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LA PROSPETTIVA TEOLOGICA DELL’ARTE SACRA

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LA PROSPETTIVA TEOLOGICA DELL’ARTE SACRA

Una riflessione di Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l’Urbaniana

di Rodolfo Papa

Nel precedente articolo, abbiamo tracciato qualche linea teorica relativa alle dinamiche culturali che hanno coinvolto e coinvolgono l’arte cristiana. Il sistema d’arte cristiano, assorbendo osmoticamente influssi diversi capaci di confluire nell’espressione della Weltanschauung cristiana, ha innovato la cultura e il mondo delle arti. Questa complessa dinamica ha arricchito notevolmente la teoria e la tecnica artistica.
La prospettiva è il frutto maturo di questa capacità innovativa dell’arte cristiana; la prospettiva, infatti, fa parte del proprium dell’arte cristiana cattolica, universale.
Come ho recentemente scritto in Discorsi dell’arte sacra1, la prospettiva nasce all’interno dell’arte cristiana da un’esigenza intima di carattere spirituale e dopo una profonda riflessione teologica.
Tra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., accadono numerose e determinanti innovazioni tecniche, tali da portare verso una profonda maturazione tutta l’arte cristiana.
Assistiamo, infatti, alla nascita della prospettiva lineare in senso stretto, alla nascita di una più consona teoria delle luci e delle ombre ed a uno sviluppo delle varie tecniche pittoriche.
Ho più volte sottolineato come la spiritualità dei neonati Ordini Mendicanti2, in modo particolare la spiritualità francescana, e anche alcune riflessioni già fatte da alcuni vescovi nella II metà del XII secolo, conducano ad una profonda comprensione della necessità di rappresentare lo spazio corporeo dell’Incarnazione come evento che stravolge la storia.
Questa esigenza rappresentativa è la vera causa della nascita della prospettiva. Gli studi di ottica, le teorie della visione, provenienti per esempio dalla cultura araba, vengono assorbiti in questa esigenza teologica e spirituale, producendo qualcosa di profondamente nuovo e originale.
La prospettiva, infatti, rappresenta spazi tridimensionali che sanno essere contemporanei allo spettatore, nei quali lo stesso spettatore è coinvolto: la Sacra Storia è raccontata come presente, e chi guarda ne diventa protagonista.
La stessa intuizione da cui è nato il Presepe di Greccio muove la nascita e lo sviluppo della prospettiva.
Anche alcuni teorici nostri contemporanei, quali Didi-Hubermann, pur all’interno di una visione anacronistica della storia3, riconoscono alla esperienza mistica di san Francesco una valenza generatrice di una più profonda riflessione sulla corporeità in campo teorico-artistico4.
Lo storico dell’arte francese Daniel Arasse ha dedicato molti studi all’analisi della prospettiva, tra cui il più famoso ed interessante è L’Annunciazione italiana. Una storia della prospettiva5. Esaminando in maniera completa e compiuta il tema dell’Annunciazione tra XII e XVI secolo, Arasse individua una serie di categorie iconologiche, inserendo la prospettiva in una dimensione teologica; egli afferma: «quella che propongo di definire “prospettiva teologizzata” … instaura, nella proporzionalità regolata dell’opera, uno scarto che visualizza la venuta dell’incommensurabile divino nel mondo umano della misura»6. Nota Omar Calabrese: «L’innovazione della prospettiva assume il carattere di un’invenzione miracolosa, perché conferisce ordine, sintassi alla storia, ma allo stesso tempo fa apparire la realtà come se parlasse da sola, dal momento che è capace di nascondere il fatto che siamo in presenza di un discorso»7 .
La prospettiva è uno dei massimi risultati che l’arte cristiana abbia prodotto. Volendo dipingere il senso più intimo del Vangelo, ci si è interrogati sul “come”: come rappresentare?
La soluzione è interna, sta nell’articolazione di altre due domande “cosa rappresentare?” e “perché rappresentare?”. Dall’articolazione stessa del messaggio di Fede nasce il “come” annunciarlo.
La prospettiva non è un elemento “altro” poi aggiunto estrinsecamente a un nucleo essenziale, ma nasce all’interno dell’arte cristiana, come una sorta di strumento formato proprio per poter annunciare l’Emanuele, il Dio con noi.

1 R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, pp. 143-144.
2 R. Papa, Maestro di Isacco. Padre di Benedizione, in R. Papa; M. Dolz, Il volto del Padre, Ancora, Milano 2004, pp. 75-89. R. Papa, La nascita dell’arte moderna, ovvero l’influenza degli ordini mendicanti nell’invenzione dell’arte cristiana, in “ArteDossier” Giunti Firenze, XXIV, n. 258, settembre 2009, pp. 56-60.
3 La percezione delle immagini avviene in un tempo diverso da quello della produzione delle medesime immagini, e tra i tempi si creano sovrapposizioni inevitabili ed interazioni interpretative. Per certi versi l’anacronismo è insopprimibile: «L’anacronismo è necessario, l’anacronismo è fecondo quando il passato si rivela insufficiente, ovvero quando costituisce un ostacolo alla comprensione del passato»; tuttavia l’anacronismo va gestito con intelligenza. Cfr. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini [2000], trad.it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 22
4 G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive [2007] trad. it , Bruno Mondadori, Milano 2008,
5 D. Arasse, L’Annunciazione italiana. Una storia della prospettiva, VoLo publisher, Firenze 2009.
6 Ibid., p. 187.
7 O. Calabrese, Tempi luoghi e soggetti dell’Annunciazione, in D. Arasse, L’Annunciazione italiana, p. 13

Publié dans:arte sacra, Teologia |on 5 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

SAN GIOVANNI DAMASCENO SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA – 4 DICEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

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SAN GIOVANNI DAMASCENO SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA – 4 DICEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

Damasco, 650 – 749

Nacque intorno al 675 a Damasco (da cui Damasceno) in Siria. Suo padre era ministro delle finanze. Colto e brillante, divenne consigliere e amico del Califfo cioè il prefetto arabo che guidava la regione. La frequentazione del monaco siciliano Cosmo, portato schiavo a Damasco, determinò in lui il desiderio di ritirarsi a vita solitaria, in compagnia del fratello, futuro vescovo di Maiouna. Andò dunque a vivere nella «laura» di San Saba, piccolo villaggio di monaci a Gerusalemme, dove ricevette l’ordinazione sacerdotale e in virtù della sua profonda preparazione teologica, ebbe l’incarico di predicatore titolare nella basilica del Santo Sepolcro. Tra le sue opere accanto agli inni e ai trattati teologici dedicati alla Madonna, è autore del compendio di teologia «Fonte della conoscenza» e de i «Tre discorsi in favore delle sacre immagini». Teologo illuminato e coltissimo, si meritò il titolo di «San Tommaso dell’Oriente». Nel 1890 Leone XIII lo ha proclamato dottore della Chiesa. (Avvenire)

Patronato: Pittori
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall’ebraico

Martirologio Romano: San Giovanni Damasceno, sacerdote e dottore della Chiesa, che rifulse per santità e dottrina e lottò strenuamente con la parola e con gli scritti contro l’imperatore Leone l’Isaurico in difesa del culto delle sacre immagini. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò qui alla composizione di inni sacri fino alla morte. Il suo corpo fu deposto in questo giorno.

Catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì 6 maggio 2009
Cari fratelli e sorelle,
vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre – di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: « In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?… E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?… E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole » (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: « Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2) » (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: « Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon) » (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: « Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro » (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, « fosse rinforzata e rinnovata » dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’ »essere », ma nel « bene-essere » (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: « Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)… » E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: « Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio » (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.

Autore: Benedetto XVI

 

Publié dans:Santi: memorie facoltative, Teologia |on 4 décembre, 2017 |Pas de commentaires »

CENTRALITÀ DELLA BELLEZZA NEL CRISTIANESIMO SECONDO BALTHASAR

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La bellezza che salva

CENTRALITÀ DELLA BELLEZZA NEL CRISTIANESIMO SECONDO BALTHASAR

sintesi della relazione di Elio Guerriero
Verbania Pallanza, 10 febbraio 2001
la via del frammento

