Archive pour la catégorie 'testimonianze'

FRANÇOIS XAVIER NGUYEN VAN THUAN: CINQUE PANI E DUE PESCI

dal sito: 

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/piccoli_grandi_libri.htm

FRANÇOIS XAVIER NGUYEN VAN THUAN 

CINQUE PANI E DUE PESCI 

TERZO PANE: 

UN PUNTO FERMO, LA PREGHIERA 

« Sappiate riascoltare,
nel silenzio della preghiera,
la risposta di Gesù:
« Venite e vedrete » »

(Giovanni Paolo II, Messaggio per la XII giornata mondiale della Gioventù, 1997, n. 2) 

Dopo la mia liberazione, molte persone mi hanno detto: «Padre, lei ha avuto molto tempo per pregare, in prigione ». Non è così semplice come potreste pensare. Il Signore mi ha permesso di sperimentare tutta la mia debolezza, la mia fragilità fisica e mentale. Il tempo passa lentamente in prigione, particolarmente durante l’isolamento. Immaginate una settimana, un mese, due mesi di silenzio… Sono terribilmente lunghi, ma quando si trasformano in anni, diventano un’ eternità. Un proverbio vietnamita dice: « Un giorno in prigione è come mille autunni fuori ». Vi sono giorni in cui, stremato dalla stanchezza, dalla malattia, non arrivo a recitare una preghiera! 

Mi viene alla memoria una storia, quella del vecchio Jim. Ogni giorno, alle 12, Jim entrava in chiesa, per non più di due minuti, poi usciva. Il sacrestano era molto curioso e un giorno fermò Jim e gli domandò:
- Perché vieni qui ogni giorno?
- Vengo per pregare.
- Impossibile! Quale preghiera puoi dire in due minuti?
- Sono un vecchio ignorante, prego Dio a mio modo.
- Ma che cosa dici?
- Dico: Gesù, eccomi, sono Jim. E me ne vado.
Passano gli anni. Jim, sempre più vecchio, malato, entra in ospedale, nel reparto dei poveri. In seguito, sembra che Jim stia per morire, e il prete e la religiosa infermiera stanno vicino al suo letto.
- Jim, dicci: perché, da quando sei entrato in questo reparto, tutto è cambiato in meglio, e la gente è diventata più contenta, felice e amichevole?
- Non lo so. Quando posso camminare, giro di qua e di là, visitando tutti, li saluto, chiacchiero un po’; quando sono a letto, chiamo tutti, li faccio ridere tutti, li rendo tutti felici. Con Jim, sono sempre felici.
- Ma tu, perché sei felice?
- Voi, quando ricevete una visita ogni giorno, non siete felici?
- Certo. Ma chi viene a visitarti? Non abbiamo mai visto nessuno.
- Quando sono entrato in questo reparto, vi ho chiesto due sedie: una per voi, una riservata per il mio ospite, non vedete?
- chi è il tuo ospite?
- È Gesù. Prima andavo in chiesa a visitarlo, adesso non posso più; allora, alle 12, Gesù viene.
- E che cosa ti dice Gesù?
- Dice: Jim, eccomi, sono Gesù!…
Prima di morire, lo vediamo sorridere e fare un gesto con la mano verso la sedia vicina al suo letto, invitando qualcuno a sedere. Sorride di nuovo e chiude gli occhi. 

Quando le forze mi mancano e non riesco neanche a recitare le mie preghiere, ripeto: « Gesù, eccomi, sono Francesco ». Vengono gioia e consolazione, ed esperimento che Gesù risponde: «Francesco, eccomi, sono Gesù ». 

Voi mi domandate: quali sono le tue preghiere preferite?
Sinceramente, amo molto le preghiere brevi e semplici del Vangelo:
«Non hanno più vino! » (Gv 2,3).
«Magnificat…» (Lc 1,46-55).
«Padre, perdona loro… » (Lc 23,34).
«In manus tuas…» (Lc 23,46).
«Ut sint unum… Tu in me…» (Gv 17,21).
«Miserere mei peccatoris»
(Lc 18,13).
«Ricordati di me quando sarai in paradiso» (Lc 23,42-43). 

In carcere non ho potuto portare con me la Bibbia; allora ho raccolto tutti i pezzetti di carta che ho trovato e mi sono fatto una minuscola agenda, in cui ho riportato più di 300 frasi del Vangelo; questo Vangelo ricostruito e ritrovato è stato il mio vademecum quotidiano, il mio scrigno prezioso da cui attingere forza e alimento mediante la lectio. divina.
Amo pregare con l’intera parola di Dio, con le preghiere liturgiche, i salmi, i cantici. Amo molto il canto gregoriano, che ricordo a memoria in gran parte. Grazie alla formazione in seminario, questi canti liturgici sono entrati profondamente nel mio cuore! Poi, le preghiere nella mia lingua nativa, che tutta la famiglia prega ogni sera nella cappella familiare, così commoventi, che ricordano la prima infanzia. Soprattutto le tre Ave Maria e il Memorare che mia mamma mi ha insegnato a recitare mattina e sera. 

Come ho detto, sono stato 9 anni in isolamento, cioè solo con due guardie. Per evitare le malattie dovute all’immobilità, come l’artrosi, camminavo tutto il giorno facendo massaggi, esercizi fisici ecc., pregando con canti come Miserere, Te Deum, Veni Creator e l’inno dei martiri Sanctorum meritis. Questi canti della Chiesa, ispirati alla parola di Dio, mi comunicano un grande coraggio per seguire Gesù. Per apprezzare queste bellissime preghiere, è stato necessario sperimentare l’oscurità del carcere e prendere coscienza del fatto che le nostre sofferenze sono offerte per la fedeltà alla Chiesa. Questa unità con Gesù, nella comunione con il Santo Padre e tutta la Chiesa, la sento in modo irresistibile quando ripeto, durante la giornata: «Per ipsum et cum ipso et in ipso… ».
Mi viene in mente una semplicissima preghiera di un comunista, è vero, che prima era una spia, ma che dopo è diventato mio amico. Prima della sua liberazione mi ha promesso: «La mia casa dista 3 km dal santuario della Madonna di Lavang. Ci andrò per pregare per lei ». Credo alla sua amicizia, ma dubito che un comunista vada a pregare la Madonna. Ecco, un giorno, forse 6 anni dopo, mentre ero in isolamento, ho ricevuto una sua lettera! Scriveva: «Caro amico, ti avevo promesso di andare a pregare la Madonna di Lavang per te. Lo faccio ogni domenica, se non piove. Prendo la mia bicicletta quando sento suonare la campanella. La basilica è interamente distrutta dal bombardamento, allora vado al monumento dell’apparizione, che rimane ancora intatto. Prego per te così: Madonna, non sono cristiano, non conosco le preghiere, ti domando di dare al signor Thuan ciò che lui desidera ». Sono commosso fino nel profondo del mio cuore; certamente la Madonna lo esaudirà.
Nel Vangelo che stiamo meditando, prima di compiere il miracolo, prima di nutrire la gente affamata, Gesù ha pregato. Gesù vuole insegnarmi: prima del lavoro pastorale, sociale, caritativo, bisogna pregare.
Giovanni Paolo II vi dice: «Conversate con Gesù nella preghiera e nell’ ascolto della Parola; gustate la gioia della riconciliazione nel sacramento della penitenza; ricevete il Corpo e il Sangue di Cristo nell’ eucaristia… Scoprite la verità su di voi stessi, l’unità interiore e troverete il « Tu » che guarisce dalle angosce, dagli incubi, da quel soggettivismo selvaggio che non dà la pace» (Messaggio per la XII giornata mondiale della Gioventù, 1997, n. 3). 

