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GIOVANNI PAOLO II – LA RISURREZIONE REALIZZERÀ PERFETTAMENTE LA PERSONA (1981)

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GIOVANNI PAOLO II -  LA RISURREZIONE REALIZZERÀ PERFETTAMENTE LA PERSONA (1981)  

mercoledì, 9 dicembre 1981  

1. “Alla risurrezione… non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo” (Mt 22,30; Mc 12,25). “Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,36).  Cerchiamo di comprendere queste parole di Cristo riguardanti la futura risurrezione, per trarne una conclusione sulla spiritualizzazione dell’uomo, differente da quella della vita terrena. Si potrebbe qui parlare anche di un perfetto sistema di forze nei rapporti reciproci tra ciò che nell’uomo è spirituale e ciò che è corporeo. L’uomo “storico”, in seguito al peccato originale, sperimenta una molteplice imperfezione di questo sistema di forze, che si manifesta nelle ben note parole di san Paolo: “Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente” (Rm 7,23).  L’uomo “escatologico” sarà libero da quella “opposizione”. Nella risurrezione il corpo tornerà alla perfetta unità ed armonia con lo spirito: l’uomo non sperimenterà più l’opposizione tra ciò che in lui è spirituale e ciò che è corporeo. La “spiritualizzazione” significa non soltanto che lo spirito dominerà il corpo, ma, direi, che esso permeerà pienamente il corpo, e che le forze dello spirito permeeranno le energie del corpo.

2. Nella vita terrena, il dominio dello spirito sul corpo – e la simultanea subordinazione del corpo allo spirito – può, come frutto di un perseverante lavoro su se stessi, esprimere una personalità spiritualmente matura; tuttavia, il fatto che le energie dello spirito riescano a dominare le forze del corpo non toglie la possibilità stessa della loro reciproca opposizione. La “spiritualizzazione”, a cui alludono i Vangeli sinottici (Mt 22,30; Mc 12,25; Lc 20,34-35) nei testi qui analizzati, si trova già fuori di tale possibilità. E dunque una spiritualizzazione perfetta, in cui viene completamente eliminata la possibilità che “un’altra legge muova guerra alla legge della… mente” (cf. Rm 7,23). Questo stato che – come è evidente – si differenzia essenzialmente (e non soltanto riguardo al grado) da ciò che sperimentiamo nella vita terrena, non significa tuttavia alcuna “disincarnazione” del corpo né, di conseguenza, una “disumanizzazione” dell’uomo. Anzi, al contrario, significa la sua perfetta “realizzazione”. Infatti, nell’essere composto, psicosomatico, che è l’uomo, la perfezione non può consistere in una reciproca opposizione dello spirito e del corpo, ma in una profonda armonia fra loro, nella salvaguardia del primato dello spirito. Nell’“altro mondo”, tale primato verrà realizzato e si manifesterà in una perfetta spontaneità, priva di alcuna opposizione da parte del corpo. Tuttavia ciò non va inteso come una definitiva “vittoria” dello spirito sul corpo. La risurrezione consisterà nella perfetta partecipazione di tutto ciò che nell’uomo è corporeo a ciò che in lui è spirituale. Al tempo stesso consisterà nella perfetta realizzazione di ciò che nell’uomo è personale.                     

3. Le parole dei Sinottici attestano che lo stato dell’uomo nell’“altro mondo” sarà non soltanto uno stato di perfetta spiritualizzazione, ma anche di fondamentale “divinizzazione” della sua umanità. I “figli della risurrezione” – come leggiamo in Luca 20,36 – non soltanto “sono uguali agli angeli”, ma anche “sono figli di Dio”. Si può trarne la conclusione che il grado della spiritualizzazione, proprio dell’uomo “escatologico”, avrà la sua fonte nel grado della sua “divinizzazione”, incomparabilmente superiore a quella raggiungibile nella vita terrena. Bisogna aggiungere che qui si tratta non soltanto di un grado diverso, ma in certo senso di un altro genere di “divinizzazione”. La partecipazione alla natura divina, la partecipazione alla vita interiore di Dio stesso, penetrazione e permeazione di ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò che è essenzialmente divino, raggiungerà allora il suo vertice, per cui la vita dello spirito umano perverrà ad una tale pienezza, che prima gli era assolutamente inaccessibile. Questa nuova spiritualizzazione sarà quindi frutto della grazia, cioè del comunicarsi di Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima, ma a tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo. Parliamo qui della “soggettività” (e non solo della “natura”), perché quella divinizzazione va intesa non soltanto come uno “stato interiore” dell’uomo (cioè: del soggetto), capace di vedere Dio “a faccia a faccia”, ma anche come una nuova formazione di tutta la soggettività personale dell’uomo a misura dell’unione con Dio nel suo mistero trinitario e dell’intimità con lui nella perfetta comunione delle persone. Questa intimità – con tutta la sua intensità soggettiva – non assorbirà la soggettività personale dell’uomo, anzi, al contrario, la farà risaltare in misura incomparabilmente maggiore e più piena.                       

4. La “divinizzazione” nell’“altro mondo”, indicata dalle parole di Cristo, apporterà allo spirito umano una tale “gamma di esperienza” della verità e dell’amore che l’uomo non avrebbe mai potuto raggiungere nella vita terrena. Quando Cristo parla della risurrezione, dimostra al tempo stesso che a questa esperienza escatologica della verità e dell’amore, unita alla visione di Dio “a faccia a faccia”, parteciperà anche, a modo suo, il corpo umano. Quando Cristo dice che coloro i quali parteciperanno alla futura risurrezione “non prenderanno moglie né marito” (Mc 12,25), le sue parole – come già prima fu osservato – affermano non soltanto la fine della storia terrena, legata al matrimonio e alla procreazione, ma sembrano anche svelare il nuovo significato del corpo. E forse possibile, in questo caso, pensare – a livello di escatologia biblica – alla scoperta del significato “sponsale” del corpo, soprattutto come significato “verginale” di essere, quanto al corpo, maschio e femmina? Per rispondere a questa domanda, che emerge dalle parole riportate dai Sinottici, conviene penetrare più a fondo nell’essenza stessa di ciò che sarà la visione beatifica dell’Essere divino, visione di Dio “a faccia a faccia” nella vita futura. Occorre anche farsi guidare da quella “gamma di esperienza” della verità e dell’amore, che oltrepassa i limiti delle possibilità conoscitive e spirituali dell’uomo nella temporalità, e di cui egli diverrà partecipe nell’“altro mondo”.                      

5. Questa “esperienza escatologica” del Dio Vivente concentrerà in sé non soltanto tutte le energie spirituali dell’uomo, ma, allo stesso tempo, svelerà a lui, in modo vivo e sperimentale, il “comunicarsi” di Dio a tutto il creato e, in particolare, all’uomo; il che è il più personale “donarsi” di Dio, nella sua stessa divinità, all’uomo: a quell’essere, che dal principio porta in sé l’immagine e somiglianza di lui. Così, dunque, nell’“altro mondo” l’oggetto della “visione” sarà quel mistero nascosto dall’eternità nel Padre, mistero che nel tempo è stato rivelato in Cristo, per compiersi incessantemente per opera dello Spirito Santo; quel mistero diverrà, se così ci si può esprimere, il contenuto dell’esperienza escatologica e la “forma” dell’intera esistenza umana nella dimensione dell’“altro mondo”. La vita eterna va intesa in senso escatologico, cioè come piena e perfetta esperienza di quella grazia (“charis”) di Dio, della quale l’uomo diviene partecipe mediante la fede durante la vita terrena, e che invece dovrà non soltanto rivelarsi a coloro i quali parteciperanno dell’“altro mondo” in tutta la sua penetrante profondità, ma esser anche sperimentata nella sua realtà beatificante.  Qui sospendiamo la nostra riflessione centrata sulle parole di Cristo relative alla futura risurrezione dei corpi. In questa “spiritualizzazione” e “divinizzazione”, a cui l’uomo parteciperà nella risurrezione, scopriamo – in una dimensione escatologica – le stesse caratteristiche che qualificavano il significato “sponsale” del corpo; le scopriamo nell’incontro col mistero del Dio vivente, che si svela mediante la visione di lui “a faccia a faccia”.  

IL PARADISO CI ATTENDE

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IL PARADISO CI ATTENDE

La Stampa, 19 settembre 2003

Per esprimere la festa che attende l’umanità al compimento della storia, la Bibbia si serve del linguaggio simbolico: un linguaggio aperto, evocativo e allusivo più che descrittivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e, in particolare, dell’alterità di Dio. È un linguaggio poetico, e forse solo la creatività poetica può osare dire Dioe cercare di evocarne l’opera. Forse è per questo che la Bibbia si apre con un inno che celebra l’opera creazionale di Dio e si conclude con liturgie che cantano l’opera divina dei nuovi cieli e della nuova terra. E non è forse per questo che ogni intervento di Dio nella storia necessita, una volta riconosciuto e confessato, di una celebrazione, nella quale la musica, il canto, la poesia, la preghiera, la danza… sono i linguaggi che l’uomo utilizza per rispondere a Dio, per lodarlo. Capiamo allora l’importanza non solo del contenutodelle immagini che evocano il Regno celeste, ma anche del modoin cui se ne parla. Ebbene, ilparadiso è certamente l’immagine più nota della beatitudine finale. Nelle parole di Gesù al ladrone crocifisso accanto a lui – “Oggi sarai con me in paradiso!”Luca( 23,43) il significato del paradiso appare già collocato attorno alla figura di Cristo: il paradiso è essere con Cristo e, attraverso lui e in lui, con Dio. Nell’Antico Testamento esso indica il giardino dell’ “in principio” creazionale, cioè il luogo che Dio ha preparato per l’uomo, il luogo della comunione di Dio con l’uomo: un luogo teologicamente posto agli inizi, ma che in realtà profetizza la fine. Con i profeti, Ezechiele prima e poi Isaia, questo luogo arriva a simbolizzare il tempo della speranza escatologica, cioè la restaurazione del popolo: attesa di cui l’apocalittica intertestamentaria accentuerà il carattere proprio degli “ultimi tempi”. Significativamente, questo simbolo fa parte del racconto della creazione, degli eventi del principio, eventi che riguardano ogni uomo, l’umanità tutta. Questo ci dice anzitutto che le pagine della Genesi necessitano non solo di una lettura teologica, ma ancheteleologica: il paradiso arriva a designare il destino a cui tutta l’umanità è chiamata. La comprensione che i padri della chiesa ebbero del racconto creazionale tradusse questo principio in una formula molto efficace: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Il giardino della comunione piena e senza ombre con Dio non sta tanto alle spalle dell’uomo quanto davanti a lui. Se la storia è la nostra condizione, il paradiso, il Regno è la nostra vocazione; esso è il dono di Dio che ci attende, piuttosto che la realtà che abbiamo perduto. Non dicono forse i padri orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”? Le immagini poi che si accumulano nella testimonianza biblica per evocare questa realtà sono quelle della gioia piena dell’uomo, della pienezza di vita: immagini che evocano il cibo buono e abbondante, l’amore e la convivialità, la pace e la giustizia; immagini che si riferiscono a bisogni umani della sfera affettiva e sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica… Ma trasposte sul piano escatologico, divenute azione universale di Dio nel suo giorno, queste immagini trasfigurano il bisogno in desiderio. E il desiderio, a differenza del bisogno, che resta chiuso nell’oggi, è profetico e aperto al futuro. Ora, queste realtà possono essere desiderate perché sono state promesse dal Dio fedele all’alleanza, dal Dio “amante della vita”, dal Dio compassionevole e misericordioso, longanime e ricco di grazia. Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane: il banchetto, le nozze, la pace tra i popoli, la concordia tra gli animali, tra uomini e bestie feroci… Il profeta Isaia sottolinea la dimensione ludica dell’era escatologica: “Il lattante giocherà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nella buca del serpente velenoso” ( Isaia11,8), e Gesù stesso, quando ricorda la necessità di “diventare come i bambini per entrare nel Regno dei cieli” (cf. Matteo18,3), non indica un’esigenza morale, ma una condizione di stupore meravigliato. Né mi pare senza significato che l’animale con cui il bambino gioca senza aver nulla da temere è il serpente, che per la Bibbia è carico di una valenza negativa particolare, come appare dal racconto iniziale della Genesi. Ebbene: anch’egli è inoffensivo! Anche su di esso si stende, vittoriosa di una vittoria che non schiaccia ma converte e purifica, la regalità di Dio, il suo Regno… Potremmo ancora aggiungere le immagini della vita piena e della luce, dell’abbondanza e della fertilità, ma soprattutto sono significativi gli aspetti dell’eliminazione della morte e della scomparsa delle malattie e delle sofferenze, di tutte quelle realtà che gettano un’ombra di non pienezza, anzi di drammaticità, su ogni festa storica, su ogni festa che celebriamo nei nostri giorni. Aspetti evidentemente universali, che riguardano ogni uomo, ogni creatura: non si tratta di immagini particolarmente “spirituali”, ma umanissime, concrete, vitali. Ciò infatti che queste immagini vogliono esprimere è che la festa che esse intravedono dev’essereuniversale: perché la pasqua, la liberazione attesa, la salvezza invocata è tale solo se è per sempre e per tutti. Nel Nuovo Testamento la festa escatologica si delinea, prima ancora che nell’evento di Pasqua, nella notte della Trasfigurazione, in cui il volto di Gesù cambiò aspetto e divenne luminoso e raggiante. Troviamo in questa scena prefigurato il futuro del mondo, il mondo come Dio lo vede e lo vuole, il mondo che adempie la sua vocazione alla bellezza: se la creazione è stata opera artistica, di bellezza, se la sapienza creatrice era presente come fanciullo alla creazione e danzava davanti a Dio, ebbene questa gioia, questa bellezza, questa festa, questa danza sono la destinazione del mondo. La trasfigurazione, infatti, è mistero di bellezza, di radiosità di volti, di luce sul cosmo; è festa cosmica che, mentre mostra la carne umana di Cristo abitata dalla gloria divina, indica la vocazione di ogni volto, di ogni carne, del cosmo intero. Destinati alla bellezza, noi tutti siamo destinati alla beatitudine perché la bellezza si declina come comunione, universale sì, ma attraverso la comunione con ogni volto, perché ogni volto è immagine del Dio creatore. Mancherebbe qualcosa alla festa se mancasse anche uno solo di questi volti! Enzo Bianchi