Von Balthasar (1905-1988) ha cercato di dare una risposta alla grande domanda che attraversa tutto il 1900 e che oggi, con il processo di globalizzazione, è ancora più attuale: come è possibile che qualcosa di particolare, un frammento, possa avere una rilevanza universale? Come può la vicenda particolare di Gesù di Nazaret avere un valore per l’uomo di ogni luogo e di ogni tempo?
Interessato alla letteratura e alla musica von Balthasar si avvicina alla teologia soprattutto dopo l’incontro con Romano Guardini a Berlino, altro grande teologo che ricorreva alla letteratura per cogliere quelle domande a cui dare una risposta in termini teologici. Di Guardini condivide il rifiuto del soggettivismo di Kant e dell’idealismo tedesco. La realtà non è creata dal soggetto e deve essere percepita in maniera più obiettiva e completa.
Inoltre condivide la visione di Guardini secondo la quale vale la pena di guardare il reale in compagnia dei grandi maestri, come Socrate, Agostino, Dante, Pascal, Kirkegaard, Rilke, Dostoevskij. Insieme con loro si può percepire meglio il reale e accostarsi meglio a Cristo.
Laureatosi in letteratura, von Balthasar decide di diventare gesuita. Frequenta con disagio lo studentato di filosofia dove impera la filosofia scolastica. A Lione incontra De Lubac, che lo avvia alla conoscenza dei padri della Chiesa.
Nel 1939, diventato assistente degli studenti cattolici a Basilea, incontra Adrienne von Speyr che influenzerà profondamente la sua teologia. Cerca di capire- ripeteva spesso Adrienne – Dio non è così. Dio non tiene i conti. Dio è prodigo, è anzitutto colui che dà. Questa visione getta luce sul mistero trinitario: il Padre è colui che non tiene la divinità per sé, ma la dona completamente al Figlio, il quale la restituisce interamente al Padre in gratitudine, nello Spirito dell’agape. E’ questa la grande rivelazione di Adrienne.
Ma come mai vi è il peccato nel mondo e Dio lo permette? Il mondo, le creature, secondo Adrienne, sono il dono gratuito che il Padre fa al Figlio nel desiderio di donare sempre di più, sono come la rosa che l’amato dà all’amata. Di fronte al rifiuto delle creature, di fronte al peccato, il Figlio si offre spontaneamente per andare a riprenderle, per riportarle a casa. Gesù è come il pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita.
In questa prospettiva Adrienne dà molta importanza alla discesa agli inferi, come annuncio di solidarietà totale con tutti gli uomini di tutti i tempi: Gesù vive totalmente la solidarietà con tutti.
A Basilea von Balthasar incontra Karl Barth, a cui attribuisce il merito di avere superato definitivamente la visione di Calvino secondo la quale Dio è venuto al mondo per dire sì e no. Dio, per Barth, è venuto al mondo per dire solo sì.
Per fare teologia secondo von Balthasar bisogna essere in qualche modo consanguinei di Dio, bisogna essere santi. Nasce da questa visione la polemica contro i « teologi a tavolino ». Solo nel dono si può capire che Dio non tiene nulla per se stesso, ma si dona. Apprezza di Bernanos la figura del santo che si fa carico del peccato di tanti e di Teresa di Lisieux la via dell’infanzia spirituale, la via del bambino che sta in braccio alla mamma, la via della fiducia gioiosa.
Siamo tutti frammenti, siamo tutti piccole creature, ma con un significato universale. Anche il più piccolo degli uomini è importante per Dio ed è importante per l’uomo.
Non invitato al concilio Vaticano secondo, dedicherà il suo tempo alla stesura della sua monumentale trilogia (Gloria, Teodrammatica e Teologica), che inizia proprio affrontando il tema della bellezza.
la bellezza che è Cristo
Von Balthasar critica severamente il mondo contemporaneo per avere abbandonato la bellezza e per averne smarrito il senso: « la bellezza disinteressata ha preso congedo in punta di piedi dal mondo moderno di interessi per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza » e, aggiunge « non è più amata e custodita nemmeno nella religione ».
Secondo Balthasar la bellezza è ciò che ha a che fare con la forma, tanto che in latino bello si dice « formosus ». Si coglie la forma percependo l’unità interna. Ciò che ha forma è armonico, ordinato e bello, è cosmo in opposizione a caos. Cogliendo la forma è possibile afferrare il principio organizzativo di ogni essere, che è tanto più strutturato quanto più è perfetto.
La forma – dice Balthasar – splende, si dà a conoscere. Per cercare di entrare nel cuore di una persona non si può fare a meno della sua forma, come per gustare un’opera d’arte.
Ma la luce della bellezza non solo illumina, ma anche nasconde. Quanto più si comprende un’opera d’arte tanto più ci avviciniamo al mistero. Quanto più ci avviciniamo ad una persona, tanto più scopriamo l’altro come alterità. Quanto più si tolgono i veli, tanto più ci avviciniamo a Dio.
Sono due aspetti del reale: da una parte la forma si dà a conoscere con lo splendore, dall’altra, quanto più splende, tanto più nasconde o rivela un mistero.
la liturgia del cosmo
Così quanto più noi ci avviciniamo alla realtà, ci avviciniamo all’altro, tanto più ci avviciniamo al mistero, alla trascendenza, a Dio. Ogni bellezza creata rimanda alla bellezza originaria di Dio, ne è una cifra: « I cieli narrano la gloria di Dio e l’opere delle sue mani annunzia il firmamento ». E’ la liturgia del cosmo. Il cosmo è un canto di bellezza, che può essere innalzato da ogni uomo.
Ma questa liturgia cosmica è come attraversata da una dissonanza, dalla presenza costante e in crescita del peccato, che ostacola sempre più l’uomo a scorgere la bellezza.
Di fronte al diffondersi del peccato Dio intraprende una paziente e straordinaria opera per riportare a casa l’uomo che si è allontanato e corre il rischio di perdersi. Poiché la bellezza del cosmo non basta, Dio decide di rendersi presente con la rivelazione in forme sempre più incisive e radicali. Innanzitutto nelle teofanie dell’Antico Testamento attraverso le quali si manifesta come un Dio che vuole entrare in dialogo con gli uomini rivelando il suo nome. Ma gli israeliti ne abusano.
Dio non si ritrae di fronte alla cattiveria degli uomini, ma si dona ancora di più, inviando i suoi profeti. Ma il popolo li ammazza.
la rivelazione di Dio
A Dio non resta che inviare il proprio Figlio. Ma anche il Figlio viene ucciso.
E’ questa la bellezza della rivelazione di Dio, che come il pastore della parabola, con infinita pazienza cerca in tutti i modi di riportare a casa la recalcitrante pecorella smarrita, senza ricorrere alla violenza, ma con un’opera illimitata di convinzione e di benevolenza.
La bellezza di Dio viene dalla sua azione buona, dal suo andare incontro alla creatura, dal suo venire al mondo per salvare la sua creatura.
Questo è possibile perché in Dio stesso, come svela il mistero trinitario, c’è in Dio fin dall’eternità questo dono. Il Padre, pur avendo la divinità, non la tenne per sé come tesoro geloso, ma la donò al Figlio. Questo gesto iniziale si ripete nella storia, con la venuta del Figlio nel mondo (kenosi), per convincere, come fa la mamma con il suo bambino, la creatura a tornare da lui.
la bellezza di Dio
La bellezza è il dono sproporzionato, la prodigalità di Dio che si manifesta a noi in particolare nella venuta del Figlio nel mondo. La bellezza è il viaggio del Figlio di Dio attraverso la terra per salire sulla croce. La bellezza cristiana è la non forma, è colui da cui si distoglie lo sguardo perché troppo brutto da vedere (canti del servo di Isaia). La bellezza è l’estremo amore di Dio nella gloria del suo morire.
Ma la vertigine di questo amore non termina sulla croce, ma scende sino agli inferi, nella solitudine della morte, nella solidarietà più estrema, per riportare a Dio quanto di imperfetto, di caotico e di deforme c’è nella creazione.
Il viaggio di Cristo nel mondo, di Dio che diventa senza forma per ridar forma al cosmo, per riportare ordine e pace lì dove aveva prevalso il caos e la violenza, è la risurrezione. La risurrezione è l’abbraccio tra Padre e Figlio nello Spirito dell’amore. Gli apostoli, e noi con loro, sono chiamati a rendere testimonianza e a vivere questa esperienza fondamentale di amore, di prodigalità estrema, di bellezza.

Publié dans:BELLEZZA (LA VIA DELLA), Teologia |on 26 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

LE CALAMITÀ NATURALI SONO UN AVVERTIMENTO DI DIO ALL’UOMO?

http://www.novena.it/il_teologo_risponde/teologo_risponde_67.htm

In Dialogo il Teologo Risponde

a cura della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

LE CALAMITÀ NATURALI SONO UN AVVERTIMENTO DI DIO ALL’UOMO?

(propongo questo articolo, ma non sono molto convinta, io tendo a pensare e a domandarmi se il dolore, la sofferenza e la morte sono un bene o un male, per dire brevemente)

Le devastazioni che avvengono in quasi tutto il mondo (terremoti, inondazioni…) possono essere avvertimenti di Dio per i nostri comportamenti fuori dalla legge del Creatore? Sono casuali? O possono essere il… «risultato» di quello che la Madonna, nelle sue apparizioni, ci mostra con le sue lacrime per non essere, noi, coerenti al nostro credo?

