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« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0004.htm

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

MISERICORDIA NELLA CREAZIONE

p. Aurelio Pérez fam

La creazione è il primo atto d’amore di Dio, l’amore fontale per così dire, nel senso che tutto scaturisce da questa fonte dell’essere e della vita che è Dio stesso, come dal grembo di una madre. Anche all’inizio della creazione troviamo, come per la legge del Sinai, dieci parole-comandi (« Dio disse… », Gen 1, 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29), attraverso le quali il Signore ha dato vita a tutto il creato(1). Ma la novità biblica, sconosciuta ai sapienti del mondo, è che Dio ha fatto ogni cosa che c’è nel mondo, soprattutto l’essere umano, per amore:
« Nel cammino della fede biblica diventa sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l’idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l’unico vero Dio, Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente ».(2)
Il messaggio biblico sulla creazione è fondamentalmente positivo: prima della creazione rovinata dal peccato c’è la creazione buona uscita dalle mani di Dio. Per 7 volte viene detto che ciò che Dio ha fatto è buono (tob, kalos = buono e bello), fino alla conclusione: « Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono » (Gen 1,31; cf vv. 4.10.12.18.21.25).
La redenzione stessa è un riportare la creazione al principio voluto da Dio, come dice Gesù a proposito dell’unione voluta da Dio tra l’uomo e la donna: « al principio non è stato così » (Mt 19,4). E’ importantissimo per noi sempre ritornare a questo « principio » che non è un fatto temporale, storico o preistorico, perché Dio non è storico né preistorico, è l’Eterno, anche se il suo Amore si spingerà fino al punto che l’Eterno entrerà nel nostro tempo creato.
Sarebbe un errore contro la sapienza di Dio opporre la creazione alla redenzione. Il Signore non distrugge ciò che ha fatto, ma lo rinnova, lo purifica, portando a compimento l’opera che ha iniziato.
« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gen 1,1ss)
E’ questo l’inizio di una rivelazione sull’umanità e sul mondo, non di un trattato di cosmologia(3). Rivelazione appunto dell’amore creatore, provvidente, che tutto mantiene e sorregge nelle sue mani misericordiose e potenti. La prima cosa che il Signore vuole rivelarci con la sua Parola (siamo alle prime pagine della Scrittura Santa) è che tutto ciò che esiste, compresi noi, l’ha creato LUI, non è frutto del caos né del caso.
« Tutte queste cose le ha fatte la mia mano, esse sono mie, oracolo del Signore ». (Is 66,2)
Tutti noi e ciascuno di noi, il cielo e la terra e tutte le cose che vi abitano procediamo da un Sì d’amore che Dio ha pronunciato su di noi e su tutto il creato.
Il primo canto all’amore misericordioso del Signore che é « eterno », nasce contemplando l’opera della Creazione:
« Celebrate il Signore, perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia… Ha fatto i cieli con sapienza… » (Sal 136,1-9)
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
Siamo di fronte al primo canto nuziale che Dio rivolge alle sue creature, uscite buone, pure e belle dalle sue mani. Per loro ha preparato un giardino meraviglioso, e nel centro di esso ha collocato l’uomo e la donna, fatti « a immagine e somiglianza » di Dio. C’è un’unità originaria (Dio creò l’Adam) che si differenzia nei sessi (li creò maschio e femmina). Ma l’unità – immagine di Dio Uno – sta all’inizio e alla fine della creazione dell’uomo e della donna, chiamati alla comunione. Con l’uomo e la donna (ish e ishah) il Signore ha intessuto il dialogo dell’amicizia, nelle loro mani ha messo tutto il creato perché lo custodiscano e lo coltivino, e in esso crescano fecondi e felici. L’essere immagine e somiglianza di qualcuno indica anche la « figliolanza », come leggiamo più avanti:
« Quando Adamo ebbe centotrent’ anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’ immagine sua, e lo chiamò Set » (Gen 5,3)
« E Dio disse… »
Questo Sì alla vita è stato detto da Dio attraverso il suo Verbo Creatore. La Parola di Dio è efficace: Egli « dice » e le cose vengono all’esistenza:
« Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento… poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato » (Sal 33,6.9; cf 148,1-6)
Dio chiama all’esistenza (la nostra prima e universale vocazione è quella alla vita), dà dei nomi, fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, ed esse prendono forma rispondendo alla potenza della sua parola. Il caos disordinato diventa cosmo ordinato.
Nella pienezza della Rivelazione coglieremo il mistero di questa Parola che era « al Principio » presso Dio ed era Dio: « Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto » (Gv 1,3). Anzi « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16).
« Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati » (Sal 104,30)
Insieme alla Parola c’è lo Spirito creatore, la ruah di Dio che dà la vita, dopo aver aleggiato su quel caos iniziale per mettervi ordine; la stessa ruah che Dio soffia nelle narici dell’Adam originario, fatto di creta, e solo allora l’Adam diventa un essere vivente (nefesh). Senza lo Spirito (=il respiro, il soffio di Dio) c’è la morte. Si preannuncia già misteriosamente la dimensione trinitaria, che verrà rivelata pienamente quando la Parola-Figlio assumerà la creta di Adam per divenire il nuovo Adam datore dello Spirito di vita.

Cantare la misericordia del creatore nella contemplazione del creato

Una delle cose più belle, gioiose e liberanti che ci è dato di fare è contemplare l’opera della creazione e noi al suo interno. Sentirci « creature », oggetto dell’interesse amoroso e provvidente del Creatore, ci colloca al posto giusto di fronte a Dio, in vera umiltà gioiosa, piena di gratitudine e capace di assumere le responsabilità che Lui ci affida con il dono della vita. La preghiera che passa in rassegna le opere del Signore, una per una (cf Sal 104, Gb 36,22-37,24; Sal 19,1-7; Dn 3,51-90 ecc.) apre il cuore alla benedizione e alla lode ed fonte di vera gioia e fondato ottimismo. Pensiamo al Cantico delle creature di S. Francesco, alle esclamazioni della nostra Madre di fronte al creato: « qué pintor! ».

[1] “La creazione esiste perché obbedisce alle dieci parole di Dio, e l’uomo vive ed esiste perché obbedisce ai dieci comandi di Dio” (B. COSTACURTA, Spiritualità dell’Antico testamento – appunti degli studenti – PUG 1994-1995).

[2] BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 9.

[3] Cf F.R. DE GASPERIS, Sentieri di vita, I, Paoline 2005, p. 36ss.

Publié dans:biblica, Teologia |on 26 juin, 2014 |Pas de commentaires »

IL BAMBINO CHE È SEMPRE ESISTITO – di Norbert Lieth (Gesù)

http://camcris.altervista.org/bambcr.html

IL BAMBINO CHE È SEMPRE ESISTITO

di Norbert Lieth (tratto da « Chiamata di Mezzanotte », dic. 2002)

Circa duemila anni fa, in Israele nacque un bambino, che in seguito potè a ragione affermare: «Prima che Abraamo fosse nato, Io sono» (Gv 8,58).
Della nascita di questo bambino e del Suo nome, nella Bibbia si narra quanto segue: «Mentre erano là (a Betlemme), si compì per lei il tempo del parto; ed ella diede alla luce il suo figlio primogenito, lo fasciò, e lo coricò in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7). Giuseppe, il suo padre adottivo, «gli pose nome Gesù» (Mt 1,25).
Una coppia di coniugi è in viaggio, la moglie è in stato di avanzata gravidanza. La sua gravidanza giunge al termine e le nasce il primogenito. Il bambino non nasce in casa, ma in una stalla vicina a una locanda al completo. Manca una culla, e il bambino viene posto in una mangiatoia. Il neonato riceve il nome « Gesù ».
Diventerà il nome più famoso e significativo della storia, Egli diverrà la personalità più importante di tutti i tempi, in grado di mettere in ombra tutti i re, i potenti, gli eroi, le star e i politici di tutti i tempi. Nessuno ha commosso il mondo tanto quanto questo bambino. Come mai?
Dobbiamo assolutamente occuparci di questa Persona. Chi vive senza tenere conto di Lui, perde la cosa più importante. In modo ben diverso si sono comportati i magi d’Oriente (Mt 2,1 e segg.). Già Agur, vissuto molto tempo prima della nascita di Cristo, scrisse: «Chi è salito in cielo e ne è disceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nella sua veste? Chi ha stabilito tutti i confini della terra? Qual è il suo nome e il nome di suo figlio? Lo sai tu?» (Pr 30,4).
Gesù stesso ci dà la risposta: «Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio dell’uomo (Gesù)» (Gv 3,13).
Chi è quel bambino in fasce nato in una stalla di Betlemme? È Colui che è sempre esistito!
Come si chiama Dio?
Vi siete mai chiesti come si chiami in realtà Dio? Agur aveva scritto: «Qual è il suo nome e il nome di suo figlio? Lo sai tu?». Una domanda rivolta da Mosè a Dio fu: «Ecco, quando sarò andato dai figli d’Israele e avrò detto loro: « Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi », se essi dicono: « Qual è il suo nome? » che cosa risponderò loro?» (Es 3,13).
La parola «Dio» è solo un titolo, un concetto generico. Lo si può utilizzare in certi contesti anche in riferimento alle persone. Molte persone, in tutti i tempi, si sono definite «dèi».
Il concetto generico di «Dio»:
- si può applicare al dio di una delle tante religioni, ad esempio ad Allah. Allah significa semplicemente «Dio».
- si può utilizzare anche al plurale, «dèi», per indicare gli idoli e le false divinità pagane: «Non seguirete altri dèi, presi fra gli dèi degli altri popoli intorno a voi» (Dt 6,14). In I Corinzi 8,5-6 è scritto: «Poiché, sebbene vi siano cosiddetti dèi, sia in cielo sia in terra, come infatti ci sono molti dèi e signori, tuttavia per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale anche noi siamo.»
Ma come si chiama il vero Dio, che fu l’Iddio di Abraamo, Isacco e Giacobbe? Egli ha un nome proprio attribuito solo a Lui. È un nome che nessuno Gli ha dato ma che Egli stesso si è dato e che descrive come Egli è. Questo nome è «Jahwe» (JHWH). Lo si evince dalla risposta che Dio stesso ha dato alla domanda del Suo servo: «Dio disse ancora a Mosè: «Dirai così ai figli d’Israele: « Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi ». Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione» (Es 3,15). Quando Mosè, dopo il primo incontro con il faraone e le sue imposizioni (Es 5) si sentì abbattuto, l’Eterno lo rialzò con le parole: «Io sono il Signore. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.» (Es 6,2-3).

Che cosa significa questo nome?
Il Signore spiega a Mosè il Suo nome: «Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono. Poi disse: Dirai così ai figli d’Israele: « l’IO SONO mi ha mandato da voi. Dio disse ancora a Mosè: Dirai così ai figli d’Israele: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi…» (Es 3,14-15). In tal modo, Dio si distingue da tutti gli altri dei, poiché Jahwe significa: «Io sono colui che sono.» Questo nome descrive l’eterna esistenza di Dio, ciò che Egli è in tutta la Sua persona.
Abraham Meister scrive: «Jahwe è l’<Io> divino assoluto nella sua massima pienezza.» Il nome proprio di Dio può essere tradotto in nove modi diversi. In tal modo vediamo chi è Dio:

Io sono colui che sono.
Io sono colui che ero.
Io sono colui che sarò.
Io ero colui che sono.
Io ero colui che ero.
Io ero colui che sarò.
Io sarò colui che sono.
Io sarò colui che ero.
Io sarò colui che sarò.
Ciò significa: «Io sono colui che non è mai stato creato, che c’è sempre stato, che esiste di per sé, che è immutabile, eterno ed eternamente presente.» Per questo in italiano noi traduciamo questo nome con « Eterno ».
Abraham Meister scrive al riguardo: «La radice <hawa>, da cui è tratta la parola Jahweh, significa (divenire), <essere>. Egli è quindi l’<Ente>, che si fa conoscere <in divenire>. Egli si mostra in una <auto rivelazione costante e crescente>. … Egli è colui che rivela Sé Stesso…»
Questo nome per gli ebrei era tanto santo, grande e inavvicinabile, che non osavano mai pronunciarlo, per timore di infrangere il terzo comandamento: «Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano». Invece di Jahwe pronunciavano «Signore» (Adonai).

Chi è questo Dio?
Il nome di Dio «Jahwe» è collegato espressamente alla redenzione. Non a caso Dio si rivela con questo nome, in vista della liberazione di Israele dalla schiavitù in Egitto.
Nel seguito dell’autorivelazione divina tramite il nome Jahwe, diviene chiaro che il Signore, in relazione alla redenzione dell’uomo, è potente da liberarlo da qualsiasi problema, infatti si fa conoscere dall’uomo con diversi attributi:

Jahwe-Rapha = Jahwe, che guarisce, che salva
Jahwe-Roi = Jahwe, mio pastore
Jahwe-Shalom = Jahwe è pace
Jahwe-Zidqenu = Jahwe la nostra giustizia

La redenzione dell’uomo è comunque personificata nella rivelazione in carne del Figlio di Dio, Gesù Cristo.

1. L’autorivelazione di Dio come Salvatore.
Tramite il profeta Isaia, Dio disse al Suo popolo: «perché io sono il Signore, il tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore (Jahwe-Rapha)» (Is 43,3). E: «Io, io sono il Signore, e fuori di me non c’è salvatore» (Is 43,11).
Del divenire uomo di Gesù è detto: «L’angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: « Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore.» (Lc 2,10-11).

2. L’autorivelazione di Dio come Pastore.
Del suo buon pastore, «Jahwe-Roi», Davide parla nel Salmo 23,1: «Il Signore è il mio pastore, nulla mi manca.»

Mi sono sempre chiesto come mai gli angeli del Signore abbiano cercato prima i pastori sui campi di Betlemme, per rivelare loro il Salvatore. In questa luce lo comprendo meglio: il vero pastore di Israele è venuto in terra per sopperire alla miseria di tutti gli uomini. Ai pastori di Betlemme fu detto inoltre: «Voi pastori di Betlemme, che conoscete bene i pascoli delle vostre pecore, sappiate che è qui il Pastore, il grande Pastore di Israele, il supremo Pastore» («Jahwe-Roi»; cfr. I Pi 5,4).
Parlando della Sua venuta, Gesù ha detto agli israeliti: «Io sono il buon pastore» («Jahwe-Roi»; Gv 10,11.14; cfr. anche v.33).

3. L’autorivelazione di Dio come roccia.
Della «roccia di Israele» leggiamo: «Poiché chi è Dio all’infuori del Signore? E chi è Rocca all’infuori del nostro Dio?» (Sl 18,32). L’apostolo Paolo disse di questa roccia: «bevvero tutti la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla roccia spirituale che li seguiva; e questa roccia era Cristo» (I Co 10,4). Da ciò si evince chiaramente che:

Gesù è Dio
Ci sono alcuni passi nel Nuovo Testamento, in cui il Signore Gesù parla in modo particolarmente regale di Sé stesso come l’«Io sono». In questa autorivelazione Egli utilizza la stessa espressione con cui Dio nell’Antico Testamento si definisce nei confronti del Suo popolo, come unico Signore e Salvatore del mondo.
Possiamo dire che Gesù è la « parte » di Dio inviata agli uomini. Non crediamo in tre dei, ma in un solo Dio che si rivela in tre Persone distinte.
Dal XIII secolo dopo Cristo proviene un’esegesi ebraica su Deuteronomio 6,4: «Ascolta, Israele: Il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore.» Nell’interpretazione leggiamo: «Perché è necessario citare tre volte il nome di Dio in questo versetto? Il primo, Jahwe, è il Padre. Il secondo è la discendenza di Iesse, il Messia, che deve venire dalla famiglia di Iesse, tramite Davide. E il terzo è la via che si trova sotto (cioè lo Spirito Santo, che ci mostra la via) e questi tre sono uno.» (cit. in: Wie erkennt man den Messias?, pag. 23, Der Òlbaum e.V., Lorrach.)
Consideriamo ora i tre punti dell’autorivelazione di Gesù Cristo come l’«Io sono»:
1. Gesù dice in Giovanni 13,19: «Ve lo dico fin d’ora, prima che accada; affinchè quando sarà accaduto, voi crediate che Io sono.» Gesù annunzia in tal modo che Egli è Jahwe, l’«Io sono» del popolo di Israele.
2. Una delle più emozionanti autorivelazioni di Gesù si trova nel Suo confronto con i sommi sacerdoti ebrei: «Perciò vi ho detto che morirete nei vostri peccati; perché se non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati». Allora gli domandarono: «Chi sei tu?» Gesù rispose loro: «Sono per l’appunto quel che vi dico» (Gv 8,24-25). Quando gli ebrei Gli chiesero: «Sei tu forse maggiore del padre nostro Abraamo il quale è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?» (Gv 8,53), Gesù diede loro questa risposta: «In verità, in verità vi dico: prima che Abraamo fosse nato, Io sono».
Allora essi presero delle pietre per tirargliele; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (v 58-59).

3. Pensiamo ad altre parole di Gesù che menzionano l’«Io sono»:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35).
«Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5).
«Io sono la porta …» (Gv 10,9).
«Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14).
«Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25).
«Io sono la via, la verità e la vita …» (Gv 14,6).
«Io sono la vite …» (Gv 15,1.5).

4. La più forte affermazione del fatto che Gesù è realmente Dio ci sembra essere stata enunciata nel Getsemani. Infatti, in Giovanni 18,3-6 leggiamo: «Giuda dunque, presa la coorte e le guardie mandate dai capi dei sacerdoti e dai farisei, andò là con lanterne, torce e armi. Ma Gesù, ben sapendo tutto quello che stava per accadergli, uscì e chiese loro: «Chi cercate?» Gli risposero: «Gesù il Nazareno!» Gesù disse loro: «Io sono». Giuda, che lo tradiva, era anch’egli là con loro. Appena Gesù ebbe detto loro: «Io sono», indietreggiarono e caddero in terra.»
Evidentemente, qui il Signore Gesù si rivela con il nome di Dio come «Jahwe», Colui che esiste grazie alla Sua potenza. Le conseguenze di ciò furono che le guardie indietreggiarono e caddero a terra.

Le conseguenze di questa verità
Questo Gesù che venne al mondo in una stalla, che visse l’esistenza umana e il suo sviluppo come ognuno di noi, che crebbe come un normale ragazzo, dal punto di vista fisico, spirituale e psicologico, che invecchiò così come qualunque altro, questo Gesù è Jahwe dall’eternità ed è sempre esistito. «Io sono colui che sono.» Di Lui è scritto anche nell’epistola agli Ebrei: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Eb 13,8).
Perché dovette diventare uomo? Perché Dio non può morire. Poiché Dio scelse di morire per i peccati degli uomini, dovette diventare uomo e quindi comparve in Gesù Cristo. Di questa autoprivazione divina di Dio in Suo Figlio leggiamo che: «pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fi 2,6-8). L’espressione «in forma di Dio», nel testo originale greco corrisponde a « morphe schema ». Queste due parole definiscono la forma obiettiva di qualcosa così com’è e indipendente da chi la osserva. Gesù è Dio ed esiste in eterno, così come è Dio.
Nasciamo in forma umana e vogliamo entrare nella vita eterna. Gesù invece è venuto dalla vita eterna per morire. Di quando nel giardino del Getsemani si rivelò come l’«Io sono» e i Suoi nemici indietreggiarono cadendo al suolo, Egli disse infine: «Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi (i discepoli)» (Gv 18,8). E si diede volontariamente alla morte.
Dio si offrì e morì affinchè noi possiamo avere vita eterna. Solo in tal modo ci è possibile invocare il nome del Signore per essere salvati.
Poiché Gesù è Colui che è, anche Dio Gli ha dato «il nome che è al di sopra di ogni nome, affinchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,» (Fi 2,9-10). E perciò ancora «In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati» (At 4,12).
Non possiamo invocare un Dio maggiore di Jahwe, poiché non esiste altro Dio all’infuori di Lui. Tramite il divenire uomo di Gesù, tramite il Suo morire sulla croce e la Sua resurrezione, abbiamo la possibilità di farlo. Gesù è il nostro vero e unico Salvatore per ogni ambito della nostra vita, per ogni problema e per ogni peccato. Egli può risolvere ogni situazione della nostra vita. Gesù ha detto a ragione: «Io e il Padre siamo uno» (Gv 10,30). Perciò anche le parole di Isaia 43,11 si riferiscono a Lui: «Io, io sono il Signore, e fuori di me non c’è salvatore.»

Publié dans:BIBBIA, biblica, Teologia |on 10 juin, 2014 |Pas de commentaires »

IL MISTERO DEL DOLORE NELLA LUCE DELLA REDENZIONE

http://www.mediatrice.net/modules.php?name=News&file=article&sid=1891

IL MISTERO DEL DOLORE NELLA LUCE DELLA REDENZIONE

di P. Stefano M.Manelli

Il dolore e la sofferenza rimangono ancora oggi degli interrogativi profondi, a volte angoscianti. Si è davanti ad uno dei misteri della vita. Molto spesso il dolore è così scandaloso – vorremmo solo il bene, la salute e invece si sperimenta spesso il loro contrario – che ci porta alla negazione di Dio. Ma ancora una volta si è testimoni, così facendo, che il dolore è un mistero grande che ci conduce a Dio, almeno a porcene il problema.
Magari lo si ingiuria, lo si combatte, ma pur sempre si è convinti che il dolore è un interrogarsi su Dio. Non si darà allora una risposta soddisfacente a questo mistero se non partendo dal mistero di Dio, dal mistero della vita come dono di Dio. Oggi capita spesso, a volte a livello teologico, a volte pastorale, d’essere troppo frettolosi nell’assolvere Dio dal mistero della sofferenza e così facendo non ci si accorge che si banalizza il problema facendolo ricadere solo sull’uomo. Quello che poteva essere un nexus per ritrovare il Dio della vita e dell’amore, diventa invece un assurdo ancora più as-surdo. Nel 1998, l’allora Card. Ratzinger, in un colloquio critico col teologo Johann Baptist Metz, sottolineava proprio che dimenticare la presenza attiva ed operante di Dio nella storia, sempre, alla fin fine riconduce ad un’idea deista di Dio con le conseguenze atroci di un ripiegamento sull’uomo solo, soggetto assoluto di una storia orribile: «…se alla fine – diceva – non avvertiamo più che Dio entra real-mente nella storia e che, malgrado tutte le leggi di natura e tutto quello che noi possiamo sapere e fare, rimane il soggetto della storia e agisce in essa, se lo trasformiamo in un orizzonte indeterminato che in qualche modo fa fare una bella fine al tutto, allora siamo soltanto noi i soggetti della storia. Allora il peso intero del bene e del male pesa interamente sulle nostre spalle» (in P. TIEMO RAINERS – U. CLAUS [a cura di], La provocazione del discorso su Dio, Queriniana, Brescia 2005, p. 77, orig. ted. Ende der Zeit? Die Provokation der Rede von Gott, Matthias–Grünewald Verlag, Mainz 1999).
Il dolore non può sfuggire a Dio perché Dio lo ha redento. La nostra risposta ad esso è Cristo redentore e Maria corredentrice. Il dolore può redimere perché è stato redento. Solo in Gesù e Maria il dolore acquista un senso bello anche se pur sempre terribile: diventa sofferenza redentrice per la vita eterna.
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Sempre inquietanti si presentano gli interrogativi sul mistero del dolore e sulla problematica della sofferenza che agita perenne-mente gli uomini su questa terra di «triboli e spine» (Gn 3,18).
Se Dio è buono, perché permette la sofferenza? Se Dio è onni-potente, perché non distrugge il dolore? Se Dio ama gli uomini, perché li lascia soffrire?
Sono questi gli interrogativi che si pone l’uomo della strada di ogni tempo e luogo. Non c’è bisogno di essere pensatore o filosofo, socio-logo o psicologo, giovane o adulto, per porsi questi interrogativi.
Ma quale può o deve essere la risposta a questi interrogativi? Al di là delle possibili e ipotetiche risposte, noi diciamo subito che l’unica risposta valida e sicura a questi interrogativi ci viene dalla visione cristiana della vita. È la fede cristiana la grande Maestra della vita, e il suo insegnamento è questo: l’uomo è fatto per la fe-licità eterna, la vita terrena è preparazione alla felicità eterna, la grazia e le virtù sono i valori autentici per la realizzazione del fine, ossia della beatitudine nell’eternità del Regno dei cieli, con Cristo e per Cristo Crocifisso.
Illuminante può essere questo significativo episodio doloroso: «Il ministro di Dio, Milton Galimason, negro, racconta che un gior-no il figlio d’uno dei suoi parrocchiani andò a finire sotto le ruote di un veicolo, morendo fra atroci sofferenze. In preda alla più viva di-sperazione, il padre del giovinetto si precipitò all’ufficio parrocchiale, singhiozzando: “Ecco cosa fa il tuo Dio tanto buono! Come ha potu-to lasciar morire così un figlio caro come il mio? Come Dio può es-sere tanto misericordioso e giusto, come tu affermi? Dov’era questo tuo Dio nel momento della disgrazia?”.
La risposta venne dolce e triste: “Egli era là, dove si trovava, quando il Figliuolo suo fu ucciso sulla Croce!”» .
Questa è la visione cristiana della vita e del dolore dell’uomo. Senza questa visione cristiana, al problema angoscioso del dolore e ai suoi laceranti interrogativi non resta altra risposta che la dispe-razione dell’ateo e dell’esistenzialista, non resta altra soluzione che l’indifferentismo dei libertini e degli scettici, con il loro atteg-giamento teoretico e pratico in balia, di fatto, dell’incoscienza e dell’irriflessione senza sbocco alcuno .
Il “mistero intangibile” della sofferenza
La sofferenza, infatti, è un «mistero intangibile» della vita uma-na; un mistero presente e operante sul cammino di ogni uomo. La realtà del male, della sofferenza, del dolore, in effetti, è esperienza concreta nella vita di ogni uomo sulla terra. I mali fisici (malattia, morte), i mali intellettuali (ignoranza, errore), i mali morali (peccato, corruzione), sono patrimonio stabile dell’umanità, purtroppo.
Secondo la visione cristiana, però, i mali fisici, intellettuali e mo-rali sono legati al peccato voluto e commesso dall’uomo. «Di que-sta connessione – ha scritto Franco Amerio – abbiamo, se non una prova, certo almeno un’illustrazione anche nell’esperienza quotidiana: quanti mali sono conseguenza dei peccati, dei nostri singoli peccati attuali! Le cronache nere e meno nere dei nostri giornali sono il documento inoppugnabile e spaventoso della triste fecondità della colpa: quante sofferenze per tutti nascono da am-bizioni, egoismi, crudeltà, lussurie… quante sofferenze per il pec-catore: sofferenze di corpo e di anima: alterazioni del fisico, malat-tie, deperimenti, morte…; alterazioni psicologiche fino all’ine¬beti¬mento, all’insensibilità che conduce ai più assurdi delitti, matricidio, infanticidio… In fondo, basterebbe togliere il peccato dal mondo, perché l’umana convivenza venisse profondamente risanata» .
Qual è, tuttavia, la radice “prima” di tutti i peccati degli uomini, e quindi di tutte le sofferenze dell’umanità? Sappiamo già la risposta dal Catechismo e dalla Teologia: è il peccato originale dei nostri progenitori, Adamo ed Eva (cf. Gn 3,1–7). È quella colpa primige-nia che fin dagli inizi ha ridotto l’intera umanità nella condizione di peccato e di peccabilità, rovinando quella felicità originaria che Dio aveva donato ai nostri progenitori, Adamo ed Eva, e che, senza la rovinosa caduta nella colpa originale, sarebbe stata trasmessa per via di generazione a tutta la discendenza umana.
«L’atto di nascita del dolore – ha scritto in bella e rapida sintesi il Pederzini – si identifica con quello delle origini dell’uomo. Il primo uomo, creato libero di accettare o non, la sua dipendenza dal Cre-atore, liberamente si rifiutò, preferendo perdere per sé e per i suoi discendenti l’ordine fisico e morale legato a questa sottomissione.
Questo atto di superbia, suggerito e condiviso da Satana, fu un peccato che coinvolse tutta la discendenza. Fu un peccato univer-sale, cioè esteso nel tempo e nello spazio e nessuno ne fu o ne sarà esente, tranne la Vergine immacolata» .