DIO È NEI CIELI? – CHRISTIAN CANNUYER

http://disf.org/dio-nei-cieli

DIO È NEI CIELI?

CHRISTIAN CANNUYER

GENNAIO 2002

Partendo dall’affermazione della più nota preghiera cristiana, “Padre nostro che sei nei cieli…”, l’Autore, docente alla Facoltà di teologia dell’Università di Lille e Presidente della Società Belga di Studi orientali, esamina il significato biblico dell’espressione “cielo”, in quanto sede di Dio. Quali rapporti vi sono fra Dio e il cielo, e di quale cielo sta parlando il testo sacro? Per rispondere a queste domande si espone un sintetico quadro delle varie accezioni di questo termine nella Scrittura e dei suoi significati.
Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?
Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.
Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.

All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?
Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso. Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?

Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa
Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (űze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.

Dei del cielo nel mondo biblico
Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo». Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».
Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).
Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.
Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).

Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento
La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).
Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».

Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo
L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).

Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio
Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.
Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.

Oggi, il disincanto verso il cielo?
In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.
Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, biblica, Teologia |on 18 juin, 2015 |Pas de commentaires »

ERNST SCHLEIERMACHER – STORIA DELLA RESURREZIONE DI CRISTO FINO ALL’ASCENSIONE

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126153

FRIEDRICH DANIEL ERNST SCHLEIERMACHER,

STORIA DELLA RESURREZIONE DI CRISTO FINO ALL’ASCENSIONE

Cristo appare alle donne e dice loro che devono invitare i discepoli in Galilea, dove essi avrebbero potuto vederlo; poi viene inserito il racconto delle guardie e il tutto si conclude con un: se ne andarono tutti in Galilea. Che gli apostoli abbiano visto molte volte Cristo in Gerusalemme.

Cominciamo questa seconda parte del terzo periodo della vita di Gesù con una osservazione generale. È noto che contro questi racconti della resurrezione e dell’ascensione di Cristo sono state fatte grandi critiche e che gli oppositori del cristianesimo si sono dati da fare molto in questo ambito, soprattutto per indicare le incoerenze nei racconti della sua resurrezione.
Queste incoerenze non sono certamente da negare, ma esse sono una realtà che compare ampiamente anche nelle prime parti della vita di Cristo, tanto che è soltanto una unilateralità e una premeditazione del tutto inconseguente il fatto che gli avversari pongano la storia evangelica in modo che il passato avrebbe la sua coerenza, ma poi sarebbe incominciata la falsità.
Quelle incoerenze si trovano pure nelle restanti parti della vita di Cristo, ad esempio nel racconto della singolare permanenza di Cristo in Gerusalemme secondo i tre Evangeli, e anche in altri racconti più lunghi. Queste contraddizioni derivano tutte da un unico elemento. Indubbiamente l’interpretazione è poggiata su un fondamento: si potrebbe addirittura pensare e spiegare anche per altri racconti che ciò può pure avvenire, perché se il racconto viene fatto da uno, costui non racconta tutto in maniera così completa da non dover poi ampliare qualcosa; se sono due a raccontare, questo ampliamento potrebbe moltiplicarsi, anche se qui non si sarebbe dovuti arrivare a questo, perché questi racconti sarebbero, ad ogni buon conto, racconti ispirati.
Già a partire da questo presupposto si potrebbe dire: per quel che riguarda i racconti evangelici non si può urgere al massimo ciò che si può addurre per altri. Ma se si dovesse attuare ciò in modo globale, allora si arriverebbe di conseguenza ad affermare che non ci sono racconti ispirati, ma racconti per i quali, così come sempre essi vengono enunciati, non può essere fatto un qualche uso letterale dell’ispirazione, perché sarebbe un controsenso. .
Perciò abbiamo qui da fare la stessa osservazione nei confronti del racconto della resurrezione e dobbiamo affrontare il problema nella medesima maniera. Va poi tenuta presente anche la solita differenza tra il Vangelo di Giovanni e gli altri tre Evangeli e qui non posso fare altra osservazione che questa: che il Vangelo di Giovanni è la relazione di un testimone oculare, scritta di getto. I primi tre Evangeli sono una raccolta di parecchi racconti sorti singolarmente. Se si confrontano i singoli momenti, nei diversi Vangeli, si trovano chiaramente differenze che sono vere enantiofonie e quindi vere contraddizioni, che non si possono risolvere in modo reale, ma solo in modo ipotetico.
Ma queste emergono soprattutto lì dove si raccontano da parte di testimoni oculari particolarità che vengono riprese poi da altri, lì dove uno riempie la penuria del racconto con congetture proprie o di altri, così che si può certo estrapolare il fatto dal racconto, ma insieme si possono trovare le loro incongruenze a partire dalle loro fonti, attraverso congetture e ricerche critiche. Ciò si ripete in tutti i casi simili. E ciò non avviene in alcun modo soltanto per qualche singola data, ma anche per le idee generali che stanno sullo sfondo, per cui appare giusto che ce le poniamo davanti e che si chiarifichino. .
Matteo inserisce questa parte in un unico capitolo, di cui di nuovo il racconto dell’inizio comprende la metà dell’intero. Il filo conduttore sta in questo: Cristo appare alle donne e dice loro che devono invitare i discepoli in Galilea, dove essi avrebbero potuto vederlo; poi viene inserito il racconto delle guardie e il tutto si conclude con un: se ne andarono tutti in Galilea. Che gli apostoli abbiano visto molte volte Cristo in Gerusalemme, l’evangelista non lo riferisce, così come viene trascurato anche ciò che ci raccontano Luca e Giovanni, cosicché dobbiamo dire di nuovo: non è possibile che questa redazione provenga da uno dei dodici apostoli, se non c’è in essa la volontà di sconfessare apertamente le altre falsità; allora vuol dire che necessariamente dobbiamo ricondurre questo racconto ad un’altra fonte diversa da quella apostolica. Se si vuoi capire, fin dal primo momento, come è annunciata la resurrezione, come Cristo compare alle donne, la tendenza del racconto è unilaterale e mira, da una parte, a far capire l’incredulità dei giudei e il fatto di trattare tutto come una favola da parte dei sommi sacerdoti e, dall’altra, a far capire il fatto dell’annuncio degli apostoli secondo il comando che Cristo aveva loro dato.
Storicamente la cosa non si può affrontare, poiché non si racconta affatto dove il Cristo sia andato.

(L’autore) I filosofi e Cristo – autore: Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher

DIO TRINITÀ, LA NOSTRA DIMORA: L’ESPERIENZA DI DIO IN CHIARA LUBICH – DI KLAUS HEMMERLE

http://www.indaco-torino.net/gens/12_07_03.htm

DIO TRINITÀ, LA NOSTRA DIMORA: L’ESPERIENZA DI DIO IN CHIARA LUBICH

RACCONTAMI DEL TUO DIO

DI KLAUS HEMMERLE

Riproponiamo qui l’ultimo contributo del vescovo Hemmerle che tre redattori della rivista “Das Prisma” hanno raccolto il 16 gennaio 1994, a pochi giorni dalla sua morte, dalla viva voce del vescovo di Aquisgrana. Nel trascrivere la registrazione sono state apportate solo lievi modifiche di stile. Avevamo pubblicato questa testimonianza sul n. 1/1995 della nostra rivista interamente dedicato a lui.

Tutto il valore e la novità del Movimento dei focolari consiste, a mio avviso, in una sua specifica esperienza di Dio. Essa è legata alla persona di Chiara Lubich ed è, tuttavia, fin dall’inizio, un’esperienza collettiva. Invece di iniziare assumendo il ruolo d’osservatore o riferendomi agli scritti di lei, preferisco partire dal mio incontro personale con il Movimento da lei fondato.
Nell’estate del ’58 – ero sacerdote da sei anni – partii da Friburgo per recarmi alla Mariapoli di Fiera di Primiero, nei pressi di Trento, per conoscere il Movimento dei focolari. Era il mio primo incontro. Nella Mariapoli tutti cercavano in modo diretto e nuovo di porre il messaggio biblico dell’amore a fondamento di un cristianesimo vissuto alla lettera. Anch’io volsi la mia attenzione a questo punto centrale. Tuttavia, pur non prevedendolo, si schiuse davanti a me, contemporaneamente, un’altra dimensione: la vicinanza e la presenza di Dio in una misura che mai avevo sperimentato prima, nonostante i miei intensi studi teologici.
In quell’anno si era tenuta a Bruxelles l’Expo, l’esposizione mondiale. I focolarini dicevano nel loro modo semplice e schietto: «A Bruxelles hanno dimenticato una cosa: Dio non è stato esposto. Lo vogliamo fare noi, esponendolo nella Mariapoli che perciò si chiamerà l’Expo di Dio, l’esposizione di Dio». Per far questo non hanno avuto bisogno di piani a lungo termine o di mezzi sofisticati. Semplicemente si sono proposti di render visibile Dio con la loro vita. E questo non si poteva certo programmare. Ma siccome da anni essi avevano sperimentato la presenza di Dio nel loro «essere insieme», potevano rischiare di invitare tanti altri a fare questa esperienza. Devo dire che questo proposito divenne realtà, non solo per me, ma per molti altri. Per la prima volta lì ho veramente sperimentato Dio.