Gino Galastri

Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia teoretica

Se il lettore mi permette faccio una premessa. Come credente ritengo che Dio possa fare qualsiasi cosa, e ritengo che la Madonna, come madre di Dio, possa in qualsiasi modo essere partecipe di quanto Dio compie per il bene dell’umanità. Tuttavia non avendo alcuna esperienza personale di questi miracoli, apparizioni, annunci, ecc. né da parte di Dio né della Madonna, ritengo di non averne competenza, per cui se la domanda richiede una interpretazione mistica, o anche di teologia del soprannaturale, non sono la persona adatta. Se invece ci si accontenta di una riflessione più razionale e umana, possiamo provarci.
Le devastazioni: terremoti, inondazioni, siccità e quant’altro, avvengono in ragione di fenomeni e cause naturali, alle quali gli uomini possono più o meno influire per il bene o per il male. Evidentemente non sono casuali in senso assoluto, perché altrimenti per esempio potrebbe piovere anche se non vi fosse una nuvola nella volta del cielo. Invece piove sempre quando ci sono nubi. Perciò nei fenomeni naturali c’è sempre una certa «logica» e causalità, anche se a volte a noi è sconosciuta.
Che Dio faccia accadere queste cose per avvertire, o punire, o correggere l’uomo mi sembra esagerato. Un Dio che dalle parole di Cristo dice di amare e voler salvare l’umanità usasse questi metodi, a me sembra fuori luogo: è come se una mamma per correggere il figlio lo lapidasse.
Allora come mettere insieme le cose? Seguo l’esempio della madre: la mamma ha cura del figlio, e quando questi per sconsideratezza si procura un danno, la mamma lo soccorre subito, e spesso gli dice (mentre lo soccorre) «ti sta bene! Così impari». Ecco a me sembra che l’uomo debba impare a riflettere, a migliorarsi, a ritornare a Dio proprio dalle cose che gli accadono. La vita umana deve essere un percorso di maturazione, e non tanto una lotta tra Dio e l’uomo. Dio come dice Gesù segue l’uomo in questo percorso, lo aiuta con la grazia della fede e della speranza, gli fascia le ferite del non senso della vita: che altro si vuole. Ma dice sempre Gesù, Egli rispetta fino in fondo le scelte umane, le conseguenze che esse portano (buone o cattive che siano), e lascia che il «suo» mondo faccia la sua naturale evoluzione: si ricordi la parabola del figliol prodigo.
Se poi Dio, per motivi suoi personali, vuole interferire nelle cose del mondo e umane in maniera miracolistica o portentosa, lo può fare. Ma se fosse una cosa abituale, è del tutto inutile che abbia mandato il Figlio a fare quel che ha fatto. E tra l’altro i Vangeli ci dicono che spesso si sentiva una voce che diceva: questi è colui nel quale mi sono compiaciuto. Gli esegeti dicono che si traduce: lì c’è tutto quello che volevo fare, è il massimo di quanto potessi fare per l’umanità. Dunque a Gesù dobbiamo fermarci.
Perciò io lascerei le cose come stanno senza fantasticarci più di tanto. Se poi Dio e la Madonna per qualche motivo intervengono nella storia umana: ce lo dica la chiesa.
Agli uomini invece è data l’intelligenza e la capacità di riflettere su quanto accade, di saper valutare il mondo e le cose in rapporto al senso della vita umana e divina sia per crescere nel bene, sia perché possano considerare quanto importante è la presenza divina nel percorso storico. In altri termini: se le cose del mondo sono viste dal basso, o umanamente, allora non si capiscono, e perciò abbiamo il bisogno di sentire, vedere, toccare il Sacro. Se invece le cose si guardano dal punto di vista di Dio, secondo me tornano bene, anche se non sempre ci possano piacere. Poi possiamo con più sincerità e intelligenza invocare Dio: «Passi questo calice… Tuttavia sia fatta la tua, e non la mia volontà» (Lc, 22,42).

 

Publié dans:Teologia |on 27 octobre, 2016 |Pas de commentaires »

« CARITAS IN VERITATE » L’ENCICLICA DELLA FRATERNITÀ UNIVERSALE

http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2009/documents/253q01b1.html

« CARITAS IN VERITATE » L’ENCICLICA DELLA FRATERNITÀ UNIVERSALE

di Rosino Gibellini

La Caritas in veritate si potrebbe definire l’enciclica della fraternità universale perché questa è la categoria teologica centrale nel discorso complesso di Benedetto XVI sulla realtà sociale del nostro mondo in via di globalizzazione. Il Papa si inserisce nella dottrina sociale della Chiesa con una modalità particolare, espressa, appunto, dalla categoria della fraternità universale. È stato osservato che Giovanni Paolo II parlava spesso di socialità, un tema che Benedetto XVI riconduce alla sua fonte teologica, e cioè la fraternità. Il terzo capitolo dell’enciclica (n. 34-42) s’intitola Fraternità, sviluppo economico e società civile e si può considerare il centro teologico del testo papale.
Il concetto di fraternità è caro alla teologia di Joseph Ratzinger, che vi aveva dedicato il corso viennese del 1958, quando il giovane teologo era agli inizi della sua docenza nel seminario filosofico-teologico di Frisinga. Il corso sarà poi pubblicato nel 1960 (quando Ratzinger era già arrivato all’università di Bonn), con il titolo Die christliche Brüderlichkeit (München, 1960; nuova edizione, München, Kösel-Verlag, 2006; traduzione italiana, Roma, 1962; nuova traduzione, Brescia, Queriniana, 2005). La fraternità cristiana – si spiega in quel testo – è quella interna alla Chiesa: è « la reciproca fraternità dei cristiani » che invocano Dio, confidenzialmente, come Abba (« Padre nostro »), come Gesù ci ha insegnato. Ed è una fraternità aperta, perché la Chiesa è sempre – citando von Balthasar – « uno spazio aperto e un concetto dinamico »; essa « è infatti il movimento di penetrazione del regno di Dio nel mondo, nel senso di una totalità escatologica » (La fraternità cristiana, p. 100).
La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma « la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto » ed « è chiaro che l’opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all’unità dell’umanità » (ivi, p. 94). La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di « vero universalismo », perché è posta « al servizio del tutto », tramite agàpe (« amore ») e diakonìa (« servizio »).
Nel testo richiamato è bene evidenziata la differenza tra fraternità universale nell’illuminismo e nel cristianesimo. È vero che l’illuminismo ha ampliato il concetto di fratello, parlando di fraternità universale sulla base della comune natura umana. Ma una fraternità così estesa può diventare irrealistica e vaga espressione di umanitarismo, come evidenziano le parole del pur grande inno alla gioia di Schiller: « Abbracciatevi, moltitudini ». La fraternità cristiana, invece, si apre all’altro, e si fa fraternità universale appunto nell’agàpe e nella diakonìa, abbattendo così, nella concretezza della vita, ogni barriera. È il tema ripreso nell’enciclica.
Nella Caritas in veritate si afferma infatti che la vera fraternità, operante oltre ogni barriera e confine, nasce dal dono, la cui logica è introdotta nel tessuto economico, sociale e politico: « La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-amore. Nell’affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone a essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio gratuità come espressione di fraternità » (n. 34).
Secondo il Papa, nel tempo della globalizzazione in cui ormai l’umanità è entrata, e in cui essa diventa « sempre più interconnessa » (n. 42), gli esseri umani hanno bisogno come singoli e come comunità di un criterio etico fondamentale. Questo criterio è una categoria teologica, quella della fraternità universale, che ci fa considerare membri della stessa « famiglia umana ». Se si volesse citare una sola affermazione dell’enciclica, per andare al centro della visione che essa propone, si potrebbe scegliere questa: « La globalizzazione è fenomeno multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione » (n. 42).
È questa la parte più strettamente teologica, sul cui registro sono da leggere le indicazioni concrete di etica sociale ed economica contenute nell’enciclica, che insieme propone come chiave di lettura la visione della « fraternità universale » e la logica conseguente della « relazionalità » e della « condivisione » come criterio fondamentale e come orientamento « teologico ». Per essere « capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie al servizio di un vero umanesimo integrale » (n. 78).

(L’Osservatore Romano 1 novembre 2009)