Preghiera 

BREVI PREGHIERE EVANGELICHE 

Penso, Signore, che Tu mi hai donato
un modello di preghiera.
A dire il vero, non ne
hai lasciato che uno solo: il Padre nostro.
E breve, conciso
e denso. 

La tua vita, Signore, è una preghiera,
sincera
e
semplice,
rivolta al Padre.
È
accaduto che la tua preghiera fosse lunga,
senza formule fatte,
come la preghiera sacerdotale
dopo la Cena:
ardente
e spontanea. 

Ma abitualmente, Gesù, la Vergine, gli apostoli usano preghiere brevi, ma molto belle che essi associano alla loro vita quotidiana. lo che sono debole e tiepido, amo queste brevi preghiere davanti al Tabernacolo, alla scrivania, per strada, solo. Più le ripeto, più ne sono penetrato. Sono vicino a Te, Signore. 

Padre perdona loro,
perché
non sanno quello che fanno. 

Padre, che siano una cosa sola. 

Sono la serva del Signore. 

Non hanno vino. 

Ecco tuo figlio, ecco tua madre! 

Ricordati di me, quando sarai nel tuo Regno. 

Signore, cosa vuoi che faccia? 

Signore, Tu sai tutto, Tu sai che Ti amo. 

Signore, abbi pietà di me, povero peccatore. 

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? 

Tutte queste brevi preghiere, legate l’una all’altra, formano una vita di preghiera. Come una catena di gesti discreti, di sguardi, di parole intime formano una vita d’amore. Esse ci conservano in un ambiente di preghiera senza distoglierei dal compito presente, ma aiutandoci a santificare ogni cosa. 

Nell’isolamento
a Hanoi (Nord Viet Nam),
25 marzo 1987,
Festa dell’ Annunciazione  

 

Publié dans:testimoni, testimonianze |on 12 février, 2008 |Pas de commentaires »

di Mons Ravasi, Enzo Biagi: La sua spiritualità? Nella terra e nel Decalogo

dal sito on line del giornale « Avvenire » di oggi mercoledi 7 novembre 2007: 

 

La sua spiritualità? Nella terra e nel Decalogo 


 Monsignor Ravasi: «Ha sempre avuto una straordinaria sensibilità per i temi morali. Pochi giorni fa aveva rivisitato tutta la vita di fronte a me» 

 DA ROMA LUIGI DELL’AGLIO 


 « I l mio ultimo incontro con Enzo Biagi risale a sabato scorso, quando lui – pur in una situazione criti­ca – aveva manifestato una for­ma di rinascita. Perché aveva dentro un grande desiderio di vivere. Pensava già di riprende­re i nostri incontri periodici, tanto che ci eravamo dati ideal­mente appuntamento fra un mese».
 Parla monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che era legato a Biagi da amicizia e sti­ma. «Avevo frequentato Biagi lungo due percorsi. Da un lato quello culturale, del giornalismo, della vita intellettuale mila­nese con la quale ho sempre avuto contatti. Dall’altro ci ave­va avvicinato il suo gusto di ricordare le sue radici cristiane, bolognesi; amava tantissimo descrivere la sua famiglia, la gran­de spiritualità della madre e la profonda moralità del padre». Sono queste le strade del dialogo tra il giornalista-scrittore e il sacerdote. Un rapporto che ha avuto il suo picco più intenso quando a Biagi è morta la moglie (seguita poi da una figlia): «Ogni anno ci rivedevamo per ce­lebrare quegli anniversari e ritro­vare, insieme con le figlie, la spi­ritualità che c’era in lui. Biagi, è vero, è stato un laico, ma sempre con una straordinaria sensibilità per i temi morali. Non dimenti­chiamo che un valore fonda­mentale per lui era il decalogo; fu il tema ispiratore di una del­le sue trasmissioni più note. Il decalogo era il vessillo che simboleggiava la moralità, per Bia­gi; una moralità laica ma anche un’etica religio­sa ».
  Conversando con lui si poteva cogliere il desi­derio di un aiuto spirituale? Secondo Ravasi sì: «Prima di partire per Roma ero stato un pome­riggio intero a casa sua. Conversando con me, rivisitò tutta la vita; riandava con piacere alle o­rigini ma anche alla sua esistenza, giudicando­la, e in questo senso affidandola – anche – al­l’interlocutore, che in questo caso era un sacer­dote. Perciò posso dire che il legame con lui, sul versante religioso, è stato sempre molto vivo, anche se non ci vedevamo spessissimo».
  Ravasi leggeva i libri di Biagi: «I suoi ‘ritratti’, erano una sorta di storia del secolo condotta dal punto di vista autobiografico. Perché lui, quando parlava con l’altro, si coinvolgeva. I suoi e­rano ritratti esemplari (una scrittura di grande trasparenza e incisività), però contenevano sempre una sorta di sottile giu­dizio morale; non perché Biagi giudicasse la persona, ma per­ché ne mostrava la realtà, le qualità e anche i limiti. Il suo ap­proccio non era quello di una fredda registra­zione o di un attacco sarcastico. Biagi non co­nosceva il sarcasmo, semmai usava l’ironia. Per­ciò non amava quel giornalismo d’assalto, ag­gressivo che si vede oggi, che cerca quasi di met­tere trappole per far cadere l’intervistato».
  Forse fra le righe si poteva leggere un filo di ma­linconia… «Era il realismo che gli veniva dalle o­rigini legate alla terra, a un mondo che aveva u­na sua spiritualità e gli permetteva di vedere con distacco, e forse con malinconia, la realtà uma­na. Senza indulgere agli eccessi d’entusiasmo ma neanche a deprecazione e pessimismo».