Il Regno di Dio è Dio stesso
Già durante i miei studi di teologia avevo ricevuto un primo impulso in questa direzione. Uno dei miei professori ci aveva spiegato ciò che Gesù intendeva realmente quando annunciava il Regno di Dio. In quell’occasione mi si chiarì una cosa: non è un regno che si può delimitare in uno spazio fisico, e non è neppure un sistema di verità e comandamenti, il Regno di Dio è Dio stesso. Dio non è più un orizzonte lontano o principio superiore: in Gesù egli è balzato in questo mondo. Per me fu chiaro che Dio voleva diventare il centro anche della mia vita, affinché anch’io potessi guardare a tutte le cose ed agire partendo sempre da lui. Questo pensiero non mi ha più lasciato. Ma cosa fare? Non potevo trovare spazio per questo, nella mia vita quotidiana. Mi mancava il ponte tra ciò a cui profondamente anelavo e ciò che praticamente mi teneva occupato.
In Mariapoli questo vuoto si colmò di colpo. Dio era semplicemente lì. Penetrava i nostri rapporti reciproci. E venni così irresistibilmente trascinato in questa nuova vita. Mi ricordo di non aver potuto dormire per una notte al pensiero della vicinanza immediata di Dio. Pensai che forse nemmeno i discepoli di Gesù, nella convivenza con lui, potevano aver sperimentato più intensamente la vicinanza di Dio.

Nell’origine c’è già tutto
Questa nuova esperienza di Dio in Mariapoli è tipica del Movimento dei focolari. Essa è fin dall’inizio un’esperienza comunitaria. Anche se Chiara ne fece da sola l’esperienza originaria, ella sentì di doverla comunicare subito alle sue prime compagne: Dio ti ama, Dio è tutto, Dio solo importa! Leggendo il Vangelo alla luce di questa esperienza, si sono così fissati nel 1943/44, nel giro di pochi mesi, i cardini fondamentali della spiritualità del Movimento.
Già nella Mariapoli del ’58 iniziai a capire: non potrò avere accesso a questa spiritualità, se non mi faccio raccontare le sue origini, la sua storia, per poter entrare così nella vita di questa comunità. In essa si schiuse, anche davanti a me, l’esperienza di Dio di Chiara.
Si può avere l’impressione che finora io, invece di trattare il tema che mi è stato richiesto, abbia parlato solo di me stesso. Ma ciò inganna, perché tutto ciò che ho raccontato di me rispecchia l’esperienza di Dio fatta da Chiara. Essa non è tuttavia invenzione di una persona, ma un’esperienza fondamentalmente comunitaria, donata direttamente da Dio. Essa, ancorata in Chiara, si è estesa poi in cerchi concentrici fino ad arrivare, come oggi sappiamo, a tutti i Paesi della terra.

Una nuova esperienza di Dio
A Fiera di Primiero, nella mia prima Mariapoli, ben presto ebbi una fortissima impressione: come se tutto mi dicesse, in quella grande vallata, in quello splendido paesaggio, sotto quel cielo aperto, che Dio è Amore. Non era solo mia questa impressione. Tutti parlavano dell’amore, ed era affascinante parlarne, non era per niente sentimentalismo. In questo entusiasmo non si perdeva di vista però la concretezza della vita. L’amore non era solo un comando, anzi era in primo luogo un dono: Dio è Amore, Dio ti ama immensamente. In questo dono, Dio stesso era completamente diverso da come io l’avevo concepito prima.
Fin allora avevo pensato Dio come il vertice della creazione, punto di fuga di tutte le linee, come quel concetto non concepibile in quanto tale, perché di fronte a questo mistero, noi ammutoliamo. Lì, a Fiera, questo mistero restava, eppure era anche più di questo. Dio, che è Padre, era realtà empirica. Probabilmente, fino a quel momento, non avevo ancora pregato, in vita mia, il «Padre Nostro» a quel modo, ancora non avevo compreso il significato di quel nome «Abbà, Padre». D’un tratto il mondo mi si rivelò come il luogo immenso, eppur conosciuto e sicuro, nel quale Dio ci è Padre e dove noi possiamo affidarci a lui, mettere tutto nelle Sue mani, seguirlo incondizionatamente.
Era questa per me un’altissima sfida, ma ancor più un’affascinante scoperta.
Dio Padre era come il cosmo immenso; anzi non il cosmo, ma – come diceva Chiara – colui che lo contiene e dal quale parte e riecheggia continuamente la parola «Amore», che si concentra all’infinito nell’unico nome: Gesù. Questa fu la mia seconda scoperta.

In Gesù Cristo Dio manifesta se stesso
Mi ricordo che in Mariapoli non si parlava solo dell’amore evangelico, ma con la stessa naturalezza anche di Gesù, tanto che qualche nuovo arrivato poteva sentirsene infastidito: «Gesù, Gesù… non ne posso più di sentirlo nominare. Il prossimo è Gesù, il Papa è Gesù, il delinquente è Gesù e non so ancora quanti altri. Lasciate Gesù essere Gesù, e lasciateci vivere senza questi concetti religiosi così sopraelevati».
Per quanto comprensibile potesse sembrare questa osservazione, dovetti, ad un’attenta analisi, metterla subito da parte. Gesù di Nazareth è veramente venuto per farsi uno con tutta la realtà di questo mondo: con il bambino, con il delinquente, con il filosofo. Per questo parla con fragili parole umane; ma in esse, e ancor più nella sua Persona, Dio manifesta se stesso. Egli condivide la nostra vita, le nostre sofferenze, egli stesso vive e soffre in ogni essere umano a tal punto che tutto il nostro agire e perdere può divenire occasione per incontrarlo, per vivere con lui. Così questo sconfinato orizzonte del Dio ineffabile, che è Amore, è contemporaneamente, in Gesù, un cammino di vita e un punto centrale dal quale si schiude, davanti a noi, la rivelazione.

In Gesù si rivela il Padre
Il Padre si rivela in Gesù che si è fatto uno con tutto e con tutti. Scoprii Gesù come colui che dice in ogni istante e da ogni punto della terra il suo: «Abbà, Padre», e come colui che è sempre e dovunque il volto del Padre a me rivolto. Questo era il mio primo incontro con Gesù che mi svelava chi è realmente: non il grande iniziatore di una religione nel lontano passato, non una delle tante manifestazioni di un’Idea eterna; egli è questo unico Gesù di Nazareth, che ha predicato in Galilea, è morto sul Calvario e che oggi, Risorto, vuole incontrarci direttamente, così come incontrò i primi testimoni della sua risurrezione.
La terza cosa che sperimentai a Fiera, era l’atmosfera della Mariapoli. Se mi si chiede in cosa consista la novità del Movimento dei focolari e della sua spiritualità, non rispondo partendo – e questo può sembrare un paradosso – dai contenuti, bensì dal tentare di definire l’atmosfera che si sperimenta venendone a contatto. È un aspetto importante. Già fin d’allora essa non consisteva nel sorridere un pochino di più o nell’essere gentili gli uni con gli altri. No, essendo amati e donando amore, si veniva presi dentro in questo nuovo stile di vita. Mi ricordavo, come ho già detto, dell’annuncio che Gesù ha portato nel mondo: il Regno di Dio. Capii chiaramente: il mondo non può più andare avanti così. O il Regno di Dio rinnova ogni cosa o il mondo crolla. E il mondo si rinnoverà perché lo Spirito di Dio cambia dal di dentro tutti i rapporti e con essi ogni realtà. Ancor più: compresi che il Padre, l’Amore, e Gesù, il Figlio, si incontrano in uno Spirito che io vorrei definire come l’atmosfera dell’Unità divina. In essa Dio apre uno spazio nel quale anch’io posso entrare per sperimentare il Dio vivente. Io sono il figlio amato e baciato dal Padre; sono il figlio introdotto nel Padre. E il Padre stesso ha aperto il suo seno infinito, perché io possa vivere in lui. Così ho già fin d’ora, durante questa vita, la mia dimora nel Dio trinitario.
Fui stupefatto quando più tardi constatai che questa nuova immagine di Dio, la mia personale esperienza in Mariapoli e nel Movimento dei focolari, corrispondeva esattamente a ciò che Chiara ha svelato, in modo sobrio e comprensibile, in molti scritti e discorsi.

La vita cambia
Che cosa ha provocato questa esperienza di Dio in me? Cos’è cambiato nella mia vita? Ebbene, ho imparato un altro modo di dire io. Penso che dal modo in cui dico io, si vede che cosa, in realtà, dà l’impronta alla mia vita intera: lo dico in modo incerto? cosciente del mio proprio valore? in modo egocentrico?
Chiara aveva sperimentato qualcosa che le faceva dire: «Dio mi ama immensamente». In questa frase si parla anche dell’io, però la frase non comincia con l’io. Non dice neanche: «Io sono quella che è amata da Dio», ma: «Dio mi ama immensamente». Ho capito: è come una corrente che mi travolge e solamente in essa l’io mi perviene. Dall’inizio io sono colui che con gratitudine riceve, sono colui che ascolta la chiamata che ha ricevuto. Dio mi ama immensamente. È così anche per i bambini. La loro prima parola non è io, ma mamma e papà. Solo più tardi, attraverso l’amore dei genitori, imparano a dire io.

Sono chiamato: eccomi!
Mi si è chiarito subito che quell’amore personale di Dio impegna anche il mio io. Sono chiamato, ho responsabilità. Tutto di-pende anche da me. Sono chiamato a fare la volontà di Dio. Dio mi ama immensamente: io sono pronto, io ci sono, io dico di sì. Dire di sì a questa chiamata, quell’eccomi, è stato il passo decisivo e del tutto personale di Chiara, ma è divenuto immediatamente un inevitabile invito per tanti a fare lo stesso passo. Così al «Dio mi ama», si aggiunge in risposta: «Io sono pronto, eccomi!».
Se voglio fare la sua volontà, non occorrono grandi elucubrazioni per arrivare al terzo passo: il mio prossimo. Questi mi viene incontro con la stessa forza esigente di Dio che mi chiama. Perciò è impossibile vivere come se il prossimo non ci fosse. È stato creato da Dio, in lui Dio stesso mi viene incontro. Così all’improvviso scopro nell’altro dei tratti miei – lui è come sono io – ed addirittura dei tratti di Dio, i tratti di Gesù. Visto da questa angolazione il comandamento fondamentale «ama il tuo prossimo come te stesso» è più di una istanza morale. È una conseguenza immediata del guardare l’altro: «Dio ama anche te immensamente». Allora non si tratta di un semplice: faccio a te come tu fai a me. È un passo decisivo in avanti: «Tu sei come Gesù, tu sei Gesù, perché lui ti ha accolto». Per tante persone, fin dai primi tempi del Movimento, sono stati decisiviproprio questi incontri e queste esperienze che facevano dire: «Ho scoperto Gesù nel fratello e nella sorella. Io vivo per te, affinché tu possa vivere. Tu sei Gesù».
C’è un altro passo ancora. Insieme siamo in questo spazio aperto che Dio ci dona come nostra casa. Se viviamo così, amandoci reciprocamente come lui ci ha amato, se questa reciprocità nasce da quest’amore, se ci perdoniamo l’un l’altro, se sappiamo di dover essere uniti fra di noi, allora scopriamo di essere accolti in questo spazio divino dell’unità e di essere avvolti da lui. Percorrendo questa strada arrivo di nuovo lì dove sono giunto con le mie riflessioni sulla Mariapoli del 1958: si tratta di un’unica dimora nella quale viviamo insieme e che ha come centro il Risorto stesso. È la volontà dichiarata, il testamento esplicito di Gesù che «tutti siano uno… affinché il mondo creda» (Gv 17, 21). Ed è la sua promessa: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20).