TEOLOGIA SILENZIOSA

http://www.ansdt.it/Testi/CulturaMonastica/Jerome/index.html  

TEOLOGIA  SILENZIOSA

 padre Jérôme (Jean Kiefer) ocso

Che lo si voglia o no, l’unione dell’uomo con Dio, le condizioni e le esigenze di questa unione costituiscono una vera e propria scienza. Dobbiamo pertanto acconsentire a farci insegnare qualche piccolo principio normativo e intangibile circa questa scienza. Non avrebbe alcun senso voler inventare tutto da sé. Inoltre, nella vita spirituale, come nel lavoro manuale o nello sport, il conoscere un po’ di tecnica rende tutto più interessante e dà sicurezza. Non possiamo andare alla ricerca di Dio con mezzi qualsiasi né in una direzione scelta a caso. Oggi la spiritualità come scienza è sottostimata, a favore di uno studio quasi esclusivo della Bibbia. Cerchiamo di ragionarci un po’ sopra. Ho iniziato a leggere ogni giorno la sacra Scrittura molto tempo prima che questa pratica si diffondesse. Per 25 anni, ogni anno, l’ho letta da cima a fondo. Non c’è bisogno di aggiungere che ne ho ricavato benefici, incoraggiamento e conoscenza nella misura delle mie possibilità. Nonostante ciò sono arrivato alle seguenti due conclusioni: per prima cosa, la sacra Scrittura non può fornire da sola il leggero supporto di cui ha bisogno l’orazione non discorsiva; in secondo luogo, la sacra Scrittura non è in grado di insegnarci tutto quanto è necessario sapere circa la vita interiore. Molte nozioni indispensabili possono essere acquisite soltanto per mezzo della teologia dogmatica e della dottrina dei maestri spirituali. Per poter prendere quelle decisioni che si presentano lungo tutta una vita di preghiera e non soltanto ai suoi inizi, il nostro spirito ha bisogno di principi formulati chiaramente, principi a cui sono giunti spiriti più competenti di noi con la loro esperienza e le loro riflessioni. O meglio, i più qualificati tra gli amici di Dio, aiutati senza alcun dubbio da un carisma divino, ci hanno lasciato carte stradali eccellenti e utili libretti di istruzioni per ogni tipo d’auto. Se mancassimo di queste carte e di questi libretti, non conosceremmo mai con sufficiente esattezza il viaggio che Dio vuoi farci fare, né come effettuarlo né per quali sentieri. Rischieremmo di ritardare, di incorrere in incidenti e, quello che è peggio, di rinunciare nel bel mezzo del viaggio. La parola di Dio non vanifica la parola degli amici di Dio, i nostri fratelli maggiori, i nostri maestri. La Rivelazione non sopprime la riflessione su esperienze che si rivelano per tutti uguali. È evidente quanto la preghiera, e soprattutto la preghiera monastica vissuta lungo tutta una vita, abbia bisogno di un impegno metodico. Ora, la Bibbia non contiene informazioni al riguardo. Bisogna quindi che le cerchiamo nella dottrina dei maestri spirituali. Non rinunciamo a questa sostanza e a questa solidità e informiamoci presso coloro che hanno avuto successo. Vuole che le faccia capire di cosa si tratta con qualche esempio? Prendiamo una situazione classica, tipica degli inizi e che per questo motivo riveste una notevole importanza. Un monaco comincia a vivere la sua vita interiore. Gli verranno richiesti sforzi per ridurre i propri difetti, per acquisire delle virtù e per esercitarsi nell’orazione discorsiva. Questo vuol dire che deve già assimilare modesti ma ben precisi elementi dottrinali. Se il nostro monaco mostra di essere fedele in queste pratiche, Dio può decidere di prendere la situazione in mano: per mezzo di prove chiaramente provvidenziali, deciderà di organizzare Egli stesso gli sforzi che il nostro monaco faceva in precedenza, e sospenderà l’orazione discorsiva per sostituirvi un’orazione contemplativa. Se l’interessato non vuole ostacolare questi cambiamenti, bisognerà di nuovo che possegga al riguardo insegnamenti sicuri. Infine, se Dio non intraprende queste iniziative, non è certo possibile costringervelo, né fare alcunché per meritarle, ma solo offrirsi ad esse in umile dipendenza. Il monaco, infatti, non deve accontentarsi di aspettare queste grazie, ma può fare realmente qualcosa per prepararvisi. Ciò richiede ancora una volta svariate precise conoscenze, molto più particolareggiate che le precedenti. Forse lei troverà nella sacra Scrittura qualche direttiva circa la prima di queste tre tappe, ma certamente nulla di preciso riguardo alle altre due. Di conseguenza, deve prima conoscere la dottrina spirituale se vuole trovare nella Scrittura un qualche aiuto per la vita della sua anima. Ecco perché le auguro di aspirare a far suo questo bel sapere, questa bella scienza dell’avvicinarsi a Dio e alla sua amicizia. Le auguro prima di tutto il sapere dottrinale. Mi dica, per esempio, che cosa significa « i differenti modi di innaffiare un giardino » oppure « l’acquisito, l’infuso, il sentito e il non sentito » o ancora « le quarte dimore ». È capace di associare o di distinguere appropriatamente queste tre nozioni? Non è che l’inizio dell’arte! Mi risponderà: « Io prego spontaneamente, senza tecnica né dottrina, e questo mi basta ». In effetti le basta se si accontenta di volare raso terra tutta la vita. Ma il volo raso terra pone le condizioni di una fine prematura del viaggio a causa di un accidente del terreno del tutto banale. Perciò è meglio volare un tantino al di sopra degli ostacoli. Le grazie d’unione a Dio sono dei mezzi e pertanto bisogna sapersene servire non appena ci vengono offerte. Mediti sulla parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte, perché in questo caso trova una diretta applicazione. Bisogna avere la propria lampada accesa e provvista di olio quando sopravviene la grazia o l’autore della grazia. Ne va delle nostre possibilità. Questa scienza, che raccoglie le regole dell’amicizia divina, mi pare possa essere denominata « teologia silenziosa » e distinta dalla « teologia predicabile ». Prendo in prestito entrambe le espressioni dal cardinale Charles Journet (Connaissance et inconnaissance de Dieu, L.U.F.-Egloff, 1943, p. 109).  Chi cerca prima di tutto l’intimità con Dio troverà meno verità e amore, in una parola meno possibilità, nella teologia predicabile che in quella silenziosa. Ma quest’ultima, ovviamente, bisogna che meriti il nome di teologia e ne soddisfaccia le esigenze. E non si comporti nel momento del bisogno come la ghiaietta sotto le ruote in una curva un po’ stretta. Sintesi allo stesso tempo di saggezza e di scienza, deve essere ampia, tranquilla, orientata alla pratica e in più: sicura, precisa, speculativa, definita e capace di definire. Pensate alla vocazione di un monaco: il monaco deve acquisire questa teologia silenziosa in base al tempo che dedica alla vita interiore. Ora, questa teologia esige più rigore, lavoro e continuità che la teologia predicabile, per la quale è sufficiente che, una volta riempita, la pentola sia rimessa sul fuoco con una certa frequenza. Della teologia silenziosa l’anima invece deve vivere, poiché essa è, nella certezza e nella verità, la base dell’unione con Dio. E detta delle scelte, educa il cuore, suscita e guida le aspirazioni, influenza l’orazione. Il monaco ha dunque bisogno di questa scienza che l’esegesi da sola non può rimpiazzare  

 

Publié dans:RIFLESSIONI, Teologia |on 30 mai, 2016 |Pas de commentaires »

LA VITA ETERNA DOPO LA MORTE: MA L’ETERNITÀ NON SARÀ NOIOSA?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/La-vita-eterna-dopo-la-morte-ma-l-eternita-non-sara-noiosa

LA VITA ETERNA DOPO LA MORTE: MA L’ETERNITÀ NON SARÀ NOIOSA?

Parole chiave: paradiso (2), risponde il teologo   Quello che ci aspetta dopo la morte è la vita eterna, ma cos’è questa  «eternità»? Il concetto terreno che abbiamo di eterno è di cosa che non ha principio né fine, cioè di cosa che dura indefinitamente. Sembra, perciò, che tutto sia immobile. Come può essere così anche nell’eternità celeste, diventerebbe noioso. Io penso che ci sia una attività anche in cielo e lo dimostra il fatto che ci sono stati e ci sono continuamente, interventi nella storia degli uomini (vedi per tutti: l’Incarnazione). La vita eterna non è statica, è dinamica anche perchè dovremo crescere nell’amore di Dio.