La Redenzione e le nostre sofferenze
Viene da chiedersi, tuttavia: ma se Dio poteva creare un’uma¬nità libera e senza peccato, perché non lo fece? E ancora: perché l’umanità si è venuta a trovare con la terribile responsabilità del peccato che pesa su di essa e inesorabilmente la ferisce? E non po-teva la Redenzione essere tale da risparmiarci poi ogni sofferenza?
Non abbiamo la risposta a questi interrogativi. Nessuno potreb-be darla, perché è molto al di sopra delle nostre facoltà. Anche il papa Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, per rispondere alla domanda sul dolore rivolta a Dio, si rifà a sant’Agostino il quale «dà a questa nostra sofferenza la risposta della fede: “Si comprehendis, non est Deus” – Se tu lo comprendi, allora non è Dio» . La vera risposta sta racchiusa interamente nel mistero di Dio: e il mistero di Dio, lo sappiamo, è luce abbagliante che costringe a tenere chiusi gli occhi .
La luce di questo doloroso mistero, tuttavia, traluce, potrebbe dirsi, da un volto divino, ossia da quel mistico Volto di Cristo soffe-rente, dal Volto di colui che è stato definito «l’Uomo dei dolori» (Is 53,3), Gesù Cristo, del quale, a nostro particolare conforto e so-stegno, conosciamo i tratti del Volto dalla vetusta e preziosa reli-quia della santa Sindone (che si conserva e si venera a Torino) .
Nel Volto sofferente di Cristo Crocifisso, infatti, contemplato nel-la santa Sindone, a noi è dato di leggere qualcosa del mistero del peccato e del dolore dell’umanità intera, del peccato e del dolore di ogni singolo uomo segnato dalla colpa adamitica. Nella sua com-postezza, nella sua dolorosa ma nobile espressione, l’immagine della sofferenza che si guarda e si contempla nel Volto di Gesù della santa Sindone sembra richiamare d’un subito alla realtà del peccato e della morte che all’uomo si presentano ogni volta con il loro sinistro potere di turbamento e di dolore.
Nella visione cristiana del dolore si può scoprire una sorta di al-chimia della grazia divina che sa operare la trasformazione della sofferenza e della penitenza nel valore positivo della purificazione dalle passioni e dalle colpe degli uomini, e nel valore ancor più po-sitivo della elevazione degli uomini sugli altipiani delle vette asceti-che e mistiche che avvicinano a quel Regno dei cieli nel quale sol-tanto si trova la piena e perenne felicità secondo il progetto d’a¬more di Dio che aspetta tutti i “redenti” nel Regno dei risorti e che fece esclamare a san Pietro d’Alcantara, apparso, dopo la sua be-ata morte, alla sua grande figlia spirituale, santa Teresa d’Avila: «Oh felice penitenza che mi ha meritato tanta gloria!» .
E proprio la nobiltà austera e serena del Volto sindonico di Gesù Crocifisso sembra illuminarci e dirci con forza che la comunione dell’uomo con Dio si restaura molto meglio, si ricompone più age-volmente, si armonizza e si corona in pieno con la beatitudine della risurrezione nell’aldilà del Paradiso, in nessun’altra maniera che at-traverso la sofferenza accettata e offerta, voluta e amata nel suo sa-lutare mistero. Per questo, dai veri cristiani, come dice il papa Paolo VI, il dolore «non è più respinto come un assurdo nemico della no-stra vita, ma stoicamente, eroicamente, accolto come un fattore di perfezionamento morale e come un valore di mistico significato» .

L’esperienza di Giobbe
Non è forse questa, infatti, la sostanziosa e convincente con-clusione del libro di Giobbe, un testo biblico dell’Antico Testamento che ha fatto versare fiumi di inchiostro nei più vasti commentari bi-blici di ieri (quello di san Gregorio Magno, ad esempio) e di oggi (quelli di D. Ruotolo e di G. Ravasi)?
L’errore fondamentale di Giobbe sofferente, infatti, non consi-stette nel valutare e reagire negativamente al dolore che si presen-tava come ingiusto e che sembrava colpirlo senza ragione alcuna, ma consistette nel non comprendere «come il dolore fosse un mezzo per entrare in una comunione più intima con Dio» , secon-do un disegno divino che trascende l’uomo chiuso nei limiti ristretti del suo creaturale pensare e ragionare.
Le parole finali di Giobbe, infatti, sono queste: «Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo… Io ti conosco per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,3,5–6). E «con le sue parole finali – è stato scritto – Giobbe riconosce all’Altissimo la possibilità di avere un disegno che sorpassa le capacità umane di comprensione. Disegno che l’uomo deve accettare con fiducia, speranza e adorazione» .
Ovviamente ciò non può e non deve significare supina accetta-zione del dolore tout–court. Non si può mai dimenticare che il dolo-re, in effetti, è, entitativamente, privazione di un bene, e quindi ne-gativo, da rimuovere dunque (come fa il medico che, asportando un ascesso, ridona la sanità al corpo che geme) .
D’altra parte, però, è vero che oggi la società del consumismo e la civiltà del benessere sono schiavizzate dall’edonismo a piano inclina-to, dall’edonismo in ogni cosa e a tutti i costi, respingendo qualsiasi disagio e rammollendosi nello strame dei piaceri al punto tale da mi-sconoscere e anche annullare la capacità dell’uomo «di affrontare impegni difficili, privandolo così delle soddisfazioni più autentiche e durature» . La società del consumismo e la civiltà del benessere, in questo senso e a tal proposito, meritano soltanto disprezzo, e da es-se bisogna stare in guardia e difendersi lottando .
Come ha bene scritto l’Amerio, «Sembra proprio che senza dolo-re nulla di grande si produca nel mondo. Lo stigma del genio sembra essere il dolore, tanto esso suole accompagnarne la vita, le vicende, i trionfi. Nel dolore si maturano gli uomini. [… ] Piacere e gioia troppo spesso rendono egoisti e crudeli. Dolore e sofferenza invece aprono l’animo verso gli altri ed affratellano» . E lo Chaffanion scriveva a sua volta: «Nulla di grande che non sia sormontato dalla Croce. È la nostra storia, la storia di tutte le nazioni, di tutti i secoli; sia delle na-zioni e dei secoli cristiani, che hanno vere creazioni sublimi; sia delle nazioni e dei secoli non cristiani, che alle sublimità cristiane non han-no nulla da contrapporre, nulla che neppur lontanamente le rivaleggi. La grande linea di demarcazione tra i popoli della terra non è fatta dai mari o dai monti, dalle foreste o dai fiumi. [… ] La vera luce della civil-tà intima del pensiero, della educazione, dell’anima dei popoli, è de-terminata dall’ombra della Croce» .
Per questo il papa Giovanni Paolo II esorta tutti, e specialmente i giovani, ad allenarsi al regime austero per affrontare la vita che comporta lotte e rinunce, «coscienti che il valore dell’uomo – com-menta padre Zangheratti – non si colloca in ciò che ha, ma in ciò che è. Tale coscienza viene completata proprio dalla sofferenza, che trae il proprio valore principale dall’essere “luogo” privilegiato (almeno uno dei luoghi) in cui l’uomo può trascendersi, sino ad in-contrare Dio, causa e fine del nostro essere ed esistere» .

Conformità a Cristo Crocifisso
Il Volto sindonico di Gesù Crocifisso – ma anche il Volto appas-sionato di Gesù Crocifisso del Velasquez e quello trasfigurato della “Pietà” di Michelangelo – si presenta già a prima vista come un vetto-re alla grandezza del valore della sofferenza colta quale “mistero” che trasfigura l’uomo nel passaggio doloroso dall’essere un semplice uo-mo all’essere un uomo santificato, divinizzato, cristificato.
Nel Volto di Cristo, infatti, scopriamo la luce, mite e soffusa, del mistero della sofferenza che fa entrare l’uomo in Dio attraverso la conformita all’umanità deificata di Cristo Crocifisso, Uomo–Dio. E solo nella conformità piena all’immagine del Figlio di Dio fatto car-ne crocifissa, l’uomo può realizzare la propria felicità, secondo il progetto voluto da Dio, per tutti e per ciascuno, in Cristo Morto e Risorto.
Nel Volto sindonico di Gesù Crocifisso si può dire che risplenda in altezza e profondità il mistero del dolore più radicale e acuto che trans–umanizza, trasfigura e divinizza l’uomo. Fu chiesto un giorno a sant’Ignazio di Loyola quale fosse il cammino più breve per arriva-re a Dio e unirsi a Dio, e il Santo rispose con voce grave ma decisa: «È il cammino nel quale si soffrono molte e grandi avversità» .
Nella vita cristiana vissuta in pienezza di conformità a Cristo, quin-di, dolore e divinizzazione fanno unità in sinergia di dinamismi analo-ghi a quelli che avvengono fra il seme e la terra che lo accoglie nel suo grembo: il sotterramento e la macerazione del seme ad opera della terra, infatti, è immagine del dolore che si presenta, all’appa¬renza, come una disfatta del seme, mentre opera la sua trasmutazio-ne, invece, e lo porta, dinamicamente, alla trans–elevazione in una spiga dorata, in una rosa di Engaddi, in un cedro del Libano . Quale processo segreto di trasformazione avviene in esso!
Con una bella e delicata immagine, il Pederzini spiega come la sofferenza possa trasformarsi in una salutare e preziosa realtà, scrivendo che l’uomo «è come l’incenso: deve essere bruciato per far sentire il suo profumo» . Anche l’ardente santa Caterina da Siena – colei che fu vista avere talvolta l’identico Volto di Gesù – ha lasciato scritto un pensiero che ha la vaghezza della poesia più alta del dolore in chiave tutta mistica: «Nel dolore l’anima mia gode perché, fra le spine, sente l’odore della rosa che sta per schiuder-si»; e san Francesco Saverio, l’intrepido missionario nelle terre dell’Asia, arrivò a battezzare con il nome di Isola delle Consolazio-ni l’isola di Noro, perché ivi egli aveva molto patito .
Il Calvario e il Tabor
Si potrebbe pensare anche al suggestivo richiamo dei due mon-ti biblici, di cui ci parla il Vangelo: il Calvario e il Tabor. Su questi due monti Gesù è stato protagonista dei due fatti straordinari, os-sia della sua Crocifissione e morte, e della sua Trasfigurazione. Unico era il Volto di Gesù sul monte Calvario e sul monte Tabor: ma sul monte Calvario era il Volto dell’umanità sfigurata e crocifis-sa; sul monte Tabor era il volto dell’umanità trasfigurata e diviniz-zata. Crocifissione e trasfigurazione: il rapporto è stretto, è intrin-seco. La crocifissione prepara e garantisce la trasfigurazione, e perciò non può darsi trasfigurazione se non come frutto e gloria della crocifissione.
Nella Teologia spirituale vastissimo è il campo dell’agiografia in cui si ritrova la compresenza attiva e feconda di sofferenza e santi-tà. In questa compresenza si scopre che il dolore apre alla santità, mentre la santità cresce e si potenzia nel dolore. In termini di Teo-logia ascetica, il dolore si chiama purificazione (con i suoi termini equivalenti: rinnegamento, mortificazione, penitenza); in termini di Teologia mistica, la santità si chiama cristificazione o unione pie-na, sponsale con Dio (con i suoi termini equivalenti : trasfigurazio-ne, conformità, identificazione con Cristo, matrimonio mistico).
La Teologia spirituale, nel suo impianto fondamentale, tratta della sofferenza che santifica e trasforma attraverso le fasi cruciali delle cosiddette “purificazioni”, nei riguardi di ogni uomo che voglia santificarsi, rinnegando «l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici» (Ef 4,22). Le “purificazioni attive” dei sensi esterni, dei sensi interni e dello spirito, e le “purificazioni passive” dei sensi e dello spirito, sono una scuola di sofferenza trasformatrice e santificatrice che, per gradi, ascende sempre più in alto, fino alla kenosis dell’io, potreb-be dirsi, nella “notte” dello spirito, da san Giovanni della Croce de-finita la “notte orrenda”, ma nello stesso tempo la “notte” più fe-conda della santità, più sublime nell’unione trasformante e consu-mante .
San Paolo di Tarso e san Francesco d’Assisi, santa Caterina da Siena e santa Veronica Giuliani, santa Gemma Galgani e san Pio da Pietrelcina: sono alcuni fra i molti Santi nei quali, lungo i due millenni di Cristianesimo, s’è avuta l’evidenza solare, potrebbe dir-si, del valore ascetico–mistico della sofferenza di Cristo che, ac-cettata e condivisa volontariamente, purifica e santifica la creatura umana, riuscendo ad elevarla e a trasfigurarla fino alla più sublime cristificazione, anche fisica .

«Chi è costui?… È Francesco d’Assisi?…»
Questo è il mistero di grazia del Volto di Cristo Crocifisso, che si rinnova nelle membra più elette del Corpo Mistico, che si prolunga nella vita dei Santi, a volte anche in maniera così straordinaria che nelle cronache dei primi tempi del francescanesimo, ad esempio, ci è stata tramandata la relazione del frate minore che fu presente, in visione, all’entrata di san Francesco d’Assisi in Paradiso.
Racconta il frate che quando san Francesco d’Assisi, subito dopo la morte, si presentò nell’aldilà ed entrò in Paradiso, gli abitanti del cielo, Angeli e Santi, nell’accoglierlo, lo guardavano stupiti e si do-mandavano l’un l’altro: «Ma chi è costui?… È frate Francesco d’Assisi… No, è il nostro Signore Gesù… No, è frate Francesco d’Assisi…». Non si accordavano tra di loro, perché era davvero diffici-le distinguere il volto di san Francesco d’Assisi dal Volto di Gesù, per la perfetta conformità di amore e di dolore che li aveva plasmati am-bedue .
È molto significativo, poi, che la più piena somiglianza del Volto di Gesù si abbia nei Santi più sofferenti, più piagati e sanguinanti, come i martiri, gli stimmatizzati, le vittime. È una conferma superla-tiva, questa, della preziosità della sofferenza di Cristo che, vissuta e amata dai Santi, diventa vettore di grazia alla più totale trasfor-mazione in Cristo, alla somiglianza più suggestiva con il Volto di Cristo, alla cristificazione più piena e perfetta, che è l’ideale arden-te e appassionato di tutti i Santi. «Sono anime elette, – scrive il beato Colomba Marmion – sono anime–vittime, vittime di espia-zione e di lode. Queste anime fanno molto per la gloria di Dio e per la salute delle anime, e sono care a Gesù più assai di quanto pos-siamo immaginare. Egli fa la sua delizia il trovarsi in esse» .
È un vero peccato, per questo, che pressoché tutti gli uomini, cir-condati e colpiti da tante sofferenze, anziché valorizzarle, abbrac-ciandole con l’amore di Cristo, le fuggano, con fretta e premura, le respingano, le disprezzino, le maledicano… Ignorano, e vogliono ignorare, che ogni croce, se all’esterno è di legno duro, all’interno è di oro puro. Ed è soltanto sulla Croce che si può scorgere il Volto d’amore doloroso del Redentore, come affermava la grande anima di Leon Bloy scrivendo che «Solo l’oscurità di un Calvario spirituale diffonde sulle nostre anime, la soave chiarezza del volto del nostro mirabile Salvatore!» .
San Giovanni Bosco, ad esempio, sapeva ben dimostrare il va-lore delle sofferenze che aveva e che erano tali da mettere a dura prova la virtù della fortezza: emottisi frequenti, artritismo costante e doloroso, vene varicose che rendevano faticoso il camminare, malattia agli occhi fino a ridurlo alla cecità, nevralgie così lancinan-ti ai denti da sentirsi scoppiare la testa: eppure, egli era sempre «il prete sorridente e amabile con tutti – scrive il Vivoda – come se godesse la più florida salute. Sorrideva, perché mentre il mondo ammirava la grandezza delle sue opere, egli pensava, con san Bonaventura, esservi maggior perfezione nel sopportare con pazienza le avversità» .

Santa Liduina, beata Alexandrina, venerabile Giacomo GaglioneColoro che compresero e vissero fino in fondo il valore prezioso della sofferenza, fra i molti “eletti” di Dio che l’agiografia ricorda, furono certamente, tre grandi vittime, di cui una è vissuta a cavallo tra XIV e XV secolo, le altre due del secolo ventesimo: santa Li-duina da Schiedam, olandese, la beata Alexandrina Da Costa, spagnola, il venerabile Giacomo Gaglione, italiano. Tutti e tre, per cause e modi diversi, sono stati paralizzati per decenni. Basti qui riferire soltanto qualche particolare significativo della loro vita di martirio continuo.
Santa Liduina da Schiedam si può dire che sia passata alla sto-ria come un “emblema” per la sua vita di vittima davvero straordi-naria nel soffrire tali e tanti travagli da stupire quanti ne venivano a conoscenza e la avvicinavano. A vederla, non si poteva non rico-noscere che per quella vittima c’era un disegno tutto particolare di Dio, un piano di immolazione che la ridusse a un mosaico di malat-tie e di sofferenze strazianti, senza poter spiegare come ella po-tesse ancora vivere e non morire dall’età di quindici anni, per ven-totto anni di seguito. Ma ella accettò di diventare vittima espiatrice per le cattiverie degli uomini, e chiedeva ella stessa al Signore le malattie più terribili per espiare, sapendo soffrire in modo edifican-te, sostenuta da esperienze mistiche eccezionali (particolarmente con gli Angeli) che la animavano a liberare il prossimo dalle soffe-renze trasferendole su di sé .
La beata Alexandrina Da Costa, nella sua paralisi, soffriva dolo-ri lancinanti e trafiggenti ad ogni minimo movimento anche solo del capo. Aveva il volto stremato dal dolore, e chiunque la vedeva non poteva trattenere le lacrime di commozione e di compassione. Ma alla Beata dispiaceva moltissimo che i visitatori dovessero andare via piangendo, e pregò quindi Gesù di donarle la forza di sorridere, pur tra quei dolori lancinanti. Gesù l’esaudì e, senza toglierle i do-lori, le diede la forza di sorridere ai visitatori, così che questi anda-vano via consolati, pensando che Alessandrina, sorridente, davve-ro non soffrisse molto. Alexandrina, silenziosamente, chiamava quei sorrisi i “sorrisi traditori”: erano i sorrisi dell’amore crocifisso .
Il venerabile Giacomo Gaglione era talmente paralizzato che poteva muovere soltanto le dita di una mano: ed egli si servì di queste dita, fino alla morte, per recitare incessantemente la corona del santo Rosario, da solo e con gli altri, di giorno e di notte, sem-pre sulla croce della sua paralisi totale. Egli appariva realmente come un crocifisso, e quella corona fra le dita della mano era il ri-chiamo vivo della Madonna vicina a Gesù Crocifisso e vicina a questo novello “crocifisso”. Ma non era affatto triste, questa vitti-ma! Al contrario, aveva sempre il volto sereno e con la vivacità de-gli occhi esprimeva anche la sua gioia per la preziosità del dolore offerto con amore. Tra l’altro, egli arrivò a voler festeggiare ogni anno il giorno anniversario della sua paralisi, fra la commozione di tutti. Anche in lui il Volto redentore di Cristo irradiava dolore e a-more inseparabili .

«Non peccare perché non ti capiti di peggio»
Che cosa dire, invece, di quanti fanno del dolore soltanto un ve-leno di morte, una sciagura senza scampo, una iattura da maledi-re? Nessuno sembra volersi rendere conto che se si valorizzasse, in Cristo Crocifisso, l’immenso peso della sofferenza nel mondo, i cristiani finirebbero col gridare con san Paolo: «Sovrabbondo di gioia nella mia tribolazione» (2Cor 7,4), esultando come gli Apo-stoli, i quali, imprigionati, malmenati e flagellati dai sinedristi, «se ne andavano dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41).
D’altra parte è purtroppo vero che agli uomini riesce anche diffi-cile saper cogliere la connessione interna che quasi sempre inter-corre fra le proprie sofferenze e i propri peccati; connessione da Gesù stesso manifestata e insegnata quando al paralitico guarito miracolosamente disse la severa ammonizione: «Non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio» (Gv 5,14).
Su questo punto, in realtà, c’è da dire che la nostra natura, con il suo innato istinto di conservazione, reagisce sempre con imme-diatezza respingendo ogni dolore come inaccettabile, bloccando anche, con facilità, ogni riflessione dello spirito che pur dovrebbe rendersi conto delle proprie miserie e peccati, da cui proviene quel dolore che serve appunto alla giusta riparazione ed espiazione delle colpe.
Esempio luminoso scritto nel Vangelo, su questo punto, è quel-lo dei due “ladroni” crocifissi con Gesù sul Calvario, di cui uno si rende chiaramente conto del suo dover patire, giustamente, la pe-na meritata per le innumerevoli colpe e delitti, e si affida, per que-sto, alla misericordia di Gesù; l’altro ladrone, invece, comincia solo a imprecare con la cecità e la rabbia dell’odio, senza affatto rico-noscere le colpe e i delitti con cui ha meritato quella giusta pena (cf. Lc 23,39–43).
Ogni peccato, infatti, è una violazione dell’ordine stabilito da Dio, e per questo si contrae un debito con la giustizia divina. Lo di-ceva bene, con una sola espressione Napoleone Bonaparte, allor-ché, sconfitto e condannato, dovette intraprendere l’umiliante viag-gio verso l’esilio di sant’Elena: «Tutto si paga!» . In tal modo, la giustizia ristabilisce l’ordine delle cose, perché «chi ha cercato il peccato attraverso il piacere – spiega l’Amerio – attraverso il dolo-re espierà il peccato» .
Ed è il Signore che vuole farci pagare il fio delle nostre colpe perché siamo suoi figli. Come ha scritto molto bene il Pederzini, infatti, «Nella Bibbia si legge che il Signore corregge coloro che gli sono cari e usa la sferza con ogni figlio che riconosce come suo. Ci castiga per le nostre ingiustizie e ci conserva per la sua bontà (cf. Tb 13,16)» .

