenza, onniscienza) e l’esperienza del male e della sofferenza, ma non giungono a dare una risposta efficace e sentita alla sofferenza stessa, o meglio, all’uomo che ha sofferto, che soffre e che porta il trauma come residuo per-manente della sofferenza.
Non di rado, le sofferenze vengono rivestite (investite?) con gli abiti di festa della speranza in una maniera troppo precoce, lasciando uno spazio oscuro e non visitato dal Vangelo: quello del cuore che si chiede ancora perché? Perché a me? Dove è/era Dio? La persona che ha sperimentato il dolore non vuole un Vangelo che cancelli la sua storia, ma che la illumini, che la visiti e che costruisca un futuro di speranza dalle fibre del corpo morto e non da un surrogato estraneo. Se non si ha la pazienza della semina della speranza si incorre nel rischio di «occultamento della realtà della morte nella vita stessa» (27).
La convinzione di Shelly Rambo è che il cristianesimo è capace di offrire, a chi ha sperimentato il trauma, chiavi teologiche, ermeneutiche ed esperienziali per teologizzare e interpretare la fase intermedia che, non è l’evento della croce e neppure quello della risurrezione, ma i dinamismi che sussistono fra i due. È qui che risiede la buona notizia, «nella capacità della teologia cristiana di testimoniare tra morte e vita, ovvero nella sua capacità di dar forma a una nuova riflessione tra le due dimensioni» (29). La teologia viene presentata, quindi, come «discorso di guarigione» che cerca di trasformare le realtà di sofferenze attraversate.

Sopra-vivere e testimoniare
Il trauma costituisce una «lente infranta» che debilita la capacità personale di considerare il passato, ma anche quella di immaginare il futuro (50). Attraversare il trauma e continuare a vivere diventa un evento che, nelle parole di Jacques Derrida, può essere qualificato come sopra-vivere. È letteralmente così: dopo un’esperienza di sofferenza o si muore (se non fuori, sicuramente dentro), o si vive su un piano superiore. Il termine sopra-vivere suggerisce «l’idea della vita che eccede se stessa. Tale eccedenza o traboccamento emerge dall’esperienza della morte» (59).
Testimoniare tale sopravvivenza diventa un modo per rendere ragione della fede nel cuore delle realtà traumatiche. Si tratta di uno spazio dove viene seriamente coinvolto «il disorientarsi del tempo, della parola e del corpo, nel quadro delle molteplici elisioni che lo costituiscono» (87).
La testimonianza riconosce e raccoglie la natura infranta della parola, del corpo, della storia individuale e comunitaria nella testimonianza che spinge verso una particolare manifestazione dello Spirito, non tanto come «datore di vita», ma come «testimone dell’emergere della vita dalla morte».

Il sabato santo e la testimonianza in Giovanni
La teologa riflette sull’istanza del sabato santo approfondita da Hans Urs von Balthasar in dialogo con la teologia e le esperienze mistiche di Adrienne von Speyr. Il teologo di Basilea getta uno sguardo prospettico sulla redenzione oltre la morte in croce e prima dell’alba della risurrezione, esaminando lo spazio intermedio della discesa negli inferi. Balthasar descrive quell’esperienza teologica come un dramma che va oltre la nostra stessa comprensione. È quella dimensione dove tra passione e risurrezione «non vi è luce, non vi è vita, non vi sono parole» (124).
Lo sguardo dell’autrice enuclea l’espediente narrativo che dialoga con questa sensibilità del silenzio di Dio in una scena che distingue il racconto della passione giovannea. Si tratta della scena del soldato che trafigge con la lancia il corpo esanime del Crocifisso. L’acqua è generalmente intesa come simbolo di vita, ma in questa pericope giovannea, l’acqua compare in un ambito di morte. «I fluidi della morte e della vita sono mescolati insieme, e contrassegnano nel testo uno spazio da cui scaturisce una testimonianza particolare» (155): una testimonianza tra morte e vita, tra croce e risurrezione.
Inoltre, la testimonianza giovannea si declina con due termini precisi: rimanere (ménein) e trasmettere (paradidónai). Il primo è un modo di esprimere un diverso tipo di presenza necessario a seguito della morte di Gesù. «È una presenza che prende la forma del sopportare, del resistere, del persistere. È una presenza che accompagna e custodisce, portando sempre con sé i segni della sofferenza e della morte» (194). Il secondo termine – trasmettere – rimanda alla consegna, all’attenzione verso coloro che rimangono, a Giuda che consegna ma soprattutto allo Spirito che è consegnato.
I due termini non rimandano a una testimonianza forte o arrogante, ma a una presenza infranta. Essi rappresentano «la caotica e inconcludente esperienza del vivere oltre la morte» con l’annuncio della risurrezione. Sopra-vivere prende forma attraverso l’imperativo di rimanere e di amare.
I paradigmi personali di questa testimonianza sono il discepolo amato e Maria Maddalena. Entrambi «attestano un evento di morte in e attraverso un diverso concetto di vita che ne emerge: non un’immagine di vita nuova e trionfante, ma la persistente testimonianza resa all’amore che sopravvive» (204).