Piergiorgio Castellucci

RISPONDE PADRE ATHOS TURCHI, DOCENTE DI FILOSOFIA Parlare di cosa succeda nella vita eterna dopo la morte è sempre problematico perché non abbiamo documentazione e neppure testimonianze dirette, e dobbiamo sempre rifarci alle parole evangeliche, a San Paolo, alla tradizione magisteriale. Prima di tutto «eterno» non è solo ciò che non ha principio né fine (ossia il necessario), ma anche ciò che una volta venuto all’esistenza più non ne esce (come il contingente). E gli uomini sono di questo secondo aspetto. Quanto non ritorna nel nulla è eterno, e questa è la rivelazione e la promessa di Gesù agli uomini, quando dice che va a preparare i posti per i suoi discepoli, perché siano anch’essi dove lui è (Gv 14,3). Che cos’è dunque la «vita eterna»? Non è un luogo dove siamo tutti raccolti insieme a giocare, banchettare, a sorriderci. La vita eterna è uno «stato» di comunione, un «contatto» dell’uomo con Dio, visto faccia a faccia, come esso è (1Gv). La persona umana entra nel vivo dell’essere di Dio e ne viene travolto dall’amore e dalla gioia senza fine. L’amore divino e umano, che si fondono, producono nell’uomo un effetto talmente grande di gioia e piacere, che nessuno se ne vorrà più privare. È la testimonianza di quasi tutti i santi, che sostengono che il momento più tragico per l’anima è al termine dell’estasi, ossia dal contatto con Dio. S.Teresa diceva: muoio perché non muoio. In altri termini, l’amore non è uno stato in cui i due amanti si scambiano di tanto in tanto un sorrisino. L’amore è la più grande, la più elevata, la più dignitosa attività che un uomo possa fare, amare significa conoscere l’altro nella sua pienezza e nel mentre l’altro viene conosciuto come altro, uno impara a conoscere se stesso. I santi dicono che quando s’incontra Dio, nella luce di Dio, vedono se stessi e si rendono conto di chi sono, dei peccati e di quanta distanza c’è tra essi e Dio, al punto che la luce divina, mentre li fa brillare di conoscenza, disvela anche tutti i difetti dell’anima, che diventa trasparente all’amore divino. Bello è l’esempio di s.Giovanni della Croce che a contatto di Dio la sua anima disvelava tutti i minimi difetti, come quando un bicchiere d’acqua apparentemente cristallina sotto l’azione di una luce brillante disvela la presenza di infinite scorie. Ecco perché non ci si annonia ad amare Dio per l’eternità: la nostra conoscenza non potrà mai percorrere il suo essere totalmente, e amandolo sempre più profondamente noi lo scopriamo nella ricchezza della sua vita trinitaria, e questa intimità con Dio è l’attività più elevata dell’uomo, quello che l’uomo aspira e brama, e che mai viene meno, perché il piacere (sia spirituale che fisico, quando riavremo il nostro corpo) sarà talmente elevato che nessuno oserebbe rinunciarci. E questo in un certo senso è visibile nell’amore che abbiamo verso noi stessi, che non cessa, non viene meno nel tempo, e così amare Dio è l’amore più grande che possiamo esprimere per noi stessi. Amare è dunque l’attività, il lavoro, l’azione, l’impegno più oneroso che la vita eterna comporta, perché l’ingresso nella vita divina è un’attività infinita. L’uomo storico, forse condizionato dalla presenza del «peccato», ha ridotto l’amore a un dominio sull’altro, a un possesso, facendo dell’altro un « oggetto per sé stessi », per questo si è incapaci di sentire e capire la valenza eterna dell’amore. Dovremmo perciò educarci ad amare gli altri, ad esprimere il massimo amore verso chiunque, essendo questa l’unica via per voler bene a se stessi, per riuscire a conoscerci e per comprendere quale ruolo nella vita abbiamo. E se il lettore ci pensa, questi sono i problemi più grossi che agitano il cuore dei giovani, che non sanno per qual motivo sono nel mondo e che ruolo in esso debbono avere, problemi che si risolvono solo in ragione di una comprensione piena dell’amore nella loro vita. Una riflessione sulla vita eterna ci illumina sull’ordine logico della nostre attività terrene: primo è amare, secondo è il lavoro che fluisce come conseguenza di quella attività. Infatti un uomo è tale qualsiasi lavoro faccia, ma se non ama abbrutisce se stesso e si rinnega come essere umano. Dunque l’amore verso gli altri è il necessario, ed è la ragione della vita eterna. Le altre attività sono secondarie e non necessarie. Eppure noi vediamo che si passono anni e anni per imparare un mestiere, e non ci sono insegnamenti per imparare ed educarsi ad amare. La vita eterna ci dice infine che nella luce divina, noi siamo aperti sugli altri. Nell’amare Dio non solo siamo in relazione con lui, ma anche con tutti gli altri esseri umani che finalmente saremo capaci di amare, di apprezzare e di valorizzare, cose queste che forse nella nostra vita terrena non siamo stati in grado di praticare. Dunque mi sembra che di cose da fare ne avremo nonostante l’eternità, anche perché l’eterno non ha un prima e un dopo (=tempo), ma è una vita vissuta nell’attimo (tota simul) e in piena perfezione (perfecta possessio).

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Publié dans:CREDO, Teologia |on 10 mai, 2016 |Pas de commentaires »

IL VOLTO NASCOSTO E TRASFIGURATO DI CRISTO

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/TEOLOGIA%20SIMBOLICA/VoltonascostoetrasfiguratodiCristo-Vcongresso.htm

IL VOLTO NASCOSTO E TRASFIGURATO DI CRISTO

(stralcio, propongo solo alcuni testi, ce ne sono molti perché è un Congresso)

Atti dal V Congresso Internazionale sul Volto di Cristo

Pontificia Università Urbaniana

Roma,  2001

LA BELLEZZA, VIA AL VOLTO DI CRISTO

Thomas Spidlik, SJ     P. Thomas Spidlik analizza la « via della bellezza » attraverso la testimonianza delle icone. Il volto umano è oggetto principale dell’iconografia sacra, dato che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e, come microcosmo, rappresenta tutta la realtà: unisce il mondo visibile e invisibile, umano e divino. I veri artisti però riescono a fare un « ritratto », a presentare il volto umano così che unisce diversi momenti di vita, come, per esempio, mitezza e fermezza, dolcezza e risolutezza.     L’icona, tuttavia, è ancora di più. Deve presentare il volto umano come trasfigurato dallo Spirito Santo. Dato che lo Spirito è comune a tutti i santi, sulle icone diminuisce l’individualità e sono sottolineati più i tratti comuni della vita nello Spirito. Ma non è sempre in modo uguale. Così ad esempio le icone russe sono più vicine ai ritratti che quelle greche. Ma devono sempre essere vere icone, divine e umane insieme, testimoniare la vita dello Spirito nella vita umana.     L’iconografo sacro deve presentare il volto non svuotato, ma pieno di vita dello Spirito, il quale dà senso ai tratti umani. Per farlo l’iconografia tradizionale ha sviluppato un simbolismo eloquente. In conformità con l’ideale monastico, l’ascesi, il sacrificio della carne aumenta la forza dello Spirito. Perciò sulle icone l’aspetto esteriore del volto è di solito caratterizzato con sobiretà e discrezione. La luce sulle icone non è esterna, ma proviene dall’interno del volto e lo rende trasparente.     Tutto questo simbolismo ha i suoi fondamenti dogmatici, sviluppati nelle numerosissime omelie dei Padri e degli autori bizantini sulla Trasfigurazione.     La contemplazione è progressiva. Se la luce taborica rppresenta lo scopo finale, il suo inizio è la fede.     La Trasfigurazione ci invita quindi alla conversione della nostra visione del mondo. Ci insegna a scoprire il suo vero senso: l’universo « trasformato » per mezzo di Cristo.    

IL VOLTO PROFETICO DI GESU’. DALLA KENOSI ALLA TRASFIGURAZIONE P. Bonifacio Honings, OCD 

   Premesso che nell’Antico Testamento si delinea un volto di Dio molto imperfetto, prevalentemente antropomorfico, P. Honings spiega la necessità della rivelazione anticotestamentaria di essere portata a compimento. Comunque, il Dio che si rivela nell’Antico Testamento da parte dei profeti è lo stesso Dio che Gesù rivela nel Nuovo Testamento: non si tratta di un « altro Dio », ma semplicemente di un « Dio altro ». Il principio della progressività ci obbliga a leggere la Sacra Scrittura tenendo presente che la rivelazione va da uno stadio meno perfetto a uno stadio più perfetto fino a giungere con Cristo alla sua piena e definitiva perfezione.     La Bibbia rivela un passaggio dell’immagine di un Dio violento conforme alla cultura di tutti i popoli della stessa area geografica del popolo di Dio, all’immagine di un Dio non-violento. Il volto profetico di Gesù rivela che l’auto-partecipazione di Dio all’umanità e al mondo, la sua espressione riflessa e auto-attestazione hanno raggiunto il loro punto culminante, irripetibile ed escatologico attraverso l’unione ipostatica in lui e mediante il suo mistero pasquale. Gesù è perciò il profeta per eccellenza; infatti, l’autocomunicazione di Dio e la sua espressione personificata è lo stesso Gesù.     I profeti avevano annunciato che il Salvatore sarebbe nato dalla Vergine Maria. Questo annuncio diventa realtà quando l’angelo Gabriele viene mandato ad una vergine di nome Maria. Il Figlio di Dio è questo bimbo che nascerà in Betlemme dove si delineano i primi tratti del volto kenotico del Figlio dell’Altissimo. Proprio il vangelo dell’infanzia rivela in modo sorprendente il volto della kenosis di Gesù. Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, diventa come uno che non è ancora capace di parlare: diventa un infans, per rivelare il volto misericordioso del Padre. San Luca, descrivendo la trasfigurazione del volto di Gesù nei minimi particolari, la connette con il primo annuncio della passione. Il volto della trasfigurazione era un anticipo, perchè l’onore e la gloria finale della vita terrena di Gesù dovevano brillare, per sempre, sul volto del risorto. Dinanzi al volto profetico di Gesù della kenosis e della risurrezione, tutto l’universo dovrà piegarsi. Ecco perchè Gesù ritiene molto importante dimostare che il suo volto di Risorto è lo stesso volto di quello kenotico.    

IL VOLTO ISPIRATO DI GESÙ DAVANTI AI SUOI GIUDICI Avv. Oreste Biscazza Terracini   

L’Avv. Oreste Terracini, di religione ebraica, affronta il tema del Volto di Gesù davanti ai suoi giudici sottolineando tre momenti: il processo, l’ispirazione e il volto.     Gesù, in realtà, ha avuto solo uno pseudo processo. Le fonti a disposizione, infatti, nel caso della Giudea collegabili essenzialmente a Giuseppe Flavio, prospettano, da parte di Roma, il quadro di semplici « operazioni di polizia », non correlate ad una regolare procedura. L’unico tribunale che in quel tempo ed in quel luogo avesse il potere di condannare a morte, purché il reo fosse imputato di un delitto per il quale il diritto di Roma prevedesse tale pena, era il prefetto-procuratore romano. Non era il caso di Gesù.     Dopo aver illustrato la concreta situazione della Giudea del tempo, lo studioso rileva, quanto alla ispirazione, che in Gesù deve essere sottolineata la fierezza e la regalità del volto. Un volto compreso di profonda e totale ebraicità, tanto da esprimersi con il contorno di dodici apostoli, scelti con riferimento specifico alle dodici Tribù di Israele. Tuttavia, più che all’aspetto fisico del Volto di Gesù che probabilmente corrispondeva ai tratti che gli scienziati, aiutati dai moderni metodi di indagine, hanno potuto ricostruire con una certa fedeltà, si deve pensare alla espressione che quel volto ha assunto e mantenuto nei momenti nei quali Gesù ha vissuto le sue tragiche e definitive esperienze. Quale fu l’ispirazione che mosse Gesù nella convinzione di essere nel giusto, ad agire ed a sostenere con tanto coraggio la sua sofferenza? Il volto di Gesù, nel tormento della sua passione, non può che aver avuto l’espressione di fierezza ebraica di chi è convinto di essere destinatario di regole di vita che esprimono una tale santità interiore da costituire fine e principio di ogni umana possibile moralità, per la quale anche morire diventa sofferenza da affrontare con orgogliosa dignità. Il volto dell’ispirato, emarginato, ribelle, difensore dei diritti degli umili e dei semplici, incarna la poesia ebraica dell’umanità umiliata di ogni tempo dai poteri corrotti ed arroganti che poggiano sull’ignoranza, sull’ingiustizia e sull’idolatria.     Coloro di noi – ha concluso l’oratore – che hanno avuto in se la forza di credere , vivere e morire per i principi di fede morale che hanno ispirato Gesù, hanno avuto sul volto la stessa luce di Dio.    