Una pagina mirabile del papa Pio XII
C’è una celebre pagina scritta dal Sommo Pontefice Pio XII, in uno dei suoi magnifici discorsi agli ammalati, nel quale egli ha tratteggiato con raffinata maestria, unita a estrema delicatezza, lo stato d’animo drammatico di chi si autocostringe a soffrire ama-ramente e ciecamente, non aprendosi alla luce della fede che, sola, può illuminare sul perché del dolore e può sostenere quindi nel travaglio.
«Ci pare di vedere là, in quella corsia – dice il papa Pio XII –, un giovane che soffre, e soffrendo impreca. Un giorno era forte, era bello; formava l’orgoglio dei genitori, i quali ora hanno lo schianto nel cuore, perché temono di perderlo, minato da un male che non perdona. E il giovane sente quasi sfuggire da lui la vita: addio salute, addio vigore; addio fremiti di speranza; addio progetti accarezzati con l’entusiasmo di un fanciullo; addio amore. E il gio-vane si ribella: “Perché, perché? Non ha anch’io diritto alla vita? E può un Dio buono lasciarmi tanto soffrire, lasciarmi morire? Che ho fatto di male?”.
Quanti siete, o figliuoli, o figliuole? Quanti avete contraffatto il volto e fremete con l’ira nel cuore e avete l’imprecazione sulle lab-bra? A voi specialmente vorremmo accostarci, vorremmo posare dolcemente la Nostra mano sulle fronti bruciate dalla febbre. Vor-remmo, con infinita tenerezza, sussurrare a ciascuno di voi: O a-nima angosciata, perché ti ribelli? Lascia cadere nel tetro mistero del dolore i raggi di luce che promanano dalla Croce di Gesù! Che aveva fatto Egli di male? Vedi, forse sul tuo lettuccio, nella tua cor-sia vi è l’immagine della Madonna. Che male aveva Ella fatto? “O anima desolata, perché oppressa dal male, ascolta: Gesù e la sua Madre hanno sofferto, certamente non per propria colpa; ma vo-lenterosamente e con piena conformità al disegno divino. Ti sei mai chiesto perché?
Forse ti è accaduto di fare il male. Ripensaci. Forse hai offeso Dio tante volte e in tante maniere. Tu sai che una colpa grave fa meritare alle anime l’eterna dannazione; tu invece sei ancora in vi-ta, sotto lo sguardo misericordioso di Dio, tra le braccia amorevoli di Maria”» .
Se si riflettesse, guardando e pregando Gesù Crocifisso, si po-trebbe tutti scoprire che nella sofferenza è presente, sia pure na-scosta, la Grazia di Dio che fa espiare e purifica, che ripara e rin-nova, che sostiene e conforta. E allora, come ammoniva sapien-temente sant’Anselmo, dovremmo saper ricevere tutti i dolori di questa vita con la stessa devozione con la quale riceviamo i Sa-cramenti .
Se i Sacramenti, infatti, ci configurano a Gesù, anche «le malat-tie, sopportate con pazienza per la salvezza delle anime, – scrive il Vivoda – ci rendono simili a Gesù Crocifisso. Quelle febbri che ci logorano, quelle sofferenze che ci opprimono, quegli spasimi che ci straziano, quelle operazioni che ci tormentano, quello stato d’inazione che ci annoia sono gli strumenti di cui si serve Iddio per scolpire in noi l’immagine del suo Divin Figliuolo in Croce» .
Per questo sarà sempre vero che chi non ha la visione della fe-de cristiana, se si trova davanti al letto di un canceroso incurabile, dirà che sarebbe meglio la sua morte per cessare di soffrire e di far soffrire, ragionando solo umanamente (come fanno oggi, del resto, i sostenitori dell’eutanasia); chi è Santo, al contrario, consi-glierà al malato di continuare a soffrire per conformarsi a Gesù, per dimostrargli il suo amore, per salvare le anime, ragionando so-prannaturalmente, alla luce della fede in Cristo Crocifisso.

Guardare Gesù Crocifisso
Guardare il Crocifisso, dunque. Gesù, infatti, è sulla Croce per-ché volontariamente ha voluto che Dio lo trattasse «da peccato in nostro favore» (2Cor 5,21). Si potrebbe anche dire, forse, che sulla Croce Gesù ha voluto avere il volto del “peccato” e del “dolore” per noi peccatori da salvare, espiando per amore nostro tutte le offese fatte da noi al Padre. Per amor nostro: così dice espressamente san Paolo scrivendo che «Egli mi ha amato e ha immolato se stesso per me» (Gal 2,20) . E tutto Egli ha voluto soffrire per ob-bedienza e amore al Padre, il quale «ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Gesù stesso, del resto, al tempo stabilito, disse agli apostoli di voler andare al luogo della passione perché «bisogna che il mondo sappia che io amo il Pa-dre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31).
La Croce si eleva in verticale e si allarga in orizzontale: in verti-cale si può dire che la Croce simboleggi l’amore di Gesù per il Pa-dre e «le cose di lassù» (Col 3,1); in orizzontale, invece, la Croce simboleggia l’amore di Gesù per gli uomini, l’amore che fa aprire le braccia a Gesù Crocifisso per abbracciare tutti gli uomini da salva-re, spingendoli a portare la loro croce.
Nella vita di san Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars, leggiamo che, in un periodo in cui egli «si sentì perseguitato da più violente contraddizioni, decise di scrivere al Vescovo per mettere in chiaro varie cose, e dare le dimissioni da parroco. Difatti si se-dette al suo scrittoio, prese un foglio e vergò una riga dopo l’altra. Ma, giunto al punto di mettere la firma, alzò la penna, stette un po’ pensieroso, e poi si disse: «Ma oggi è venerdì! È il giorno in cui Nostro Signore ha portato la sua croce!…». Allora stracciò la lette-ra in mille pezzetti, e concluse: «Anch’io, dunque, debbo portare la mia croce. Accanto a Lui mi sarà meno pesante e meno amara» .
Nell’arte statuaria dei Crocifissi vi sono due diversi e significativi particolari riguardanti il Volto di Gesù Crocifisso. In alcuni crocifissi il Volto di Gesù è rivolto verso l’alto; in altri crocifissi è rivolto verso il basso. Nei primi si può contemplare Gesù che muore per amore del Padre; nei secondi si contempla Gesù che muore per amore degli uomini.
È soltanto l’amore, in effetti, che può sagomare gli atteggiamen-ti del Volto di Cristo, coniugando tutte le sofferenze della sua Pas-sione e Morte, realizzando quindi quel «più grande amore», da Gesù stesso proclamato nel Vangelo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). La crocifissione è l’amore più grande per la gloria massima che il Verbo Incarnato e Redentore offre al Padre salvando le anime, e che Lui solo può offrire in misura tutta infinita perché Lui è Dio.
«La Croce è dunque – scrive Massimiliano Zangheratti – la massima e perfetta glorificazione che l’universo può dare a Dio, in quanto Colui che su di essa amorosamente soffre è il Verbo fatto uomo» .

I sentimenti e le fattezze di Cristo Crocifisso
Se i redenti sono stati da Dio «predestinati a diventare conformi all’immagine del Figlio» (Rm 8,29), la conformità sarà tanto più piena e perfetta quanto più riproduce al vivo “l’immagine del Fi-glio”, sul quale e per il quale i redenti sono stati voluti e fatti da Dio. E l’”immagine del Figlio” è appunto Gesù, Verbo Incarnato e Re-dentore, il quale «solo dà al Padre la “gloria” proporzionata alla di-vinità e a lui assolutamente necessaria» .
Le stesse fattezze e sembianze del Volto di Cristo, che fanno unità con «gli stessi sentimenti di Cristo» (Fil 2,5), debbono quindi configurare la “conformità” a Cristo di ogni vero redento. E in que-sta “conformità”, precisamente, non può non essere presente la Croce, «mediante la quale – insegna il papa Giovanni Paolo II – si è compiuta la redenzione». Riflettendoci, si comprende bene come ogni redento «è chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata redenta» , per mezzo della quale viene eliminata la separazione dell’uomo da Dio, che è stata opera del peccato, e tutto può diventare, – spiega con chiarezza il Papa – «fonte di gioia, innestata armonicamente in quel messaggio di gioia che è il Vangelo» .
La Croce diventa, in tal modo, tutta la filosofia e la teologia del cristiano, diventa la sua etica e la sua politica, come si espresse il papa san Pio X, agli inizi del suo pontificato, quando ci fu chi gli chiese quale sarebbe stata la sua “politica” nel governo della Chie-sa, e il papa, alzando gli occhi e tendendo la mano ad un Crocifis-so che gli stava dinanzi, rispose senza esitazione: «Questo è la mia politica!» . E la vitalità piena della parola salvifica della Croce si attua concretamente nella vita di ogni redento, come insegna ancora il papa Giovanni Paolo II, «man mano che egli stesso di-venta partecipe delle sofferenze di Cristo», il quale, appunto, «in-dica all’uomo sofferente un posto vicino a sé» .
Questa vicinanza a Cristo Redentore tende poi a diventare sempre più unione e assimilazione del redento con Lui, e può cre-scere al punto tale che il redento arriverà a chiedere, a desiderare e a bramare la Croce e la crocifissione di Lui. Così si legge, con commozione, del serafico Padre san Francesco d’Assisi, il quale, pochi anni prima della sua morte, stando in ritiro quaresimale sul monte della Verna, nell’intensità crescente della sua meditazione ardente sulla Passione e Morte di Gesù, arrivò a chiedere a Gesù Crocifisso, con passione incontenibile, due grazie speciali: «La prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora del tua acerbissima passione; la seconda, si ch’io senta nel cuor mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori» . E venne esaudito con il dono mistico della stimmatizzazione.

Una pagina dei “Fioretti” di san Francesco
Non si può non leggere con edificazione e commozione, inoltre, la mirabile pagina dei “Fioretti” nella quale san Francesco d’Assisi insegna come il vero redento non soltanto non respinge nè rifugge la sofferenza, ma, al contrario, sa apprezzarla, sa desiderarla e sa chiederla trasformandola e trasfigurandola in “perfetta letizia” per amore di Cristo Crocifisso. Suggestivo è anche il linguaggio antico del celebre racconto della “perfetta letizia”, che rende più genuino e significativo il contenuto dell’episodio a edificazione, istruzione e sostegno di quanti hanno da superare difficoltà e amarezze di ogni genere nella vita di ogni giorno, per nulla avara di incomprensioni e contrasti .
«Venendo una volta santo Francesco da Perugina a santa Ma-ria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e ‘l freddo gran-dissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: “Frate Lione, avvegnadiochè li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione; nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia”.
E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda vol-ta: “O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e disten-da gli attratti, iscacci le simonia, renda l’udire alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch’è maggiore cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è ciò perfetta letizia”.
E andando un poco, santo Francesco grida forte: “O frate Lio-ne, se ‘l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. […]
E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: “O frate Lione, benché ‘l frate Minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gli infedeli alla fede di Cristo; iscrivi che non è ivi perfetta letizia”.
E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lio-ne con grande ammirazione il domandò e disse: “Padre, io ti prie-go dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia”. E santo Francesco sì gli rispose: “Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e in-fangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi e noi diremo: Noi sia-mo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andata via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pa-zientemente senza turbarcene e senza mormorare di lui, e pense-remo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfet-ta letizia.
E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turba-to, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vivissimi, andate allo spedale, chè qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo soster-remo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia.
E se noi pur costretti dalla fame, dal freddo e dalla notte più pic-chieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con gran-de pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolez-zato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o fra-te Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia» .

L’amore del buon Samaritano
Nei Santi, in ogni Santo, all’unione d’amore con Cristo Crocifisso fa seguito, connaturalmente, potrebbe dirsi, la dedizione al bene dei fratelli che costituiscono il “Corpo di Cristo”, come si esprime san Paolo quando scrive ai Colossesi: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai pa-timenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Come spiega bene il papa Giovanni Paolo II, «la redenzione operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. In questa dimensione – nella dimensione dell’amore – la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costante-mente» . Su questa onda dell’amore doloroso, infatti, che “costan-temente” espia per i fratelli e redime le anime si pongono i Santi con l’offerta volontaria delle loro sofferenze di ogni genere (males-seri e fatiche, incomprensioni e maltrattamenti, insuccessi e per-secuzioni…) per ottenere la conversione e la salvezza eterna dei fratelli peccatori, degli uomini senza Dio .
Infatti, come scrive l’Amerio, «bene spesso quel dolore, quell’in¬successo, quella malattia, per cui gli altri ti giudicano infelice sono stati invece l’inizio della tua salvezza, la ragione delle tue vittorie, la benedetta occasione di arricchimento spirituale e religioso. Non si tratta certo di successi esteriori, di vittorie o di trionfi documentabili con le statistiche dei calcoli umani» . Ma è proprio vero che l’amore dei Santi, imitatori dell’evangelico “Buon Samaritano”, ha riempito volumi e volumi di agiografia, di secolo in secolo, a edifi-cazione della santa Chiesa, a sostegno e conforto dei sofferenti di ogni specie.
Basterebbe ricordare qui gli ultimi grandiosi esempi dei Santi mirabili che si chiamano san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Luigi Orione, i beati Don Guanella e Bartolo Longo, san Massimi-liano Maria Kolbe, la beata Alexandrina Da Costa, e molti altri; e che cosa dire di san Pio da Pietrelcina e della beata Teresa di Calcutta? San Pio da Pietrelcina, oltre l’offerta delle lancinanti sof-ferenze personali patite nella cinquantennale e sanguinosa stim-matizzazione, ha voluto creare un’opera grandiosa per chi soffre, l’Opera chiamata appunto, molto significativamente, “Casa sollievo della sofferenza”; la beata Teresa di Calcutta, poi, ha fondato un intero istituto religioso con un esercito di consacrate, votate all’assistenza dei più poveri e sofferenti, le Suore Missionarie della carità, sparse già in tutto il mondo in aiuto dei più miseri accattoni e “narboni”. Ma si sa bene che tutta la bimillenaria Storia della Chiesa è una galleria di questi Santi che hanno fatto dell’espe¬rienza del Buon Samaritano la loro forma di vita edificante e labo-riosa, luminosa di carità e di sacrificio senza misura.
Essi hanno voluto vivere in solido, potrebbe dirsi, la virtù della carità descritta nella mirabile parabola evangelica del buon Sama-ritano, praticando concretamente e su misura gigante l’amore di-sinteressato, come ricorda ancora la Salvifici doloris , ossia quell’amore provocato appunto dalla sofferenza che illumina tutta la realtà del dolore in maniera tale «da poter dire – scrive lo Zan-gheratti – che essa è giustificata anche per questa capacità di far sbocciare tale amore dal cuore dell’uomo» . E in questo senso, la sofferenza offerta diventa «un bene, – continua il papa Giovanni Paolo II – dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione in tutta la profondità della sua fede nella redenzione» .

La regina nel giudizio finale: la carità
Lo scenario della sofferenza redentiva che assimila a Cristo, configurando direttamente al suo Volto, diventa infine grandioso in quel Giudizio finale di tutti e di ciascuno che ci sarà alla fine dei tempi nella «Valle di Giosafat» (Gl 3,12) e che si svolgerà alla luce radiante delle parole divine di Gesù, Giudice supremo, il quale chiamerà tutti i salvati nel Regno dei Cieli, giudicandoli direttamen-te sulla carità e dicendo loro così: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fonda-zione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visi-tato, carcerato e siete venuti a trovarmi. […] In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,34–36,40).
Io, Gesù: ero affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, car-cerato. Gesù ha dunque un volto particolare per essere riconosciu-to: ha il volto dell’affamato, dell’assetato, del forestiero, del nudo, del malato, del carcerato. È possibile a tutti, quindi, vedere il Volto redentore di Gesù in chi soffre, anche se peccatore (“carcerato”). Perciò, non abbiamo da ricercare chissà dove il Volto di Cristo per poterlo vedere. Gesù ha assimilato il suo Volto redentore a quello stesso dei poveri e sofferenti, dei diseredati ed emarginati. La con-clusione che si trae dalla mirabile parabola evangelica è appunto questa: il Volto redentore di Gesù è davanti a noi soprattutto nel sofferente, nell’affamato, nell’assetato, nel forestiero, in chi è nudo, in chi è ammalato e carcerato.
A noi cristiani, dunque, è stato concesso questo potere, è stato affidato questo dovere: possiamo e dobbiamo saper vedere il Volto di Gesù in tutti i poveri e sofferenti che incontriamo. E non era for-se questa la visione di fede che i Santi avevano nel guardare ai poveri e ai sofferenti? Non era forse questo lo sguardo del Serafi-co Padre san Francesco rivolto ai lebbrosi, trattandoli come imma-gini viventi di Cristo Crocifisso? E il beato Damiano Veuster, mera-viglioso apostolo dei lebbrosi, non guardava forse così i suoi leb-brosi nell’isola–lebbrosario dove visse e operò da missionario, mo-rendo anch’egli, alla fine, da lebbroso? E la beata Teresa di Cal-cutta, ai nostri giorni, con quali occhi guardava i suoi poveri accat-toni in fin di vita, i “barboni” derelitti e abbandonati da tutti, i mille e mille poveri, ammalati e disperati che incontrava e curava in ogni luogo della terra?
Questi sono gli occhi della carità cristiana che vedremo splendentissimi nel giudizio finale in tutti coloro che hanno saputo guar-dare con amore il Volto dolorante di Cristo nei fratelli, specialmen-te nei più poveri e sofferenti, leggendo il mistero del dolore alla lu-ce radiante della fede, divina maestra della verità nell’insegnare che la sofferenza trasfigura il povero e derelitto in Cristo, lo confi-gura misteriosamente a Lui, lo fa partecipe del suo Volto divino–umano, del suo Volto mite e sofferente, di quel Volto che è tutto dolore perché è tutto amore.

Coniugare l’amore con il dolore
Questo discorso di fede si presenta sublime agli occhi dei veri credenti, facendo capire e vedere che il mistero del dolore si co-niuga con il mistero dell’amore divino e fa quindi unità con il miste-ro della salvezza eterna. Ma per i non credenti, per il mondo ateo e pagano, per i libertini e i dissoluti, il dolore resta solo un mistero–orrore che sconvolge e opprime senza scampo, così come il miste-ro della Croce è soltanto un assurdo tetro, una vera follia, contro la quale si scatena la reazione con la ricerca avida del piacere di qualsiasi genere e del godimento a qualunque prezzo, magari an-che fino al prezzo del suicidio (leggi overdose…) .
Tutto ciò è stato già detto e scritto a lettere di fuoco anche da san Paolo apostolo quando afferma, appunto, che il mistero della Croce è «scandalo per i giudei, follia per i pagani» (1Cor 1,23). Non si poteva e non si può comprendere, e ancor meno accettare, la verità e la real-tà della Croce su cui Cristo è stato crocifisso, che si presenta, agli oc-chi profani, soltanto come un supplizio orrendo e una morte così in-famante da ridurre realmente l’essere umano a «un verme e non più uomo» (Sal 21,7) e da giustificare quel versetto biblico che dice: «Ma-ledetto colui che pende dal legno» (Dt 21,23) .
Ed è vero il contrario, invece, come spiega ancora san Paolo con le sue parole di luce: «per coloro che sono stati eletti», il mi-stero della Croce «è potenza e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), per-ché la Croce, di fatto, è la chiave che apre la porta del Paradiso ai Santi, avendo Dio «nascosto per noi, in una Croce, davanti alla quale tremiamo, tutta la luce del Paradiso», come ha ben scritto il cardinale Journet .
Quanto Gesù Crocifisso rispose al buon Ladrone – anch’egli crocifisso sul Calvario – : «Oggi, tu sarai con me in Paradiso» (Lc 23,43), fa ben intravedere, che, pur fra gli strazi della crocifissione, c’è già, in semine, la presenza e il possesso del Paradiso, a con-ferma sicura e garanzia precisa che se il legno della croce all’esterno è legno duro e aspro, all’interno, invece, è tutto oro che brilla prezioso e splendente.
Qui è la Teologia più solida che ci aiuta a scoprire la radice più segreta da cui germoglia, in Gesù Crocifisso, la gioia paradisiaca coniugata con la sofferenza più atroce della Passione e Morte; ci aiuta a scoprire, cioè, la verità secondo cui, in Gesù Crocifisso, sono misteriosamente compresenti la Visione beatifica e gli strazi amarissimi della crocifissione e morte sul Calvario, come insegna il Dottore Angelico, san Tommaso d’Aquino , e con lui tutta la sana e perenne Teologia della Chiesa.
Per questo, a buon diritto, si può dire, con lo Zangheratti, che «la sofferenza, pur in tutta la sua crudezza, ha già nel suo cuore il paradiso, come testimoniano le esperienze di molti cristiani, sia santi canonizzati che non» .
«Tanto è il bene che mi aspetto…»
Riflettendo in profondità su queste verità che sono patrimonio della nostra fede, si può comprendere da tutti quell’espressione così semplice e vivace del Serafico Padre san Francesco d’Assisi che dice: «Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è di-letto», come è riportato nel libro dei “Fioretti” .
Queste parole molto significative acquistano un valore eccezio-nale se si riflette che chi le pronuncia, san Francesco d’Assisi, sof-ferente e piagato dalle cinque stimmate sanguinanti, oltre che da una serie impressionante di malattie fisiche, si presenta come il Santo più conforme a Gesù in tutta la sua vita , configurato anche nel volto al Volto di Cristo (così da essere confuso con Cristo, al suo ingresso in Paradiso) , l’unico, fra tutti i Santi, che la Chiesa stessa, nella Liturgia della santa Messa, definisce espressamente come «perfetta immagine di Gesù Crocifisso» .
È chiaro che il Santo, ogni Santo, nell’assimilarsi a Cristo, vuole assimilarsi alla sua gioia ineffabile così come al suo dolore marti-rizzante. Ma sappiamo anche, dall’agiografia, che la più vitale gioia del Santo consiste proprio nell’assimilarsi a Gesù puntando parti-colarmente alla partecipazione viva dei suoi dolori, giacché è sem-pre vero che chi ama sino in fondo potrebbe forse non curarsi mol-to delle gioie dell’amato, ma è impossibile che non si curi e non voglia sempre condividere ogni sofferenza dell’amato.
Così diceva e faceva, ad esempio santa Gemma Galgani, ver-gine lucchese, dolce e serafica, stimmatizzata, morta agli inizi del secolo ventesimo. Per lei tutta la gioia più vera e più pura consi-steva nello scoprire il Volto e il Cuore di Gesù, nel farlo regnare nella propria anima, e soprattutto nel partecipare misticamente e fisicamente a tutti i suoi dolori, assimilandosi al vivo alla sua cro-cifissione e nascondendosi interamente in Lui “Crocifisso”. Ella stessa, difatti, così si esprime appassionatamente e sublimemen-te in questa sua preghiera estatica di assimilazione totale al Cro-cifisso: «Signore mio Gesù, quando le mie labbra si avvicineran-no alle tue per baciarti, fammi sentire il tuo fiele. Quando le mie spalle si appoggeranno alle tue, fammi sentire i tuoi flagelli. Quando la carne tua si comunicherà alla mia, fammi sentire la tua Passione. Quando la mia testa si avvicinerà alla tua, fammi sentire le tue spine. Quando il mio costato si accosterà al tuo, fammi sentire la tua lancia» .
Bisogna davvero arrivare sugli altipiani dell’amore estatico cro-cifisso per poter dire cose come queste che trasfigurano il dolore più acuto nelle note più alte e sublimi di quell’amore ardente che si fa incontenibile nell’unificare l’amante alle sofferenze dell’amato. Questa è anche la testimonianza di tanti mistici di ogni tempo e luogo, che hanno arricchito la Chiesa lasciando un patrimonio di scritti mirabili e di esperienze preziosissime.
Si comprende, allora, donde scaturisce l’amore appassionato dei Santi rivolto all’immagine del Crocifisso, da essi venerato e a-dorato. E molti di essi volevano il Crocifisso di grandi proporzioni. Grandi, infatti, erano «i Crocifissi di S. Tommaso d’Aquino, di S. Franceco d’Assisi, di S. Bernardo, di S. Filippo Neri, di S. Giovanni della Croce, di S. Camillo de Lellis, di S. Girolamo Emiliani, di S. Gemma Galgani… Specie nel ‘600 troviamo grandiosi Crocifissi, in cui il Cristo è raffigurato nel tormento spasmodico della sua stra-ziante agonia, grondante sangue. Così bisogna guardare Gesù Appassionato, come veramente fu sul Calvario, morente per i pec-cati nostri, per la nostra Redenzione!» .