Il crocifisso come l’icona di Dio
Dopo quello che ho detto finora, si potrebbe sollevare un’obiezione: in questa esperienza di Dio va tutto liscio, senza crisi e senza problemi? Senza nulla togliere al fascino di questa scoperta, devo parlare di una realtà che in un certo qual modo è per Chiara l’altra faccia dell’amore senza fondo e senza limite di Dio: Gesù che nell’abbandono del Padre muore in croce. Qui si trova la chiave che porta al centro della sua spiritualità. Anzi, bisogna dire che la storia del Movimento dei focolari non è nient’altro che la storia di una sempre rinnovata scoperta e di una penetrazione sempre più profonda di questo mistero, che si concentra nel concetto di «Gesù abbandonato».
Già nelle prime settimane della nuova vita, Gesù abbandonato si rivelò a Chiara e alle sue prime compagne come mistero inspiegabile da cui tutto dipende. La comune certezza che «Dio mi ama immensamente» le spingeva alla domanda: dove si è rivelato quest’amore nel modo più radicale? Quasi per caso hanno ottenuto la risposta. Un sacerdote che portava la comunione ad una focolarina ammalata chiese loro: «In quale momento Gesù ha sofferto di più?». Risposero: «Forse sul monte degli ulivi, quando nonostante l’angoscia che l’opprimeva disse il suo sì al Padre». Il sacerdote però le corresse: «No, fu quando sperimentò l’abbandono dal Padre e gridò: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15, 34)». Ed esse subito capirono: questo è stato il momento in cui Gesù ci ha amato di più.

L’unità che contiene la vita trinitaria
Come teologo uno potrebbe chiedere: «È veramente questo il culmine della passione di Cristo?». Ho riflettuto spesso su questa domanda con il risultato di rispondervi con un sì appassionato. Voglio solo accennare al perché. È questa la novità per eccellenza dell’esperienza di Dio di Chiara: in Gesù, Dio è sceso fin dove Dio non c’è più; in Gesù, Dio fa propria l’assenza di Dio fra gli uomini; il suo Amore va fino al punto che – per parlare con San Paolo – si fa peccato e maledizione per noi (Gal 3, 12; 2Cor 5, 21). È infatti impensabile una pazzia d’amore più grande di quella di condividere e sperimentare la lontananza di Dio per amore di coloro che gli sono lontani, fosse anche per colpa loro. Questo supera di gran lunga una teologia che tratta solo di verità e di comandi anche se non voglio togliere niente ad essa. Qui però c’è qualcosa di diverso: c’è una nuova comprensione del Mistero di Dio. Di conseguenza, dopo questa scoperta, per Chiara e per coloro che l’hanno seguita, non c’è stato niente di più importante della continua ricerca di questo volto pieno di dolore.
Ogni dolore in noi e fuori di noi, ogni buio di Dio in noi e fuori di noi, ogni incomprensione di Dio, ogni sentirsi estraneo nei confronti di questo Dio, è perciò un incontro con colui che nel suo abbandono ci ha accolti completamente. Se aderiamo a questo con tutta la nostra vita, allora facciamo l’esperienza di Dio più alta ed abissale. Non può essere superata. Questa non è una riflessione. Questo lo sperimento soltanto se mi lascio trascinare continuamente in questa realtà. Così scopro il «Deus semper maior», il Dio che è sempre più grande. Soltanto se sperimento e riconosco Gesù nel suo abbandono da parte del Padre, anch’io posso abbandonarmi radicalmente a questo Dio e condividere il suo affetto per l’umanità e per il mondo. Se ripeto, in questo abisso di abbandono da parte di Dio, l’Abbà, Padre, allora sono giunto alla realtà ultima. Se mi metto in questa assenza di Dio, se la sopporto senza nessuna protezione e, malgrado ciò, mi abbandono completamente a Dio, allora il Regno di Dio c’è. Saremo quelli che, sperimentando l’abissale silenzio di Dio e degli esseri umani, ne sperimentano contemporaneamente la beatitudine; quelli che con Gesù possono dire ad ogni persona: «Sto dalla tua parte e porto il tuo peso».
Questa scoperta di Chiara la vedo come un dono non solo per tutti coloro che vogliono vivere da cristiani, ma anche per la teologia. L’unità di tutti i cristiani, come viene espressa nei discorsi d’addio giovannei, e che in certo qual modo è il riassunto di tutto ciò che Dio vuole da noi, non ha mai raggiunto – per quanto io ne sappia – una radicalità e una profondità come in Chiara. Quest’unità contiene in sé la vita della Trinità, ma anche l’abbandono di Dio sofferto da Gesù. Con ciò si è spalancato un orizzonte che non conoscevamo neanche nella teologia, sebbene ci siano stati anche prima teologi che hanno riflettuto su l’uno o sull’altro aspetto.
È questa la cosa interessante: Chiara ci ha presi in una scuola di vita; questa scuola di vita però è nello stesso tempo anche una scuola per la teologia. Il risultato non è tanto un miglioramento della teologia, quanto teologia vissuta che viene dall’origine della rivelazione.

Klaus Hemmerle

Publié dans:A. VESCOVI- CLERO, Teologia |on 20 mai, 2015 |Pas de commentaires »

CREDERE DA SOLI O CREDERE INSIEME?

http://www.usminazionale.it/2013_02/castellucci.htm

CREDERE DA SOLI O CREDERE INSIEME?

Prospettiva ecclesiologica

ERIO CASTELLUCCI

«La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: «‘Io credo’ è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. ‘Noi crediamo’ è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. ‘Io credo’: è anche la Chiesa nostra Madre che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’» (n. 167)».1
Se c’è una religione nella quale credere da soli e credere insieme vanno di pari passo e non si possono contrapporre, questa è certamente il cristianesimo; esistono infatti diversi motivi fondanti la correlazione tra dimensione personale e comunitaria della fede. Ne ricordo tre, che sono alla base dell’ecclesiologia.

L’impronta della Trinità della “persona”
Con la nozione di “persona”, radicata nei racconti biblici della creazione, il cristianesimo ha intrecciato nella concezione dell’“essere umano” due idee diverse: l’idea di “individuo” e quella di “relazione”. La persona è l’essere umano dotato individualmente delle caratteristiche proprie della specie umana, almeno in senso potenziale, ossia l’intelletto e la libera volontà; ma è nello stesso tempo l’essere umano in relazione, poiché nella concezione biblica l’uomo non è fatto per restare solo, ma per costituire una coppia («maschio e femmina li creò»: Gen 1,27) e per dare vita ad una società («siate fecondi e moltiplicatevi »: Gen 1,22). Gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio (cf Gen 1,26-27) che non è un essere solitario, ma comunione di Persone: per questo sono intimamente spinti alla relazione, ad uscire da loro stessi e a raccogliersi in “comunione”. Se Dio fosse una persona sola, allora anche gli uomini, fatti a sua immagine, si realizzerebbero restando chiusi in se stessi; ma se Dio è Trinità di persone, allora gli uomini si realizzano in proporzione all’autenticità delle loro relazioni.
La nozione di “persona” comprende quindi due dimensioni inscindibili, che rischiano però di procedere spesso parallele o addirittura in contrasto: quella individuale e quella sociale. Come scrive un economista contemporaneo: «È proprio grazie alla nozione di persona che la cultura europea è riuscita a realizzare l’incontro tra individuo e società, categorie, queste, che di per sé sono conflittuali ».2
Per il cristianesimo quindi l’uomo è un individuo sociale, proteso fuori di se stesso: verso Dio, in una relazione religiosa che lo rende “inquieto” fino a quando non riposa in lui;3 verso i propri simili, stringendo legami che vanno dalla sessualità alla politica, passando attraverso le relazioni di famiglia, amicizia, collaborazione; verso la natura, della quale egli stesso è intessuto e per mezzo della quale egli vive, lavora, cresce; anche la relazione dell’uomo con se stesso è spinta ad uscire da sé, poiché l’uomo è l’unica creatura che possa porsi di fronte a se stesso come un soggetto di fronte a un oggetto: è il dono dell’autocoscienza.
In queste quattro relazioni creaturali dell’essere umano – religiosa,sociale, cosmica ed esistenziale- si può vedere un “germe ecclesiale”:Dio ha voluto l’uomo non come un’isola, ma come un essere teso alla relazione, portato a stringere rapporti e ad aprirsi agli altri e a lui stesso. “Adamo” ed “Eva” sono individui, ma essenzialmente aperti alla comunione con Dio e con i loro simili, alla relazione con la natura e con loro stessi. In fondo è questa la prima forma di alleanza di Dio con l’uomo: alleanza sigillata nell’atto stesso di creare l’uomo come essere in cerca di relazione, capace di comunione.4 Quella concentrata in Adamo è ancora un’ecclesiologia nascosta ed implicita: quasi un seme deposto, che avrebbe fruttificato solo gradualmente passando attraverso le successive fasi della storia salvifica.

La chiamata dei dodici
Per quale motivo Gesù non si dedica da solo alla predicazione del Regno di Dio, ma vuole dall’inizio circondarsi di dodici collaboratori? La ragione è evidente: Gesù dà corpo allo stile del Dio dei Patriarchi, che è suo Padre, al quale «piacque chiamare gli uomini a questa partecipazione della sua stessa vita non tanto in modo individuale e quasi senza alcun legame gli uni con gli altri, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero nell’unità».5 Gesù intende a sua volta radunare il popolo eletto, le “dodici tribù” d’Israele, volendo portare a compimento il progetto avviato nell’Antico Testamento, ma interrotto a causa dell’infedeltà verso Dio, che comportò la rottura dell’unità nazionale subito dopo il regno di Salomone. Gesù, raccogliendo i Dodici, esprime la volontà messianica di instaurare l’Israele degli ultimi tempi, che doveva inaugurare il Regno di Dio.6
Gesù, del resto, non poteva non avvalersi di una “comunità” per la predicazione del Regno, se è vero che stabilì il perno della sua predicazione nella legge dell’amore (cf Mt 22,34-40 par.). Se il Regno annunciato da Gesù vive della logica dell’amore, è chiaro che progredirà attraverso relazioni interpersonali, ossia attraverso una forma comunitaria. La crescita del Regno nel puro ambito della coscienza individuale non avrebbe creato quei rapporti interpersonali che la legge della carità esige: se ciò che viene accolto nella coscienza deve rispondere alle esigenze della carità, necessita di traduzioni in gesti e parole, incontri e relazioni. Trova qui la sua basilare ragion d’essere la Chiesa, che «esiste per la comunicazione dell’annuncio del Regno con la parola e per porsi nella storia come un segno vivente del Regno, attraverso la sua vita comunitaria dominata dal Signore Gesù ed attraverso il servizio di carità che in nome del Regno essa rende al mondo».7 I Dodici rimangono “individui” – e infatti Gesù li lascia liberi di aderire o meno alla sua sequela – ma sono inseriti vitalmente in quella “comunità” che è la preformazione della Chiesa, inaugurata nel mistero pasquale.