 

 

Publié dans:testimonianze |on 7 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Si è spento all’età di 82 anni, don Oreste Benzi

dal sito: 

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=164909

 

  

Si è spento all’età di 82 anni, don Oreste Benzi. Il cordoglio di Benedetto XVI: “Un infaticabile apostolo della carità che ha speso la vita per gli ultimi e gli indifesi”. Intervista con il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi 

 

Si è spento poco dopo le due di questa mattina, per un attacco cardiaco, don Oreste Benzi, l’82.enne sacerdote romagnolo, fondatore dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, che per circa 40 anni è stato in prima linea per assistere i disagiati di tutto il mondo. In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, Benedetto XVI esprime il proprio dolore per la scomparsa di don Benzi, ricordato come un « umile e povero sacerdote di Cristo », un « infaticabile apostolo della carità” dall’“intensa vita pastorale” spesa per gli ultimi e gli indifesi, un « docile servitore della Chiesa » che si è fatto carico – afferma il Papa – « di tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo contemporaneo”. Alessandro Gisotti ripercorre in questo servizio le tappe principali della vita e dell’opera di don Benzi:

“Io non ho fondato niente. Sono stati i poveri che ci hanno rincorso, che ci hanno impedito di addormentarci”: don Oreste Benzi rispondeva così a quanti gli chiedevano perché avesse fondato l’Associazione “Papa Giovanni XXIII”. Don Oreste si è lasciato incontrare da Cristo. Ha cercato e trovato il Suo Volto in quello di chi soffre, nei barboni, nelle donne costrette a vendere il proprio corpo, nei ragazzi alla ricerca di un senso per la propria vita. Già a 12 anni, nel 1937, don Oreste è in seminario a Rimini. Nel 1949 viene ordinato sacerdote e fin dai primi anni ’50 come assistente della Gioventù Cattolica riminese matura in lui la convinzione di farsi prossimo agli adolescenti per proporre loro un “incontro simpatico con Cristo”. Impegno portato avanti per cinquant’anni. Ecco come don Oreste ricorda ai nostri microfoni una serata con i giovani in discoteca:

 
« Mi ricordo, in particolare, di un incontro nella discoteca ‘L’altro mondo’, quando ho parlato a tutti i presenti ricordando che la vita è la professione di un amore infinito, ho detto: ‘Dio è in gamba! Facciamo un applauso al Signore!’. E alle due e mezzo di notte mille giovani hanno applaudito il Signore. Uno di quei giovani poi mi ha fermato e mi ha detto: ‘Grazie, padre, che sei venuto!’ Ed ha aggiunto: “’Non lasciateci soli!’”.
 
Sempre pronto a chinarsi sulle sofferenze dei più deboli, siano essi malati o emarginati della società, don Oreste, che negli anni ’60 insegna religione in diversi Licei della Romagna, decide di dare vita ad un’associazione. E’ il 1968, fedele all’unica autentica rivoluzione, quella che viene dall’Amore di Dio, don Oreste fonda l’associazione “Papa Giovanni XXIII”. Quarant’anni dopo, il sodalizio conta 200 case famiglia, 32 comunità terapeutiche, 6 case di preghiera e, ancora, 7 case di fraternità e 15 cooperative sociali diffuse in tutto il mondo dalla Tanzania al Brasile, dalla Russia alla Sierra Leone. L’albero è cresciuto e ha dato molti frutti, ma la radice è rimasta la stessa:
 
« Il carisma consiste, in primo luogo, nel conformare la vita a Gesù nel suo essere povero, nel suo essere servo, nel suo essere vittima di espiazione dei peccati del mondo. Poi, secondo, nel condividere direttamente la vita degli ultimi, cioè: l’io e il tu diventano un ‘noi’ effettivo, il mio e il tuo diventano un ‘nostro’ effettivo ».

 
Instancabile il suo impegno per la vita nascente. Don Oreste ha sempre denunciato che di fronte all’aborto il più grande peccato è tacere. “Se tutti i cattolici si mettessero a urlare – è stato il suo richiamo costante – questa ingiustizia smetterebbe! Non sono colpevoli solo i medici e i politici, ma anche tutti quelli che rimangono indifferenti”:

 
« Nell’aborto abbiamo due feriti: uno, mortalmente, ed è il bambino, l’altro perennemente, ed è la madre. Noi vogliamo salvare l’uno e l’altra. Spesso andiamo a pregare davanti agli ospedali: anche se ci prendono in giro abbiamo visto che la potenza della preghiera è realmente provvidenza di Dio ».

 
Don Oreste Benzi colpiva per la sua semplicità, il sorriso bonario, i modi affabili tipici della gente della sua terra, ma anche per la sua forza, il suo incredibile coraggio. Un coraggio che il sacerdote romagnolo ha mostrato nell’andare a “strappare” le ragazze dalla strada, liberandole dai propri aguzzini.

 
« Bisogna scegliere di cancellare la prostituzione schiavizzata e poi di illuminare coloro che fossero eventualmente libere. La realtà attuale è che non esiste più prostituzione libera. Il parroco, i movimenti ecclesiali, sono loro le punte avanzate per una liberazione di queste creature ».

 
Tossicodipendenti, carcerati, zingari: gli esclusi dalla società non erano esclusi dallo sguardo paterno di don Oreste. Un sacerdote innamorato di Cristo e della sua Chiesa. Un uomo, che lungo tutto la sua vita, si è lasciato guidare da Gesù:

 
« Non siamo noi che abbiamo fatto dei programmi, perché siamo certi che il programma ce l’ha il Signore. E Lui continuamente ci presenta i suoi progetti. E noi cerchiamo di dire sempre di ‘sì’ e di non perdere mai la coincidenza con Dio che viene ».
 Una prima avvisaglia del malore, Don Oreste l’aveva avuta due giorni fa, a Roma, di ritorno dai lavori dell’Osservatorio sull’infanzia. La scorsa notte poi, verso l’una, l’attacco cardiaco nel suo alloggio, alla Parrocchia della Risurrezione, risultato fatale nonostante il tempestivo soccorso dei sanitari. Tra i primi ad accorrere al capezzale dell’anziano sacerdote ormai spirato è stato il neo-vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi. Questa la sua testimonianza, raccolta da Alessandro De Carolis:

R. – Io l’ho saputo presto e sono andato subito, questa mattina alle 6, a benedire la salma: don Oreste era deceduto da poche ore. Trovarmi lì, di fronte a lui, che avevo visto appena qualche giorno fa e con il quale avevamo condiviso varie ipotesi di impegni comuni, chiaramente mi ha colpito nel cuore. Ho riletto, proprio davanti a lui, la pagina che lui ha scritto per questa giornata: don Oreste, tra le tante cose che riusciva a fare – magari tra un aeroporto e l’altro – scriveva anche un commento alle letture della liturgia della Parola di ogni giorno. E ho letto proprio davanti alla sua salma queste parole, che risultano profetiche. Venerdì 2 novembre, commento al Libro di Giobbe”, si legge testualmente così: “Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicina dirà: ‘E’ morto’. In realtà, è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio”. L’abbiamo letta con tutti i suoi figli spirituali, i membri dell’Associazione “Papa Giovanni XXIII” e tutti quanti abbiamo avvertito questo brivido di emozione molto forte.