Volto di Gesù, Volto di Maria
Se può esser vero che il volto di un figlio riflette sempre, molto o poco, lo stesso volto della madre che lo ha generato, per Gesù ciò non potè non esser vero in maniera davvero superlativa e del tutto straordinaria. Perché? Perché Gesù è figlio esclusivo della verginità della Madre Maria, con l’assenza totale del padre terreno. Di fatto, sappiamo che è stata Lei, Maria, la Vergine di Nazaret, che, verginalmente, ha concepito, ha fatto e ha generato Gesù. Vergine sempre intatta nell’anima e nel corpo, Ella, resa divina-mente “vergine feconda” dallo Spirito Santo, ha concepito e parto-rito Gesù: «factum ex muliere», scrive san Paolo, quasi scolpendo l’origine terrena del Verbo Incarnato da Maria Vergine (Gal 4,4).
Il Volto di Gesù, dunque, è stato fatto da Lei, da Maria Vergine; è stato tornito con il sangue verginale di Lei, ed è diventato il ri-flesso diretto del Volto di Lei, della Semprevergine. Il Volto di Ge-sù, quindi, non poteva non essere un volto tutto verginale, tutto materno, tutto mariano. E chiunque riproduce il Volto di Gesù, – ossia i Santi – non può non riprodurre quello stesso Volto tutto di Maria, tutto mariano. Ogni cristiano che si santifica, perciò, acqui-sta via via la stessa fisionomia del Volto tutto mariano di Cristo.
E anche il Volto sofferente di Cristo Redentore non può non a-vere il suo riflesso più radioso nel Volto di Maria Corredentrice. Si può anzi dire con sicurezza che il Volto di Gesù Redentore e il Vol-to di Maria Corredentrice apparivano come un unico e identico Vol-to, paragonabile in certo modo al volto dei gemelli monovulari. La dimensione mariana del Volto di Gesù affonda le sue radici nella genetica soprannaturale che ha reso Maria di Nazaret sua genitri-ce unica, tutta immacolata e semprevergine.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come mai Maria San-tissima abbia dovuto patire l’incommensurabile sofferenza della redenzione universale, dal momento che, predestinata Madre di Dio e concepita per questo immacolata, si è ritrovata nello stato della giustizia originale, arricchita, ancor più, di una tale sovrab-bondanza di doni e carismi celesti da non poter avere l’eguale né in una né in tutte le creature celesti e terrestri messe insieme: non avrebbe ella dovuto vivere già sulla terra, come scrive il Vivoda, «perennemente avvolta in un nembo di gioia celeste?» Ma la vita di Maria era legata a quella del Verbo Incarnato, suo Figlio, in forza di «un unico e identico decreto» di Dio, come ha scritto il papa Pio IX nella Bolla di definizione dogmatica dell’Im¬macolata Concezione . Insieme a Gesù, Ella fu predestinata al compimento della redenzione universale per la salvezza di tutti. Per questo anch’Ella ha vissuto i suoi anni di vita terrestre nell’a¬marezza continua dell’immolazione, salendo infine sul monte Cal-vario insieme al Figlio per essere immolata con Lui. «Per decreto divino – scrive ancora il Vivoda – come un uomo e una donna ci hanno perduti, così un Uomo e una Donna ci hanno salvati. Non l’Uomo solo, né la Donna sola: l’Uno con l’Altra. L’umanità è stata redenta dal sangue di Cristo e dal pianto di Maria. Con il cerchio di sangue redentore, che splende dalla Croce per lavare tutti i pecca-ti del mondo, splende anche l’onda di questo pianto verginale. […] Quando il nostro sguardo si incontra con quello della Vergine Cor-redentrice noi sentiamo meno ripugnanza a bere il calice di salute che contiene l’amara pozione del dolore» .
Ma se Maria ha dato il suo Volto a Gesù, che è il «Primogenito fra molti fratelli» (Rm 8,29), vuol dire che lo ha donato anche ai “fratelli” del Primogenito, che siamo noi, i “secondogeniti”, da Lei concepiti misticamente all’Annunciazione perchè costituiamo quel “Corpo” di cui Cristo è il “Capo”. La dimensione mariana del Volto redentore di Cristo, dunque, non può non ritrovarsi anche nelle membra del “Corpo Mistico” di Cristo che costituisce la Chiesa di cui Maria è la “Madre amantissima” .
Il Volto sofferente di Gesù Redentore e il Volto sofferente dell’Addolorata Corredentrice, poi, sono lo specchio del volto del cristiano che è chiamato a santificarsi, ossia a cristificarsi nel grem-bo e nel cuore della Divina Madre. Ciò avviene particolarmente per mezzo della consacrazione “illimitata” all’Immacolata, insegnata da san Massimiliano Maria Kolbe, il quale afferma splendidamente che «nel grembo di Maria l’anima rinasce nella forma di Gesù Cristo» : è soprattutto in Lei, nella divina Madre, quindi, che si può arrivare ad avere la stessa «faccia ch’a Cristo più si somiglia», secondo il celebre verso dantesco , perché Lei è la divina “matrice” del Verbo Incarnato, il “Primogenito”, e dei suoi fratelli.

L’unico “Volto” amato da Dio
È sempre questo il cammino ascetico–mistico del cristiano che vuole diventare Santo, conforme a Cristo. Egli, figlio di Maria, at-traverso le diverse tappe del dolore purgativo, illuminativo e uniti-vo, è chiamato a scalare coraggiosamente il Calvario per raggiun-gere il Tabor, configurandosi prima a Gesù sofferente per assimi-larsi quindi a Gesù Crocifisso; trasfigurandosi, poi, in Gesù Risor-to, per raggiungere infine il Regno dei Cieli e la beatitudine della visione eterna di Dio Amore. Dal Volto sofferente di Gesù Crocifis-so al Volto trasfigurato di Gesù Risorto: in questo passaggio è sempre il Volto di Gesù la carta d’identità del vero cristiano.
E se è vero che il Volto sofferente di Gesù, per primo, si impri-me nel volto di ogni sofferente che lo accetti per cristificarsi, confi-gurandosi quindi gradualmente a Lui, lo sviluppo e la maturazione di tale configurazione cristica, tuttavia, sta nelle mani di Colei che è la Madre di Cristo e dell’umanità, che è la Tesoriera e la Media-trice di tutte le grazie necessarie alla salvezza e alla santificazione degli uomini. Ella, infatti, è la Madre dei Santi, è la formatrice, quindi, dell’immagine luminosa di Cristo in ogni redento che tenda alla perfezione cristiana nella Chiesa che è “una, santa, cattolica e apostolica”, come ci insegna il Catechismo .
E dall’esperienza non comune di un mistico francescano come il beato Jacopone da Todi possiamo tutti imparare che la via «più breve, più rapida e più sicura» , come diceva san Massimiliano M. Kolbe, per conformarsi perfettamente a “Cristo povero e crocifis-so” , come voleva san Francesco d’Assisi, è l’assimilazione ai do-lori di Maria Santissima Madre e Corredentrice nostra .
Questa immagine, questo Volto di Cristo – si rifletta bene – è di fatto l’ideale che ogni cristiano deve realizzare e avere in sè per compiere la Volontà di Dio, come insegna l’Apostolo: «Que-sta è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Soltan-to realizzando questa Volontà di Dio, infatti, si può arrivare a vi-vere quelle parole di san Paolo che dicono: «Vivo io, sì, ma non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). E questo ideale – è necessario saperlo – è appunto l’ideale di Dio stesso, come spiega bene il padre Royo Marin scrivendo così: «Non dimentichiamo che l’Eterno Padre, in realtà, non ha che un solo amore e una sola preoccupazione eterna – se così è lecito esprimerci – : il suo Verbo. Nulla lo interessa fuori di lui, e se ci ama infinitamente, è «perché noi amiamo Cristo e abbiamo cre-duto che è uscito da Dio». Cristo stesso ce l’ha detto: «Ipse enim Pater amat vos quia vos me amasti set credidisis quia ego a Deo exivi» (Gv 16,27). Sublime mistero che dovrebbe fare del nostro amore a Cristo l’unica vera preoccupazione della nostra vita, co-me lo è dell’eterno Padre e come lo fu e lo sarà sempre di tutti i Santi!» .
È fondamentale questo pensiero–ideale, questo progetto–vita dell’eterno Padre. Da esso si può capire come il Volto di Cristo, in sostanza, sia l’unico Volto che Dio Padre conosce ed ama. Quanto più ci si identifica con questo Volto, dunque, – come Maria Santis-sima, prima di tutti e sopra tutti, senza confronto; come i Santi die-tro di Lei, e come tutti i poveri e gli infermi, i sofferenti e i tribolati – tanto più si entra nell’amore del Padre, nel Suo interesse e nella Sua preoccupazione eterna. È grandiosa questa visione di grazia del Volto di Cristo nel quale certamente non si ritrovano i benpen-santi e gli autosufficienti, i gaudenti e i possidenti, ma soltanto i bi-sognosi e i sofferenti di ogni razza e qualità, nei quali il Volto di Cristo è presente in prima persona: Io, Gesù, ero affamato, Io ero assetato, Io ero nudo, Io ero ammalato, Io ero forestiero, Io ero carcerato…

Il Crocifisso e il Cero pasquale
Per questo la devozione al Volto sofferente di Gesù Crocifisso, nell’antica e salutare devozione al Crocifisso, resta di primaria im-portanza e di eccezionale valore per i cristiani che vogliano impa-rare a donarsi, nel sacrificio di se stessi, ai fratelli più bisognosi e sofferenti, nei quali rivive il Volto doloroso di Cristo. Giustamente il padre Bevilacqua esorta soprattutto i pastori delle anime a farsi promotori della devozione al Crocifisso, scrivendo con premura e vigore: «Facciamoci apostoli del Crocifisso, dei grandi Crocifissi medioevali dei nostri altari, nelle nostre chiese e cattedrali. La do-lorosa mancanza di spirito di sacrificio nel nostro popolo cristiano, anche nei piccoli paesi una volta tanto religiosi e pii, lo si deve al fatto che, noi sacerdoti, abbiamo sostituito la devozione al Croci-fisso con altre devozioni belle e sante, ma non efficaci come quella che emana dal Cristo agonizzante. Mettiamo ancora sugli altari i nostri grandi e paurosi Crocifissi; guardando quelli, il nostro popolo ricomincerà a capire che la vita cristiana è, principalmente, vita di sacrificio» .
Uno degli errori più devastanti della fede ai nostri giorni, infatti, è certamente l’errore teologico e sociologico di quei tali – non pochi purtroppo – che, fuori e dentro la Chiesa, non solo hanno neutraliz-zato il valore della Croce esautorandone ogni potere per la salvezza degli uomini, ma vogliono cancellarla del tutto dalla vita cristiana (togliendo il Crocifisso anche dagli ospedali, scuole, fabbriche, indu-strie ed enti pubblici…), giacché l’inferno ormai “è chiuso”, si dice, o non esiste affatto! – dicono – e non c’è più nessun bisogno di sacri-fici e di rinnegamenti, dunque, per vivere da cristiani e andare in Pa-radiso: ormai, si è già tutti … condannati inesorabilmente al Paradi-so, buoni e cattivi, santi e assassini, onesti e disonesti, corrotti e corruttori, cacciando eventualmente all’inferno solo la… giustizia!
Eppure si dovrebbe ben sapere che Gesù attira e attirerà tutti a sé proprio dalla Croce e sulla Croce, come Egli disse espressa-mente ai discepoli: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32); e per questo la Croce è la chiave di volta dell’universo che in Cristo e per Cristo si trasfigura nella salvezza dell’umanità per la somma ed eterna gloria di Dio Uno e Trino. La Croce è sempre fissa, mentre il globo continua a girare, dice un’antica scritta sul portale di una Certosa: «Stat Crux dum volvitur orbis terrarum».
Per questo il Crocifisso è anche il compagno inseparabile del sofferente che a Lui ricorre, sorgente perenne di aiuto e di conforto ai tribolati che a Lui si rivolgono, unico pegno di speranza viva per la salvezza eterna ai moribondi che molto spesso restano soli e ab-bandonati, come ci fanno sapere le cronache nere di ogni tempo.
Nella vita di san Giuseppe Cafasso si legge che «una ragazza povera, chiudendo nel fiore degli anni una vita di disordini, non riu-sciva a darsi pace dell’abbandono in cui era lasciata in quelle e-streme ore, da quanti un giorno l’avevano illusa, sfruttandola.
“No, non è sola; un altro amico le rimane al mondo” – le disse san Giuseppe Cafasso, presentandole il Crocifisso –. “Mentre gli altri fuggono, questo si fa avanti, e non l’abbandonerà; ma sarà con lei finchè la vedrà salva in Paradiso”.
L’infelice ragazza fissò gli occhi sul Volto sofferente di Gesù, diede in uno scoppio di pianto, coprì di baci il Crocifisso, lo strinse al petto, e spirò nel suo amplesso» .
Un altro dei segni liturgici più espressivi della nostra morte e resurrezione in Cristo Crocifisso e Risorto, inoltre, è certamente il Cero pasquale. Bello e luminoso, posto sul presbiterio, accanto all’altare, il Cero pasquale ci parla del mistero della morte di Cristo, consumandosi; ci parla della vita risorta di Cristo, ardendo della fiamma viva e radiosa. Consumarsi e ardere: tale dovrebbe esse-re, in effetti, la più vera vita cristiana che si consuma nel sacrificio di sé, ardendo perennemente viva per Cristo e con Cristo morto e risorto.
«Un santo sacerdote novarese – scrive Fratel Remo di Gesù – Don Silvio Gallotti, amava ripetere ai suoi discepoli: «Vedete come è bello il Cero Pasquale! Dovremmo essere tutti d’un pezzo: bru-ciare così, nella letizia della Risurrezione.
Ma – aggiungeva –, non facciamo come si usa oggi: lasciare in-tatto il cero, e far bruciare un moccolo, un rimasuglio che viene in-filato con finzione alla sommità del largo cero, inghirlandato e ben dipinto, che non si consuma mai…
Immagine parlante delle anime che danno a Dio un moccolo, un rimasuglio della vita, che cerca altrove il suo ideale, la sua fe-licità…» .

Il Volto del dolore salvifico per amore
C’è una pagina magistrale del papa Paolo VI che può degna-mente concludere queste riflessioni sul “Mistero del dolore nella luce della Redenzione”, sintetizzando splendidamente i contenuti di valore primario del Volto sofferente di Cristo, che capovolge i poveri criteri di valutazione umana della sofferenza, presentando l’ideale della “vocazione” al dolore che salva e santifica. Il vero ideale santo e sublime della vocazione cristiana, soprattutto delle “vittime”, dei sofferenti e dei tribolati di ogni specie, è quello di ar-rivare alla configurazione di sé e di ogni anima al Volto redentore di Cristo, a quel Volto divino che è il Volto del dolore salvifico per amore.
Scrive il papa Paolo VI: «…Una volta – e ancora, per chi di-mentica di essere cristiano – la sofferenza appariva pura disgrazia, pura inferiorità, più degna di disprezzo e di ripugnanza, che meri-tevole di comprensione, di compassione, di amore. Chi ha dato al dolore dell’uomo il suo carattere sovrumano, oggetto di rispetto, di cura e di culto, è Cristo paziente, il grande fratello di ogni povero, di ogni sofferente. Vi è di più: Cristo non mostra soltanto la dignità del dolore, Cristo lancia una vocazione al dolore. Questa voce è tra le più misteriose e le più benefiche che abbiano attraversato il quadro della vita umana. Gesù chiama il dolore a uscire dalla sua disperata immobilità e a diventare, se unito al suo, fonte positiva di bene, fonte non solo delle più sublimi virtù che vanno dalla pazien-za all’eroismo alla sapienza, ma altresì alla capacità espiatrice, re-dentrice, beatificante propria della Croce di Cristo.
Il potere salvifico della passione del Signore può diventare uni-versale e immanente in ogni nostra sofferenza, se – ecco la condi-zione – accettata e sopportata in comunione con la sua sofferenza. La compassione da passiva si fa attiva: idealizza e santifica il dolore umano, lo rende complementare a quello del Redentore…» .
A conferma delle parole del papa Paolo VI possiamo richiama-re alla memoria, qui, il capitolo ammirabile della vita apostolica di san Giovanni Crisostomo, uno dei Santi Padri dei primi secoli († 407), ritenuto “grande” nell’agiografia per la sua opera compiuta fra le più amare sofferenze. In lui fu davvero ardente la brama di assimilarsi a Cristo Crocifisso senza riserve né misure, ritenendo ogni sofferenza un tesoro d’inestimabile valore per configurarsi a Lui. Egli stesso scrisse questi sublimi pensieri nei quali sembrano scolpite la sua anima e la sua vita: «Io non stimo tanto Paolo per il rapimento al terzo cielo, quanto per la dura prigionia che patì. E, se mi venisse proposto: Vuoi essere collocato in cielo, tra gli Angeli, o stare in carcere con Paolo? Io eleggerei piuttosto que-sto che quello. Se dovessi scegliere di essere Pietro in catene o l’Angelo che lo sciolse, io, sinceramente, eleggerei più volentieri di essere il primo che il secondo» .
Questa è la visione cristiana della sofferenza scolpita nel Volto divino di Gesù Redentore e nel volto umano di ogni sofferente che voglia vivere santamente la vocazione di membro del Corpo Misti-co di Cristo, inserito in Gesù vitalmente come il tralcio alla vite (cf. Gv 15,5), a Lui unito strettamente nel portare con generosità la croce quotidiana lungo il cammino e l’erta che menano al Regno dei Cieli (cf. Mt 7,14).
Un altro modello esemplare, a noi più vicino, in questo “cristifi-carsi”, è stato certamente san Pio da Pietrelcina, il santo stigma-tizzato del Gargano, vittima di sangue per cinquant’anni (dal 1918 al 1968), che nella sua anima e nel suo corpo ha prolunga-to la Passione di Cristo mostrandone alle moltitudini di gente il volto di dolore e di amore, quel volto sofferente segnato, non ra-ramente, da bagliori di resurrezione. Molto bene ha detto di lui il papa Giovanni Paolo II con queste parole dell’Omelia durante la Messa della Beatificazione di Padre Pio: «Chi si recava a San Giovanni Rotondo per partecipare alla sua Messa, per chiedergli consiglio o confessarsi, scorgeva in lui un’im¬magine viva del Cri-sto sofferente e risorto. Il suo corpo segnato dalla “stimmate” mostrava l’intima connessione tra morte e resurrezione, che ca-ratterizza il mistero pasquale. Per il Santo di Pietrelcina la condi-visione della Passione ebbe toni di speciale intensità: i singolari doni che gli furono concessi assieme alle sofferenze interiori e mistiche che li accompagnavano gli consentirono di vivere un’esperienza coinvolgente e costante dei patimenti del Signore, nell’immutabile consapevolezza che “il Calvario è il monte dei Santi”».

Publié dans:DOLORE E SOFFERENZA, Teologia |on 28 mai, 2014 |Pas de commentaires »

LA SAPIENZA COME SAPORE: ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

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ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI ARMIDO RIZZI

Verbania Pallanza, 18 gennaio 1997

In una prima parte sarà presentato un itinerario fenomenologico (dai sapori alla sapienza). In un secondo momento saranno indicate alcune figure della sapienza. Più che di radici si parlerà di ambientazioni, di contestualizzazioni della sapienza.

un itinerario fenomenologico: dai sapori alla sapienza

il sapore
« Sapienza » come « sapore » viene dal latino sàpere, che corrisponde al nostro « aver sapore ». La prima accezione di sàpere è dalla parte dell’oggetto, dei sapori.
In italiano c’è un verbo che fa da ponte tra oggetto e soggetto ed è « gustare » (oltre al raffinato « assaporare »), che indica sia il sapore (il gusto) che il sentire il sapore.
Questa facilità a migrare dal soggetto all’oggetto sta ad indicare una forma di conoscenza in cui soggetto e oggetto sono profondamente uniti, una forma di conoscenza diversa da quella più comunemente intesa, quella cioè del soggetto « di fronte » all’oggetto. La prima riguarda il dato originario, il campo sorgivo del conoscere, rispetto al quale la seconda (quella che si rifà al senso del vedere) è un momento successivo.
Il gustare, l’avere buon gusto, riguarda non solo i sapori, ma tutto ciò che è bello e buono, come le tinte, i suoni, ecc.. Il gusto, nella sua accezione più generale, è il senso più soggettivo (non si può gustare a distanza, mentre si può vedere e sentire) ed è il meno strumentale, il cui valore è fine a se stesso.
Mentre la maggior parte dei sensi ha un valore strumentale, il gusto ha sempre una dimensione fruitiva, ha il massimo di carattere fruitivo. Ecco perché il gusto indica quella forma di conoscenza in cui il cuore delle cose e il cuore del soggetto sono più vicini.
il gusto del bello (la connaturalità estetica)
Il « buongustaio » non è semplicemente « chi gusta », ma chi sa valutare i gusti, chi sa riconoscere come buone, belle, valide le cose che lo sono davvero.
Si tratta qui di un sapere veritativo, in grado di dare dei giudizi di valore, non solo di fatto.
Tutto il mondo dell’estetica rientra in questo sapere veritativo. Quando dico di un qualche cosa che « è bello », intendo dire che è come deve essere, che è conforme ad un canone ideale, al tipo ideale di quella cosa. Chi ha buon gusto va oltre la superficie delle cose, per coglierne la forma, l’essenza.
Se è vero che qui abbiamo a che fare con giudizi di valore che presumono di dire ciò che è bello, buono, ecc., è anche vero che questi giudizi sono indimostrabili. Non esiste la dimostrazione scientifica del bello, del buono, del valido. Possiamo solo affidarci alla capacità di mettersi in sintonia tra soggetto e oggetto, alla quale uno può essere maggiormente predisposto e che comunque deve coltivare.
Questa disposizione di base e la successiva acclimatazione sono la connaturalità.
la sapienza
Oltre alla connaturalità estetica (che riguarda gli oggetti da contemplare) esiste anche una connaturalità operativa (che riguarda il saper fare), che, come la precedente, necessita sia di predisposizioni naturali che di apprendimento.
La sapienza è la convergenza di queste due connaturalità, è l’intelligenza insieme contemplativa e operativa, è la capacità di vedere che cosa è giusto fare.
È la prudentia dei latini, che indica non solo ciò che è bene evitare, ma che cosa è giusto fare.
« Giusto » è qui inteso non in senso strumentale, né nel senso estetico (la misura giusta), ma come il giusto della giustizia, che riguarda l’azione vista dal di dentro. È il giusto come canone dell’agire umano, che qualifica il soggetto umano come persona. La persona è vista come giusta o non giusta a seconda di ciò che fa. È la dimensione più profonda della persona ed è l’istanza ultima.
Non è la qualità dell’altro (di bellezza, di intelligenza, di giustizia) a definire l’esigenza dell’agire giusto, che mi definisce come persona giusta. Proprio il cogliere che devo comportarmi giustamente con l’altro mi fa percepire il suo valore incommensurabile, il suo carattere « sacro », il mio essere sempre in una posizione di debito.
È questo sapere indimostrabile ad indicare ciò che è la sapienza: il cogliere, al di dentro dell’esigenza di agire giustamente, il valore dell’altro in quanto colui nei confronti del quale devo agire giustamente indipendentemente da quello che ha o è.
alcune figure della sapienza

il cosmo umano
Il cosmo umano è quell’ordine globale, all’interno del quale i singoli tipi di azione e di comportamento si qualificano come giusti, proprio in quanto parti del tutto ordinato.
Se la sapienza è l’intelligenza che coglie ciò che è giusto, in questa figura lo coglie come parte di un « cosmo ordinato ».
Nelle religioni naturalistiche il cosmo umano è visto come inserito nel cosmo naturale. Le leggi del cosmo diventano le leggi della condotta umana.
Nell’ebraismo classico il cosmo umano è visto come comunità con cui Dio fa alleanza, a cui Dio dà la legge. Non è più il cosmo naturale, sdivinizzato, fonte di valore per l’agire umano.
Nel pensiero cristiano convergeranno la visione ebraica della comunità a cui Dio dà la legge e la riflessione della filosofia greca secondo cui la legge umana tende ad essere inserita nella legge cosmica. Le leggi della comunità umana acquistano un carattere ambiguo di « leggi naturali ».
Le tre sottofigure esposte si muovono all’interno del « principio-tradizione ». La sapienza, come modo giusto di guardare il mondo, è trasmessa di generazione in generazione ed è fatta risalire agli dei a Dio, come nell’ebraismo. La trasmissione, e l’origine divina, legittima ciò che viene trasmesso.
La modernità rompe con questo sapere sapienziale tramandato. « Sàpere aude! » Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
La fonte di legittimazione non è più la tradizione, ma la ragione adulta o il futuro, l’utopia. L’ideale del mondo giusto di domani diventa fonte di legittimazione di ciò che è giusto fare nel presente (es.: il marxismo).
Ma oggi anche il « principio-ragione » è entrato in crisi e si cerca di recuperare un sapere sapienziale
o rifacendosi alle tradizioni del passato (fondamentalismi);
o creando tradizioni nuove (New Age);
o affermando una « nuova laicità », la consapevolezza cioè che esiste, diffusa in tutta l’umanità in quanto dotata di coscienza etica, una sapienza, che può essere terreno comune tra uomini religiosi e non religiosi e che può favorire la nascita dell’uomo planetario (Balducci), consapevole insieme della propria universalità (« io sono soltanto un uomo ») e della propria parzialità (appartenenza ad una precisa tradizione e fede).
la sapienza celeste
È una figura che fa parte della tradizione cristiana cattolica. La costruzione di un mondo buono e giusto, la sapienza del cosmo umano, è vista come piattaforma per muoversi sin da ora in direzione della patria celeste (la sapienza celeste). Questa visione è rintracciabile nella teologia monastica.
cogliere i « segni dei tempi »
I segni dei tempi, il « kairòs », sono, in una prima accezione, i segni di un certo periodo storico, che bisogna cogliere per poter intervenire. Il profeta ha questo fiuto di saper cogliere dove sta andando la storia per potervi operare. I segni dei tempi sono qui visti nel loro risvolto culturale e storico.
Il fiuto dei processi storico-culturali, unito alla luce o fede a cui uno aderisce, è una forma di sapienza come capacità di leggere i segni dei tempi, che possiamo chiamare profezia.
la sapienza del tempo escatologico come sapienza dell’istante
Il « kairòs » è qui visto non in relazione ai fatti storici, ma all’istante, all’oggi continuo.
Con Gesù sono giunti i tempi ultimi, perché tutto il tempo, in ogni suo istante, è tempo di decisione come se fosse l’ultima. Ogni istante è un « kairòs » come senso che Dio ci dona e che ci sollecita ad una risposta. Ogni istante è una occasione irripetibile di diventare un po’ noi stessi, un’occasione quindi non semplicemente in base ai nostri interessi o gusti.
Nella parabola del fattore disonesto e scaltro (Lc 16,1-9), Gesù ci invita ad avere l’intelligenza (la scaltrezza) di capire che si è nel tempo escatologico, nel tempo che va sfruttato per diventare ciò che dobbiamo essere, non in base ai nostri progetti, opzioni o desideri, ma in base al progetto che Dio ha inscritto dentro di noi e per noi.
Il progetto che Dio ha su di noi è ultimativamente la disposizione ad amare, a farci amici i poveri diavoli che ci ospiteranno « nelle dimore eterne ».
L’ultima parola della sapienza evangelica è la sapienza dell’amore.