Sacramenti, Parola, Carità: segni costitutivi della Chiesa
La Pasqua di Gesù, mistero di morte, risurrezione e dono dello Spirito, si trasmette alla Chiesa non nella forma di semplice “ricordo” di un avvenimento passato, ma nella forma di “memoriale”, ossia di un avvenimento che si rende continuamente presente attraverso dei segni. Sono la Parola, i Sacramenti e la Carità i tre grandi segni, consegnati da Gesù agli apostoli, attorno ai quali si intesse quella rete di relazioni che si chiama “Chiesa”. Gesù ha dato agli apostoli i compiti di annunciare e testimoniare a tutte le genti il Vangelo (cf Mt 28,19; Mc 16,15; At 1,8), celebrare la cena eucaristica (cf Mt 26,26-29 e par.; 1Cor 11,23-26), battezzare (cf Mt 28,19), perdonare i peccati (cf Mt 16,19; 18,18; Gv 20,22-23), insegnare i suoi comandamenti (cf Mt 28,20) che si riassumono nel servizio (cf Gv 13,14-15) e nella carità vicendevole (cf Gv 13,34-35).
L’annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità esigono un intreccio di relazioni; attorno a questi tre segni si crea quell’attività e quella vita che costituiscono la natura stessa della Chiesa. Essa esiste per ricevere e comunicare la “vita buona” del Vangelo, per accogliere e donare la grazia di Dio nei sacramenti e per instaurare nel mondo lo stile della carità. Ecco perché la “fede”, che comprende tutte queste dimensioni, è atto personale e comunitario assieme: personale, in quanto richiede il libero assenso dell’intelligenza e della volontà e non può essere un atto forzato, istintivo o irrazionale, altrimenti non sarebbe “umano”; comunitario, in quanto richiede il coinvolgimento di altri, crea dei “legami”: l’annuncio del Vangelo richiede almeno un predicatore e un ascoltatore, i sacramenti almeno un ministro e un beneficiario, la carità almeno due persone che si pongono in relazione tra di loro nello stile di Dio, che “è amore” (1Gv 4,8.16). Per questo Gesù ha detto: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e l’apostolo Giovanni ha potuto esprimere alla prima persona plurale, in modo mirabile, la dinamica ecclesiale della trasmissione della fede: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3).

1 BENEDETTO XVI, Lettera apostolica Porta fidei, 11 ottobre 2011, n. 10.
2 S. ZAMAGNI, «A proposito delle radici dell’identità europea. Una prospettiva economica di sguardo», in A. OLMI (ed.), L’eredità dell’Occidente. Cristianesimo, Europa, Nuovi mondi, Nerbini, Loreto 2010, 99.
3 Cf S. AGOSTINO, Confessioni, I,1,1.
4 CF G. BARBAGLIO-G. COLOMBO, «Creazione», in G. BARBAGLIO e S. DIANICH (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Roma 1977, 188-189.
5 CONCILIO VATICANO II, Ad Gentes, n. 2.
6 Cf J. HOFFMANN, «La Chiesa e la sua origine», in M. FALCHETTI (ed.), Iniziazione alla pratica della teologia, III, Dogmatica II, Queriniana, Brescia 1986, 55-146.
7 S. DIANICH, La Chiesa mistero di comunione, Marietti, Torino 1987, 30.

LA TEOLOGIA, SCUOLA DI UMILTÀ CONTRO IL NICHILISMO (Bruno Forte, Benedetto XVI)

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LA TEOLOGIA, SCUOLA DI UMILTÀ CONTRO IL NICHILISMO

Mons. Forte analizza gli ultimi interventi di Benedetto XVI in materia di teologia

Domanda. Lo scorso anno, nell’omelia per la messa celebrata alla presenza dei membri della Commissione Teologica Internazionale, il Papa ha spiegato che il vero teologo non è colui che cerca di misurare il mistero di Dio con la propria intelligenza ma colui che è cosciente della propria limitatezza. In quell’occasione il Papa ha indicato nell’umiltà la via per giungere alla verità, mettendo in guardia contro i teologi saccenti che si comportano come gli antichi scribi. Crede che il Papa faccia riferimento a una tendenza visibile ai nostri giorni?
Risposta. Io credo che questo sia un punto fondamentale che distingue la teologia cristiana da ogni forma di gnosi. La differenza fondamentale è che nella teologia tutto nasce dall’ascolto, quindi dall’auditus Verbi, mentre nella gnosi tutto è autoproduzione intellettuale del soggetto. Questo è il vero motivo per cui l’unica autentica eresia cristiana è la gnosi: la presunzione di un’autoredenzione dell’uomo che non abbia bisogno dell’intervento dell’Altro e dall’Alto, cioè dell’intervento di Dio. Una teologia che si fondi, com’è nella sua natura, sulla Rivelazione, non può che essere innanzitutto ascolto e quindi è humilitas: un atteggiamento di profonda disponibilità e docilità di fronte all’azione di Dio, che entra nella storia in maniera sorprendente e al tempo stesso la conferma nella sua dignità, aprendola al novum adveniens della sua promessa.
E’ un tema che Ratzinger da teologo ha ripetutamente sottolineato e che gli deriva dalla sua frequentazione di Agostino, che è il genio dell’intellectus fidei vissuto nell’ascolto, nell’uso dell’intelligenza al servizio dell’ascolto della Parola di Dio e gli deriva anche da Bonaventura. Direi che è il filone agostiniano-francescano quello che predomina nella formazione teologica di Joseph Ratzinger, che nel suo magistero di Papa riemerge nel suo richiamo forte all’humilitas e all’auditus. Aggiungerei che questo tema risulta quanto mai importante oggi in una società che ha conosciuto l’ebrezza della ragione e dunque la tentazione gnostica nei vari volti della ideologia moderna e che oggi in questa inquietudine della post-modernità se non si apre all’ascolto e all’humilitas rischia la grande tentazione del nichilismo, cioè del non-senso. In altre parole: chi potrà salvarci? A questa domanda non si può che rispondere: l’Altro che viene a noi, cioè il Dio vivente e questo implica l’umiltà dell’accoglienza. La gnosi in questa società post-moderna, dove la ragione totalizzante ha conosciuto una crisi profonda e il bisogno del suo superamento critico, viene spiazzata nella sua stessa convinzione fondamentale, che è l’assolutezza del soggetto e della sua capacità di conoscenza o di produzione del vero.
Domanda. Nel settembre del 2007, nel visitare l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz il Papa ha denunciato una certa “teologia che non respira più nello spazio della fede”, ponendo l’accento invece sulla “teologia in ginocchio”, una bella espressione coniata da Hans Urs von Balthasar. Allo stesso modo nel presentare la figura di san Bernardo di Chiaravalle durante una Udienza generale, Benedetto XVI ha detto che senza fede e preghiera la ragione da sola non riesce a trovare Dio e la teologia diventa un “vano esercizio intellettuale”. E’ questo uno scenario presente nell’ambito della teologia attuale?
Risposta. Il primo elemento decisivo è che proprio perché nasce dall’ascolto della Parola di Dio, la teologia ha bisogno non solo di una radicale humilitas ma anche di una forma di accoglienza amorosa, perciò orante di essa. Von Balthasar ha insistito moltissimo su questo aspetto, sostenendo che la santità non è un superfluo rispetto all’esercizio del teologo, ma ne è una condizione fondamentale. Non è un caso che grandissimi teologi, specie i Padri della Chiesa, sono stati anche dei santi. Dunque il bisogno di mettersi in ginocchio davanti al mistero e di ascoltare, di vivere l’auditus non solo con l’umiltà ma con l’amoroso e perseverante accoglienza della fede orante, è connaturale all’identità della teologia cristiana. E anche in questo nel pensiero di Joseph Ratzinger c’è non solo la continuità con il filone agostiniano e bonaventuriano, ma c’è anche un’altra intuizione molto importante, peraltro ripresa nel Vaticano II, e cioè che c’è un rapporto tra il vissuto cristiano, il pensato cristiano e la liturgia.
La liturgia in quanto culmen et fons, come dice il Vaticano II, è ciò da cui tutto parte e a cui tutto tende dell’esistenza cristiana, sia nel suo vissuto che nella sua dimensione riflessa. Ecco perché una teologia senza anima liturgica, cioè senza capacità di lodare e invocare Dio, è un vano esercizio intellettuale. E’ un’altra forma di quella gnosi che rischia di inquinare la capacità dell’uomo di aprirsi a Dio. Nella grande visione teologica cristiano-cattolica l’uomo è stato fatto capax Dei: ebbene questa capacità è condizionata da una parte dall’humilitas e dall’altra dalla capacità di invocare il dono di Dio e di lasciarsene pervadere in un atteggiamento dossologico e liturgico, e cioè di glorificazione di Dio, che è non di meno disponibilità a lasciarsi plasmare dalla Sua azione nella nostra vita. Quando tutto questo è portato alla parola nasce propriamente la teologia.
E qui c’è anche un’altra considerazione da fare sul rapporto tra teologia e spiritualità. Noi abbiamo vissuto una crisi di questo rapporto nell’epoca della teologia moderna, cioè di quella teologia influenzata dalla contrapposizione illuministica tra Vernunftswahrheit e Geschichtswahrheit, verità di ragione e verità di fatto. Nella concezione illuministica solo la verità di ragione è verità, perché presenta un’assolutezza e universalità che invece le verità di fatto non hanno. Il cristianesimo, al contrario, si fonda su una verità di fatto, che è la rivelazione storica di Dio. Allora sembrava a una certa teologia di impianto illuministico-liberale che non potesse conciliarsi l’esercizio teologico puro con una forma di spiritualità, di vissuto spirituale, lasciato piuttosto alla devozione.