 
D. – Qual è l’eredità che lascia anzitutto nella sua diocesi, ma anche alla Chiesa italiana don Oreste Benzi?

 
R. – Don Oreste è stato e si è sempre sentito figlio di questa diocesi, sempre prete diocesano, e aveva un rapporto con il vescovo nutrito di grande affetto, di grande, grande rispetto. Quando mi vedeva, in questi appena 45 giorni dall’inizio del mio ministero come vescovo diocesano, faceva spontaneamente il gesto che facevano i preti anziani di una volta quando vedevano il vescovo: addirittura, si inginocchiava. Ero io che lo dovevo rialzare e non era un gesto formale. A noi lascia, e penso a tutta la Chiesa in Italia, questo grande messaggio: credere significa amare, e amare i membri più poveri del Corpo di Cristo, le membra più umiliate, più offese, più calpestate nella loro dignità. Ecco, questo per lui significava amare i poveri, significava farsi povero non solo per i poveri, ma tra i poveri. Penso che questo sia il messaggio, il suo testamento spirituale più prezioso. 

 

Publié dans:testimonianze |on 2 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

P. Bossi: Nei giorni del rapimento, la tenerezza di Dio

sempre da Asia News il discorso di Padre Bossi: 

 

01/09/2007 22:25
VATICANO -ITALIA – FILIPPINE

P. Bossi: Nei giorni del rapimento, la tenerezza di Dio


Fra i canti, le danze, le rockstar che si sono succedute sul palco alla Notte dell’Agorà, vi è stata anche la testimonianza di p. Giancarlo Bossi, il missionario del Pime rapito nelle Filippine e liberato dopo 39 giorni.

 

Loreto (AsiaNews) – Ecco la testimonianza di p. Bossi durante la Notte dell’Agorà dei Giovani: 

“Mai avrei pensato nella mia vita di trovarmi di fronte a tanti giovani. Chiedo scusa se mi vedete impacciato. La parola non è il mio forte. Sono convinto che ciascuno di noi ha un sogno da realizzare. Ciascuno di noi ha qualche cosa da dire. Non solo con le parole, c’è anche chi si esprime con gesti, chi nel silenzio solidale, chi con un sorriso. L’importante è mantenere vivo il sogno della vita. L’importante è volare! Ragazzi, fatevi rapire dai vostri ideali! Io ho iniziato a sognare quando ho deciso di entrare in seminario, ho continuato il mio sogno durante la mia ordinazione sacerdotale, l’ho vissuto nelle Filippine per tanti anni. L’ho toccato con mano durante i giorni del mio rapimento. 

Sono un missionario, uno dei migliaia di preti impegnati in tutti i paesi poveri del mondo. Vivo nelle Filippine da 27 anni. Continuerò a farlo. Spero. Questa storia non cambia, non mi cambierà. Anzi, no, qualcosa di diverso c’è: non fumo dal 27 giugno. Spero di non riprendere. 

È iniziato tutto il 10 giugno. Era il giorno del Corpus Domini. Una festa a me cara perché mi ricorda il Cristo pane spezzato per l’umanità, agnello immolato per la speranza dell’uomo; innocente vittima che accumula su di sé la se tedi giustizia di tutte le donne e gli uomini che nel mondo soffrono. 

Avevo detto Messa alle 7.00 nella chiesa di Payao, poi ero salito sulla moto per andare a un’altra celebrazione. Ho visto questi uomini indivisa, con i mitra. Pensavo fossero dell’esercito. Poi ho capito, ma la frittata ormai era fatta. Mi avevano preso. 

Ricordo che quando stavo salendo sulla barca con loro il mio primo pensiero è andato alla gente della mia parrocchia in Payao. 

Durante il lungo viaggio in mare, coperto da un telone, mi sono chiesto che cosa il Padre mi chiedeva. 

È così che sono iniziati i 40 giorni di prigionia. Ho patito la fame, tantissimo, e la fatica. Ma non ho mai avuto paura di morire. Cercavo di parlare con i miei rapitori. 

Ho chiesto loro: “Voi pregate come me il Dio della Pace. Com’è che lo fate con il mitra alla sinistra e un sequestrato alla destra?”. Mi hanno risposto che Allah è nel loro cuore. Il rapimento è lavoro. Pagati per eseguire un rapimento, l’hanno fatto. 

Sono stato per 40 giorni sulle montagne. Mi ci hanno portato con forza. ho visto attorno a me persone povere, spaventate. Persone che volevano farsi forza tenendo tra le mani un fucile. Per loro ho provato compassione. Ho cercato anche di mettermi nei loro panni. Anche in loro ho visto la bontà di Dio. Quel Dio che ti prende per mano e che non ti lascia solo. Quel Dio che ti fa superare le paure e che entra in rapporto con te chiedendoti la totale disponibilità. 

Durante i 40 giorni del mio deserto nella foresta mi sono sentito rinnovare. La mia preghiera è diventata più essenziale e forte. La mia disponibilità a Dio più incisiva. 

Nelle difficoltà con forza si sperimenta la tenerezza di Dio. Ti fa recuperare la dimensione del tuo essere dono. In quel momento ho chiesto al Padre di mandare un prete a Payao. Una altro prete che continuasse ad annunciare il Vangelo alla mia gente. 

I miei rapitori erano tutti giovanissimi, intorno ai 20 anni. Ho capito che avevano già ucciso. Cercavo di capire con le mie domande, di fissare un dialogo con i rapitori. Mi sono reso conto che anche loro sono dei poveri diavoli, abbrutiti più dalla povertà che dalla volontà di fare del male. 

Dall’esterno non arrivava nessuna notizia. I giorni passavano e mi sentivo scoraggiato. 

Col rosario mi tenevo aggiornato sulle date, ma la conta è stata estenuante. Temevo che il rapimento sarebbe durato 3, 4 mesi, così quando mi hanno detto che mi avrebbero lasciato andare non ci ho creduto. Pensavo mi prendessero in giro. Invece, mi hanno liberato. Il 19 luglio. 