Publié dans:FILOSOFIA, Teologia |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »

CRISTIANI POVERI IN UNA CHIESA POVERA (1984)

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CRISTIANI POVERI IN UNA CHIESA POVERA (1984)

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 7-8 gennaio 1984

Il tema della povertà cristiana è denso anche dal punto di vista del discorso; così denso che potrebbe diventare forse una specie di prolegomeno, di introduzione a ogni discorso teologico cristiano.
Non si vogliono suggerire indicazioni pratiche, ma fare una riflessione di fondo sul significato della povertà, sul mysterium paupertatis, che fa tutt’uno col mistero stesso di Dio nella storia. Il povero è il luogo della rivelazione di Dio al punto tale che non è possibile il parlare biblico di Dio se non parlando del povero e viceversa. A partire dal rapporto tra Dio e il povero si prenderà in esame il rapporto chiesa e povero. In un primo momento si parlerà della Chiesa dei poveri nel senso di Chiesa « per » i poveri, dove questi sono l’oggetto (di attenzione e di preoccupazione) della prassi del cristiano; un secondo momento sarà dedicato alla Chiesa « di » poveri, dove i poveri sono il soggetto costitutivo della Chiesa.
la chiesa per i poveri come rivelazione del Dio per i poveri

1. Dio e il povero
Il punto di partenza della rivelazione di Dio nella storia lo troviamo nella storia di Israele. Dobbiamo vedere in che modo si è fatto conoscere in Israele, con quale forma ha sottoscritto il suo rapporto con lui. Vediamo alcuni testi esemplari.
L’incontro di Israele con Dio, in quanto rivelatore del manifestarsi di Dio nella storia di salvezza, è descritto nel libro dell’Esodo (2,23-25): « Avvenne, nel lungo corso di quel tempo, che il re d’Egitto morì. I figli di Israele gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento, e il loro grido dallo stato di servitù salì verso Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento e Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione dei figli di Israele e ne prese cura ». Con l’intervento di Dio prende inizio la storia di salvezza, e la storia di Israele come popolo.
C’è in Israele la memoria storica del Dio di Abramo e di Giacobbe, ma è come se fosse stata interrotta. Il grido di Israele è un appello perché il suo Dio torni a farsi vivo dopo un’interruzione, dopo una dimenticanza (a una dimenticanza da parte del suo Dio Israele attribuisce la situazione in cui si trova). Dio si rifà vivo. Si esprime qui come se fosse la prima volta e si ridefinisce.
Siamo soliti partire dal Dio creatore del mondo per arrivare al Dio che interviene quasi come se fosse un gesto contingente, passeggero. Dobbiamo rovesciare l’ordine del discorso, partendo dall’intervento di Dio che risponde al grido di Israele, perché è questo l’episodio in cui Dio definisce la sua figura storica, è questa la partenza del formarsi della rivelazione di Dio nella storia della salvezza.
La stessa definizione di Dio è contenuta nel primo credo di Israele, del quale una delle formule più complete abbiamo in Deuteronomio 26, 5-9: « Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente, e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio disteso, con grandi terrori, con segni e con prodigi, e ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorre latte e miele ». Israele qui definisce se stesso e contemporaneamente Dio. Il centro di questo credo sta nel passaggio dalla negatività alla positività della terra nuova e nel tramite del passaggio che è l’atto di Dio.
Dio, per Israele, non è ancora il creatore del mondo. A questa idea di Dio Israele arriverà dilatando e universalizzando il suo primo incontro con lui. Quando partiamo dal Dio creatore universale, da questo atto di potenza assoluta qual è la creazione, corriamo il pericolo di avere l’immagine di un Dio di cui sottolineiamo la dimensione di potenza (produrre dal nulla). Il racconto biblico della creazione non è un teorema sull’onnipotenza di Dio, ma è la dilatazione su scala universale del Dio che vince la negatività, la schiavitù, il caos. L’asse del concetto biblico di creazione non è la potenza, ma è questo atto di intervento liberatore che doma l’avversario e libera l’uomo e gli prepara un mondo in cui possa vivere liberamente.
Dai salmi emerge l’immagine di un Dio che ascolta, vede, tende l’orecchio su, veglia su, protegge, interviene a vendicare i poveri, coloro che si trovano in situazioni di negatività (schiavitù, miseria, oppressione, ecc.), in quelle situazioni in cui si è trovato Israele in Egitto. Il salmo 146: « Il Signore fa giustizia a quelli che soffrono ingiuria; dà cibo agli affamati. Il Signore scioglie gli incatenati; il Signore illumina i ciechi; il Signore rialza i caduti; il Signore ama giusti. Il Signore è custode dei forestieri; difenderà l’orfano e la vedova e disperderà i disegni dei peccatori ».
Dunque, Dio si definisce nella storia come colui che interviene in favore del povero. Chi è questo povero? Bisogna evitare i due estremi: sia la concezione economicistica del povero ( il povero è colui che non ha i mezzi elementari di sussistenza. Questa è una figura costante nella Bibbia, ma non l’unica; la negatività di Israele in Egitto era in termini non tanto di miseria, quanto di identità di popolo e di libertà), sia la concezione che insiste sull’atteggiamento puramente interiore (il distacco dai beni, indipendentemente dall’averne o no). Per la Bibbia il povero non è colui che ha il cuore distaccato nei confronti dei beni pure posseduti; c’è una povertà effettiva, oggettiva, non solo economica, ma svariata: affamati, menomati fisicamente, vedove e orfani, stranieri o immigrati, calunniati: c’è sempre una carenza di beni oggettivi, qualunque essi siano, una carenza di quell’avere che è necessario all’essere, per cui i poveri sono in qualche modo esclusi o non del tutto inclusi nella creazione buona. Il termine povero non racchiude un concetto di classe, ma indica una o diverse categorie. Tuttavia, anche chi non appartiene a nessuna categoria in certe situazioni può essere povero.
L’esempio più chiaro è quello di Caino, il quale compie un atto di potenza vittoriosa nei confronti di Abele; eppure, proprio in forza di questo atto, grava su di lui una sorta di verdetto sociale: fratricida, è escluso dall’ambito del vivere sociale, per cui deve vagare, portandosi dietro il peso della sua colpa; sa di essere ormai senza valore e senza dignità a causa di quello che ha compiuto. Dio si mette dalla parte di Abele perché povero congiunturalmente, ma quando è Caino il debole, colui che tutti possono colpire, Dio mette il suo segno su di lui: non è vostra proprietà, non avete il diritto di metter le mani su di lui. Dunque, la povertà è qualcosa di più profondo che non le categorie: c’è una situazione di debolezza congenita alla condizione umana come tale, per cui ogni uomo è allo sbaraglio di interventi altrui che possono distruggerlo. La definizione più radicale di povertà in senso biblico è precarietà, fragilità dell’esistenza dell’uomo, il poter essere privato di beni reali oggettivi e che appartengono all’essere. Colpisce ogni uomo e può esplodere da un momento all’altro.
Il Dio della bibbia è colui che si spende per questo uomo, in quanto è povero; è colui che si definisce dal suo intervento liberatore nei confronti dei poveri; è colui che si manifesta in questo far essere, fa vivere ogni uomo in quanto è povero, è un filo d’erba. Non c’è una definizione più profonda di Dio; in questo gesto, in questo suo intervento c’è la cellula di ogni possibile discorso su Dio.
Nessuna qualità è così abbarbicata all’uomo da non poter essere persa: questo è ciò che definisce radicalmente l’uomo. Può avere anche tutto, ma lo ha nella maniera del poterlo perdere.
2. Gesù e il povero
È Gesù stesso a definire (nel Vangelo di Matteo e di Luca) l’insieme della sua prassi come questo essere vicino ai poveri per farli vivere: « I ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti vengono risuscitati, i poveri ricevono la buona novella » (Matteo 11,5-6).
Come Dio si definisce nella sua divinità rivelata da suo intervenire a favore del povero, così la « cristicità », la messianicità di Gesù si definisce nell’atto di reintegrazione del povero nella bellezza, nella pienezza della creazione, nel dare al povero quell’avere che gli manca per poter essere.
Nell’atto dell’incarnazione Gesù si investe al punto tale nell’intervento per i poveri, da poter leggere l’incarnazione stessa come il primo intervento con cui Gesù è costituito come Dio per i poveri.
Giovanni nel Prologo del suo Vangelo dice: « La Parola si fa carne »: la potenza creatrice si fa fragilità, precarietà, debolezza, provvisorietà.
Paolo, nella prima lettera ai Filippesi, dice che Gesù annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo, e divenendo simile agli uomini. Gesù che vive nella forma di Dio, assume la condizione di uomo in quanto schiavo. Dio si costituisce, nella sua presenza personale nella storia, come uno dei poveri, colui che tutti li rappresenta e li riassume. Dalla gloria alla condizione di schiavo.
Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi, formula l’incarnazione dicendo che Gesù, ricco qual era, si è fatto povero per arricchire voi. La ricchezza si fa povertà.
Dal di dentro dell’assunzione in proprio della povertà radicale, Gesù medica, lenisce, guarisce alcune espressioni della povertà fattuale (ciechi, storpi…).
3. La Chiesa e il povero
Nella comunità dell’Antico Testamento, Dio esprime un codice di comportamento: la legge dell’alleanza (Esodo 20, 23). Tre quarti del contenuto riguarda i rapporti con l’altro in situazione di carenza: con il povero. Il codice si esprime al negativo: Non condurre il tuo fratello in quella situazione nella quale ti trovavi in Egitto, cioè: comportati con solidarietà nei confronti dei poveri, perché tu hai provato in Egitto cosa significa essere povero. Questo comportamento è un prolungare l’intervento liberatore di Dio verso Israele povero in Egitto.
Nella comunità del Nuovo Testamento, Luca (Atti, cap 2,4) presenta un’immagine ideale della comunità primitiva di Gerusalemme. Non ci sono più poveri, indigenti, perché tutti sono padroni.
Paolo, nella 2 Corinzi, dice che non sono i carismi i fenomeni che definiscono la comunità in quanto tale. Il vero carisma, il vero dono che definisce la presenza dello Spirito è l’agape, l’amore gratuito, la capacità di stabilire rapporti. I carismi hanno valore solo se servono alla costruzione della comunità, della casa, costituita dalla capacità di stabilire relazioni, non in modo psicologistico, ma dando ad ognuno ciò di cui ha bisogno per sconfiggere l’indigenza.
la chiesa di poveri

Alle Beatitudini sono state date diverse interpretazioni. Forse nessuna convince totalmente. D’altra parte, Gesù ha parlato in seconda persona: Beati voi poveri: lo capiscono quelli a cui Gesù si rivolge, non siamo noi i destinatari. Le beatitudini sono piene di contraddizioni sul piano intellettuale. Fondamentalmente la contraddizione è: beati i poveri. I poveri sono i non beati: mancando di beni, di averi appartenenti al mondo dell’essere, non sono integrati nella creazione, non ne fruiscono appieno. In che modo Gesù può dire al cieco, al sordo, allo storpio, al prigioniero: siete beati? Luca risolve il problema con i due tempi. Beati voi che oggi siete poveri perché allora il Regno dei cieli vi apparterrà. I poveri avranno l’altro mondo, il mondo che viene oltre la storia. Probabilmente Gesù non pensava a questo dopo.
Matteo rilegge le beatitudini in modo diverso. Dice: Beati adesso, già oggi, perché i poveri sono ricchi su di un altro piano, sul piano dello spirito. Forse Matteo spiritualizza eccessivamente la categoria del povero.
Cosa intendeva dire Gesù? Seguendo la linea di Sofonia, povero è colui che nella sua carenza scopre la presenza di Dio, possibilità negata a chi non è povero, a chi ha. La carenza del povero diventa luogo, occasione di un’altra ricchezza: la pienezza di esperienza della presenza di Dio. Gesù voleva dire: voi poveri siete dentro il disegno di Dio. Solo voi lo porterete avanti; diversamente non si realizzerà, resterà inadempiuto.
Paolo riprenderà questi concetti più tardi, nella 1Corinzi 1,27-28: « Ma Dio ha scelto ciò che è stoltezza nel mondo per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che è debolezza del mondo per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che è ignobile nel mondo e ciò che è disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono ». La negatività del povero, la sua esperienza di emarginazione sono il luogo della manifestazione piena della positività di Dio. Là dove la povertà radicale, che è di tutti, è povertà attuale, qui è il luogo disponibile per l’accendersi della gloria di Dio, della sua manifestazione. Il modo giusto per leggere evangelicamente questa pagina di Paolo consiste nel ricondurla alle beatitudini.
La vita del povero è quasi organicamente intrisa di spiritualità. La spiritualità, la religiosità, l’esperienza di Dio sono l’unica ricchezza di umanità di cui i poveri-poveri possono fruire, ciò che permette loro di sopravvivere, di non cadere nel vortice del non senso.
Questa spiritualità di base del povero può essere sintetizzata in tre voci: assumere, lottare, fruire.
Assumere
Accettare la vita, dire di sì alla vita. E per chi la vita non è altro che miseria, solo un peso opprimente, accettarla è l’atto fondamentale della santità. È ciò che Gesù ha fatto nell’incarnazione: è entrato nella condizione umana di carne (Giovanni), di schiavo (Filippesi), di povero, (1 Corinzi), ha assunto l’esistenza umana in quanto fallita e lì dentro ha detto sì a Dio. Il povero ha più ragioni per suicidarsi che campare. Di fronte alla realtà nella sua durezza può avere la tentazione o di ribellarsi (nel senso di pestare i piedi, di rompere tutto, come nel senso di fare male a se stesso) o di scappare (evadendo con l’alcool o con la droga). Accettare di esistere, non scappare, non ribellarsi per il povero non è un atto casuale, ma è l’atto fondamentale dell’obbedienza alla creazione, del fare la volontà di Dio. Vivere in un mondo facile quale il nostro può diventare un’evasione dall’incarnarsi nel fondo dell’esistenza, un vivere in superficie, uno sfiorare la realtà, senza guardare mai in faccia la propria radicale povertà. Il povero non può fare questo: vive a confronto con la sua radicale povertà, perché questa da radicale è sempre attuale. Egli o è eroe o è traditore, non può essere una persona mediamente per bene perché a questo livello già accettare la vita è una forma di eroismo, la cui alternativa è il rifiuto della vita stessa o sopprimendosi o evadendo.
Lottare
Percepire che nel disegno di Dio questa situazione di miseria non è ciò che egli vuole e, di conseguenza, sposare il disegno di liberazione di Dio; percependo che nella creazione c’è una dimensione di promessa ancora inadempiuta, dire di sì ad essa. Lottare è un atto di promozione nella solidarietà. Lottare per i beni essenziali ha in sé, quasi fisiologicamente, quella dimensione di giustizia, di obbedienza al disegno di Dio che invece manca di mano in mano che la lotta diventa ricerca del superfluo e quindi, automaticamente, lotta corporativa e individualistica.
Fruire
Il povero, dentro quel deserto che è la sua vita, sa trovare occasioni di fruizione, di gioia, di festa.
Nell’umanità povera la donna ha avuto sempre una posizione di privilegio: la capacità di assumere, di lottare, di fruire è sempre stata più delle donne che degli uomini.
Il problema ora consiste nel togliere le carenze, nel reintegrare i poveri nelle strutture oggettive della creazione senza togliere la soggettività propria del povero. La strada su cui l’occidente è incamminato è sbagliata: noi, che abbiamo raggiunto i beni della creazione, siamo soggetti inetti a viverli secondo lo spirito della creazione; i poveri, che sono più dentro di noi nell’orizzonte della creazione, non hanno ancora quei beni. Non ancora: cioè un qualcosa può ancora venire, e se verrà, verrà da qui.
considerazioni

considerazione storica
Si tratta di vedere come, nella Chiesa, il logos, il discorso, il modo di guardare la realtà, che ha costituito gli « occhi di fede » della comunità credente, non è partito dall’idea del povero come rivelazione di Dio, della gloria Dei nella vita pauperis.
La Chiesa come comunità dei credenti è stata limitata nel suo essere Chiesa per i poveri e di poveri da alcune riserve.
Una prima remora è l’escatologismo, quella concezione per cui la vita terrena dell’uomo è solo un breve passaggio, non ha peso autonomo, ma è funzionale alla vita ultraterrena. Do da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, ma mi chiedo: a cosa serve, se tutto passa? Ecco la riserva, il limite intrinseco, la relativizzazione di quello che faccio. In fondo, se vale la pena dar da mangiare al povero, è perché questo è la piattaforma per evangelizzarlo, per parlargli di Dio. È una seconda intenzione che guasta, avvelena, corrompe finemente l’approccio al povero. Ci si dimentica della pagina di Matteo sul giudizio universale: ciò che il giudice chiede non è se, attraverso il pane, l’acqua, il vestito, la visita al carcerato si è puntato più in là, all’anima, ma se è stato dato pane, acqua, ecc. Punto e basta. Io non sono responsabile della salvezza dell’anima dell’altro; lo sono della salvezza della mia anima, che opero salvando il corpo del povero, cioè l’insieme dei suoi bisogni terreni, quelli che io posso soddisfare.
Il limite che ha intaccato la volontà di promozione del povero, anche da parte delle coscienze più pure della Chiesa, è dunque in questo non prendere sul serio l’assolutezza dell’atto del dare il pane.
Una seconda riserva è di tipo ideologico, confessionale, ecclesiastico: la vita del povero è importante, ma più importante sono gli interessi, i diritti della Chiesa. Quando ci si trova in situazioni in cui un intervento deciso per i diritti dell’uomo scatena qualcosa che mette a repentaglio la vita della Chiesa, ecco la remora: poveri sì, ma il marxismo è ateo. La paura del comunismo, dell’ideologia marxista atea frena l’azione anche là dove il bisogno del povero è lampante.
Questa seconda riserva è legata e derivata dalla prima, c’è sempre stato un filo diretto tra escatologismo e ecclesiocentrismo: se ciò che unicamente conta è la salvezza dell’anima, sulla terra ciò che è più importante è preservare quei personaggi che sono gli strumenti scelti della salvezza dell’anima.
Una terza riserva è quella della theologia gloriae e riguarda la chiesa come gerarchia. Durante l’incoronazione del nuovo papa, un cardinale lo incensava dicendo: « Sic transit gloria mundi ». Questa frase sta a significare che il papato è persino incoronazione, ma al tempo stesso l’individuo che diventa papa deve ricordare che la gloria mundi passa, deve restarne distaccato. È giusto che il papato sia espressione di gloria, di regalità, perché il papa è il Cristo in terra, è incarnazione della gloria di Dio e di Cristo risorto; ma l’individuo come tale è l’umile servo. C’è una separazione tra il ruolo, che sta nell’ordine della gloria e l’individuo, che è chiamato ad essere discepolo di Gesù. Secondo la Theologia gloriae, il positivo di Dio, entrando nella storia, assume e trova espressione nel positivo della storia (gloria, onore, prestigio, autorità). In questo senso, il papa è degno di questa gloria più di ogni altro. Ma l’incarnazione di Gesù non è stato questo: la Parola si è fatta carne, la gloria di Dio si è fatta schiavitù, la ricchezza si è fatta povertà. Solo il negativo dentro la storia può esprimere il positivo di Dio. Questo è il principio della Theologia crucis, Il papato, proprio perché è incarnazione della gloria di Dio nel mondo, deve essere sub contraria specie: non gloria, ma piccolezza, povertà, perché la legge dell’incarnazione è che la gloria di Dio può entrare nella storia solo svuotandosi o spogliandosi. Ecco, dunque, nella Theologia gloriae una riserva ad assumere la povertà fino in fondo.
considerazione teologica
Nel convegno « Evangelizzazione e promozione umana » si intese affrontare un nodo teorico: la Chiesa si definisce come organo di evangelizzazione o di promozione umana? C’è un primato di un momento sull’altro? Si tratta di due fini uguali?
Il bisogno fondamentale, elementare dell’uomo è il bisogno di pane: ad esso soddisfa la promozione umana, che fa sì che l’uomo, nell’insieme dei suoi bisogni, venga colmato, diventi uomo adempiuto. Ma c’è nell’uomo anche un bisogno di senso, di sapere che la sua vita è inserita in un quadro superiore, trascendente: ad esso soddisfa l’evangelizzazione, l’annuncio della alvezza, la buona novella che alla tua vita è dato o è restituito il suo senso proprio. Queste due esigenze possono saldarsi, convergere e diventare una nella prassi evangelica.
La cellula del dono del pane (cioè della promozione dell’uomo) è la volontà di promozione, è quell’atto in cui, assieme al pane che dò, c’è la mia volontà di bene per l’altro al quale dò. In questo atto c’è l’annuncio, la comunicazione, la testimonianza di fronte a lui che c’è la volontà, l’amore, quella realtà che fa sentire all’altro che la sua vita è circondata di senso. All’origine della promozione umana c’è un’evangelizzazione che non è predicazione del vangelo con parole; c’è la bontà, c’è l’amore e lo si vede nel gesto di colui che dà il pane. Quell’atto che, nel momento stesso in cui dona un bene particolare, lascia trasparire la sorgente di quel bene (la volontà di bene), non è solo atto, ma anche annuncio: è l’annuncio per eccellenza. C’è un atto originario che salda la concretezza del dono e la testimonianza della sorgente del dono: è l’incontro interpersonale.
La prassi evangelica in quanto prassi, produce, in quanto gesto significa, esprime la fonte di ciò che produce, cioè illumina sul senso. L’atto del dare il pane (atto-gesto, segno-efficacia) è atto sacramentale.
La prassi evangelica è la ragione d’essere della Chiesa nel mondo. Lo specifico della chiesa è sollecitare quegli atti in cui insieme al promuovere si annuncia, si promuove un’altra volta, in un gesto di significazione della totalità di senso.
considerazione pratica
Come la chiesa d’occidente oggi può farsi luogo di prassi evangelica.
Stiamo passando da una società il cui tempo è assorbito dalla lotta per sopravvivere ad una società che ha la possibilità di lottare per vivere, per la qualità. Il nuovo fronte di lotta è questo: siamo liberi da, ma siamo liberi per che cosa? Per i beni gratuiti, per i beni in sé. All’interno di questo regno del gratuito che si sta delineando, la comunità ecclesiale ha una sua specificità: sviluppare quella parte del gratuito che è la gratuità del dono. Nei beni gratuiti c’è anche quel bene che è l’esercizio della gratuità, della solidarietà inventiva, l’invenzione e la produzione di chi non ha davanti un codice scritto, ma ha occhi capaci di leggere codici.
Non bisogna mai dimenticare di tornare alla fonte di ogni creatività e solidarietà, all’atto – gesto dell’incontro interpersonale, pena la perdita della memoria della fonte e lo scadere della solidarietà a semplice organizzazione. Non bisogna però neppure fare di questo l’unicum, dire: ciò che conta è l’incontro personale: lo si trasformerebbe in narcisismo. Se dico: « conta di più l’amore del pane che do », ho già infettato il rapporto amore – pane. Il gesto mantiene la sua verità solo in quanto guarda tutto l’atto; se si gira a guardare se stesso e dice: conta di più l’amore, diventa narcisismo.
Non bisogna rifiutare, da narcisisti del gesto personalistico, di calarsi dentro le mediazioni, dentro la sfera della solidarietà mediata dalle organizzazioni. Forse è bene informarsi un po’ su cosa sia l’informatica, questa mediazione oggi così rilevante. Il problema è non lasciarsi informatizzare, cioè di sapere usare l’informatica.

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IL PERDONO E IL SUO VALORE EDUCATIVO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2003/Riv0303/Riv0303_03.htm

(tutta la Tesi tra gennaio e ottobre 2002, sito: 

http://www.collevalenza.it/elenco_riviste_mensili_2003.htm )

IL PERDONO E IL SUO VALORE EDUCATIVO

Estratto dalla Tesi di Laurea presso la UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA

Facoltà di Teologia – Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica

Roma 2002

1.3 Il perdono e le dimensioni dell’uomo

Abbiamo visto come il perdono sia l’atto libero di una persona matura, perché coinvolge tutte le sue facoltà. In questo paragrafo cercheremo di focalizzare quali dimensioni-facoltà della persona siano coinvolte nel processo del perdono.

1.3.1 La dimensione cognitiva e razionale del perdono
Prima di perdonare, la persona che è stata offesa, cerca di comprendere la natura di ciò che lo ha colpito, il perché dell’offesa subita: le sue origini prossime o lontane e le sue conseguenze.
È un dato di fatto che tutti coloro che si trovano in una situazione di offesi si scontrano con una prima difficoltà: l’enigma dell’offesa subita(1).
L’offesa che interviene in una relazione fra due persone, cambia la natura di una storia comune. Introduce quelle due persone nella realtà di una nuova esperienza: sorpresa, delusione, collera, tristezza isoleranno l’offeso privato di un bene stabile; rimorsi, dispiacere, imbarazzo per la colpa commessa, timore delle reazioni, chiuderanno l’offensore in quel momento passato in cui ha mancato. Prevista o imprevista, volontaria o involontaria, l’offesa che ferisce o uccide lo fa in innumerevoli modi. Entrambi però, offensore e offeso, hanno l’impressione che se riuscissero a comprendere ciò che è accaduto potrebbero perdonare. È bene dissipare l’identificazione tra perdonabile e comprensibile. L’intelligenza comunque conserva sempre la capacità di ricostruire la concatenazione dei fatti, delle ragioni e delle motivazioni, ma è incapace con la sua sola luce di penetrare le motivazioni profonde della volontà dell’offensore. Supponendo comunque che abbia questa capacità di penetrazione e di elencazione delle ragioni del perdonare, le mancherà sempre quella forza che non dipende più da essa ma dalla volontà di perdonare.
L’intelligenza può poi stabilire una gradazione e parlare di offesa leggera, grave, gravissima, indicibile, inimmaginabile. L’intelligenza può pronunciare la parola imperdonabile e sopprimere così, assieme alla possibilità di perdono l’oggetto che si propone di comprendere?