IL VOLTO DI CRISTO NEL VOLTO DEI « FOLLI » DELLA RUSSIA CRISTIANA Prof. Maria Pia Pagani

     Nessuna nazione cristiana venera tanti santi cosiddetti « folli », come Russia. Nonostante le apparenze potessero facilmente trarre in inganno, l’anima dei santi ‘folli’ non era folle. Agli occhi dei devoti ortodossi essi erano i semplici di spirito che nella vita quotidiana rivelavano, nella dolorosa esperienza della malattia, della solitudine, dell’abbandono, dell’incomprensione e dello scherno, la costante presenza del Salvatore, il cui Volto si rifletteva sfumato nel volto di questi suoi testimoni sui generis. Casti e innocenti, avevano deciso di affrontare l’ardua prova della vita di stultus propter Christum conducendo un’esistenza nell’eccesso, nella provocazione, nel paradosso e nello scandalo – un ruolo assai complesso, questo, che li vide protagonisti di un’eccezionale spettacolo sacro nei monasteri, nelle corti, nelle piazze del paese. Liberi dagli istinti e dalle ambizioni terrene, essi proclamavano la beatitudine della povertà e della rassegnazione, il rifiuto del mondo del peccato e delle tentazioni. Nella loro assoluta indigenza essi volevano essere icone viventi del Volto nascosto di Cristo, trasfigurato da penitenza, stenti, insania – tutte caratteristiche che la pietà popolare considerava virtuosi segni di inequivocabile santità.     I santi ‘folli’ della Russia Cristiana testimoniarono in modo autentico e sincero il loro essere ‘in Cristo’ accettando con animo lieto di essere considerati degli insensati agli occhi del mondo, consapevoli di ottenere in tal modo il dono della vera fede e della totale libertà dello spirito. La loro demenza, infatti, era considerata uno stato di grazia, il segno della loro eccezionale vicinanza al Regno dei Cieli. Tuttavia il problema della distinzione tra follia e normalità è delicato e ricco di insidie che rendono difficile stabilire un ben delineato confine di distinzione tra il malato mentale, l’istrione e il santo.     La nudità dei santi « folli » era ambigua, agli occhi delle alte gerarchie ecclesiastiche ortodosse, poiché poteva alludere sia alla purezza dei semplici che alla tentazione diabolica.     Il fatto che il patronato dei santi « folli » e dei « giullari di Dio » della Russia Cristiana fosse affidato a due donne – S. Anastasia e S. Parasceve -, nel cui volto, secondo l’iconografia, si celavano i tratti del Volto di Cristo, apre una significativa riflessione su quella che, nella tradizione cristiana, fu la imitatio Christi femminile.     Uno dei primi santi « folli » della Russia Cristiana canonizzati dal metropolita Makarij nel sinodo del 1547 fu Maksim, che era particolarmente venerato a Mosca, la città in cui trascorse tutta la vita. La lezione presenta numerose altre figure di santi « folli ».    

Publié dans:Teologia, VOLTO DI CRISTO (IL) |on 31 mars, 2016 |Pas de commentaires »

CROCE RIVELAZIONE DELL’AMORE. DIO E LA SOFFERENZA DELL’UOMO.

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=4237

CROCE RIVELAZIONE DELL’AMORE. DIO E LA SOFFERENZA DELL’UOMO.

Riflessione sul significato della sofferenza alla luce della croce di Cristo. È un testo assai impegnativo tratto, in forma un po’ abbreviata, da una relazione tenuta dal card. Kasper a un recente convegno sulla teologia della croce.

“Dio è amore”: questa affermazione, tratta dalla prima lettera di Giovanni (3, 8.16), è stata scelta da papa Benedetto XVI come tema della sua prima enciclica. Il documento affida così alla teologia il compito di ripensare e riproporre in modo nuovo il discorso dottrinale su Dio, inserendolo in un’ottica biblica di centrale importanza. La constatazione “Dio è amore” pone una vera e propria sfida. E non solo perché a essa era categoricamente contrario Aristotele, ritenendo che Dio, amato da tutti, non amasse, ma fosse il motore immobile.
L’espressione “Dio è amore” è una sfida anche perché, almeno a partire da Leibniz, Kant, Hegel e Nietzsche, essa deve fare i conti con un’altra questione: se e come Dio sia responsabile della sofferenza nel mondo. Lo stesso papa Benedetto XVI, di fronte all’indicibile sofferenza e all’inaudita ingiustizia collegate al nome di Auschwitz, si è posto la domanda: “Dove era Dio in quei giorni? Perché ha taciuto? Come ha potuto tollerare quest’eccesso di distruzione, questo trionfo della malvagità?”. “Perché hai taciuto? Come hai potuto sopportare tutto questo?”.1
Il problema della teodicea, ovvero la questione di come sia possibile conciliare la sofferenza dell’innocente con l’esistenza di un Dio buono e al tempo stesso onnipotente, costituisce il punto più spinoso della dottrina su Dio, molto più spinoso di tutte le altre questioni teoriche e le obiezioni che vengono sollevate sull’esistenza e la natura di Dio. La sofferenza è la roccia dell’ateismo, ha detto Büchner, e Stendhal ha osservato cinicamente che l’unica scusa di Dio è quella di non esistere. Dostojevski, Camus e molti altri hanno tematizzato la questione in modo pregnante. È stato obiettato infatti: o Dio è buono ma non onnipotente, non potendo far niente contro l’ingiustizia, e non è allora Dio; o Dio è onnipotente ma non buono, non volendo far niente contro l’ingiustizia, e allora è un demone malvagio. Dopo Auschwitz, la teologia ha acutizzato ulteriormente tale questione: alcuni hanno sostenuto che non sia più possibile parlare di un Dio onnipotente e buono allo stesso tempo.
Vediamo dunque che il tema di cui ci occupiamo non _è assolutamente un problema astratto, ma è una questione profondamente esistenziale, che penetra fino al nucleo vitale della fede cristiana e che pone la fede in Dio di fronte alla sua negazione, nella forma umanamente più pesante. Dopo le esperienze atroci che hanno segnato il XX secolo e quelle che si sono verificate già all’inizio del XXI, non è più possibile schivare la questione dell’esistenza/presenza di Dio e del senso della sofferenza innocente. Ma entrambe possono essere esaminate e discusse solo congiuntamente.
La sacra Scrittura, a differenza di quanto afferma Aristotele, ci indica tale stretta relazione già nelle più antiche parti dell’Antico Testamento. Essa ci dice che Dio è un Dio misericordioso, che prova compassione di fronte alla miseria umana (Es 34,6 s.). In modo significativo leggiamo in Osea: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). La teologia ebraica parla per questo della partecipazione “passionale”, addirittura del pathos di Dio nei confronti delle sue creature e del suo popolo. Dio non troneggia impassibile al di sopra delle atrocità del mondo. Dio è commosso dalla sofferenza e dalla gioia dell’uomo e ad esse reagisce con gioia o dolore, con approvazione o indignazione, con amore o con collera. Anche Gesù prova collera e tristezza di fronte alla durezza del cuore degli uomini (cf. Mc 3,5); egli è mosso a compassione (cf. Mt 9,36); è colto dalla paura e dall’angoscia; è triste fino alla morte (Mc 14,33ss.); alla fine, lancia dalla croce il suo grido di sofferenza per l’abbandono di Dio (Mc 15,34).