Ho voluto telefonare subito a casa, per rassicurare la mia mamma, Amalia, che proprio quel giorno ha compiuto 87 anni. È stata una telefonata d’istinto, di pancia. 

Sono in Italia da qualche settimana ormai, ma voglio tornare il prima possibile dalla mia parrocchia di Payao, dai miei bambini. I poveri hanno bisogno di persone capaci di amare senza limiti o condizioni, e a Payao la gente è povera. Io sono stato sequestrato fisicamente, ma sono troppi coloro che sono sotto sequestro della povertà. La loro prigionia può durare una vita. Qui, in Italia, mi capita di sentire dei bambini che, di fronte al cibo, dicono: “Che schifo!”. Nelle Filippine vedo i loro coetanei frugare nella spazzatura e ringraziare Dio se trovano qualcosa. C’è una distorsione profonda in tutto questo. Qui c’è bisogno di recuperare i valori, là delle condizioni di vita più umane”. 

Alla fine, fortemente emozionato, p. Bossi ha voluto aggiungere: « Mi sono chiesto tante volte perchè mi hanno rapito. A me non piace essere in prima fila. Ma ho capito. E’ perchè fra di noi ci sono tante persone che nel silenzio si prendono cura del loro fratello, dei genitori, dell’handicappato… Io sono qui a nome loro, di tutti quelli che agiscono nel silenzio. La loro testimonianza dovrebbe diventare la forza del nostro agire, la forza del nostro sogno ». 

 

Publié dans:testimonianze |on 2 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

P. Zanchi: il sequestro di padre Bossi ha fatto capire a tanti chi è davvero il missionario

dal sito:

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=9965&size=A

 

31/07/2007 09:51

FILIPPINE – ITALIA

P. Zanchi: il sequestro di padre Bossi ha fatto capire a tanti chi è davvero il missionario


La sua vicenda è esemplare di come Dio sa trarre il bene dal male, ha fatto riunire tante persone di fedi e Paesi diverse nella preghiera ed ha fatto capire chi è il missionario: “non un eroe, un esaltato, ma un uomo che ha accolto la chiamata del Signore: ‘ora va, io ti mando…’; un uomo che sa la grandezza e le difficoltà che incontra nel realizzare la sua missione: ostilità, rifiuto, persecuzione, martirio; un uomo però che sa che è Dio ad affidargli questa missione e che Dio sarà comunque e sempre insieme a lui”.

 

Roma (AsiaNews) – Il sequestro di padre Giancarlo Bossi ha dato conferma che Dio è capace di trarre il bene dal male, ha riunito tante persone di fede diversa nella pregheira ed al tempo stesso ha aiutato tante persone a capire chi è il missionario “ordinario”, “non è un eroe, un esaltato, ma un uomo che ha accolto la chiamata del Signore: ‘ora va, io ti mando…’ ”. Era piena di gente, ieri sera, la chiesa della Casa generalizia del Pontificio istituto missioni estere (PIME), a Roma, per la celebrazione dell’Eucaristia dell’anniversario della fondazione dell’Istituto, offerta come ringraziamento per la liberazione di P. Giancarlo Bossi. 

  

Concelebrato da tutti i sacerdoti del PIME presenti a Roma, il rito è stato presieduto dal Superiore generale, padre Gian Battista Zanchi, che all’omelia, prendendo spunto dalle parabole evangeliche del granello di senape e del lievito, ha sottolineato che esse “contengono lo stesso messaggio: la sproporzione fra il piccolo inizio e il risultato finale inatteso, stupefacente. Un granello di senape, quasi invisibile, dà origine a un arbusto capace di raggiungere tre-quattro metri di altezza; pochi grammi di lievito fanno fermentare circa cinquanta chili di farina. Il contrasto è enorme!” 

  

“Queste due parabole – ha proseguito – sono un invito all’ottimismo derivante dalla certezza che nello Spirito e nella parola di Cristo, benché insignificanti agli occhi del mondo, è presente la forza irresistibile di Dio. Ancora una volta il vangelo invita ad uno sguardo di fede. La sorprendente crescita del regno dei cieli dimostra che non siamo noi i padroni del Regno. E’ Dio il gestore, il responsabile della crescita, noi siamo semplicemente i collaboratori e i servi. “Non chi pianta né chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio”. (1 Cor 3,7.9). E non ultima, una qualità della fede, che le due parabole insegnano, è lo stupore. Le opere degli uomini partono dal grandioso e finiscono nel piccolo e nel nulla. Dio entra nella storia con la discrezione e il rispetto dei piccoli segni; ma se qualcuno accetta di seguirne l’azione, gioirà alla fine delle grandi opere di Dio”. 

  

“Le parabole del granello di senapa e del pizzico di lievito dimostrano chiaramente come il bene (anche quello meno appariscente) possa far fermentare, trasformare l’umanità e la storia. Il Signore vuole ricordarci che la sua presenza nella storia assomiglia a quella del seme caduto in terra e del lievito sepolto nella farina, in quanto non si impone con un’azione clamorosa, ma nascosta. Leggiamo nel vangelo di Giovanni queste parole di Gesù: ‘In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi perde la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna’ (Gv 12,24-25). Gesù è il chicco di grano che accetta di cadere in terra e di morire (offrire la sua vita); per questo il regno di Dio cresce nella storia. A partire da Gesù il regno di Dio cammina nella storia, porta frutti imprevedibilmente grandi, grazie a quel piccolo gesto, nascosto e ignorato il più delle volte da tutti, che è il dono della propria vita da parte di tante persone”. 

  

“E’ il gesto di tanti missionari/e che con tanta semplicità, senza occupare la prima pagina dei giornali, radio e televisioni, offrono ancora oggi, con totale dedizione, la loro vita a causa di Gesù e del Vangelo e per il bene della gente”. 

  

“P. Giancarlo è uno di questi missionari semplici, ordinari che da tanti anni sta spendendo la sua vita tra la gente e per la gente nell’isola di Mindanao. Soltanto l’imprevisto fatto del suo sequestro lo ha portato alla ribalta dei media. Si è scoperto allora la sua persona e la sua attività missionaria. Ecco la testimonianza di P. Gianni Sandalo, Superiore locale e amico di seminario e di missione di P. Giancarlo: ‘A Payao la sua gente lo chiama il gigante buono, perché è disponibile per tutti, parla con tutti, ama molto il contatto con la gente ed è molto amato. E’ un uomo di poche parole, tranquillo, ma un lavoratore eccezionale, che ha sempre coniugato il lavoro manuale con la sua vita spirituale’. Appena liberato, P. Giancarlo ha espresso il desiderio di tornare tra la sua gente: ‘Voglio tornare a Payao e salutare la mia gente, dire loro che sto bene. Il mio cuore è e resta a Payao. Dicono che un prete sia anche padre e proprio come padre della comunità ho il dovere di tornare fra la mia gente, fra i miei bambini’ “. 