Lo Spirito intermedio e l’amore che rimane
La consegna dello Spirito esprime la potenza di Dio che rimane oltre la morte e nel trauma. «Dio non è potente nella distanza, ma nella sua intima relazionalità verso tutte le cose». La presenza dello Spirito è testimonianza che «Dio è vulnerabile rispetto al mondo, è coinvolto in esso. Lo Spirito, come figura del desiderio divino, esprime la potenza nell’apertura e nella vulnerabilità» (239).
Gesù che consegna lo Spirito testimonia che l’amore rimane. Il soffio vitale si estingue, ma non è assorbito dalla morte. Persiste proprio nel suo consegnarsi. L’amore rimane come testimonianza viva nell’abisso. «Non trova dimostrazione nella capacità di pronunciare la vita, ma in quella di recare testimonianza in e attraverso la morte al soffio dell’amore divino. Nell’intermedio la vita non può essere vista, e per tal motivo dev’essere testimoniata» (251).
In una storia commista di morte e vita, è evidente che la morte rimane. La vita non può allora essere concepita a prescindere da essa. Il comando dell’amore testimonia la possibilità del «no», del lasciarsi assorbire dalla voragine cupa dell’odio e del rancore che il male alimenta naturalmente, ma testimonia anche una possibilità kairologica: il «sì» che fa sì che quel che resta del dolore possa essere anche «l’amore che rimane», sopravvive, permettere di sopravvivere, e anche se a un prezzo ingente, di vivere in pienezza.

Publié dans:TRINITÃ - SPIRITO SANTO |on 13 mai, 2013 |Pas de commentaires »

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI – ANGELO AMATO (ANNO DELLO SPIRITO SANTO)