Questo fossato tra teologia e spiritualità ha prodotto grandi danni nell’epoca della teologia moderna: lo si è visto soprattutto nella teologia liberale e in alcune forme del modernismo cattolico, ma continua a produrre danni laddove, per esempio, negli anni ’60 e ’70 alcune forme della teologia cristiana si sono lasciate condizionare dall’ideologia moderna anche rivoluzionaria. Oggi noi sentiamo, invece, di ritornare allo statuto originale fondante del fare teologia che è quello di portare al pensiero l’esperienza del Mistero proclamato e quindi ascoltato e celebrato nella liturgia, vissuto e testimoniato nella fede e nella carità.
Quindi teologia non è solo docta fides, cioè una fides quaerens intellectum, ma anche docta caritas, cioè è il portare alla parola il vissuto dell’amore, il dono dell’amore di Dio che ci viene fatto nella liturgia e nella Grazia dei sacramenti, ma che deve essere poi testimoniato nel vissuto dei gesti dell’eloquenza silenziosa della carità. Teologia e spiritualità così ritrovano il nesso fondamentale che le costituisce reciprocamente come teologia e spiritualità cristiane. Una teologia senza spiritualità rischia di essere vuota, una spiritualità senza teologia rischia di essere cieca, parafrasando il noto detto di Kant su intuizione e concetti.
Domanda. L’adesione al “Processo di Bologna” da parte della Santa Sede ha portato a un riordino globale della formazione teologica in Italia, volto a ricalibrare gli standard curricolari esistenti alla luce di quelli richiesti. Secondo lei, il fatto di doversi conformare a delle precise caratteristiche di “scientificità” non porta l’insegnamento di questa disciplina a mettere da parte una concezione che presuppone la fede nella ricerca teologica?
Risposta. Questa è un’antica questione che ritorna sempre e di nuovo nella storia della teologia. Vorrei dare due risposte: una di carattere storico e una di carattere attuale, ma anche di sapore metodologico. La prima è quella che diede San Tommaso alla stessa questione che lei mi sta ponendo, quando apre la Summa teologica con un’audacia impensabile al tempo dei Padri della Chiesa. Tommaso si chiede: utrum praeter philosophicas disciplinas aliam doctrinam haberi? Cioè si chiede non se siano legittime le discipline filosofiche, ma se sia legittima la teologia, con un impianto assolutamente moderno che sembra rivendicare l’autonomia della ragione. La sua risposta è che la razionalità richiesta alle discipline scientifiche è soprattutto nello scire per causas, nel conoscere attraverso le connessioni tra premesse e deduzioni. Ora questo scire per causas può essere esercitato in due modi: partendo dai principi primi interni alla scienza, le cosiddette scienze subalternanti (egli parla ad esempio della matematica che ha dei suoi principi più intrinseci dai quali si parte e che sono indimostrabili – in questo Tommaso anticipa Goedel – e da cui si deducono delle conseguenze); dall’altra parte ci sono però ci sono però delle scienze subalternate che usano i principi offerti loro da altre scienze. A questo proposito, Tommaso fa come esempio intrigante quello della musica che dipende dalla matematica, proprio per le sue armonie e i suoi rapporti di proporzione. Analogamente – dice Tommaso – la teologia dipende dalla scientia Dei et beatorum cioè dalla Rivelazione. In altre parole, la fonte della conoscenza teologica è lumen fidei per il naturale, quanto però all’argomentare essa ha lo stesso statuto epistemologico di tutte le altre scienze e quindi ha piena dignità della universitas scientiarum.
Come risponderemmo oggi di fronte agli sviluppi della teologia, ma anche della epistemologia moderna? Io risponderei rifacendomi alla grande conquista del Novecento filosofico e teologico che è la riscoperta poderosa della ermeneutica, cioè della scienza dell’interpretazione. Quando molti anni fa da Decano della Facoltà Teologica a Napoli invitai a una quaestio quodlibetalis Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, autore di “Verità e metodo”, un giovane di primo anno gli pose questa domanda: “che cos’è l’ermeneutica?”. Al che Gadamer, senza scomporsi, dopo un attimo di riflessione, disse: “Ermeneutica significa che quando lei ed io parliamo ci sforziamo di raggiungere il mondo vitale che è dietro le parole dell’altro e da cui esse provengono”.
Allora, l’epistemologia illuminata dall’ermeneutica vuol dire non solo comprendere l’immediatamente percettibile, il visibile, il fenomenico, il razionale, ma comprendere anche o perlomeno cercare di raggiungere quei mondi vitali da cui queste espressioni provengono. In questo contesto si scopre che scienza non è solo quella dei fenomeni, ma che c’è un insieme di scienze, che sono le scienze dello spirito, le quali si sforzano di raggiungere un non detto, un non dicibile, un non totalmente tematizzabile, che però è il mondo vitale in cui si situano i processi umani, i processi storici e così via. E c’è un ulteriore livello che attinge a quell’esperienza del mistero della vita e del mondo che noi tutti facciamo e che non è riconducibile a una mera formula linguistica o razionale, cioè un eccesso del Mistero che circonda il mondo, che circonda la vita di ognuno di noi e che noi attingiamo continuamente nella sorpresa, nello stupore, che soltanto fino a un certo punto riusciamo a ricondurre alla parola.
Ora, una scienza che prenda sul serio lo stupore davanti a questo Mistero, la possibilità che esso si dica senza tradirsi, cioè la possibilità della Rivelazione, e che ne faccia materia del suo pensare, diventa una scienza assolutamente preziosa. In una simile dimensione ermeneutica, interpretativa della realtà, che non si ferma all’immediato ma cerca sempre di cogliere le ulteriorità, le connessioni profonde, la teologia mi sembra che si presenti con piena dignità come una scienza di cui l’uomo ha bisogno per vivere e per morire, come ha bisogno per vivere e per morire di Dio e del senso della vita.
Domanda. Nel 1986 intervenendo a Brescia a un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista “Communio” Ratzinger aveva affermato che nella coscienza diffusa della teologia cattolica l’autorità della Chiesa appare spesso come un’istanza estranea alla scienza, come qualcosa che limita se non mortifica la ricerca. Secondo lei, soprattutto dopo quanto avvenuto con la Teologia della Liberazione, è ancora così avvertita questa percezione?
Risposta. Il compito del Magistero nella Chiesa non è un compito regressivo, ma un compito quasi prospettico. In un famoso saggio del 1953 che fece storia nel dibattito teologico, Karl Rahner interrogandosi sul Concilio di Calcedonia e sulla sua definizione dogmatica, che resta vincolante per ogni cristiano qualunque sia la sua appartenenza confessionale, di Cristo come una persona divina nelle due nature umana e divina, si chiedeva “Chalkedon – Ende oder Anfang?” (Calcedonia è una fine o un inizio?). La sua risposta era molto chiara: il dogma non è una fine, non arresta il pensiero, non lo paralizza, ma pone quei paletti rispetto ai quali indietro non si torna, perché voler tornare indietro significherebbe cadere da una parte nelle forme dell’arianesimo, cioè una visione solo umana e mondana di Cristo, che così non sarebbe più mediatore dell’Alleanza e Salvatore, dall’altra in una forma di modalismo, cioè un Dio che appare tra gli uomini ma che non ha veramente assunto la nostra carne mortale, non s’è veramente compromesso con l’umano.
Diceva Karl Rahner, giustamente, che la definizione dogmatica di Calcedonia in questo senso è un baluardo contro il regresso, non contro il progresso. Ilario di Poitiers, a sua volta, intuiva una bellissima dimensione di questo esercizio del discernimento magisteriale della Chiesa. Egli diceva: il dogma viene definito per una esigenza di carità, per aiutare a non perdere la rotta, a non perdere la strada rispettosa, quella che Dio ci ha indicato. Anche qui la visione era chiaramente non difensiva o repressiva, ma prospettica.
E proprio il caso della Teologia della Liberazione che lei citava, mi sembra un esempio eloquente, perché gli interventi fondamentali in proposito da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede sono stati due: uno eminentemente critico, che ha messo in luce i limiti spesso connessi con la dipendenza ideologica di questa teologia; l’altro che ne ha messo in luce invece le acquisizioni, i contributi positivi soprattutto in vista di una teologia ispirata al primato della carità e del servizio. Io credo che in questa azione il magistero abbia compiuto esattamente ciò che diceva Ilario di Poitiers, e che molto più recentemente affermava Karl Rahner, cioè una azione non repressiva per spegnere la vita, ma di custodia e di promozione di quella vita autentica che soltanto la verità di Dio riesce a far sprigionare in noi. Riassumerei con la frase di Giovanni 8,32, che Giovanni Paolo II amava ripetere e che ripetè ancora a noi della Commissione Teologica Internazionale quando si lavorava sul documento “Memoria e riconciliazione” per accompagnare la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa: “La verità vi farà liberi”.
E allora, quanto più si serve la causa della verità, quanto più il magistero si pone al sevizio della testimonianza della verità, tanto più esso favorisce la libertà, l’autentica libertà che dà senso, pienezza, vita e salvezza al cuore dell’uomo.