1.3.2 La dimensione emozionale e relazionale del perdono
Qualsiasi offesa, colpisce direttamente o indirettamente la nostra affettività. Il più delle volte colpisce nell’altro ciò che non si è voluto colpire. Talvolta colpisce i bisogni profondi dell’uomo: il bisogno di essere rispettato, il bisogno di essere accolto, il bisogno di essere rassicurato(2), talvolta si percepisce che l’offesa può derivare da sentimenti ostili chiaramente espressi (antipatia, aggressività); molte volte il soggetto si sente contrariato nel dinamismo della sua affettività: cattiva intesa, insuccessi sentimentali, amicizie deluse…(3). Tali offese lasciano un segno sulla nostra memoria affettiva(4): spesso si prova un senso di shock, di repressione, di rifiuto, tale rifiuto può degenerare in un senso di intorpidimento emotivo o di fluttuazione sentimentale(5), tutto questo arriva a essere determinante nell’atto del perdonare. Spesso l’offesa ritorna alla mente con un carico di emozione e di sofferenza, forse di domande e dubbi, con le riletture delle sofferenze mille volte rivisitate. In particolare, la presenza di immagini, che rinnovano psicologicamente l’oltraggio, trasforma il fatto del ricordo in una nuova esperienza dell’offesa. Il processo del perdono quindi ha a che fare necessariamente con questa memoria affettiva: il passato dimenticato o ricreato ha bisogno di un’integrazione veritiera.

1.3.3 La dimensione volitiva o comportamentale del perdono
La persona che si accinge a perdonare è una persona ferita dall’offesa. Ciò significa che la scelta che sta per fare si presenta ad essa attraverso una precisa esperienza di sofferenza, di qui la difficoltà di attribuire la scelta del perdono alla libera determinazione di una libertà e alla immediata soddisfazione di una necessità di porre fine a ciò che fa soffrire. Si ammetterà quindi che è molto difficile distinguere, nell’esperienza dolorosa in cui si presentano, il desiderio e la volontà di perdonare. In realtà, spesso il discernimento dei criteri di ogni decisione morale comporta questo genere di difficoltà. L’elemento tipico dell’esperienza del perdono è quello che la scelta di perdonare avviene sempre nel contesto particolare della sofferenza(6). Il fatto che il perdono è un atto di volontà, esige da un lato la piena coscienza dell’atto e la chiarezza dell’idea che gli corrisponde e dall’altro il sentimento che l’atto è voluto. In altre parole è importante tener presenti i sentimenti e le motivazioni del perdono. L’esistenza di un sentimento nel perdono non impedisce che solo le motivazioni facciano dell’atto del perdono un movimento deliberato. Inoltre, un sentimento riconosciuto, poi accettato e voluto, può trasformarsi in una motivazione valida. La dimensione volitiva del perdono quindi implica una volontà che riesca a immobilizzare giudizi-motivazioni e sentimenti interni alla persona che perdona, ma al tempo stesso la presenza di abiti morali come disposizioni interne, stabili ed efficaci per rispondere alle situazioni in forma moralmente buona(7), cioè delle virtù.
Per la prospettiva eminentemente educativa che ci siamo dati nel nostro elaborato, ci sembra che tra le virtù necessarie nel processo del perdonare, spicca la prudenza. La virtù della prudenza è una virtù intellettiva e morale al tempo stesso. In quanto virtù intellettiva essa aiuta l’intelligenza a identificare il bene da compiere, in quanto virtù morale perfeziona e guida la condotta umana (intelletto pratico) verso beni essenzialmente pratici, in altre parole è intesa come capacità di calcolare, nella situazione di fatto e tenendo conto dei condizionamenti presenti, quali strade operative sono possibili(8). È la prudenza che permette al perdono di donarsi nella complessità delle esperienze concrete e di superare, nella concretezza del perdono l’antinomia tra giustizia, (l’offesa fatta deve essere punita) e la misericordia (l’uomo comunque deve essere compreso sostenuto ed aiutato).

1.4 Chi è che perdono? (l’oggetto del perdono)
Fin ora abbiamo considerato la persona che si sente offesa, ora ci sembra opportuno analizzare colui che compie l’offesa, o meglio colui che è percepito come offensore, in altre parole: chi perdoniamo quando perdoniamo?
Pensiamo di tralasciare, in questa sede, una ulteriore specificazione dell’offensore, in una close relationship, vogliamo invece mettere l’accento su casi particolari di offensore.

1.4.1 Perdonare chi è invisibile
Alcune persone entrano nella nostra esistenza per un momento, poi si spostano dove non possiamo più vederle. Sono invisibili, ma spesso molto reali come chi ci sta di fronte, è solo difficile raggiungerle per toccarle e perdonarle. Una persona diventa invisibile quando muore prima che possiamo perdonarla o quando si nasconde dietro la maschera di un’azienda… Perdonare i genitori che sono morti, anche se non hanno fatto niente di così grave può risultare molto difficile. Non vogliamo doverli perdonare perché se li perdoniamo significa che abbiamo trovato in loro dei difetti e che, forse, li abbiamo odiati. Quando dobbiamo perdonare un genitore morto, dobbiamo affrontare la possibilità reale che nostro padre e nostra madre ci abbiano fatto realmente un torto. È importante ammettere i sentimenti, essere consapevoli che perdonare un genitore morto significa perdonare una parte di noi stessi. Da ultimo implica anche che non ci può mai essere riavvicinamento, riconciliazione, questa va oltre il rapporto umano e può necessitare un lungo tempo. Come pure diventa difficile perdonare un’azienda che ha licenziato un operaio. È importante dare un nome, cercare la persona che può esserne stata la causa. Il perdono chiede sempre un volto da perdonare.

1.4.2 Perdonare qualcuno a cui non importa
E’ il caso più tipico in cui si vuole perdonare ma dalla parte dell’offensore non c’è nessun segno tangibile di pentimento. Forse è bene chiarire che cosa significa pentirsi. Non significa certamente chiedere scusa: spesso quando scopriamo di essere colpevoli ci scusiamo. Le scuse lubrificano la vita quando la capacità di sopportazione comincia ad esaurirsi. Fatte al momento giusto e con sincerità sono un omaggio all’educazione, un inchino discreto per mantenere le controversie entro limiti tollerabili(9) ma il pentimento è ben altro. “Il pentimento è una montagna a quattro livelli e per raggiungere la cima bisogna oltrepassarli tutti(10). Bisogna cercare di vedere le nostre azioni con gli occhi dell’altro, percependo che i sentimenti, per ciò che gli abbiamo fatto sono veri. Bisogna poi passare dalla percezione alla sofferenza, condividendo il male che gli abbiamo fatto. In un terzo momento chi è veramente pentito è chiamato a confessare la propria colpa. Che non significa solamente ammettere la propria colpa, ma diciamo, a chi sta soffrendo, che soffriamo anche noi per la ferita che gli abbiamo inferto(11). Infine il pentimento implica la promessa, l’impegno a non fare più il male. Nel caso in cui non ci siano questi quattro passaggi è ancora possibile perdonare?
Richiamiamo a questo punto il presupposto da cui siamo partiti nella nostra riflessione: il perdono può avvenire solamente in una relazione tra due persone. È chiaro che se uno dei due esce da questa relazione non vi è possibile il perdono completo, un perdono cioè che giunga alla riconciliazione dei due. D’altro canto ci si chiede se non sia giusto, per chi perdona, liberarsi dalla sofferenza provocata dall’offesa. Non possiamo certo costringere le persone a pentirsi. Ma perché dovremmo consentire loro di impedirci di guarire noi stessi? Dobbiamo quindi perdonare le persone alle quali non importa, anche solo per non essere travolti dalla sofferenza, ma per liberarci da essa.

1.4.3 Perdonare se stessi
Talvolta l’uomo si trova a dover perdonare se stesso e il suo senso di colpa. Ci sentiamo in colpa per ciò che abbiamo fatto agli altri. Aver provocato sofferenza e dispiacere diventa spesso un pensiero intollerabile che viene rimosso generando reazioni psicosomatiche inadeguate(12). Sensi di colpa e autoaccuse subentrano anche quando non si riesce a perdonare se stessi anche solo in qualcosa: l’aver ripetuto un errore, l’aver giocato con la salute, strapazzato inutilmente il corpo e la mente, l’essere stati troppo superficiali in situazioni serie… Per superare i sensi di colpa ci si dovrà perdonare. Le persone capaci di autoperdonarsi si sentono liberate dai sentimenti negativi, sensi di colpa e pensieri ossessivi, beneficiano di una maggiore pace interiore e la loro autostima migliora. Riescono ad accettare il proprio passato, sono pronte per un nuovo inizio e per attuare un cambiamento del proprio modo di essere. Per perdonare se stessi non si potrà ignorare l’accaduto, ma confrontarsi con esso. L’elaborazione del passato evita la rimozione, che è meccanismo di difesa estremamente pregiudicante la pace interiore(13). Le componenti che rendono difficile il processo di autoperdono sono l’entità della sofferenza e la gravità dell’accaduto, subiti o recati agli altri. Altri fattori che impediscono l’attuazione del processo di perdono sono la mancanza di autostima, la disarmonia, non aver mai perdonato o averlo fatto poche volte, beneficiando quindi in maniera blanda dei suoi effetti. Le persone invece che hanno fiducia e partono dal presupposto che possono cambiare le loro caratteristiche meno buone, hanno più capacità di perdonarsi.
Il perdono con se stesso parte quindi da un riconciliarsi con la propria storia personale. In qualsiasi periodo siamo nati avremmo preferito sottrarci a certe situazioni, certe ferite che nel corso della vita si sono aperte. Perdonare se stessi significa riconciliarsi con tutto ciò che abbiamo vissuto e sofferto. Concretamente questo comporta perdonare quanti mi hanno ferito(14), soltanto così è possibile liberarsi dalla tendenza a soffermarsi continuamente sulle mie ferite, soltanto così mi libero dall’influsso distruttivo di quanti mi hanno offeso e ferito.
Perdonare se stessi in altre parole implica anche dire di sì a ciò che sono diventato, dire di sì alle mie capacità e ai miei punti forti, ma anche ai miei difetti e ai miei punti deboli, alle mie minacce e ai miei punti sensibili, alle mie paure e alle mie tendenze depressive, alle mie incapacità di legarmi e alla mia modesta capacità di resistenza. Devo guardare con amore quello che non mi fa affatto piacere, quello che contraddice l’immagine che ho di me stesso, la mia impazienza, il mio timore, la mia poca stima. È un processo che dura una vita. Dire di sì a me stesso significa riconciliarmi con la mia ombra(15), accettarla, che significa non lasciare semplicemente che esista, ma confessarne innanzitutto l’esistenza. E questo è il primo passo per l’opera di trasformazione di cambiamento che innesca il perdono.

NOTE SUL SITO

Publié dans:meditazioni, Teologia |on 8 avril, 2014 |Pas de commentaires »

SEMPLICITÀ VIRTÙ DA RISCOPRIRE. ESSERE SEMPLICI NON È COSÌ SEMPLICE…

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=4061

SEMPLICITÀ VIRTÙ DA RISCOPRIRE. ESSERE SEMPLICI NON È COSÌ SEMPLICE…

La semplicità è la virtù della persona che è priva di artificio e affettazione, che non finge e non è preoccupata della propria immagine o della propria reputazione, che non è mossa da calcolo, è trasparente e naturale. Ma per viverla bisogna tornare all’essenziale, semplificando tanti aspetti della propria vita.
La vita moderna, società di spettacolo e di consumo, segnata dalla complessità e dall’abbondanza, fa sentire forse in modo più acuto il bisogno di ritorno all’essenziale, di riduzione della complessità, di semplificazione della vita stessa: nell’organizzazione della nostra esistenza, nei rapporti interpersonali, nel nostro modo di pensare e considerare la realtà. Sembra inoltre che di maggior semplicità si senta il bisogno anche quando si leggono le analisi, spesso acute e dettagliate, sui vari aspetti della vita religiosa, oggi, e si ipotizzano proposte per far fronte ai problemi del momento… In fondo, gli istituti religiosi dove le cose funzionano bene si assomigliano un po’ tutti (mentre le situazioni di crisi presentano ciascuna una propria specificità), la vita di consacrazione autentica è in realtà qualcosa di semplice e ciò fa apparire non necessario riproporre ogni volta elaborate sintesi teologiche e approfonditi richiami dottrinali. La stessa vita cristiana, in definitiva, è qualcosa di semplice sia nella sua formulazione che nella traduzione pratica, come sottolinea spesso Benedetto XVI, il quale ci ricorda anche che «il segno di Dio è la semplicità».1

LA PERSONA  SEMPLICE
 Volendo descrivere la semplicità, si può affermare che essa si riscontra nella persona che è priva di artificio e affettazione, che non finge e non è preoccupata della propria immagine o della propria reputazione, che non è mossa da calcolo, è trasparente e naturale. Semplicità è oblìo di sé, autenticità, distacco, serenità, modestia; suoi opposti sono il narcisismo, la presunzione, il sussiego, il fasto, lo snobismo, l’artificio, la doppiezza, la complessità. La semplicità è quiete contro inquietudine, leggerezza contro gravità, spontaneità contro riflessione. «La semplicità non è una virtù che si aggiunge all’esistenza. È l’esistenza stessa, in quanto nulla vi si aggiunge. Sicché è la più lieve delle virtù, la più trasparente, e la più rara. È il contrario della letteratura: è la vita senza discorsi e senza menzogne, senza esagerazione, senza magniloquenza. È la vita insignificante, e la vera».2
 Parlando di semplicità si affaccia spontaneamente alla mente l’immagine del bambino: egli si presenta come una persona ridotta alla sua espressione più semplice, è la vita senza menzogne o esagerazioni, è libertà e leggerezza, è incuranza, è immediatezza. J. Guitton parla della semplicità – pur non citandola espressamente – quando, in un’immaginaria Lettera a un bimbo piccolo, così si rivolge a lui: «I grandi ti insegneranno lo sforzo. Tu insegnerai loro l’atto dell’abbandono che si chiama grazia. Noi ti daremo le regole. Tu, in cambio, ci darai la tua fantasia, la tua innocenza. Ti imponiamo la nostra gravità, tu ci insegni l’allegria. Ti spieghiamo che tutto è più difficile di quanto tu creda. E tu insegni alle nostre fronti già coperte di rughe che tutto è più facile di quanto non si fosse creduto!».3

SEMPLICITÀ E VITA CRISTIANA
  Nella prospettiva della vita cristiana, la semplicità – che è sinonimo di verità, abbandono, umiltà, spirito di infanzia – esprime un atteggiamento fondamentale di chiunque voglia essere fedele al Vangelo. La semplicità, infatti, appare un tratto caratteristico e originale di Gesù: nelle parole, nei gesti, nel suo stile di vita. Per questo, ogni virtù cristiana, senza di essa, mancherebbe dell’essenziale: cosa vale una carità ostentata, un’umiltà ricercata, un coraggio soltanto dimostrativo, una povertà scelta per protesta?
 Semplicità e spirito di infanzia si richiamano a vicenda; ciò spiega perché Gesù raccomanda di essere come i bambini,4 perché il loro è uno stato di abbandono, non sono presi dall’impazienza di crescere e di fare, non sono segnati dalla serietà del vivere. Sono l’immagine più eloquente e convincente di quell’atteggiamento evangelico descritto da Gesù quando dice: “Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo…” (Mt 7,26-28).
 La semplicità peraltro non è certamente virtù infantile, è piuttosto infanzia ritrovata, riconquistata, frutto di dominio di sé e di progressiva liberazione dall’amor proprio, si impara poco alla volta, è frutto di ascesi, si alimenta costantemente alle fonti della parola di Dio e della vita dei santi. In quanto tratto eminentemente evangelico, essa traspare in ogni comportamento del cristiano e nella vita della Chiesa. Si può fare qualche esempio.
 La semplicità fa sì che la Chiesa, nel suo rapporto con il mondo, preferisca in tutto il vangelo agli artifici della politica umana e si presenti al mondo con quello stile sobrio, semplice, diretto, concentrato sull’essenziale che caratterizza in modo tanto evidente lo stile di papa Benedetto XVI. Questo papa si presenta come un cristiano dalla personalità accattivante, dotato di saggezza, semplicità, umanità; un uomo dal cuore grande, che è sempre pienamente se stesso, nella semplicità e gentilezza dei suoi atteggiamenti, nella serenità e mitezza che traspaiono dal suo volto.
 La semplicità dovrebbe trasparire nelle nostre liturgie, accompagnata a decoro e buon gusto, così da evitare pesantezze e oscurità nei riti, nelle parole, negli ornamenti delle chiese.
 La semplicità evangelica caratterizza uno stile di esercizio dell’autorità che rifugge dalle tattiche, dallo sfoggio di titoli e insegne, da ogni forma di privilegio, e si caratterizza per il tratto umile e di servizio.
 Anche il nostro parlare e i rapporti interpersonali guadagnano in autenticità quando sono ispirati a semplicità. Essa ci porta, infatti, a evitare ostentazioni di sentimenti che non si provano, forme di servilismo e piaggeria, la retorica vuota del discorso e il ricorso a espressioni linguistiche che suonano come frasi fatte e di moda,5 la falsa modestia che cela la compiacenza vanitosa. L’enfasi orna, complica: quando le parole non vengono dal cuore e rimbalzano come un’eco lontana, si impone autocontrollo e sobrietà.

LA SEMPLICITÀ DERISA
  La semplicità non va confusa con l’ingenuità, la sprovvedutezza, la dabbenaggine, l’infantilismo. Ciò che impedisce che degeneri in simili atteggiamenti è il fatto che essa è sempre congiunta alla virtù della prudenza: questa fa sì che lo sguardo dell’uomo non si lasci ingannare dal sì o dal no della volontà, ma fa dipendere il sì o il no della volontà dalla verità, da come stanno veramente le cose,6 perché la realizzazione del bene presuppone la conoscenza e la valutazione obiettiva della realtà concreta.
 È facile immaginare che chiunque si presentasse non tanto come una persona semplice quanto piuttosto ingenua o sprovveduta sarebbe oggetto di derisione e compatimento, considerata alla stregua di chi non sa curare i propri interessi, è facilmente manipolabile, uno che non farà strada nella vita… Detto questo, però, occorre aggiungere che la persona genuinamente semplice – cioè colei che vive la semplicità secondo lo spirito evangelico – può comunque essere sottovalutata o guardata con una certa aria di sufficienza, quasi si tratti di un soggetto un po’ fuori moda e che non sta al passo con i tempi. D’altra parte, questo è sempre il destino di chi è autenticamente cristiano e segue l’esempio di Gesù “mite e umile di cuore”. In un mondo segnato dalla brama di potere, di successo, di affermazione – e a questo non sfugge a volte anche il mondo ecclesiastico – può dunque capitare che la semplicità sia poco apprezzata, guardata con diffidenza, ritenuta poco funzionale e, infine, anche più o meno apertamente derisa. Ecco allora che si tende a servirsi del proprio ruolo come di uno schermo dietro il quale proteggersi; si adotta uno stile allusivo, un dire e non dire, che non appare necessario né dettato dalla prudenza; si assume un atteggiamento reticente e un’aria di gravità come di chi è chiamato a svolgere un compito assai difficile e di grande responsabilità; ci si guarda dal manifestare i propri sentimenti per non esporsi alla critica o al pericolo di essere considerati dei deboli; alla comunicazione diretta con la persona interessata si preferisce l’informazione indiretta o generica; al parlare semplice e piano si preferisce il linguaggio ricercato e ad effetto.
Merita di essere citata, a questo riguardo, una pagina di s. Gregorio Magno per rendersi conto di quanto essa sia sempre attuale. Nel suo Commento al libro di Giobbe, il santo sottolinea come venga derisa la semplicità di Giobbe. Scrive infatti: «Ma “viene derisa la semplicità del giusto” (Gb 12,4 volg.). La sapienza di questo mondo sta nel coprire con astuzia i propri sentimenti, nel velare il pensiero con le parole, nel mostrare vero il falso e falso il vero. Al contrario, la sapienza del giusto sta nel fuggire ogni finzione, nel manifestare con le parole il proprio pensiero, nell’amare il bene così com’è, nell’evitare la falsità, nel donare gratuitamente i propri beni, nel sopportare più volentieri il male che farlo, nel non cercare di vendicarsi delle ingiurie, nel ritenere un guadagno l’offesa subìta a causa della verità. Ma questa semplicità del giusto viene derisa, perché la purezza di intenzione è creduta stoltezza dai sapienti di questo mondo. Infatti tutto ciò che si fa con innocenza, è ritenuto da questi senz’altro una cosa stolta, e tutto ciò che la verità approva nell’agire, suona come sciocchezza per la sapienza di questo mondo”.7

LA SEMPLICITÀ DEI SANTI
  Noi parliamo della semplicità, ma i santi l’hanno vissuta e testimoniata. Conviene, dunque, rivolgere a loro l’attenzione per comprenderla meglio e apprezzarla di più. Naturalmente, qui è possibile limitarsi soltanto a qualche esempio.
San Francesco amò sempre e in modo particolarissimo la pura e santa semplicità in se stesso e negli altri. Tommaso da Celano ci ha lasciato una testimonianza significativa: «Il Santo praticava personalmente con cura particolare e amava negli altri la santa semplicità, figlia della grazia, vera sorella della sapienza, madre della giustizia. Non che approvasse ogni tipo di semplicità, ma quella soltanto che, contenta del suo Dio, disprezza tutto il resto.
 È quella che pone la sua gloria nel timore del Signore, e che non sa dire né fare il male. La semplicità che esamina se stessa e non condanna nel suo giudizio nessuno, che non desidera per sé alcuna carica, ma la ritiene dovuta e la attribuisce al migliore. Quella che non stimando un gran che le glorie della Grecia, preferisce l’agire all’imparare o all’insegnare. È la semplicità che in tutte le leggi divine lascia le tortuosità delle parole, gli ornamenti e gli orpelli, come pure le ostentazioni e le curiosità a chi vuole perdersi, e cerca non la scorza ma il midollo, non il guscio ma il nòcciolo, non molte cose ma il molto, il sommo e stabile Bene.
 È questa la semplicità che il Padre esigeva nei frati letterati e in quelli senza cultura, perché non la riteneva contraria alla sapienza, ma giustamente sua sorella germana, quantunque ritenesse che più facilmente possono acquistarla e praticarla coloro che sono poveri di scienza. Per questo, nelle Lodi che compose riguardo alle virtù, dice: “Ave, o regina sapienza. Il Signore ti salvi con la tua sorella, la pura santa semplicità”».8
 San Francesco di Sales, santo della dolcezza e della mitezza, in un suo Trattenimento con le suore della congregazione da lui fondata afferma che la semplicità «non si cura di quello che fanno o possono fare gli altri… Questa virtù ha molta affinità con l’umiltà… È solo l’amor proprio che ci fa guardare se quanto abbiamo detto è stato ricevuto bene o male: la santa semplicità invece non sta dietro alle sue parole e azioni; ma ne lascia la cura alla Divina Provvidenza, alla quale è essenzialmente affidata. Perciò va avanti rettamente per il suo cammino senza guardare né a destra né a sinistra».9 E poco più avanti il santo aggiunge: «Colui che è attento a piacere amorosamente all’Amante Divino, non ha il tempo per ritornare con affanno su se stesso: poiché l’anima sua tende continuamente dove l’attrae l’amore. Questo esercizio di abbandono continuo in Dio, nella sua semplicità, comprende eminentemente tutta la perfezione degli altri esercizi: e poiché la pratica di esso è gradita a Dio, dobbiamo usarlo di preferenza su tutte le altre pratiche».10
 L’abbandono alla volontà di Dio in santa semplicità segna tutta la vita di s. Teresa di Gesù bambino, come si può facilmente ricavare da ogni pagina della sua autobiografia. In una sua poesia, immagina che la Madonna si rivolga a una postulante dicendole che «la virtù che in te veder m’è caro – sovra ogni altra, è la semplicità»;11 quando poi un giorno sr. Agnese la invita a dire qualche parola edificante al medico della comunità, rispose: «Oh! Madre mia, questo non è il mio metodo… Io non amo che la semplicità; il contrario mi fa orrore».12
 Infine, non si può non citare papa Giovanni XXIII, il quale deve soprattutto alla sua bontà e semplicità il fascino che sempre ha esercitato su chi l’ha potuto incontrare e continua a esercitare su chi lo accosta attraverso i suoi scritti. «Per questo papa bastava avere dei concetti semplici, avere un sonno tranquillo, abbandonarsi al Signore come un bambino ed essere senza ambizioni e umile».13 Annota nel suo Il Giornale dell’anima: «l’essere semplice, senza pretesa alcuna, a me costa nulla. È una grande grazia che il Signore mi fa. Voglio continuare, ed esserne degno».14
 È difficile resistere al piacere di offrire un’ampia spigolatura di citazioni raccolte dai suoi scritti, dove egli richiama ed esalta la virtù della semplicità…; mi limito quindi a due sole citazioni.
 Durante il ritiro annuale nel novembre del 1948 faceva questa riflessione: «Più mi faccio maturo d’anni e di esperienze, e più riconosco che la via più sicura per la mia santificazione personale e per il miglior successo del mio servizio alla Santa Sede, resta lo sforzo vigilante di ridurre tutto, principii, indirizzi, posizioni, affari, al massimo di semplicità e di calma… Oh, la semplicità del Vangelo, del libro della Imitazione di Cristo, dei Fioretti di s. Francesco, delle pagine più squisite di s. Gregorio, nei Morali: “Deridetur justi simplicitas”, con quel che segue! Come sempre più gusto quelle pagine, e torno ad esse con diletto interiore! Tutti i sapienti del secolo, tutti i furbi della terra, anche quelli della diplomazia vaticana, che meschina figura fanno, posti nella luce di semplicità e di grazia che emana da questo grande e fondamentale insegnamento di Gesù e dei suoi santi! Questo è l’accorgimento più sicuro che confonde la sapienza del mondo, e si accorda ugualmente bene, anzi meglio, con garbo e con autentica signorilità, a ciò che vi è di più alto nell’ordine della scienza, anche della scienza umana e della vita sociale, in conformità alle esigenze di tempi, di luoghi e di circostanze. “Hoc est philosophiae culmen: simplicem esse cum prudentia”. Il pensiero è di san Giovanni Crisostomo, il mio grande patrono d’oriente. Signore Gesù, conservatemi il gusto e la pratica di questa semplicità che, tenendomi umile, mi avvicina di più al vostro spirito ed attira e salva le anime».15
 Ormai papa e vicino al compimento degli ottant’anni, scriveva questa pagina straordinaria, quasi sintesi di una saggezza accumulata con il trascorrere degli anni: «Comunemente si crede e si approva che il linguaggio anche familiare del papa sappia di mistero e di terrore circospetto. Invece è più conforme all’esempio di Gesù la semplicità più attraente, non disgiunta dalla prudenza dei savi e dei santi, che Dio aiuta. La semplicità può suscitare, non dico disprezzo, ma minor considerazione presso i saccenti. Poco importa dei saccenti, di cui non si deve tener calcolo alcuno, se possono infliggere qualche umiliazione di giudizio e di tratto: tutto torna a loro danno e confusione. Il “simplex, rectus et timens Deum” è sempre il più degno e il più forte. Naturalmente, sostenuto sempre da una prudenza saggia e graziosa. Quegli è semplice che non si vergogna di confessare il Vangelo anche in faccia agli uomini che non lo stimano se non come una debolezza e una fanciullaggine, e di confessarlo in tutte le sue parti, e in tutte le occasioni, e alla presenza di tutti; non si lascia ingannare o pregiudicare dal prossimo, né perde il sereno dell’animo suo per qualunque contegno che gli altri tengano con lui… La semplicità non ha nulla che contraddica alla prudenza, né viceversa. La semplicità è amore, la prudenza è pensiero. L’amore prega, l’intelligenza vigila. Vigilate et orate». Conciliazione perfetta. L’amore è come la colomba che geme, l’intelligenza operativa è come il serpente che non cade mai in terra, né urta, perché va tastando col suo capo tutte le ineguaglianze del suo cammino».16
 «Splendore di ciò che è semplice!», affermava Heidegger, anche se tutti siamo consapevoli che «non è così semplice essere semplice» (P. Reverdy). Eppure, «che cosa di più semplice della semplicità? Cosa di più leggero? È la virtù dei saggi e la saggezza dei santi».17
____________________________