  

“La preghiera corale, incessante di tantissime persone, di fedi diverse, da tutto il mondo, ha ottenuto da Dio non solo la grazia della liberazione, ma ha avuto anche un benefico effetto sul cuore di P. Giancarlo durante la sua prigionia. Alla domanda: ‘Ci sono stati momenti in cui si è scoraggiato?’, P. Giancarlo ha risposto: ‘Non ho mai perso la tranquillità dentro di me e di questo devo ringraziare veramente il Signore, che mi ha tenuto sereno e tranquillo di fronte a tutto quello che mi stava accadendo’. Nell’Eucaristia per la liberazione di P. Bossi ricordavo queste parole di P. Luciano Benedetti, anche lui rapito nel 1998 e rilasciato dopo 68 giorni: ‘Giancarlo sarà un po’ perplesso nell’osservare i giovani ribelli attorno a lui pregare lo stesso Dio con le armi lasciate per terra (ma non troppo distanti dalla stuoia). Si domanderà da che parte, in quel momento, sta Dio senza trovare una chiara risposta’. Infatti alla domanda: ‘C’era dialogo con i suoi sequestratori?’, P. Giancarlo risponde: ‘Tutti i giorni si parlava del più e del meno. Loro pregavano ed io pregavo. Una delle domande che facevo loro, e anche a me stesso, era: ma stiamo pregando lo stesso Dio o è un Dio diverso, visto che voi pregate con il fucile a destra ed io rapito a sinistra? E’ lo stesso Dio che vuole tutte queste cose o che cosa? Certe domande sono ancora dentro di me’. A proposito dei suoi sequestratori P. Bossi ha dichiarato: ‘Mi hanno trattato bene e ho pregato per loro’. Bella è questa testimonianza, che ci richiama l’esempio di Mosè”. 

  

Il grande peccato di Israele, ha ricordato . Zanchi, “è l’idolatria: al posto di Dio il popolo di Israele si è costruito un vitello d’oro e si è prostrato in adorazione. Mosè denuncia il peccato, chiama il popolo a conversione, ma, solidale con la sua gente, diventa anche l’intercessore presso Dio a favore del suo popolo: ‘Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il suo peccato… e se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto’. Ecco le parole di P. Giancarlo: ‘Non nutro risentimento per i miei rapitori. A loro dicevo: siamo fratelli perché figli di un padre. Pregherò per voi tutte le sere’”. 

  

“Nella lettera invito alla preghiera per la liberazione di P. Bossi, lo scorso 10 luglio, invocando l’intercessione di Maria, concludevo dicendo: ‘…le chiediamo di poter presto cantare con lei il nostro Magnificat’. Siamo qui, stasera, per cantare il nostro Magnificat”. 

  

“Grazie, Signore, per l’inestimabile dono del ritorno a casa, sano e salvo, del nostro confratello P. Giancarlo. E’ proprio vero che sai ricavare il bene anche dal male. Infatti il sequestro di P. Giancarlo ha provocato la coscienza di molti, ha fatto scoprire e riflettere su chi è il missionario. E’ emerso chiaro che il missionario non è un eroe, un esaltato, ma un uomo che ha accolto la chiamata del Signore: ‘ora va, io ti mando…’; un uomo che sa la grandezza e le difficoltà che incontra nel realizzare la sua missione: ostilità, rifiuto, persecuzione, martirio; un uomo però che sa che è Dio ad affidargli questa missione e che Dio sarà comunque e sempre insieme a lui”. 

  

“Grazie, Signore, per il dono della vocazione missionaria a P. Giancarlo e per aver mantenuto la tua promessa: ‘Non temere, sono con te per proteggerti’. Donaci missionari disponibili al distacco da persone e da beni per farsi fratelli di tutti e portare a tutti il Cristo Salvatore”. 

  

“Il sequestro di P. Giancarlo ha fatto unire tante persone, vicine e lontane, di paesi diversi e di fedi diverse, ed ha fatto emergere la ricchezza e la bellezza dei valori della fede, della speranza, della preghiera, della libertà, solidarietà, sacrificio, dono di sé, amicizia, pace… Fa, o Signore, che tutti coloro che sono stati toccati da questo evento, che hanno pregato, lottato e mostrato in modi diversi la loro solidarietà, continuino a difendere e a diffondere questi valori, per i quali vale la pena fare dono della propria vita. Grazie, Signore, per il tuo continuo amore e per la tua misericordia”. 

  

“Infine affidiamo a Maria il nostro Magnificat, perché sia anche per noi un’effusione del nostro cuore, traboccante di gioia, per le grandi cose operate da Dio durante il sequestro di P. Giancarlo e anche per tutte le meraviglie che Dio continua ad operare nella nostra vita”. 

 

Publié dans:testimonianze |on 31 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Commemorazione in Vaticano dei protomartiri romani

dal sito:

http://www.zenit.org/article-11351?l=italian

Commemorazione in Vaticano dei protomartiri romani

 

 CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 5 luglio 2007 (ZENIT.org).- Anche quest’anno, sabato 30 giugno,
la Pontificia Accademia Culturom Martyrum ha organizzato in Vaticano la commemorazione dei santi protomartiri della Chiesa romana, con una celebrazione eucaristica e una processione con il Santissimo.

La tradizionale cerimonia si è tenuta nella Piazza dei Protomartiri Romani all’interno della Città del Vaticano, che sicure fonti storiche indicano come il circo ideato da Caio Caligola, successivamene detto “neroniano”, al cui centro è ubicata Santa Maria in Camposanto Teutonico, l’antica schola francorum fondata da Carlo Magno.

Il Collegium Cultorum Martyrum fu fondato il 2 febbraio 1879 da M. Armellini, A. Hytreck, O. Marucchi ed E. Stevenson, insigni studiosi di antichità sacra, con lo scopo di promuovere il culto dei santi martiri e di incrementare e approfondire l’esatta storia dei testimoni della fede e dei monumenti ad essi collegati, fin dai primi secoli del cristianesimo.
Già nel 1904, il Collegium Cultorum Martyrum, divenuto sotto Giovanni Paolo II una Pontificia Accademia, iniziò a venerare liturgicamente i protomartiri romani che l’imperatore Nerone fece perseguitare e suppliziare ferocemente, con l’accusa di aver appiccato l’incendio a Roma nel luglio 64.