DIO NON È APATICO NÉ INDIFFERENTE
Il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento non è un Dio apatico come quello di Aristotele, non è un Dio indifferente al dolore umano, ma è un Dio “simpatico”, nel senso etimologico della parola, un Dio che soffre con noi. È l’Emanuele, il Dio con noi (Is 7,14; Mt 1,23). Tuttavia, nel tentativo di trovare una risposta al perché della sofferenza dell’innocente, l’Antico Testamento ha dovuto percorrere un lungo cammino. Il libro di Giobbe alla fine riprende tutte le risposte e, conducendole ad absurdum, arriva alla conclusione che Dio è imprevedibile e che l’unica risposta possibile davanti al mistero insondabile di Dio sia il silenzio. Nemmeno il Nuovo Testamento ci fornisce una risposta teorica precisa, ma ricorre all’immagine veterotestamentaria del servo sofferente (Is 53) proiettandola sulla passione e sulla morte di Gesù, il più innocente tra tutti gli uomini. In modo quasi trionfale sostiene: se Dio per noi non ha risparmiato neppure il suo figlio, allora niente potrà separarci dall’amore di Dio, né la vita, né la morte (Rom 8,31-39). È alquanto significativo dunque che l’affermazione “Dio è amore” si situi nel contesto della croce (cf. 1 Gv 4,8ss).
La costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II ha intuito quanto rivoluzionaria fosse questa affermazione per la nostra concezione di Dio e ha affermato: «Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime» (22). Il riferimento alla croce di Gesù fornisce a colui che crede una risposta esistenziale. Ma non per questo la sfida teologica risulta risolta, al contrario: ecco emergere di colpo altri interrogativi, in modo del tutto nuovo. Di fatti, secondo la logica umana, la croce è stoltezza e scandalo (1 Cor 1,21.23; 2,14). Ci chiediamo allora: come è possibile comprendere la croce come rivelazione dell’amore di Dio? La croce non è piuttosto il segno di un Dio crudele, collerico, violento, che ha bisogno di un capro espiatorio e che sacrifica il suo stesso figlio come prezzo da pagare per la riconciliazione?
Con il mistero della croce, la teologia si trova confrontata a una realtà che va ben oltre ciò che la teologia negativa aveva sostenuto. All’interno di tale tradizione teologica, Anselmo da Canterbury aveva affermato che Dio era ciò di cui non si poteva pensare niente di più grande (Proslogion, cap. 2), e si era spinto ancora oltre, dicendo che Dio era più grande di tutto ciò che si poteva pensare. Ma davanti alla croce, la teologia non s’imbatte soltanto nel limite del proprio pensiero. Davanti all’azione imprevedibile e incomprensibile di Dio sulla croce, essa tocca il limite di ciò che ritiene essere la realtà stessa di Dio.
La croce crocifigge il concetto che abbiamo di Dio. Un Dio sulla croce, che soffre e che muore, è il contrario dell’immagine di Dio che di solito ci facciamo. La croce mette in discussione uno degli assiomi fondamentali della metafisica tradizionale, la quale, a priori, considera come caratteristiche quasi imprescindibili di Dio immutabilità e apatia. Non solo Aristotele, ma anche i grandi pensatori della teologia scolastica escludevano che Dio potesse partecipare alla sofferenza di Gesù e alla sofferenza degli uomini, poiché, così argomentavano, relazioni reali esistono soltanto a partire dalla creatura verso Dio, ma non viceversa, essendo Dio perfetto. Pertanto, la sofferenza della creatura non può commuovere Dio, il quale non può soffrire.2 Ci chiediamo allora: quando la Bibbia parla della compassione di Dio, tema centrale in tutta la Scrittura, dobbiamo interpretarla metaforicamente?
Alcuni Padri della Chiesa e teologi hanno osato combinare il concetto di Dio e quello della sofferenza, parlando addirittura di un Dio che muore. Ma ecco che affiora un’altra domanda altrettanto impellente: se prendiamo sul serio la croce e parliamo di un Dio che muore, allora, per essere coerenti, non dobbiamo parlare anche della morte di Dio? Hegel lo ha fatto con un vecchio canto religioso: “Dio stesso è morto”. E con particolare veemenza Nietzsche è entrato in campo proclamando, contro il cristianesimo, che Dio è morto. La teologia del “Dio è morto”, negli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, voleva demolire tali affermazioni, credendo di poter interpretare il Dio cristiano in modo ateo. Nel frattempo, destinata a durare ben poco, anch’essa è morta (e ha avuto la sorte che ben meritava). Ma il problema rimane. Non pochi contemporanei ritengono infatti che le indicibili sofferenze e ingiustizie nel mondo provino l’assenza, l’impotenza, o se non altro il silenzio di Dio. Nessuna vita pare scaturire ormai da Dio; Dio, o almeno il messaggio di Dio, è morto.
La croce come risposta alla domanda sull’esistenza di Dio di fronte alla sofferenza dell’innocente nel mondo è dunque tutt’altro che una risposta semplice e compiacente. Piuttosto, è una risposta scomoda, difficile, che ci induce a intraprendere una riflessione teologica ancora più approfondita. La croce è al contempo fondamento e critica della teologia. Essa ci spinge a ridefinire ciò che intendiamo con Dio.

CONTESTO STORICO ED ECUMENICO
Guardando agli sviluppi storici più antichi e a quelli più recenti, incontriamo vari tipi di teologia della croce.

La Teologia dei Pastori
I Padri della Chiesa del II e III secolo interpretarono la croce, sulla base del Nuovo Testamento, come uno scandalo. Tertulliano definisce il cristianesimo come religione della croce (Apol., 16,6). I primi Padri ribadiscono il paradosso del Dio che, incapace di soffrire, ha sofferto. Alcuni tra loro, come Atanasio e Ilario di Poitiers, parlano senza esitazione del Dio sofferente e crocifisso; Tertulliano dice addirittura “Deus mortuus” (Adv. Marcionem II, 16,3). Ancora i monaci theopaschiti, durante questa controversia del VI secolo, affermavano che una delle tre persone divine aveva sofferto. E il V concilio ecumenico confermava tale posizione. Tuttavia, con la svolta costantiniana e il famoso presagio “In questo segno vincerai”, la croce non è più vista come scandalo. Comincia a predominare il motivo della croce vittoriosa, vessillo di trionfo. Già in Gregorio di Nazianzo troviamo l’espressione: “il segno invincibile della croce” (Oratio 45,21). Ancora a questa connotazione vittoriosa s’ispira l’arte romanica, nel modo ad esempio in cui rappresenta la croce e la posiziona all’interno della chiesa sull’arco trionfale, all’entrata del presbiterio.

La Teologia medievale
Nel Medioevo, a partire da Bernardo di Chiaravalle, si sviluppa una particolare forma di pietà, che accentua la dimensione della compassione, ponendo al centro dell’attenzione la debolezza umana e la sofferenza di Cristo. L’identificazione con la sofferenza di Gesù è esemplificata in modo pregnante dalle stigmate di s. Francesco di Assisi. Nel tardo Medioevo, la devotio moderna, attraverso la continua contemplazione della passione, doveva condurre all’imitazione di Cristo, incoraggiando il fedele a partecipare alla passione del Signore e a seguire il suo cammino di croce. Ricordiamo, a tal proposito, due opere molto significative: De imitatione Christi e De passione Christi di Tommaso da Kempen. Questa nuova forma di pietà ispirò anche una nuova immagine della croce: il crocifisso gotico, incoronato di spine, con il volto segnato marcatamente dal dolore. In un tempo in cui l’Europa era sconvolta dal flagello della peste, rivolgere lo sguardo al crocifisso, all’uomo del dolore, significava cercare consolazione nel mezzo della miseria umana.
La pietà medioevale, che in tempi più vicini ai nostri si è sviluppata nella pietà del Sacro Cuore di Gesù, esprime in modo suggestivo il significato soteriologico, esemplare e spirituale della croce. Tuttavia, manca la dimensione teologica: si parla cioè del significato della croce all’interno della riflessione condotta sull’uomo, ma non di quella condotta su Dio. Il quadro classico della metafisica greca, tranne poche eccezioni, rimane il punto di riferimento pressoché inalterato.

La Teologia di Lutero
A segnare una nuova svolta è la teologia della croce di Lutero,3 che parla di una theologia paradoxa. Secondo Lutero, il vero teologo non è colui che arriva alla conoscenza dell’essenza invisibile di Dio attraverso la realtà creata, ma è colui che comprende attraverso la passione e la croce ciò che è visibile di Dio e ciò che di lui è stato manifestato nel mondo. La croce, da sola, è contenuto della teologia e della predicazione: Crux sola est nostra theologia (WA 5, 176,32 s). Lutero oppone questa theologia crucis alla theologia gloriae della scolastica. Secondo lui, Dio può essere realmente conosciuto soltanto sul cammino della croce. Mentre il peccatore ha corrotto ogni cosa, Dio ha raddrizzato tutto e ha fatto della croce un cammino di salvezza. Sulla croce egli è sub contrario absconditus (WA 56, 392). “Dio contro Dio a favore degli uomini”, “Il Dio misericordioso contro il Dio collerico, per il nostro bene”, così è stata descritta e riassunta la teologia della croce di Lutero.
Il pensiero di Lutero ha fatto storia non solo nella teologia, ma anche nella filosofia. Esso, ad esempio, è stato ripreso e sviluppato in modo significativo dalla filosofia dialettica di Hegel. Secondo Hegel, Dio realizza se stesso come soggetto assoluto attraverso il suo porsi al di fuori di sé e il suo auto-differenziarsi; non vi è pertanto una chiara distinzione tra la storia di Dio e la storia del mondo. Dal punto di vista teologico, questo comporta una profonda ambiguità. L’interesse per la teologia consiste tuttavia nel fatto che Hegel abbia collegato il significato della croce alla riflessione su Dio, fornendo un importante spunto per lo sviluppo moderno della teologia protestante. In riferimento e in opposizione ad Hegel, il più recente pensiero protestante di Barth, Moltmann e Jüngel è giunto a una teologia della croce che, nel differenziarsi dalla teologia naturale di stampo metafisico, rimane fedele all’istanza di Lutero. Per questi teologi la croce, e in fondo soltanto la croce, è il punto di partenza per conoscere Dio, è il luogo in cui Dio definisce sé stesso.
Alla base di tale teologia vi è il concetto di una relazione tra Dio e uomo, e tra fede e ragione, che non lascia spazio alla cooperazione umana. Questo vale sia per la natura e l’azione umana di Gesù Cristo, che per la partecipazione degli uomini al processo di salvezza, partecipazione resa possibile dalla grazia divina. L’aut-aut nella teologia della croce di Lutero lo porta a non riconoscere agli uomini la capacità di cooperare alla propria giustificazione. Ecco perché questa teologia è di cruciale importanza per il dialogo ecumenico sulla dottrina della giustificazione. Anche se in tale ambito siamo pervenuti nel frattempo a un accordo su questioni fondamentali, molti punti rimangono aperti e dovranno essere ulteriormente discussi proprio alla luce della teologia della croce.