Note:
1 Benedetto XVI, Omelia della Messa di mezzanotte di Natale, 25 dicembre 2006.
2 Comte-Sponville A., Piccolo trattato delle grandi virtù, Casa Editrice Corbaccio, Milano 1996, 174.
3 GUITTON J, Lettere aperte, Mondadori, Milano 1995, 40.
4 Mt 18,3.
5 Anche nel campo ecclesiale si vanno diffondendo frasi fatte, luoghi comuni, slogan stantii: un campionario linguistico che viene ormai designato con il termine ecclesialese. Gli esempi abbondano: intercettare i bisogni, passaggi epocali, opzione preferenziale, ottica comunionale, atteggiamenti profetici, lasciarsi provocare dalle urgenze…
6 Cf. Pieper J., Sulla Prudenza, Morcelliana, Brescia 1956.
7 Cf. Liturgia delle Ore, seconda lettura del venerdì della ottava settimana del Tempo ordinario.
8 Tommaso da Celano, “Vita seconda di s. Francesco d’Assisi”, in Fonti Francescane, Assisi 1977, n. 189.
9 Francesco di Sales, Trattenimenti spirituali, Pia Società S. Paolo, Roma 1941, 217.
10 Ibidem, 225.
11 S. Teresa di Gesù bambino, Storia di un’anima, L.I.C.E., Torino 1943, 448.
12 Ibidem, p. 328.
13 Guitton J, Il libro della saggezza e delle virtù ritrovate, Piemme, Casale Monferrato 1999, 257.
14 Giovanni XXIII, Il giornale dell’anima, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1964, 284.
15 Ibidem, pp. 275-276.
16 Ibidem, pp. 314-315.
17 Comte-Sponville A., Piccolo Trattato, 182.

Publié dans:Teologia |on 30 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=36

PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

sintesi della relazione di Armido Rizzi

Verbania Pallanza, 10-11 gennaio 1987

Oggi siamo sempre più consapevoli della necessità e dell’urgenza di una cultura della pace, non perché la violenza si sia manifestata solo oggi ma perché la violenza ha raggiunto un eccesso tale da non poter più essere giustificata. La violenza sia della natura (catastrofi, inondazioni, carestie) sia quella prodotta dagli uomini ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma sempre lo spirito umano è riuscito a darle almeno un senso parziale, in qualche modo a giustificarla. Oggi si sono verificati due avvenimenti in cui la violenza ha raggiunto una tale dimensione da non poter più essere giustificabile, anche parzialmente.
Da una parte Hiroshima ci ha reso coscienti della possibilità della distruzione dell’intera umanità (il troppo quantitativo); dall’altra Auschwitz ci ha mostrato la violenza fine a se stessa, la violenza senza giustificazioni (il troppo qualitativo), la volontà pura di negazione dell’altro.
La novità essenziale: la distruzione non scaturisce dal puro gioco di forze o dall’istinto belluino, ma dalla volontà umana. È la soggettività violenta.
il cuore violento e le radici della violenza umana

Il racconto biblico di Adamo, del giardino di Eden e della colpa originaria narra che l’uomo è nel mondo buono di Dio di cui può disporre (albero della vita) a condizione di accettare l’ordine di valori (albero della conoscenza del bene e del male), che Dio ha già inscritto nel mondo stesso. In questo testo viene narrato non il peccato accaduto una volta, ma l’essenza stessa del peccato. Nel testo ci sono due formule (la scienza del bene e del male e l’essere come Dio) che hanno reso possibili due letture.
Nella prima lettura l’uomo viene tentato a mangiare il frutto dell’albero proibito, cioè a porre un atto in cui afferma sé come creatore di un nuovo ordine di valori: bene e male non sono già posti nelle cose e in me stesso, ma sono quelli che io produco disegnando e realizzando i miei progetti. L’uomo rifiuta di accettare che ci sia un orizzonte di bene e male con cui confrontarsi e da cui lasciarsi misurare, ma diventa egli stesso misura di tutto, creatore di valori. L’uomo può ad esempio disattendere all’imperativo del « non uccidere » e uccidere per affermare i propri progetti.
Questa prima lettura dell’essenza del peccato originale, pur valida, è insoddisfacente, perché non presenta una vera appropriazione della scienza del bene e del male, ma solo una rimozione, un disattendere.
Una seconda lettura esprime l’essenza del peccato originale nell’essere come Dio, proprio nell’appropriazione del principio del bene e del male. L’istanza di bene e di male non solo viene disattesa, ma viene assorbita dentro la volontà di potenza dell’uomo, dentro tutto ciò che l’uomo può desiderare e progettare. Il principio etico non viene cancellato o disatteso, ma diventa un momento, una componente della propria volontà di potenza. L’uomo non dice: non devo, ma posso; ma dice: posso ed è giusto che faccia così.
Non solo faccio così (prima lettura), ma è giusto che faccia così, perché ne ho il diritto. Non solo il potere fare una cosa ma il diritto di poterla fare. È il soggetto di diritto.
Il mio volere e potere viene a identificarsi con ciò che è giusto, è davvero l’appropriarsi della conoscenza del bene e del male, è il « sarete come Dio ».
L’esperienza fondamentale del Dio della bibbia è quella del Dio giusto, la cui parola in quanto tale è bene, è giustizia, è verità. L’essenza del peccato è appropriarsi di questo Dio, è ingabbiarlo dentro di me, per cui sono io che decido quando è giusto e quando è ingiusto.
Per lo più la violenza umana è sorretta, legittimata, giustificata dalla consapevolezza che è bene, giusto comportarsi in un certo modo. È il significato della favola del lupo e dell’agnello. Il lupo-uomo deve trovare una giustificazione per fare violenza e mangiare l’agnello. Non si limita a rendere lecito il suo atto, lo rende obbligatorio, un dovere a cui non può sottrarsi, un’offesa da lavare, un onore da riscattare.
Lo sguardo del Dio giusto lo posso disattendere, senza cancellarlo. Il peccato originale è invece il far proprio lo sguardo di Dio. Lo sguardo che mi dice di non uccidere, di non ferire, di non intorbidare l’acqua, lo faccio diventare mio e lo rivolgo all’altro accusandolo di avere intorbidato l’acqua. Qui si costituisce la violenza propriamente umana, la violenza etica: il principio etico di trascendenza su di me diventa principio etico della mia trascendenza sugli altri, per cui di fronte agli altri e alle cose io sono soggetto di diritto. Gli altri diventano strumenti disponibili per i miei progetti, o, se non accettano di essere strumenti, nemici da abbattere. E quando non riesco ad esercitare effettivamente questo mio sapermi soggetto di diritto, mi ripiego nel vittimismo percependo il mondo come persecutore.
Inoltre la gloria di Dio è il povero che vive. Il bisogno del povero, fragile, impotente, viene avvolto e sorretto dallo sguardo di Dio che ci dice che non ci appartiene e che ne siamo responsabili.
Ora appropriarsi del bene e del male significa non solo espropriare Dio alla fonte, ma anche l’altro, ogni uomo in quanto povero. L’altro diventa un dato (occasione o ostacolo) dentro i miei progetti.
Vivo l’altro come strumento o come nemico.
Certamente anch’io, in quanto povero ed essere bisognoso, ho i miei diritti, « miei » in quanto anche in me è presente lo sguardo di Dio. Non è mio diritto come genitivo possessivo, ma è il diritto che mi avvolge.
Abitualmente la favola del lupo e dell’agnello ha vigenza generale. Difficilmente uno opera per il proprio vantaggio confessando a sé e agli altri che lo fa per il proprio vantaggio.
L’uomo moderno si è costituito sempre di più trasformando i diritti dell’uomo in diritti individuali, in « i miei diritti ». Questo vale anche a livello delle nazioni: la guerra giusta è sempre quella che faccio io, difendendo il mio diritto dall’ingiusto aggressore.
Il gesto con cui Adamo si appropria della conoscenza del bene e del male è l’inizio della storia che noi conosciamo, una storia attraversata dalla duplice inimicizia, l’uomo che si fa nemico di Dio nell’atto in cui si fa nemico dell’altro uomo.
La buona notizia, l’evangelo è che Dio riconcilia l’uomo a sé e riconcilia gli uomini tra loro. Dio rovescia il rovesciamento che l’uomo ha fatto del proprio essere.
Gesù, pace di Dio con l’uomo e pace tra gli uomini

Il NT è la narrazione di quello che Dio ha fatto in Gesù per riconciliare l’uomo a sé e per ricostituire l’uomo nella sua capacità di essere con gli altri.
In Gesù Dio riconcilia l’umanità a sé
Innanzitutto Gesù è un essere paradossale in cui si uniscono i poli estremi della santità e del peccato. È insieme – risulta questo aspetto dalle lettere di Paolo – l’innocente, il santo, colui che non conosce il peccato ed è colui che è coinvolto come nessun altro nella vicenda di peccato dell’umanità.
Ma non c’è simultaneità tra le due facce, ma una si alimenta dell’altra: Gesù è santo proprio perché condivide radicalmente la condizione umana, nella sua adesione radicale alla volontà di Dio. Mentre un certo monachesimo ha inteso la santità come fuga mundi, come una presa di distanza dal partecipare a un mondo di peccato, come progressivo distacco dal mondo per avvicinarsi a Dio, Gesù aderisce a Dio sprofondandosi, in obbedienza, nell’esistenza del mondo. Si siede a tavola con i peccatori e muore in croce, esprimendo così la massima adesione alla storia umana peccatrice e la massima distanza da Dio. Proprio nell’essere maledetto, nello sperimentare l’abbandono di Dio vive la massima adesione al Padre che gli chiede di fare così.
La resurrezione non è l’ultimo gradino di una salita, ma è un ribaltamento: il maledetto diventa il benedetto.
La ragione della scelta di Gesù è stata forse quella di rovesciare il soggetto di diritto, il soggetto padronale, l’uomo che si è appropriato del divino per autoaffemarsi riducendo tutto a strumento da usare o a ostacolo da abbattere. Gesù, in solidarietà con il mondo perduto, dice di sì a quello che il Padre gli chiede, restituendo al Padre la divinità. Come dice Paolo, Gesù è l’anti-Adamo.
La scelta di Gesù di essere radicalmente obbediente alla volontà del Padre ci dice che ciò che si realizza attraverso di lui è il disegno di Dio sull’umanità. Dire che l’identità di Gesù è l’obbedienza radicale al Padre è dire in modo più evangelico il dogma di Calcedonia che Gesù è Dio, che Gesù è la mano tesa di Dio verso l’uomo perduto. La storia di Gesù è la storia di Dio sul mondo.
Perché Dio per riconciliare a sé l’umanità non è ricorso ad un gesto di liberalità, ma ha richiesto la fedeltà che ha comportato la croce? Forse una riposta la troviamo nell’analogia con l’esperienza del rapporto tra perdono e pentimento. Il pentimento è espressione del disagio per il male fatto all’altro, ma, a differenza del rimorso, è anche offerta di riconciliazione, è già un rispondere alla offerta di perdono, un volere risarcire il male fatto recuperando il tempo perduto.
Il perdono è causa del pentimento, non l’effetto. Il pentimento è cogliere l’offerta di perdono per ricostituire interamente l’amicizia.
Il rapporto tra perdono e pentimento sul piano individuale mostra quello che è avvenuto sul piano universale nella storia di Gesù. Dio dona il perdono e Gesù è in seno all’umanità la coscienza penitente. Gesù è il grande penitente che prende su di sé il peccato del mondo, la maledizione, la croce perché è convinto che è giusto.
L’umanità che il Padre ha riconciliato a sé in Gesù riceve ora da Dio, individualmente, il suo spirito, cioè la capacità di vivere come Gesù, non come soggetti di diritto, padroni del mondo, ma come obbedienza a Dio e al diritto del povero e quindi come solidarietà e giustizia.
L’amore di Dio si è manifestato in questo, nell’aver amato l’uomo quando l’uomo era suo nemico. In Gesù è avvenuto il riavvicinamento dell’umanità a Dio, in modo tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, l’ultima parola non sarà il no dell’uomo, ma il sì di Dio. Dio dona all’uomo un cuore di carne (Ezechiele), che Paolo chiama spirito: lo spirito è la soggettività di Dio che diventa soggettività dell’uomo, capacità di vivere la storia secondo la vocazione originaria.
« beati i costruttori di pace »: evangelo e cultura di pace

Tratti essenziali di un soggetto di pace.
L’essere soggetti di pace non deriva ultimamente da fattori psichici, sociali, istintuali. Nell’ottica biblica l’uomo è libertà in quanto responsabilità. L’uomo non è, ma è chiamato a farsi di fronte alla scelta tra bene e male, tra vita e morte, tra essere per o essere contro, tra promuovere e uccidere. Credere in Gesù Cristo vuol dire credere che la storia umana è tenuta sempre aperta dal sì di Dio, dallo spirito di Dio, aperta verso la possibilità di un mondo di pace. Credere in Gesù Cristo è credere nell’uomo, non per le sue risorse psichiche o culturali ma per la presenza dello spirito del risorto che riapre continuamente la storia.
Secondariamente il dono dello spirito, il cuore nuovo donatoci da Dio, non è una realtà già tutta compiuta. La nostra appartenenza di base è la storia peccatrice (qui è il senso del battesimo). Il cuore nuovo è un dono iniziale e insieme un compito, è il dono di un compito, è la conversione continua. Le strutture sociali (e questo è il compito di una cultura di pace) possono essere in sintonia con il cuore nuovo, ma non lo possono produrre. Il cuore nuovo, costruttore di pace, è sempre un atto di libertà
Terzo. Il gesto fondatore del cuore costruttore di pace è un cuore che consente di lasciarsi pacificare dentro di sé, di accettare di spogliarsi del cuore padronale, del soggetto di diritti. Nel cuore padronale c’è la violenza originaria di chi già in cuor suo ha costituito l’altro come nemico e quindi come legittimamente aggredibile. Dobbiamo abbattere dentro di noi il gesto fondatore dell’altro come nemico. Può darsi che effettivamente l’altro sia nemico, ma ciò di cui dobbiamo spogliarci è il cuore padronale che non tiene conto di ciò che realmente l’altro è. Occorre rifarci uno sguardo capace di vedere le cose come sono.
Quarto. Il superamento del cuore padronale e del cuore vittimista che arma la mano è quanto c’è di più arduo. Non si fa pace senza far penitenza. La croce fondamentale che dobbiamo portare sulle spalle è la rinuncia all’inflazionamento dell’io, riaprendo la strada dall’io all’altro.
Quinto. Anche la non violenza va posta sotto il segno della responsabilità. Io sono chiamato a costruire positivamente la pace e per questo devo evitare il ricorso a strumenti violenti. Però devo farmi carico (Bonhoeffer) del male che c’è nel mondo arrivando a condividerlo anche nella forma della violenza, nel senso che la non violenza diventa la minor violenza possibile. Il cuore padronale fa violenza senza problemi, il cuore pacificato con la consapevolezza di essere partecipe del peccato del mondo.
Sesto. Una cultura della pace integra il cuore pacificato. Dal centro della libertà buona si dilata la cultura della pace, dal primo cerchio dei rapporti interpersonali, al secondo dei rapporti sociali (con il superamento dello spirito corporativo), al terzo cerchio della politica sia statuale che internazionale. Ad ogni livello la cultura della pace ha problematiche specifiche.
Settimo. La chiesa muove verso Gerusalemme, visione di pace. Compito della chiesa è quello di dire a tutti che il loro fine ultimo è quello di essere momenti della universale fraternità, che la volontà di pace di Dio nella storia è il fine ultimo della storia stessa.

Publié dans:LA PACE, Papa Giovanni Paolo II, Teologia |on 23 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

«IL SIGNORE PROTEGGE LO STRANIERO» (SAL 146,9).