A eterna memoria di questa persecuzione, una lapide posta a ridosso del muro esterno di Santa Maria in Camposanto Teutonico ricorda che “questo suolo già villa e circo di Nerone oggi faro di luce nel mondo conquistarono con il sangue Duce l’Apostolo Pietro i primi martiri romani ascesi di qui moltitudine ingente per offrire a Cristo le palme del nuovo trionfo”.

Il rito è iniziato con la concelebrazione eucaristica, presieduta dall’Arcivescovo Angelo Comastri, Vicario Generale di Sua Santità per
la Città del Vaticano.

Terminata
la Santa Messa l’Arcivescovo, assistito da monsignor Pasquale Iacobone, Sacerdos della Pontificia Accademia, ha iniziato la processione con il SS. Sacramento che si è conclusa con la benedizione.

La Banda Pontificia ha curato l’esecuzione dei brani musicali, mentre quelli canori sono stati proposti dalla Corale di Sant’Anna diretta da don Gaetano Civitillo. 

 

 

Publié dans:liturgia, testimonianze |on 6 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

GLI EBREI NASCOSTI NEI MONASTERI – Il Santo Padre ordina…

Io vado spesso in questa Basilica, non è lontana da casa e, quindi da San Giovanni in Laterano, è molto bella e lì si respira veramente una divina atmosfera di calma, di preghiera e di sapienza e si incontra Sant’Agostino, dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=10973

GLI EBREI NASCOSTI NEI MONASTERI
Il Santo Padre ordina… 

Pubblichiamo il memoriale inedito del monastero dei Santi Quattro Coronati, relativo agli anni dell’occupazione nazista di Roma: l’ordine di Pio XII di aprire il monastero ai perseguitati, i nomi degli ebrei nascosti, la vita nel convento durante quegli anni terribili 

di Pina Baglioni 

«La nostra vuole essere solo una piccola testimonianza su papa Pio XII. Senza nessuna pretesa, per carità. Certo, la mole di scritti sulla  presunta indifferenza del Pontefice e sui suoi “silenzi” nei confronti degli ebrei negli anni del nazifascismo, ci addolorano profondamente. E allora c’è sembrato utile far conoscere quanto accadde qui da noi oltre sessant’anni fa».
      “Qui da noi” è il monastero di clausura delle agostiniane annesso alla millenaria Basilica dei Santi Quattro Coronati, sulle pendici del Celio a Roma. A prendere la parola è suor Rita Mancini, la madre superiora alla guida della comunità monastica agostiniana dal 1977.
      Sollecitate e incoraggiate dal convegno internazionale “Pio XII. Testimonianze, studi e nuove acquisizioni”, organizzato da 30Giorni
il 27 aprile scorso presso
la Pontificia Università Lateranense, le claustrali dei Santi Quattro si sono messe in contatto col nostro giornale per offrire il loro contributo: alcune preziosissime pagine del
Memoriale delle religiose agostiniane del venerabile monastero dei Santi Quattro Coronati. Vale a dire una parte del diario ufficiale della comunità che raccoglie dal 1548 – anno in cui le agostiniane si insediarono ai Santi Quattro – le cronache della vita monastica.
      Grazie alle agostiniane dei Santi Quattro c’è la possibilità di aprire una finestra su quel microcosmo separato dal mondo e improvvisamente chiamato da papa Pio XII ad aprire le porte, alzare le grate e lasciarsi coinvolgere, rischiando gravi conseguenze, dai destini di tanta gente in pericolo di vita.
      «Quando arrivai qui, nel  1977, conobbi suor Emilia Umeblo» racconta la madre superiora dei Santi Quattro. «Ai tempi dell’occupazione lei era la suora “esterna”, cioè la persona autorizzata, per motivi pratici, a uscire dalla clausura. Mi parlò a lungo di quei mesi e degli aspetti logistico-organizzativi per facilitare l’ospitalità ai rifugiati ebrei e a molti  altri  antifascisti. Tra l’altro suor Emilia era in contatto costante con Antonello Trombadori, dirigente del Partito comunista e capo dei Gruppi armati partigiani di Roma, e con tanti altri oppositori al nazifascismo. Ho pregato suor Emilia più volte di scrivere tutto quello che mi andava raccontando. Purtroppo non l’ha mai  voluto fare. Non c’è più e i suoi ricordi se li è portati via con sé».
      Per fortuna restano le pagine che suor Rita Mancini ha messo a disposizione di 30Giorni. Esse riguardano un lasso di tempo che va dalla fine del 1942 al 6 giugno 1944 e che comprende quindi il periodo dell’occupazione nazista a Roma fino alla liberazione della città avvenuta il 4 giugno del ’44.


 
   
 

      «Arrivate in questo mese di novembre dobbiamo essere pronte a rendere servigi di carità in maniera del tutto inaspettata» scrive l’anonima cronista alla fine del 1943.  «Il Santo Padre vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati, e anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice». Scorrono i nomi degli ospiti segnalati dall’elenco del memoriale: Viterbo, Sermoneta, Ravenna, De Benedetti, Caracciolo, Talarico… «A tutte le persone su elencate, oltre l’alloggio, si dava anche il vitto facendo miracoli per il momento che si traversava»; leggiamo che «tutto era tesserato.
La Provvidenza è sempre intervenuta… Per
la Quaresima anche gli ebrei venivano ad ascoltare le prediche, e il signor Alberto Sermoneta aiutava in Chiesa. La madre priora gli faceva fare tante cose all’altare del Santissimo preparato per il Giovedì Santo».

      E nel bel mezzo della tempesta, mentre il chiostro del XIII secolo si riempie di paglia e fieno dove far riposare tutta quella povera gente, nulla si interrompe: lavoro e celebrazioni liturgiche procedono, sotto la paterna vigilanza di monsignor Carlo Respighi, l’allora rettore della Basilica dei Santi Quattro e prefetto delle cerimonie apostoliche, morto nel 1957. In un grande locale adiacente all’orto le monache nascondono nientemeno che undici automobili, compresa quella del maresciallo Pietro Badoglio, il capo del governo militare italiano, scappato da Roma all’indomani dell’8 settembre. E poi sette cavalle, quattro mucche…
      Ma da quel che veniamo a sapere dal memoriale, anche dopo la liberazione ai Santi Quattro l’ospitalità proseguì: «Dalla Segreteria di Stato ci è ordinato di ospitare con la più scrupolosa precauzione il generale Carloni che era cercato per essere condannato a morte». Si trattava di Mario Carloni, generale dei bersaglieri che era stato a capo della IV divisione alpina Monte Rosa della Repubblica di Salò.
      Che il monastero romano facesse parte del fitto reticolato degli istituti cattolici che ospitarono ebrei e perseguitati politici durante l’occupazione fascista, era cosa nota: è inserito nell’Elenco delle case religiose in Roma che ospitarono ebrei pubblicato nella sezione dei documenti della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice, uscita in prima edizione nel 1961 (Einaudi, Torino 21993, pp. 628-632), dove si legge che le «suore agostiniane dei Santi Quattro Incoronati» avevano ospitato 17 ebrei. L’elenco, che riprende un articolo della Civiltà Cattolica
del 1961 firmato da padre Robert Leiber,  rimane ancora oggi uno dei documenti-chiave per tutte le indagini successive. Fino alle più recenti. Come quella, avviata nel 2003 dal Coordinamento storici religiosi, sugli ebrei ospitati presso le strutture cattoliche a Roma tra l’autunno del 1943 e il 4 giugno del 1944.  Suor Grazia Loparco, docente di Storia della Chiesa presso
la Pontificia Facoltà Auxilium e membro del Coordinamento, nel gennaio del 2005 ha reso noti all’agenzia internazionale
Zenit i primi risultati dell’indagine: gli ebrei salvati a Roma all’interno degli istituti religiosi furono, secondo una stima per difetto, almeno 4.300.