( da Zenit, Intervista di Mirko Testa, 20 gennaio 2010)

Publié dans:Bruno Forte, Papa Benedetto XVI, Teologia |on 19 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI – H. U. v. Balthasar

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SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI – H. U. v. Balthasar

Di fronte ad una folla di almeno quindicimila persone prende la parola von Balthasar, una delle più grandi figure della teologia contemporanea, che di recente ha ricevuto il premio « Paolo VI » dalle mani di Papa Wojtyla. Quello che segue è il testo integrale della sua relazione.

H. U. v. Balthasar:

Miei cari ascoltatori, il tema che mi avete riservato – Se Cristo non fosse più scandalo e follia per uomini e popoli – ha un titolo alquanto teatrale, sebbene esprima perfettamente il vostro intento. Il mio sarà quello di reinserirlo nel suo contesto biblico, così da renderlo pienamente comprensibile Scandalo è una parola del Vangelo e proviene senza dubbio dal Cristo stesso. Significa esattamente: trabocchetto, trappola che si richiude sull’animale, ma anche pietra d’inciampo, ostacolo che può fare inciampare e cadere. Follia è una parola usata da San Paolo per mettere in evidenza che la saggezza di Dio, manifestata soprattutto nella Croce del Signore, oltrepassa e contraddice ogni saggezza puramente umana e a quest’ultima può apparire come insipienza, come follia. Per capire bene bisogna aggiungere immediatamente la frase paolina: « la follia di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Cor 1, 25).Prendiamo in esame, per prima, la parola scandalo che nel Nuovo Testamento appare 54 volte. Ci sono due tipi di scandalo: quello degli uomini che seducono i deboli, i piccoli, coloro che credono nell’esistenza del peccato e ai quali bisognerebbe attaccare una pietra al collo per farli sprofondare nel mare. La libertà umana è minacciata dalla sua stessa debolezza: sventurati coloro che ne abusano. Ma c’è un altro scandalo, quello del Cristo stesso, soprattutto del Cristo crocifisso, scandalo inevitabile per l’intera ragione umana, scandalo voluto e istituito, del resto, da Dio stesso, poiché sta scritto: « Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in essa non sarà confuso » (Rom 9,33). Se Dio istituisce lo scandalo in Sion, dà immediatamente anche il modo di evitarlo: chi crede in lui – è il Cristo quello di cui si parla – non sarà confuso. Ma chi è colui che crede non solo per un pezzo di cammino, come la folla, come la maggior parte degli apostoli, ma fino alla fine scandalosa, come quelle poche donne, come Maria e il discepolo prediletto? Unicamente colui che aderisce fino in fondo. San Pietro ripete: « Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare…e chi pone su essa la sua fede non sarà confuso » (1 P 2,6), e aggiunge: « Essi vi inciampano perché non credono alla Parola » (1 P 2,8), perché credono solo finché piace loro e sembra loro ragionevole e non finché la Parola dura, e cioè fino all’ignominia della Croce, in cui tutta la saggezza e la potenza umana sembrano confuse, in cui sembra contraddetta ogni parola del Cristo stesso, in cui sembra spenta ogni speranza in lui, il Messia. Sarà necessario molto tempo, anche dopo la Resurrezione, perché questi discepoli si convincano che la loro fede era insufficiente: « l’annuncio delle donne sembra loro « puro vaneggiamento » (Luc 24,11), Gesù deve rimproverare loro la loro incredulità (Me 16,14). Ed eccoci al secondo termine. La follia. Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale. Noi siamo quei saggi e quei capaci ai quali, secondo le parole di Gesù, Dio ha nascosto il suo mistero; mentre i piccoli non distinguono ciò che comprendono ancora da ciò che non comprendo no più, ma procedono senza esitazione e ingoiano, per così dire, il boccone tutto in una volta. Secondo le parole del Cristo, essi sono i soli cui rivela tutta la sua sapienza misteriosa. Nelle categorie dei saggi e capaci insieme, Paolo include sia i Giudei sia i Pagani. I Giudei chiedono dei segni per credere, crederanno solo a ciò che avranno visto, l’apostolo Tommaso sarà l’ultimo nel Vangelo a reclamare la visione. I Greci sono in cerca della saggezza, anch’essi limitano il loro assenso a ciò che sembra loro saggio, la loro capacità di comprendere le cose intellettuali sarà la peggior pietra d’inciampo. Hanno una filosofia sottile ma chiusa, con un’allacciatura in alto, senza apertura ad una cosa che li supera. Se costruiscono un altare ad un Dio ignoto, è ancora dedicato ad una di quelle numerose ampio, io divinità incluse nel loro ben noto Olimpo. Aldilà non c’è che un ‘destino’ che non interessa più la sapienza, perché lui stesso non ne ha Tutto ciò è forse molto più vicino alla nostra epoca che non a quella di Gesù, sebbene il problema sia sempre lo stesso. Ma siamo progrediti molto in saggezza puramente umana, sia ampliando immensamente il campo delle nostre conoscenze cosmiche, psicologiche e sociologiche, sia riducendo dei problemi un tempo filosofici, e in un certo senso apertamente discutibili, in risultati acquisiti delle cosiddette ‘scienze umane’, sia semplicemente vietando – e questo è il positivismo – di porre il problema della causa ultima (problema considerato insolubile) per limitarsi alle questioni risolvibili dei rapporti intramondani. Al limite, possiamo allargare il campo di tali conoscenze ad un al di là che E morte do spiritismo e l’occultismo lo fanno a delle forze psicologiche non ancora ben note. I Russi, a partire dal loro materialismo, si ostinano a scoprire nuove armi da guerra, ma qualsiasi divenire autentico della scienza umana è escluso da queste ricerche. Ecco a che punto siamo, tutti insieme, Paesi dell’Est e paesi occidentali. All’Est predomina il materialismo, in Occidente il positivismo. E non crediate che questa evoluzione si arresti davanti alle porte della Chiesa. Oggi più che mai la Chiesa è minacciata da una lacerazione che la scinde fino in fondo in due campi che, girando entrambi intorno allo scandalo e alla follia divina, sono nocivi in ugual misura. Quello che è chiamato ‘progressismo’ è un aperto rifiuto dello scandalo, si deve adattare la dottrina cristiana alla comprensione dell’uomo d’oggi. Certi esegeti delle due sponde dell’oceano vi si applicano eliminando come superate sia alcune parole di Cristo che alludono alla sua prossima resurrezione e morte, sia soprattutto, e qui si uniscono ad essi celebri teologi, il senso della Croce come sacrificio offerto al Padre ‘pro nobis’. Poiché Gesù non ha menzionato il senso salvifico della sua morte né per il popolo d’Israele, né per tutta l’umanità, questa interpretazione della Croce deve essere una pia invenzione della teologia tardiva (come si usa dire) di San Paolo e di San Giovanni. Piuttosto che un sacrificio vicario per il peccato del mondo, bisogna vedervi una testimonianza suprema dell’amore paterno che, essendo sempre infinito e incondizionato, non ha bisogno di essere riconciliato ed è del resto incapace di cambiamento. Non si tratta di un’ira divina che, per mezzo della Croce, dovrebbe cedere ad un amore ormai totale. Ma, noi rispondiamo, che strana follia di Dio, dimostrare la sua affezione per noi consegnando il suo Figlio eterno a quell’atroce supplizio, non per la remissione dei peccati, ma come prova del suo amore! Questo non è certo ciò che pensa il Nuovo Testamento e soprattutto la Lettera agli Ebrei. Lasciamo da parte tutte le teorie che vedono in Gesù solo una specie di profeta (lo si trova in molti libri ebraici contemporanei che reclamano Gesù per Israele), esse non vedono che il compimento dell’Antico Testamento è anche un rovesciamento (finita la Terra Santa! finito il popolo etnico: partite, andate nel mondo intero per annunciare la Buona Novella a tutti popoli! Da allora, come hanno sentito con immensa gioia i Padri de a Chiesa, il mondo intero è terra santa.). Lasciamo da parte anche tutte le chiese laterali e settarie che si riferiscono unicamente ad un Gesù storico, o ad una Bibbia letterale e che non vogliono accettare una presenza perpetua e attiva dello Spirito Santo di Gesù nella sua Chiesa santa, sacramentale e istituzionale, come la vuole Cristo che istituisce Pietro capo della sua Chiesa indefettibile e Maria Madre di tutta la comunità santa: il Cristo di costoro resterà astratto e inaccessibile oppure l’approccio con lui sarà pietistico, soggettivo e sdolcinato. Ma quest’ultima riflessione ci porta ad un nuovo aspetto dello scandalo e della follia divina: la Chiesa del Cristo partecipa intimamente a queste qualità, ma solo se professa una fede totale nella Croce salvifica del Signore. Una Chiesa liberale e progressista non ha bisogno di essere perseguitata, si fa fuori da sola. Ma aggiungiamo una parola sulla tendenza contraria: il tradizionalismo. Esso non nega espressamente lo scandalo del Cristo e quello della sua Chiesa, ma il centro del suo interesse è altrove: nell’affermazione che non si deve toccare il deposito tramandato che per esso si esprime innanzitutto nella ‘lettera’: la ‘lettera’ della messa di Pio V, la ‘lettera’ dei Concili precedenti, il Vaticano II il quale, interpretando alcune verità secondo lo Spirito, avrebbe tradito la ‘lettera’ e sarebbe perciò inaccettabile. Questo è la negazione implicita della presenza di Cristo per mezzo atteggiamento dello Spirito nella Chiesa di tutti i tempi, quindi anche in quella d’oggi. Lo scisma rappresentato dal tradizionalismo estremo e antiromano non è che una nuova forma di un letteralismo sopraggiunto dopo ogni Concilio ecumenico importante, fin da Nicea e Calcedonia. E’ una forma di razionalismo che, invece di credere allo Spirito che regna nella Chiesa, si fida del proprio sapere, del proprio maggior sapere, e tradisce quindi la folle sapienza di Dio per aderire alla propria umana sapienza. Ma c’è un fenomeno affine di cui non vogliamo dimenticarci: ci si può fissare talmente e in modo unilaterale sul concetto di scandalo cristiano e di follia di Dio da farne una teoria inglobante che non lascia più spazio ad una sapienza divina al di là di questi concetti esprimono. Allora la follia divina diventa per me una cosa spiritualmente manipolabile, un metodo filosoficamente applicabile, una dialettica. E’ in questo modo che il Luteranesimo giunge a parlare di un Dio la cui sapienza ha necessariamente un aspetto diabolico, che la Bontà divina è al tempo stesso Collera divina, cosa che, alla fine, porterà al razionalismo dialettico di Hegel per il quale la Croce, il Venerdì Santo è, come egli dice, speculativa, cioè la legge stessa della ragione, che la si chiami umana o divina. La danza sacra che i filosofi di oggi fanno attorno all’hegelismo, ultima tappa della filosofia prima del materialismo e del positivismo, si rivela infeconda e sterile, gira solo attorno a se stessa, dimenticando sempre più il vero mistero: quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito. Nessuna sapienza umana può manipolare lo scandalo cristiano e la follia di Dio a proprio conto. Ed è proprio ciò che dobbiamo ricordare alle due Americhe, che quest’anno sono in particolare a tema del vostro Meeting, pero sebbene le loro ideologie siano ben diverse e in molti punti perfino opposte. L’America del Nord, che è in testa nelle ricerche tecniche, sociologiche e psicologiche tende ad erigere la ragione ad assoluto. Concederà un proprio posto al fenomeno religioso, in quanto atteggiamento umano privilegiato, ma non si curerà del lato oggettivo di questa o quella religione che si presenterà come rivelata, conoscerà una tolleranza senza limiti per tutte le forme, anche totalmente contrarie fra loro, di espressioni dogmatiche o quasi dogmatiche; e questo porterà alla convinzione che tutti quelli che credono in qualcosa di sacro saranno per i cristiani dei cristiani anonimi, gli come saranno, per esempio, per i buddisti dei buddisti anonimi. Sull’elenco telefonico di Los Angeles ci sono in fila pagine e pagine di Chiese di tutti i tipi i cui templi passano spesso da una setta all’altra. Un aspetto di scandalo, in questo, è una follia più umana che divina, una follia che non preoccupa nessuno; come in Italia sono stati soppressi i manicomi, così negli Stati Uniti si tollera con benevolenza ogni forma più o meno inoffensiva di credenza religiosa degli uomini. Si potrebbe dire che è preoccupante il fatto che nel Continente non ci possa essere persecuzione per una Chiesa che conservi, al suo centro, il vero scandalo cristiano. Il cristiano, purché si comporti in modo moralmente tollerabile per la società, sarà lasciata in pace. Il moralismo generale avrà partita vinta e la testimonianza cristiana, che per noi porta al martirio, gli sarà sottomessa come una specie al genere Certo, ci sarà la lotta delle razze (e non delle classi) e Martin Luter King, ottimo cristiano, sarà il martire di questa lotta, ma la sua morte sarà piuttosto la vittoria di una razza che di una religione. Nell’America del Sud incontriamo un razionalismo totalmente diverso. E’, e qui bisogna semplificare, la lotta fra due forme razionalistiche e politiche di comprensione del cristianesimo. Non vale la pena insistere sul cosiddetto cattolicesimo dei cosiddetti oppressori, che potrebbe quasi sempre ridursi a una forma di tradizionalismo H quale permette ad una classe dirigente l’espressione classica di una fede cattolica limitata alla recita di un Credo e alla pratica dei sacramenti. Da tutto questo, scandalo e follia sono esclusi. Mentre cattolicesimo e diritto politico sono intimamente congiunti. Il contrario di questo amalgama è più difficile da definire ed è noto come teologia della liberazione. Il problema è sapere in che senso si tratta di una teologia cristiana propriamente detta o di un movimento sociologico che si serve, a ragione o a torto, del Vangelo. Non metto assolutamente in dubbio la buona fede di molti, perfino della maggior parte di quei teologi che si riconoscono nella teologia della liberazione. Ma la domanda terribilmente scottante è un’altra: con che diritto si servono del Vangelo e del suo scandalo per fare politica? L’opzione per i poveri può essere detta centrale nell’atteggiamento di Gesù, ma vi vede Egli solo i materialmente poveri o tutti i poveri diavoli non piuttosto indigenti o ricchi che falliscono la loro entrata nel Regno dei Cieli? C’è, certamente, la difficoltà dei ricchi di passare per la cruna dell’ago, e la forza di testi simili. Ma non sono né la ricchezza né il potere politico che per Gesù separano il Regno in due campi. Il povero che non possiede alcun comfort in terra è più aperto alla Buona Novella del ricco pieno di preoccupazioni economiche. Ma bisogna forse aiutare il povero ad acquisire una parte di questo benessere? C’è, senza dubbio, un limite molto stretto fra miseria, che deve essere in tutti i casi soppressa, e povertà, che può essere una grazia che ci avvicina al Regno. Charles Péguy con molta ragione ci ha inculcato questa distinzione, egli non fa altro che seguire la parabola del Samaritano. Ed è la carità cristiana, essa sola, che ci deve animare a seguirlo, una carità che ispira una politica, ma che non si identifica con essa. Fra le due c’è una differenza livello. Due gesuiti francesi ce lo dicono sotto ogni punto di vista: P. Fracou che lavora in Cile e che ci ha dato quel libro dal titolo famoso: « Prima (di tutto) il Vangelo », cioè prima della politica. Esso ristabilisce lo scandalo della Croce unica di Cristo e vieta di confonderlo con quello della miseria umana. P. Pierre Ganne, mio vecchio amico durante gli studi teologici, che purtroppo è morto, nel suo nuovo libro sullo Spirito Santo ci inculca: concetto di Alleanza è che solo l’uomo libero è capace di stabilire dei rapporti veri, è l’uomo libero che diventa giusto e non l’uomo giusto che diventa libero. L’Esodo comincia con la liberazione; dopo, all’interno di questa liberazione (operata da Dio), si può chiedere al popolo di stabilire dei rapporti giusti. La decisione di giustizia parte dall’uomo; se il suo cuore è schiavo, egli non può avere il concetto di rapporti giusti guardate Lenin. Non ci sono esempi di rivoluzioni che non abbiano rafforzato il regime amministrativo e poliziesco. Non dimentichiamo che Satana si traveste da angelo di luce. Le nostre illusioni sono spesso a base di generosità. La libertà degli altri non è qualcosa che io scelgo. Non ne sono la fonte. La perversione del paternalismo porta a proclamare: Io scelgo il tuo benessere, la tua felicità. Ora, il mondo è pieno di questa pretesa, di scegliere la nostra felicità, è perfino un tema politico. In questo mondo il Vangelo è inintelligibile. Leggete tutto il libro, pubblicato da ‘Centurion’, 1984. La politicizzazione della carità è quindi un altro modo di pervertire la follia della Croce. Ma lasciamo ai latino-americani la loro chance di trovare nella loro situazione estremamente difficile l’equilibrio che permetta eli unire teologia e politica senza identificarle. Concludiamo ricordando che lo scandalo della Croce e la follia di Dio non sono affatto degli slogans a nostra disposizione. Entrambi i termini, il cui significato converge, non sono altro che l’espressione del fatto che la Sapienza divina ci supera infinitamente. San Paolo ce lo ripete in tutte le letture. Questa sapienza ci supera, ma non ci è sottratta. Avendo finito di inculcare il mistero della Croce, sofferta pro nobis, l’Apostolo continua: Aiuto sì, la sapienza che noi esponiamo fra i (cristiani diventati) perfetti Dio l’ha rivelata a noi per mezzo dello Spirito che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. L’uomo terreno non accoglie le cose proprie dello stato di Dio; per lui sono stoltezza e non le può capire, perché è grazie allo Spirito che si giudica. Ma l’uomo spirituale giudica tutte le cose, (perché) noi possediamo il pensiero di Cristo. Noi l’abbiamo, non come un possesso, ma sempre come dono. E questo dono ci è dato non per noi, ma per essere comunicato e questo dono liberatore si diffonde solo nella comunione. E la comunione che libera ed è la libertà, essa sola, che rende possibile la comunione. Ma noi non costruiamo né la libertà né la comunione. Entrambe e la loro unità sono pura grazia di Dio.