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01021998_p-18_it.html

L’ANNO DELLO SPIRITO SANTO
I segni della speranza: i popoli

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI
Angelo Amato

1. Lo Spirito è «Persona-dono»
L’esistenza cristiana è intimamente segnata dalla «nube dello Spirito» (cf. Mt 17,5). È lo Spirito che porta i fedeli alla loro piena configurazione a Cristo. Ma, in cosa consiste, concretamente, la presenza dello Spirito Santo e qual è il significato dei suoi doni? La risposta è semplice: la vita cristiana, per svilupparsi e giungere a maturazione, esige una assistenza speciale dello Spirito santo e dei suoi doni. Il mistero profondo dello Spirito è quello di essere «dono»: «Si può dire che nello Spirito santo la vita intima del Dio uno e trino si fa tutta dono, scambio di reciproco amore tra le divine Persone, e che per lo Spirito santo Dio «esiste» a modo di dono. È lo Spirito Santo l’espressione personale di un tale donarsi, di questo essere amore. È Persona-amore. È Persona-dono» (Dominum et Vivificantem, n. 10).
Essendo Persona-dono lo Spirito è la sorgente di ogni dono creato, come la vita, la grazia, la carità: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5). Ed è Gesù che ha dato il suo Spirito come dono di vita nuova agli apostoli, alla chiesa, al mondo: «Innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). Queste parole di Pietro a Pentecoste, riecheggiano la sua esperienza pasquale. La sera della risurrezione, infatti, Gesù, apparendo agli apostoli, disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Anche a Pentecoste gli apostoli «furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,4). Tale pentecoste apostolica rifluisce su tutta l’umanità, in tutte le sue categorie di giovani e di anziani, di uomini e di donne. È lo stesso Pietro a spiegare, nel suo primo kérygma, che questa irruzione dello Spirito non fa che realizzare la profezia di Gioele:
«Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (At 2,17-18).
Il dono dello Spirito significa vocazione alla profezia da parte dei figli e delle figlie, dei servi e delle serve; significa chiamata a seguire grandi ideali («visioni») da parte dei giovani e ad avere sogni profetici da parte degli anziani. L’effusione dello Spirito a Pentecoste realizza anche la profezia di Ezechiele:
«Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia» (Ez 36,24-29).
Lo Spirito è cioè dono di comunione, è acqua di purificazione, è cuore di carne, è novità, è obbedienza, è appartenenza e fedeltà a Dio, è abbondanza di beni.
2. «Vieni, datore dei doni»
San Giovanni, parlando della nostra vocazione alla comunione con Dio-Amore, afferma: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,13). È nello Spirito che noi amiamo Dio. Per questo S. Agostino afferma che «lo Spirito santo è il dono di Dio a tutti coloro che per mezzo suo amano Dio»1. Lo Spirito ci abilita al rapporto interpersonale con Dio, all’alleanza tra il nostro «io» e il «tu» divino: «Il dono dello Spirito significa chiamata all’amicizia, nella quale le trascendenti profondità di Dio vengono, in qualche modo, aperte alla partecipazione da parte dell’uomo» (Dominum et Vivificantem, n. 34). È quanto S. Paolo diceva: «Viviamo sotto il dominio dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi» (Rm 8,5.9); «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25).
Per rendere possibile e facilitare questo cammino lo Spirito si fa sorgente di molteplici doni, frutti, carismi. Per questo nella solennità di Pentecoste lo invochiamo: «Vieni, Santo Spirito, vieni, datore dei doni». Tradizionalmente si parla dei sette doni dello Spirito Santo: «la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio» (CCC n. 1831). Attribuiti in prima istanza al Messia (cf. Is 11,1-2)2, nel quale si realizzano in pienezza, questi doni perfezionano le virtù del battezzato, rendendolo docile e obbediente a seguire le mozioni dello Spirito. Se la vocazione del cristiano è la santità, i doni dello Spirito servono per agevolare la pratica delle virtù sia teologali (fede, speranza, carità), sia morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). Spesso la tradizione teologica ha messo in correlazione i singoli doni con le singole virtù. Ad esempio, il dono del timore viene visto in corrispondenza con la virtù della temperanza e il dono della sapienza con la virtù della carità. In realtà ogni singolo dono facilita l’esercizio di tutte le virtù, che ne escono fortemente rafforzate. Più che in una graduatoria o su una scala i doni devono essere messi in reciproca circolarità e correlazione.
3. Il timore, come gioiosa trepidazione per la vicinanza di Dio
Il timore del Signore si può considerare come il primo gradino della scala della perfezione, che avrebbe il suo vertice nel dono della sapienza. Afferma S. Tommaso d’Aquino: «Il timore filiale occupa il primo posto tra i doni dello Spirito Santo in ordine ascendente, e l’ultimo in ordine discendente»3. Il Siracide, tuttavia, mostra l’interdipendenza e il reciproco influsso dei doni:
«Pienezza della sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri devoti. Tutta la loro casa riempirà di cose desiderabili, i magazzini dei suoi frutti. Corona della sapienza è il timore del Signore; fa fiorire la pace e la salute. Dio ha visto e misurato la sapienza; ha fatto piovere la scienza e il lume dell’intelligenza; ha esaltato la gloria di quanti la possiedono. Radice della sapienza è temere il Signore; i suoi rami sono lunga vita» (Sir 1,14-18).
In una proposta di cammino vocazionale, si può vedere nel timore di Dio il primo passo per abbandonare la vita secondo la carne e percorrere la via secondo lo Spirito. Il timore di Dio fa comprendere che la vita non è solitudine e silenzio, ma comunione con Dio. Il timore non è paura di Dio, ma trepidazione e gratitudine per la sua grande prossimità a noi. È riscoperta e lode della sua grandezza e sapienza, e, allo stesso tempo, coscienza di essere immersi in questo «ambiente divino», avvolti dall’abbraccio di Dio:
«Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?» (Sal 139,1-7).
La prostrazione di Abramo di fronte ai tre pellegrini (Gn 18,2), la sorpresa di Giacobbe nel sogno della scala, la cui cima raggiungeva il cielo (Gn 28,12), lo sbigottimento di Mosè al roveto ardente (Es 3,6), la meraviglia di Isaia di fronte al serafino col carbone ardente (Is 6,6-7), il grande spavento dei pastori all’annuncio degli angeli (Lc 2,9), lo stordimento di Giovanni il veggente di fronte al Vivente (Ap 1,17) indicano lo stupore improvviso di chi si trova a tu per tu di fronte al mistero santo di Dio. È un timore che non si tramuta in paura, ma, al contrario, si espande per Abramo in servizio e dialogo con Dio, per Giacobbe in conferma di aver incontrato Dio, per Mosè in spinta alla missione, per Isaia in obbedienza alla chiamata profetica, per i pastori in invito a incontrare il neonato Salvatore, per Giovanni in contemplazione dell’azione efficace e vittoriosa di Dio nelle martoriate vicende della chiesa e del mondo.
Il timore è la trepidazione avvertita da chi inizia il cammino della vita nello Spirito e si affida con confidenza nelle mani di Dio: «Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri: vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita» (Sal 139,23-24). Il timore di Dio diventa così consapevolezza della debolezza umana, esercizio di umiltà e di povertà di spirito, ma anche fiducia nella misericordia di Dio, speranza nella sua provvidente bontà, autentico «principio di saggezza» (Sal 111,10).

NOTE
1) De Trinitate, XV 19,35.
2) Il testo ebraico di Is. 11,2 parla di sei doni: spirito di sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza e timore del Signore. La versione greca dei LXX e la versione latina della Volgata enunciano invece sette doni, introducendo la «pietà». In realtà si tratta di una interpretazione di Is 11,3, in cui il «timore del Signore», ripetuto in questo versetto, viene tradotto in una sua variazione e cioè in «pietà».
3) STh, II/II q. 19 a. 9.

Publié dans:TRINITÃ - SPIRITO SANTO |on 8 mai, 2013 |Pas de commentaires »
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