 Altre testimonianze inedite fornite da persone salvate grazie all’accoglienza negli istituti religiosi sono state rese note nei  volumi di Antonio Gaspari, Nascosti in convento (Ancora, Milano 1999), e di Alessia Falifigli, Salvàti dai conventi. L’aiuto della Chiesa agli ebrei di Roma durante l’occupazione nazista (San Paolo, Cinisello Balsamo 2005). Sia in questi ultimi studi che in tutti quelli che da almeno quarant’anni indagano sul ruolo giocato dai cattolici nella salvezza degli ebrei dalle persecuzioni nazifasciste, è presente  l’interrogativo se quell’accoglienza ebbe solo carattere spontaneo, o ci furono ordini provenienti dai vertici della Chiesa. La risposta è stata sempre sostanzialmente la stessa. E cioè che la natura dell’ospitalità data dalla Chiesa romana ai perseguitati, soprattutto ebrei, è stata spontanea, non decisa preventivamente dai vertici della Chiesa, ma da essa assecondata e sostenuta moralmente e materialmente. E nella  presentazione al volume della Falifigli, Andrea Riccardi, storico del cristianesimo presso
la Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, chiarisce: «Per superare i divieti della clausura, quella stretta dei monasteri ma anche quella più blanda dei conventi, ci voleva una direttiva superiore». E aggiunge: «Ma tutti, unanimemente, hanno sorriso all’idea che potesse esserci un qualche documento vaticano in proposito. Chi avrebbe fabbricato una prova contro sé stesso per un’attività proibita e clandestina? Eppure tutti i responsabili erano convinti che fosse la volontà del Papa, quella di aprire le porte delle loro case agli ebrei e ai perseguitati». Giudizio già espresso dallo scrittore e giornalista di origine ebrea Enzo Forcella in un volume del 1999: «L’assenso all’asilo era stato dato solo verbalmente, s’intende. Per tutta la durata dell’occupazione le autorità religiose si atterranno alla loro antica regola: è sempre meglio far capire che dire, se qualcosa deve essere detta è bene evitare di lasciarne traccia scritta e, in ogni caso, alle eventuali contestazioni bisognerà rispondere che si era trattato di iniziative personali dei singoli sacerdoti prese all’insaputa delle autorità superiori» (

La Resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, p. 61).
      Cosa aggiungono allora le pagine del memoriale agostiniano che 30Giorni pubblica? «Basta leggerle, non c’è molto altro da dire: le  nostre consorelle non ricevettero un vago invito della Santa Sede ad aprire il convento a chi ne avesse bisogno. Ma un ordine» ribadisce suor Rita Mancini. «L’ordine perentorio del Pontefice  di ospitare ebrei e chiunque altro stesse rischiando la vita a causa delle persecuzioni dei nazifascisti. Condividendo con loro tutto, facendoli sentire a casa propria. Con gioia, nonostante il pericolo. Se questa è indifferenza…».

 
 
 
 

 

      Il memoriale è redatto in uno stile asciutto, sobrio, eppure emozionante, capace di restituire il clima di quei mesi vissuti pericolosamente all’interno delle sacre e invalicabili mura del monastero, dove giunge l’eco di una Roma terrorizzata e sofferente.  Che in rapida successione aveva dovuto subire: il bombardamento dal quartiere San Lorenzo il 19 luglio del ’43, con 1.400 morti, 7.000 mila feriti e la distruzione dell’antica Basilica di San Lorenzo; sei giorni dopo, l’arresto di Mussolini per ordine di Vittorio Emanuele III di Savoia e la nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo militare; un secondo bombardamento  degli Alleati «ancora più disastroso del primo», scrissero i giornali romani, il 13 agosto: ad essere presi di mira furono allora i quartieri Tiburtino, Appio e Tuscolano; la successiva acquisizione dello status di “città aperta”, cioè zona smilitarizzata; poi l’armistizio dell’8 settembre tra il governo italiano e le Forze alleate; la fuga di Badoglio e dei Savoia verso Brindisi; il disorientamento dei soldati italiani lasciati allo sbaraglio; l’attesa degli angloamericani, sbarcati in Sicilia già dal 10 luglio, e l’arrivo invece dei carri armati tedeschi, che occuparono il cuore della città, dopo aver sopraffatto, presso Porta San Paolo, l’ultima postazione di civili e soldati italiani a difesa di Roma. E poi c’era stato quel sabato del 16 ottobre al Ghetto, quando, alle 5 di mattina, i nazisti avevano strappato 1.023 ebrei dalle loro case con destinazione il campo di sterminio di Auschwitz.
     
Ma «anche durante il periodo dell’occupazione tedesca,
la Chiesa splende su Roma», dirà un grande laico, lo storico Federico Chabod, agli studenti della Sorbona. Splende, continua Chabod, «in modo non molto diverso da come era accaduto nel V secolo. La città si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità ma a Roma – città unica sotto questo aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità! Ciò significa che, benché a Roma vi sia il comitato e l’organizzazione militare del Cln, per la popolazione è di gran lunga più importante e acquista un rilievo ogni giorno maggiore l’azione del papato» (Federico Chabod,
L’Italia contemporanea 1918-1948, Einaudi, Torino 1993, pp. 125-126).
      Pubblichiamo qui di seguito il memoriale relativo al periodo dell’occupazione nazifascista a Roma. Esso comprende anche un brano di un articolo apparso sull’Osservatore Romano. 

Publié dans:dalla Chiesa, testimonianze |on 4 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

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