http://www.credereoggi.it/upload/2006/articolo154_19.asp

«IL SIGNORE PROTEGGE LO STRANIERO» (SAL 146,9). RIFLESSIONI DI TEOLOGIA BIBLICA

GABRIELE F. BENTOGLIO

1. Bibbia e migrazioni
La rivelazione biblica dedica numerosi riferimenti alle relazioni interpersonali, e non solo a quelle che spiegano l’interazione tra i membri del popolo dell’alleanza, ma anche a quelle che coinvolgono gruppi di diversa estrazione etnica. Il fatto non stupisce, dal momento che la Bibbia, benché si presenti oggi nella veste di un’opera letteraria, non proviene dall’astrazione né da pura immaginazione, ma soprattutto dalla sperimentazione, prima, e poi da una caratteristica comprensione e interpretazione della realtà, specialmente di eventi, persone e fatti, alla luce della personale rivelazione divina. Anche il forestiero, perciò, è costantemente presente, spesso in chiave positiva, sebbene non manchino occorrenze adombrate da sospetto e diffidenza, soprattutto nella letteratura veterotestamentaria più recente (cf. Sir 11,29.34; 29,22-28).
2. Lo straniero nell’Antico Testamento
Nell’Antico Testamento, il forestiero trova posto in particolare nei testi legislativi e negli oracoli profetici. Qui, si focalizzano diversi modi per qualificare lo straniero: c’è l’estraneo che viene da fuori e, dunque, non appartiene al popolo eletto, ma intrattiene con esso rapporti di stretta continuità: è l’immigrato che fissa la sua dimora tra la gente di Israele, definito dal vocabolo ger. Poi c’è il forestiero di passaggio, che non intende stabilirsi nel nuovo territorio sul quale si trova a transitare: in questo caso, il termine che lo indica è nekar (nokrî nella forma aggettivale), al quale la Bibbia riserva meno attenzione che all’immigrato residente, proprio per il diverso statuto, che non esige una precisa regolamentazione di rapporti occasionali.
a) Prospettiva spirituale
Il libro del Levitico, dal canto suo, assimila al ger il tôšab, quasi a renderli sinonimi: «Voi siete presso di me come forestieri (gerîm) e inquilini (tôšabîm)» (Lv 25,23.35.47), in corrispondenza alla raccomandazione di non alienare in perpetuo la terra, perché Dio assicura che «la terra è mia» (Lv 25,23). Il ricordo di essere stati stranieri in Egitto ha segnato duramente la storia degli israeliti, al punto che gli scrittori biblici richiamano alla memoria più volte quel fatto del passato, sia per tracciare i lineamenti dell’identità nuova, acquisita con l’esperienza dell’itineranza dell’esodo, sia per orientare il positivo comportamento verso il forestiero. In effetti, il riferimento allo straniero rimanda in primo luogo all’esistenza terrena, con le sue caratteristiche di provvisorietà e di transitorietà, oltre a includere la dimensione geografica della lontananza dalla patria. Del resto, questa è la prospettiva di valore tipica della rivelazione biblica, ben riassunta nella preghiera che Davide rivolge a Dio: «Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri» (1Cr 29,15). A questo passo corrispondono, nella traduzione greca (LXX), i moduli linguistici paroikoi kai… paroikountes, che contengono l’idea di paroikia come «condizione di vita nell’estraneità», designando plasticamente la situazione che si trova ad affrontare il migrante lontano da casa sua, dalla sua patria, dal suo ambiente d’origine. Vi confluiscono i temi dello sradicamento, del disagio e dello smarrimento, così come la speranza di un avvenire più prospero e il sogno di migliori prospettive. L’argomento ritorna, ad esempio, nella fiduciosa invocazione del salmista, che confessa davanti al Signore la precarietà tipica del migrante, con queste parole:
Ascolta la mia preghiera, Signore… non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno straniero (paroikos kai parepidemos) come tutti i miei padri (Sal 39,13; cf. anche Sal 119,9).
b) Dimensione storica
Accanto a questo orientamento spirituale, tuttavia, non si deve trascurare il desiderio, motivato dalla contingenza storica, di regolamentare il comportamento verso il forestiero, come nel caso di Es 23,9: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto». Il popolo biblico, mentre confessa che Dio lo ha liberato dall’oppressione e lo ha guidato verso una terra nuova, avverte fortemente lo stimolo a creare una società diversa, nella quale possano rispecchiarsi le qualità di yhwh, che si è dimostrato amante del povero e del bisognoso, difensore dell’orfano, della vedova e dell’immigrato (Dt 14,28-29; 24,17; 26,12-13; 27,19, ecc.). Così, nella terra, che appartiene a Dio e che Dio regala al popolo, l’atto di benedizione al momento dell’offerta delle primizie del suolo, che è allo stesso tempo anche atto di fede e proclamazione della memoria storica, si conclude con la condivisione della festa, alla quale partecipano anche i meno fortunati, come gli immigrati (Dt 26,1-11). Ancora, al tempo della mietitura e della bacchiatura, la spigolatura è riservata al povero e al forestiero (Lv 23,22; Dt 24,20), il quale deve essere trattato «come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Infine, nella distribuzione delle decime si fa preciso riferimento al forestiero, insieme al levita, all’orfano e alla vedova (Dt 26,12). Insomma, appare chiaro che, nel dimostrare una benevola attenzione verso l’immigrato, gli israeliti assomigliano di più a quel Dio giusto e buono, che «ha pietà del debole e del povero, e salva la vita dei suoi miseri» (Sal 72,13), amante di tutte le sue creature, anche di quelle che necessitano maggiore tutela, per cui «protegge lo straniero» (Sal 146,9), «ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18).
c) Lo spirito umanitario della legge
In quest’ottica umanitaria, è considerato un atto di giustizia il permettere agli immigrati di partecipare alla vita della comunità, in mezzo alla quale essi hanno preso dimora, e l’essere giudicati dalla stessa legge che si applica agli israeliti (Nm 15,15). Come per i membri del popolo eletto, anche ai gerîm e ai nokrîm viene riconosciuto il diritto di asilo in caso di omicidio involontario, presso determinate città di rifugio (Nm 35,15). Il riposo festivo nel giorno di sabato spetta di diritto anche agli immigrati (Dt 5,14-15), così come compete loro il dovere di osservare i riti di espiazione (Lv 16,29) e di astenersi dal commettere immoralità (Lv 18,26). Sebbene non siano obbligati a osservare la Pasqua, essi possono tuttavia parteciparvi, ma soltanto dopo che gli uomini della famiglia siano stati circoncisi (Es 12,48-49). Per il resto, non vi può essere discriminazione di fronte a un’azione compiuta con intenzione malvagia: «La persona che agisce con deliberazione, nativo del paese o straniero insulta il Signore: essa sarà eliminata dal suo popolo» (Nm 15,30); viene perciò sancito, oltre al principio di reciprocità, anche quello dell’uguaglianza di fronte alla legge: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi» (Es 12,49). Dunque, dalle prescrizioni bibliche pare che gli immigrati possano godere di un certo grado di libertà e di parità con i nativi di Israele, ma solamente nel quadro di una progressiva assimilazione al sistema di vita degli ospitanti. Di fatto, soltanto in forza della circoncisione un ger maschio viene equiparato a un israelita e i suoi figli possono essere integrati nella comunità di Israele. Una norma, questa, che ostacolerà anche la comunità cristiana delle origini, la quale, però, saprà oltrepassarla e aprire le porte a tutti coloro che non rifiutano di accogliere la pluralità delle diversità, nella tensione escatologica verso l’unità in Cristo, «erede di tutte le cose» (Eb 1,2), nella misura della pienezza che caratterizza «l’uomo perfetto» (Ef 4,13), con la consapevolezza che «coloro che seguono la via» (At 9,2) «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto V, 5). È proprio questo orientamento cristologico-escatologico, nel novum del dinamismo ecclesiale, che costituisce il fondamento dell’esigenza cristiana di non lasciare nulla di intentato per diventare accoglienti e ospitali nei confronti del diverso, dello straniero, dell’immigrato.
3. Il dovere sacro dell’ospitalità e la novità dell’accoglienza
In effetti, l’Israele antico troverà sempre difficile il percorso della tolleranza, dell’apertura, dell’accoglienza, nonostante gli stimoli, i suggerimenti, le ingiunzioni e i rimproveri. Soprattutto la letteratura sapienziale offre dinamiche di apertura allo straniero, ma conservando l’esigenza di fargli accettare i propri schemi religiosi e rivelando, in questo modo, un tipico conflitto tra universalismo ideale e particolarismo di fatto. La conquista dell’importante tappa della filantropia, anche teologicamente motivata, in pratica, costituisce un traguardo, che non apre nuovi orizzonti all’Israele biblico. Questi condivide con il mondo del vicino Oriente antico l’apprezzamento per il valore sacro dell’ospitalità, il quale forma, così, un argomento di notevole spessore. Esso, tuttavia, non incorpora tutta la magnanima bontà dell’accoglienza, come realtà fondata cristologicamente ed ecclesiologicamente, che va intesa non già come comportamento pratico-concreto, ma anzitutto come atteggiamento di apertura positiva verso Dio, verso il prossimo e verso l’annuncio del kerygma, come ben attestano soprattutto i Vangeli e l’epistolario paolino. In realtà, il definitivo giro di boa, con la predicazione di Gesù e la vita della Chiesa, è garantito da un importante cambiamento di prospettiva, dove appunto avviene il passaggio dall’ospitalità come impegno-dovere pratico di primo soccorso verso l’altro, anche straniero-immigrato, alla diakonia dell’accoglienza, che precede, motiva e ingloba le dinamiche operative della carità.
4. Accoglienza e ospitalità nel Nuovo Testamento
Sotto questo profilo, Gesù raccomanda l’ospitalità, ma punta soprattutto sull’accoglienza: del resto, egli non ha la possibilità di offrire un rifugio o un ricovero materiale, visto che non ha neppure dove poggiare il capo (Mt 8,20). Però, per primo egli dimostra verso tutti un atteggiamento di amorevole sollecitudine: verso la gente che accorre, da diverse parti della regione, per sentire la sua parola (cf. Mt 4,25), nei confronti dei malati che chiedono di essere guariti, benché forestieri (cf. Mt 15,21-28), con i bambini che le mamme gli conducono perché li benedica (Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17). Nell’esperienza storica di Gesù, gli evangelisti notano che anch’egli sperimenta l’intimità dell’amicizia, come nella casa di Betania, dove «una donna, che si chiamava Marta, lo accolse in casa sua» (Lc 10,38), ma condivide anche la gioia dei lontani, che si lasciano convertire dalla sua accogliente presenza, come nel caso di Zaccheo a Gerico (Lc 19,6), o di Matteo a Cafarnao (Mc 2,14-15).
a) Il prossimo
L’accoglienza, il farsi prossimo, è caratteristica fondamentale di Gesù, riassunta nella parabola del Samaritano, che manifesta la misericordiosa bontà dell’uomo nell’incontro con il suo prossimo, sebbene questi appartenga ad altra etnia, professi un diverso credo religioso o si identifichi in differenti tradizioni socio-culturali (Lc 10,25-37). In effetti, l’occasione di questo racconto parabolico è fornita da una questione posta a Gesù da un nomikos, cioè un esperto della Tôrah, preoccupato non tanto che si ribadisca il comandamento mosaico dell’amore, quanto che si determini l’ambito in cui si deve applicare la legge, dal momento che nella concezione giudaica il prossimo si configura all’interno del contesto dell’alleanza, dove appunto si colloca la legge. Gesù, invece, con una contro-domanda, rinvia il suo interlocutore alla vita, sollecitandolo a confrontarsi con i fatti, con la realtà, con la durezza del quotidiano, dove si incontrano donne e uomini nel bisogno. Ecco perché agli esponenti dell’ortodossia – il «dottore della legge» – Gesù contrappone un rappresentante degli esclusi – l’eretico Samaritano –: d’ora in poi solo l’amore compassionevole sarà la chiave per definire il prossimo, al di là delle distinzioni e delle separazioni di carattere religioso, culturale o etnico. La tensione presente nel testo lucano tra il prossimo come oggetto e il prossimo come soggetto di amore si scioglie proprio nel riferimento al dinamismo vitale di quella compassionevole bontà, che Luca applica con insistenza a Gesù, ad esempio davanti alle lacrime della vedova di Nain (Lc 7,13) e nell’incontro tra il figlio perduto e la sconfinata speranza del padre (Lc 15,20), così come nello sconvolgimento interiore che il Samaritano avverte alla vista del malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,33). Dunque, chi vuole ereditare la vita, attuando l’unico amore che abbraccia Dio e il prossimo, deve collocarsi in questa nuova angolazione, che rende le persone vicine e solidali.
b) La reciprocità
In seguito, attorno alla presenza eucaristica del Maestro, viva e reale, si formano le comunità cristiane, che tuttavia non sono esenti da conflitti e tensioni.
Un esempio interessante, per approfondire la riflessione sull’interazione tra gruppi di diversa estrazione etnico-religiosa, si legge nella lettera ai Romani. Le esortazioni di Rm 14,1-2 e 15,7, in particolare, s’inquadrano al centro delle considerazioni di Paolo sull’importanza dell’accoglienza reciproca, appunto imitando l’atteggiamento accogliente di Cristo:
Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza mettervi a discutere le sue convinzioni;
Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio.
Il pensiero paolino prende il via dai dissensi sorti a motivo di diverse tradizioni alimentari e cultuali, ma subito decolla a delineare una realtà di comunione ben più profonda, suggerita anche dal ricorso al verbo greco proslambanein, in sostituzione della tipica designazione dell’offerta ospitale descritta da xenizein. Nelle relazioni interpersonali, dunque, Paolo raccomanda una sintonia decisamente più vasta e impegnativa, quella stessa che suggerirà ai credenti di realizzare nell’occasione dell’arrivo di Epafrodito (Fil 2,29), di Febe (Rm 16,1-2), di Tito (2Cor 8,22-24); quella che esigerà da Filemone nei confronti del nuovo fratello Onesimo (Fm 17); quella che ricorderà di aver sperimentato di persona al suo primo contatto con i pagani della Galazia (Gal 4,12-15).
c) L’agape
Paolo, del resto, è convinto che non vi può essere vera agape che non comprenda in se stessa anche l’accoglienza; come pure non si può trovare accoglienza, nel senso cristiano, che non proceda da vera carità. Altrimenti si avrebbe semplice filantropia o cordiale umanitarismo. Ora, tra i significati originari del verbo agapan vi è appunto quello di accogliere. Per questo, nel suo celebre elogio dell’agape, Paolo dice esplicitamente che «la carità è benigna» (1Cor 13,4) ossia, secondo la forza del termine greco qui impiegato (chresteuetai), è bontà, delicatezza e sensibilità (cf. Mt 11,30; Lc 5,39), tutte virtù di chi ha un animo comprensivo e un cuore aperto e ricettivo verso l’altro. È in questa linea che, nella lettera ai Romani, volendo mettere in luce l’agape, Paolo ricorda che Cristo, che è la fonte e il modello della carità, ha dimostrato il suo amore «accogliendo» i credenti, benché fossero peccatori, nella comunione trinitaria (Rm 14,3; 15,7). Ecco perché, nella stessa lettera, si dilunga scrivendo:
La carità sia senza ipocrisie. Nell’amore fraterno siate affettuosi gli uni verso gli altri; nell’onore prevenitevi scambievolmente; nella sollecitudine non siate pigri. Siate ferventi nello spirito; servite il Signore; siate allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione, perseveranti nella preghiera; pronti a condividere le necessità dei santi, premurosi verso i forestieri (Rm 12,9-13).
La vera agape, pertanto, si manifesta nel nutrire vicendevolmente gli stessi sentimenti, nel praticare le stesse virtù, nel prendere a cuore la sorte gli uni degli altri e nell’andare incontro alle necessità del prossimo.
Così intesa, essa non può esaurirsi nei confini della comunità. È vero che la fraternità impegna anzitutto quelli che sono «dentro» di fronte ad altri che sono «fuori» (1Cor 5,11-13), ma nella logica del lievito a beneficio di tutta la pasta (Mt 13,33; Lc 13,21; 1Cor 5,6; Gal 5,9), del sale che insaporisce i cibi (Mt 5,13; Mc 9,50) e della fiaccola che illumina l’intera casa (Mt 5,15-16; Lc 11,33-36). All’interno della comunità si pratica la correzione fraterna (Mt 18,15) in vista della reciproca sollecitudine (1Cor 8,12; 2Cor 9,1; Gal 6,10), facendo attenzione all’intromissione di «falsi fratelli» (2Cor 11,26; Gal 2,4-5). Tuttavia, anche se forse in seconda battuta, l’agape deve comunque indirizzarsi pure all’esterno, abbracciando tutti in vista di formare, nella varietà dei carismi, il medesimo corpo di Cristo (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12-27). Un motivo, questo, che dà contenuto all’idea originaria di paroikia, che oggi abbiamo perduto. Nell’etimologia del vocabolo, infatti, par-oikos/oikia punta a configurare coloro che vivono lontano dall’oikos per essere vicini alla patria autentica, quella celeste, verso la quale tutta l’umanità è in cammino, evidenziando il riferimento alla consapevolezza di condurre l’esistenza nella dinamica del pellegrinaggio. Ecco allora che l’itinerario comune e la partecipazione alla medesima condizione di itineranza motivano la sollecitudine dell’agape, dove la comunità ecclesiale è chiamata a essere «l’anima del mondo» (Lettera a Diogneto VI, 1).
5. Il fondamento cristologico dell’autentica accoglienza
Queste ragioni, di ordine cristologico ed ecclesiologico, stanno alla base della preoccupazione di Paolo per i poveri delle comunità più bisognose, ma anche della sua insistenza nel raccomandare una particolare attenzione verso tutti i forestieri, gli ospiti e i pellegrini. In definitiva, il «missionario dei pagani» si dimostra in sostanziale accordo con la lezione matteana del giudizio finale, dove si attesta che chi accoglie l’altro come un fratello entra in contatto con Gesù stesso. Infatti, Gesù si identifica nel volto bisognoso del prossimo: «Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5) e «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40.45). Poi si precisa nei dettagli: «Poiché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Nell’ultimo riferimento, l’evangelista ricorre al verbo synagein per spiegare che non s’intende il mero esercizio di un’opera di misericordia. Si suggerisce, in verità, un’accoglienza fatta di partecipazione, condivisione, integrazione e interazione: l’altro, soprattutto nel caso dello straniero, non ha bisogno soltanto di essere accudito, ma necessita altresì di essere riconosciuto e tutelato nella sua dignità di persona umana. Il verbo synagein, infatti, designa tipicamente l’adunanza dell’assemblea (da cui deriva, tra l’altro, la synagoge), dove la comunione si fortifica mediante la convocazione, il raduno e la compartecipazione. La comunità cristiana, dunque, sarà veramente tale se saprà rendere partecipe anche l’immigrato dei suoi beni e dei suoi valori, come la Parola e l’eucaristia, senza dimenticare, ovviamente, la pratica del soccorso caritativo. Qui, in ogni caso, si apre l’arduo itinerario dell’inculturazione del kerygma, dov’è importante evitare la tentazione dell’esaltazione o del primato delle singole culture, per orientare il cammino alla responsabilità reciproca di giungere alla vita in abbondanza e quindi a Gesù Cristo, che è pienezza di vita. Infatti, l’inculturazione ha il suo significato nella promozione della vita in Cristo, che è contrassegnata dall’accoglienza, dalla relazione e dalla comunione.
6. Filantropia e agape
In conclusione, l’esperienza di fede e la riflessione teologica della comunità cristiana, non meno che il confronto con la realtà del quotidiano, hanno stimolato la maturazione di una convinzione di fondo: il solo disbrigo della concretezza filantropica non è sufficiente. Certo, l’assistenza umanitaria è già un’importante conquista, che merita lode e incoraggiamento. Corrisponde, ad esempio, alla prontezza servizievole di Abramo alle querce di Mamre (Gn 18,1-8), all’attenta sensibilità di Lot verso gli stranieri giunti a Sodoma sul far della sera (Gn 19,1-3), all’insistente premura del suocero del levita di Efraim (Gdc 19,1-10), alla sollecitudine di Rahab a Gerico (Gs 2,1-21), alla filantropia di Giobbe (31,32) o alla generosità ospitale, attestata da numerosi passi biblici. Ma non è sufficiente. Per essere completa, l’agape deve farsi ascolto, interazione, dialogo e interscambio: insomma, l’altro, anche l’immigrato, non è più soltanto «oggetto» di attenzione, ma diventa protagonista di nuove relazioni interpersonali. Il migrante è al centro della dimensione pastorale della Chiesa, ma nel ruolo di attivo interlocutore, non solo come destinatario di un servizio[1].
In definitiva, si ribadisce l’importanza di favorire, promuovere e difendere la centralità e la dignità della persona, di ogni persona, tutta la persona, di tutte le persone senza eccezione alcuna, con la ferma convinzione che «la principale risorsa dell’uomo… è l’uomo stesso»[2] e che, nella complessità dei movimenti migratori, «il migrante è assetato di “gesti” che lo facciano sentire accolto, riconosciuto e valorizzato come persona» (EMCC 96).
Puntare sull’accoglienza, quindi, significa non fermarsi alle molteplici attività assistenziali e caritative, di appoggio e di conforto della persona umana, ma qualificare anzitutto, con la prospettiva escatologica dell’unità di tutto il genere umano, la forza della motivazione cristiana della missione, che precede la vasta articolazione del fare e si attesta nella vitale dinamicità dell’essere.
Nota bibliografica
G. Bentoglio, Apertura e disponibilità. L’accoglienza nell’epistolario paolino, PUG, Roma 1995.
Id., Il ministero di Paolo in catene (Fm 9), in «Rivista Biblica» 53 (2005) 173-189.
B. Byrne, The Hospitality of God. A Reading of Luke’s Gospel, St Paul’s Publ., Strathfield 2000.
I. Cardellini (ed.), Lo «straniero» nella Bibbia, EDB, Bologna 1996.
C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002.
J. Schreiner – R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB, Bologna 2001.

[1] Cf. Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Istruzione Erga migrantes caritas Christi (03.05.2004) (EMCC), nn. 37-38. 91.
[2] Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus (01.05.1991), n. 32.

PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI… – PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI…

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PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI…

DI BRUNO FORTE

Mi dici: parlami della Chiesa che ami! Sì, amo la Chiesa: la amo come un figlio ama la madre che gli ha dato la vita. La trovo bella e degna d’amore anche quando qualche ruga copre il suo volto o quando mi sembra di non capire fino in fondo le sue scelte e i suoi tempi. Perciò Ti parlerò di lei come mi detta l’amore….

Mi dici: parlami della Chiesa che ami! Sì, amo la Chiesa: la amo come un figlio ama la madre che gli ha dato la vita. La trovo bella e degna d’amore anche quando qualche ruga copre il suo volto o quando mi sembra di non capire fino in fondo le sue scelte e i suoi tempi. Perciò Ti parlerò di lei come mi detta l’amore. Se penso al dono che la Chiesa mi ha fatto generandomi alla vita divina col battesimo, o all’aiuto che mi ha dato facendomi crescere nella fede alla scuola della Parola di Dio, se rifletto su come mi ha nutrito e mi nutre col pane della vita che è il corpo stesso di Gesù o mi ricordo di tutte le volte che ha perdonato i miei peccati col sacramento della riconciliazione, se medito sulla grazia della mia vocazione e missione fra gli uomini, riconosciuta e sostenuta dalla Chiesa, come avviene per la vocazione di tutti i consacrati e degli sposi cristiani, sento la gratitudine riempirmi il cuore e l’impulso ad amarla e a renderla sempre più credibile e bella mi appare superiore a ogni ragione contraria.
È mia convinzione profonda, maturata nell’esperienza degli anni e alimentata dalla fiamma viva della fede e dell’amore, che la Chiesa non nasce da una convergenza di interessi umani o dallo slancio di qualche cuore generoso, ma è dono dall’alto, frutto dell’iniziativa divina: dire che la Chiesa è il popolo di Dio non è per me una espressione qualunque, una definizione astratta, ma la confessione umile che è lei ad avermi fatto incontrare il Dio vivente, Signore, origine e meta del Suo popolo! Pensata da sempre nel disegno del Padre, la Chiesa è stata preparata attraverso l’alleanza con il popolo eletto Israele, affinché, compiutisi i tempi, fosse donata a tutti gli uomini come la casa e la scuola della comunione con Dio grazie alla missione del Figlio venuto nella carne e all’effusione dello Spirito Santo.
Sì: credo la Chiesa, “credo Ecclesiam”, come dicevano sin dall’inizio i cristiani, credo che essa è opera di Dio e non dell’uomo, inaccessibile nel suo cuore pulsante ad uno sguardo puramente umano. Credo che la Chiesa è “mistero”, tenda di Dio fra gli uomini, frammento di carne e di tempo in cui lo Spirito dell’Eterno ha preso dimora. E perciò so che la Chiesa non si inventa né si produce, ma si riceve: è dono che va accolto incessantemente con l’invocazione e il rendimento di grazie, in uno stile di vita contemplativo ed eucaristico. Allo sguardo della mia fede, generata nel cuore della Chiesa Madre per l’azione della Trinità divina, la Chiesa mi appare come “icona della Trinità”, immagine vivente della comunione del Dio che è Amore, popolo generato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Proprio così so che la varietà dei doni e dei servizi suscitati in ciascuno di noi battezzati dall’azione dello Spirito Santo, e tanto più accolti e vissuti quanto più viviamo di fede, di amore e di preghiera, non solo non compromette, ma esprime la profonda unità che viene da Dio per tutti i battezzati. E riconosco quali segni e servitori di questa unità i pastori, dal Papa, Vescovo della Chiesa di Roma, che presiede nell’amore alla comunione di tutta la Chiesa, ai Vescovi in comunione con Lui, ai Sacerdoti che in ogni comunità sono inviati dal Vescovo. Nell’amore al Papa e al Vescovo, segno di Cristo Pastore, nella docilità alla loro guida, quanti hanno ricevuto i diversi doni entrano in dialogo fra di loro e crescono nella comunione. È la comunione di un popolo di credenti adulti e responsabili nella fede e nell’amore, capaci di pronunciare con la vita tre grandi “no” e tre grandi “sì”.
Il primo “no” è quello al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché i doni ricevuti da ognuno vanno vissuti nel servizio degli altri: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, cui nessuno può sentirsi autorizzato, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa: il “sì” che ne consegue è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore per ciascuno e per tutti. Il terzo “no” è quello alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno deve acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nella vita e nella storia: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla continua riforma, per la quale ognuno possa realizzare sempre più fedelmente la chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne la gloria. Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, la Chiesa si presenta come icona viva della Trinità, comunione di uomini e donne, adulti e responsabili nella loro diversità, uniti fra loro nell’amore.
Quanto bisogno c’è di questa comunione! Di fronte all’arcipelago, che è spesso la società in cui ci troviamo, in cui ognuno sembra estraneo all’altro e fatica a uscire da sé nel dono dell’amore, la comunione della Chiesa rappresenta veramente la buona novella contro la solitudine: è così che vorrei si mostrasse a tutti la Chiesa, e a questo scopo vorrei portare con generosità il mio contributo di discepolo e di pastore per suscitare e coltivare con tutti relazioni di rispetto e di reciproco amore, che siano un’immagine eloquente della comunione trinitaria, e accendano in chi è lontano il desiderio del Dio dei cristiani e dell’esperienza di Lui, offerta nella Chiesa dell’amore. In questo consiste la missione affidata alla Chiesa: essere luce delle genti per la forza della fede e della carità, attrarre gli uomini a Dio con vincoli di amore, mostrando credibilmente a tutti la bellezza dell’incontro con Gesù, capace di cambiare il cuore e la vita.
Sì: sogno la Chiesa che amo sempre più missionaria, non in uno spirito di conquista che sappia di logica di potere umano, ma in una passione d’amore, in uno slancio di servizio e di dono, che vuol dire a tutti quanto è bello essere discepoli di Gesù e quanto il Suo amore possa riempire il cuore e la vita! Certo, la Chiesa è e resta un popolo in cammino, pellegrino verso la patria del cielo. Ogni presunzione di essere arrivati va considerata una tentazione: sogno la Chiesa impegnata nella sua continua purificazione e nel suo rinnovamento, inappagata da qualsiasi conquista umana, solidale con il povero e con l’oppresso vigile, sovversiva e critica verso tutte le realizzazioni miopi di questo mondo. Beninteso, questo non significherà disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che ci è chiesta in quanto discepoli di Gesù è costosa ed esigente. Si tratta di assumere le speranze umane e di verificarle al vaglio della Sua risurrezione, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. La patria, che fa stranieri e pellegrini in questo mondo, non è sogno che alieni dal reale, ma forza stimolante e critica dell’impegno per la giustizia e per la pace nell’oggi del mondo. Sogno che la Chiesa sia sempre più popolo della carità, testimone della gioia e della speranza, che non delude, libera e generosa nel suo impegno al servizio della giustizia per tutti, del dialogo fra tutti e della pace che solo così può nascere stabilmente fra gli uomini.
Chiesa dell’amore, che nel Simbolo della fede professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Redentore del mondo, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida, “colonna e sostegno della verità” come dice l’Apostolo (cfr. 1Tm 3,15), la Chiesa cattolica è non di meno aperta al riconoscimento di tutto il patrimonio di grazia e di santità che lo Spirito ha reso e rende presente nelle tradizioni cristiane, che non sono in piena comunione con lei. Con esse dialoga offrendo loro i doni di cui è portatrice e ricevendo da esse la testimonianza del bene, che il Signore opera in loro, in vista del comune annuncio del Vangelo di Gesù a tutti gli uomini. Fedele poi alla propria origine divina e alla propria missione, la Chiesa avverte l’esigenza del dialogo con Israele, con cui sa di avere un rapporto privilegiato ed esclusivo, perché la fede del popolo eletto è – come dice l’apostolo Paolo – la “primizia”, la “santa radice”, su cui il buon olivo del cristianesimo è innestato (cfr. Rm 11,16-24). Senza rinunciare alla novità del messaggio evangelico, il popolo di Dio che è la Chiesa può crescere nella conoscenza del mistero di Dio e nella speranza della vita insieme al popolo d’Israele, che resta avvolto dalla grazia dell’elezione divina. Sogno una Chiesa viva nel dialogo, tesa a realizzare il progetto di Dio, che è progetto di unità e di pace per tutti.
Infine, nell’epoca del mondo percepito come “villaggio globale”, caratterizzata anche da un nuovo incontro fra i credenti delle diverse religioni, la Chiesa si riconosce chiamata con essi al comune servizio all’uomo a favore della giustizia e della pace e alla testimonianza del divino nella storia. Fondate sull’iniziativa misteriosa di Dio verso ogni uomo e sull’atteggiamento di inquietudine, di desiderio e di accoglienza del Mistero santo presente in ogni cuore, le grandi religioni universali sono accomunate da una sorta di spiritualità dell’ascolto, che implica l’apertura radicale del cuore al Dio che parla, nella disponibilità a lasciarsi gestire la vita da Lui in obbedienza d’amore. Certamente per i credenti in Cristo l’ascolto non è solo l’attitudine dell’uomo davanti a Dio, ma è anche lo stare in Dio, nello Spirito, uniti al Figlio, dinanzi al Padre. Il cristiano non rinuncerà perciò mai ad annunciare con la parole e con la vita, con dolcezza e rispetto, che Dio si è coinvolto nella storia degli uomini con l’incarnazione del Verbo e la missione dello Spirito: è questo, però, un annuncio di amore, che dovrà coniugare la proclamazione del Vangelo, a cui tutti hanno diritto, con l’autenticità del dialogo, per far avanzare l’intera famiglia umana verso la pienezza del tempo in cui “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) e il mondo intero sarà la Sua patria.
Questa Chiesa del dialogo e della missione è la Chiesa dell’amore per cui Gesù ha pregato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,21). È la Chiesa di cui mi riconosco figlio, che amo e propongo a tutti come dono d’amore per imparare ad amare nel cuore di Dio. È la Chiesa che vedo realizzata nella donna Maria, Vergine Madre del Figlio, che accoglie il dono di Dio e lo dona, pronta sempre a intercedere per noi. È la Chiesa che vorrei costruire insieme anche a Te, con l’aiuto di Dio, cui Ti invito a rivolgerti con me nella forza dello Spirito e nella fiducia dell’intercessione di Gesù, Sommo ed eterno Sacerdote: Dio, Trinità Santa, da Te viene la Chiesa, popolo pellegrino nel tempo chiamato a celebrare senza fine la lode della Tua gloria. In Te vive la Chiesa, icona del Tuo amore, comunione nel dialogo e nel servizio della carità. Verso di Te tende la Chiesa, segno e strumento della Tua opera di riconciliazione e di pace nella storia del mondo. Donaci di amare questa Chiesa come nostra Madre e di volerla con tutta la passione del cuore Sposa bella del Cristo, senza macchia né ruga, una, santa, cattolica e apostolica, partecipe e trasparente della vita dell’eterno Amore nel tempo degli uomini, perché sia luce di salvezza per tutte le genti.
(Teologo Borèl) Agosto 2006 – autore: mons. Bruno Forte

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