Publié dans:biblica, Teologia |on 13 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

TEOLOGIA SILENZIOSA – padre Jérôme (Jean Kiefer) ocso

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TEOLOGIA SILENZIOSA

padre Jérôme (Jean Kiefer) ocso

Che lo si voglia o no, l’unione dell’uomo con Dio, le condizioni e le esigenze di questa unione costituiscono una vera e propria scienza. Dobbiamo pertanto acconsentire a farci insegnare qualche piccolo principio normativo e intangibile circa questa scienza. Non avrebbe alcun senso voler inventare tutto da sé. Inoltre, nella vita spirituale, come nel lavoro manuale o nello sport, il conoscere un po’ di tecnica rende tutto più interessante e dà sicurezza. Non possiamo andare alla ricerca di Dio con mezzi qualsiasi né in una direzione scelta a caso.
Oggi la spiritualità come scienza è sottostimata, a favore di uno studio quasi esclusivo della Bibbia. Cerchiamo di ragionarci un po’ sopra.
Ho iniziato a leggere ogni giorno la sacra Scrittura molto tempo prima che questa pratica si diffondesse. Per 25 anni, ogni anno, l’ho letta da cima a fondo. Non c’è bisogno di aggiungere che ne ho ricavato benefici, incoraggiamento e conoscenza nella misura delle mie possibilità. Nonostante ciò sono arrivato alle seguenti due conclusioni: per prima cosa, la sacra Scrittura non può fornire da sola il leggero supporto di cui ha bisogno l’orazione non discorsiva; in secondo luogo, la sacra Scrittura non è in grado di insegnarci tutto quanto è necessario sapere circa la vita interiore. Molte nozioni indispensabili possono essere acquisite soltanto per mezzo della teologia dogmatica e della dottrina dei maestri spirituali. Per poter prendere quelle decisioni che si presentano lungo tutta una vita di preghiera e non soltanto ai suoi inizi, il nostro spirito ha bisogno di principi formulati chiaramente, principi a cui sono giunti spiriti più competenti di noi con la loro esperienza e le loro riflessioni. O meglio, i più qualificati tra gli amici di Dio, aiutati senza alcun dubbio da un carisma divino, ci hanno lasciato carte stradali eccellenti e utili libretti di istruzioni per ogni tipo d’auto. Se mancassimo di queste carte e di questi libretti, non conosceremmo mai con sufficiente esattezza il viaggio che Dio vuoi farci fare, né come effettuarlo né per quali sentieri. Rischieremmo di ritardare, di incorrere in incidenti e, quello che è peggio, di rinunciare nel bel mezzo del viaggio. La parola di Dio non vanifica la parola degli amici di Dio, i nostri fratelli maggiori, i nostri maestri. La Rivelazione non sopprime la riflessione su esperienze che si rivelano per tutti uguali. È evidente quanto la preghiera, e soprattutto la preghiera monastica vissuta lungo tutta una vita, abbia bisogno di un impegno metodico. Ora, la Bibbia non contiene informazioni al riguardo. Bisogna quindi che le cerchiamo nella dottrina dei maestri spirituali. Non rinunciamo a questa sostanza e a questa solidità e informiamoci presso coloro che hanno avuto successo.
Vuole che le faccia capire di cosa si tratta con qualche esempio? Prendiamo una situazione classica, tipica degli inizi e che per questo motivo riveste una notevole importanza. Un monaco comincia a vivere la sua vita interiore. Gli verranno richiesti sforzi per ridurre i propri difetti, per acquisire delle virtù e per esercitarsi nell’orazione discorsiva. Questo vuol dire che deve già assimilare modesti ma ben precisi elementi dottrinali. Se il nostro monaco mostra di essere fedele in queste pratiche, Dio può decidere di prendere la situazione in mano: per mezzo di prove chiaramente provvidenziali, deciderà di organizzare Egli stesso gli sforzi che il nostro monaco faceva in precedenza, e sospenderà l’orazione discorsiva per sostituirvi un’orazione contemplativa. Se l’interessato non vuole ostacolare questi cambiamenti, bisognerà di nuovo che possegga al riguardo insegnamenti sicuri. Infine, se Dio non intraprende queste iniziative, non è certo possibile costringervelo, né fare alcunché per meritarle, ma solo offrirsi ad esse in umile dipendenza. Il monaco, infatti, non deve accontentarsi di aspettare queste grazie, ma può fare realmente qualcosa per prepararvisi. Ciò richiede ancora una volta svariate precise conoscenze, molto più particolareggiate che le precedenti. Forse lei troverà nella sacra Scrittura qualche direttiva circa la prima di queste tre tappe, ma certamente nulla di preciso riguardo alle altre due. Di conseguenza, deve prima conoscere la dottrina spirituale se vuole trovare nella Scrittura un qualche aiuto per la vita della sua anima.
Ecco perché le auguro di aspirare a far suo questo bel sapere, questa bella scienza dell’avvicinarsi a Dio e alla sua amicizia. Le auguro prima di tutto il sapere dottrinale. Mi dica, per esempio, che cosa significa « i differenti modi di innaffiare un giardino » oppure « l’acquisito, l’infuso, il sentito e il non sentito » o ancora « le quarte dimore ». È capace di associare o di distinguere appropriatamente queste tre nozioni? Non è che l’inizio dell’arte! Mi risponderà: « Io prego spontaneamente, senza tecnica né dottrina, e questo mi basta ». In effetti le basta se si accontenta di volare raso terra tutta la vita. Ma il volo raso terra pone le condizioni di una fine prematura del viaggio a causa di un accidente del terreno del tutto banale. Perciò è meglio volare un tantino al di sopra degli ostacoli.
Le grazie d’unione a Dio sono dei mezzi e pertanto bisogna sapersene servire non appena ci vengono offerte. Mediti sulla parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte, perché in questo caso trova una diretta applicazione. Bisogna avere la propria lampada accesa e provvista di olio quando sopravviene la grazia o l’autore della grazia. Ne va delle nostre possibilità.
Questa scienza, che raccoglie le regole dell’amicizia divina, mi pare possa essere denominata « teologia silenziosa » e distinta dalla « teologia predicabile ». Prendo in prestito entrambe le espressioni dal cardinale Charles Journet (Connaissance et inconnaissance de Dieu, L.U.F.-Egloff, 1943, p. 109). Chi cerca prima di tutto l’intimità con Dio troverà meno verità e amore, in una parola meno possibilità, nella teologia predicabile che in quella silenziosa. Ma quest’ultima, ovviamente, bisogna che meriti il nome di teologia e ne soddisfaccia le esigenze. E non si comporti nel momento del bisogno come la ghiaietta sotto le ruote in una curva un po’ stretta. Sintesi allo stesso tempo di saggezza e di scienza, deve essere ampia, tranquilla, orientata alla pratica e in più: sicura, precisa, speculativa, definita e capace di definire. Pensate alla vocazione di un monaco: il monaco deve acquisire questa teologia silenziosa in base al tempo che dedica alla vita interiore. Ora, questa teologia esige più rigore, lavoro e continuità che la teologia predicabile, per la quale è sufficiente che, una volta riempita, la pentola sia rimessa sul fuoco con una certa frequenza. Della teologia silenziosa l’anima invece deve vivere, poiché essa è, nella certezza e nella verità, la base dell’unione con Dio. E detta delle scelte, educa il cuore, suscita e guida le aspirazioni, influenza l’orazione.
Il monaco ha dunque bisogno di questa scienza che l’esegesi da sola non può rimpiazzare

 

Publié dans:Teologia |on 20 août, 2014 |Pas de commentaires »

CHRISTIAN CANNUYER: DIO È NEI CIELI? (2002)

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CHRISTIAN CANNUYER: DIO È NEI CIELI? (2002)

Partendo dall’affermazione della più nota preghiera cristiana, “Padre nostro che sei nei cieli…”, l’Autore, docente alla Facoltà di teologia dell’Università di Lille e Presidente della Società Belga di Studi orientali, esamina il significato biblico dell’espressione “cielo”, in quanto sede di Dio. Quali rapporti vi sono fra Dio e il cielo, e di quale cielo sta parlando il testo sacro? Per rispondere a queste domande si espone un sintetico quadro delle varie accezioni di questo termine nella Scrittura e dei suoi significati.

Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?

Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.
Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.
All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?
Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso. Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?

Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa
Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (uze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.

Dei del cielo nel mondo biblico
Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo». Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».
Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).
Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.
Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).

Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento
La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).
Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».

Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo
L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).

Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio
Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.
Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.

Oggi, il disincanto verso il cielo?
In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.
Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli.

Publié dans:biblica, meditazioni, Teologia |on 30 juin, 2014 |Pas de commentaires »
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