La teologia orientale
Un’altra via, con caratteristiche proprie, ci viene indicata dalla teologia russo-ortodossa sviluppatasi nella prima metà del XX secolo. Il suo ambiente vitale è la liturgia ortodossa, che attribuisce alla croce un’importanza ancora più centrale di quella riconosciutale in occidente. Questa teologia è segnata dall’esperienza del dolore, in particolare dalla capacità del popolo russo di sopportare la sofferenza e dall’interpretazione kenotica dell’esistenza umana, tipica anche dei romanzi di Dostojevski. Diversi nomi possono essere citati: Solovjev, Tarejev e, il più importante di tutti per la teologia, Bulgakov. Per quest’ultimo, tutta l’economia della salvezza è caratterizzata dalla synkatabasis (condiscendenza; abbassamento) di Dio. Essa inizia già con la creazione e arriva al suo culmine con l’incarnazione e la crocifissione. Sia nella creazione che nella redenzione l’infinito Dio lascia nondimeno spazio a una realtà “non divina”, ovvero opta per una “auto-limitazione”. Fondamentale è la struttura kenotica dell’economia della salvezza, resa possibile dal rapporto tra le persone della Trinità, le quali, comunicando nell’amore, si lasciano spazio l’una all’altra. Bulgakov parla addirittura di un sacrificio di sé intertrinitario, che si concretizza nella storia sulla croce.
Alla luce di ciò che è stato appena detto, si capisce quanto, nel dialogo ecumenico, si possa imparare dalla ricchezza della spiritualità e della teologia ortodosse. Ma se è vero che la grandezza di tale visione è innegabile, è anche vero che in essa è insito un rischio da non sottovalutare. Questa grandiosa visione unitaria potrebbe cioè far perdere di vista il carattere misterioso e da non deviare che la croce riveste nella storia, facendo inavvertitamente slittare la teologia nella sofiologia. La Sofia diventerebbe allora una realtà sovracristologica e la croce storica sul Golgota non sarebbe altro che la trasposizione visibile di un Golgota metafisico.
Mentre la posizione luterana tende verso un “aut-aut” di kenosi e Logos, contrapponendo l’uno all’altra, i teologi ortodossi russi tendono, come Hegel, a interpretare in modo speculativo il Logos come kenosi, svuotando del suo significato costitutivo il mistero della kenosi che ha avuto luogo storicamente sulla croce. Ciò spiega perché esistano forti riserve nei confronti di tale teologia all’interno dell’attuale Chiesa ortodossa russa.

La teologia cattolica
Sulla base di una rilettura della Scrittura e della tradizione patristica stimolata dalla teologia ortodossa e da alcuni concetti fondamentali del pensiero di Lutero, anche l’odierna teologia cattolica ha sviluppato una teologia della croce. Tra i nomi da ricordare, il più importante è sicuramente quello di H. U. von Balthasar, a cui ritorneremo in seguito. Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è: dove si situa la teologia cattolica all’interno di questa discussione? La teologia della croce luterana è di stampo paolino; quella ortodossa viene solitamente descritta come giovannea. Quale è la caratteristica della teologia cattolica della croce?
La tesi qui sostenuta, che verrà argomentata più sotto nel dettaglio, è che la teologia della croce cattolica sia primariamente sinottica e possa essere definita petrina, come si spiegherà tra breve. Questa argomentazione parte dalla croce storica e dalla sua interpretazione biblica; nella croce storica tenta di comprendere il Logos. In questo senso si tratta di una teologia “dal basso”, che non contrappone la kenosi al Logos, né comprende speculativamente il Logos come kenosi, ma lo ricerca nell’evento storico della kenosi e legge nella croce la rivelazione dell’amore divino.

LA SOSTITUZIONE VICARIA
La tesi appena formulata ci porta, come secondo passo, a ricercare i fondamenti biblici. L’esegeta Martin Hengel, di Tubinga, nel suo scritto “Pietro sottovalutato”, ha menzionato validi motivi che dimostrano sorprendentemente come la tradizione sinottica, attraverso Marco, discepolo di Pietro, risalga fino a quest’ultimo. Hengel sostiene addirittura che la teologia di Pietro possa essere equiparata a quella di Paolo. Hengel ritiene anche che si possa ricondurre a Pietro l’interpretazione sinottica della croce, sulla base del concetto di sostituzione vicaria. Il concetto di sostituzione vicaria, già presente nella teologia veterotestamentaria del servo sofferente (Is 52,13-53,12), è fondamentale per la venuta di Gesù in mezzo agli uomini, a iniziare dal battesimo nel Giordano, fino ai racconti della passione (Mc 10,45) e a quelli dell’ultima cena, che interpretano l’evento della croce come morte vicaria “per gli altri”. Dalla tradizione sinottica, di stampo fortemente petrino, il concetto di morte vicaria passa poi alla tradizione paolina (2 Cor 5,21) e a quella giovannea (Gv 3,16).
Quello della sostituzione è dunque un concetto chiave in tutti i Vangeli e nell’intero Nuovo Testamento. Esso sembra risolvere il nostro problema, poiché può essere considerato il giusto punto di partenza biblico per una teologia della croce. Questo concetto è espresso nel Nuovo Testamento con la formula “per voi”, “per noi”, “per molti”, avente un triplice significato. Essa ci dice che Gesù ha dato la sua vita “al posto di” noi peccatori; noi come peccatori siamo assoggettati alla morte e non possiamo aiutarci da soli. In questa situazione, Dio è venuto in nostro soccorso ed ha assunto su di sé in modo vicario la maledizione del peccato, della morte, dell’abbandono di Dio. Il primo significato è dunque quello dell’intervento personale di Dio. Il secondo si riferisce al fatto che Gesù ha dato la sua vita “per noi” e “per molti”; è quello del sacrificio di Cristo per il nostro bene, in nostro favore. Infine la formula ci indica che Gesù ha compiuto tutto ciò “a causa” nostra, spinto da compassione verso di noi.

La Kenosi per amore
Agire in modo vicario significa quindi che Dio interviene al posto del peccatore, operando uno scambio, per la sua generosa misericordia e il suo infinito amore. Egli fa questo per noi e per il nostro bene, interviene per noi, muore al nostro posto affinché noi viviamo. Gesù prende il posto degli ultimi per farci posto presso Dio. La kenosi è la forma esistenziale dell’amore nella condizione del peccato. Non si svuota nel niente; essa mira piuttosto a riportare il bene, a ripristinare l’ordine voluto da Dio.
L’idea della sostituzione vicaria è stata accolta anche all’interno del credo apostolico. In modo conciso, si può dire che Dio è diventato uomo, è entrato pienamente nella condicio humana, affinché noi siamo divinizzati. Il concetto di sostituzione vicaria è dunque un concetto teologico chiave, che esprime la legge di una struttura in processo di divenire. È la legge del chicco di grano che deve morire per produrre frutto (Gv 12,24). È la legge del lasciare tutto per raccogliere un guadagno centuplicato (Mc 10,28). È soprattutto la legge dell’amore. Soltanto nel darsi all’altro e nell’esserci pienamente per l’altro, l’amore realizza se stesso. L’abbandonare per guadagnare è la legge fondamentale dell’amore e dell’amicizia (Gv 15,13). Essa è la legge di Cristo: portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2).
È precisamente in questo ampio contesto che va compreso il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Questo grido è espressione del profondo svuotamento di se stesso che compie Gesù e della sua totale solidarietà con noi. Egli assume davvero su di sé il peso dell’abbandono di Dio, dell’eclissi di Dio dal mondo. Tuttavia, questa citazione dell’inizio del Salmo 22 è, in linea con la tradizione ebraica, un riferimento all’intero salmo, il quale comincia, è vero, con il lamento per l’abbandono di Dio, ma si conclude con la riconfortante certezza che Dio rimane fedele al suo popolo. Per questo, il grido di abbandono lanciato da Gesù non può assolutamente essere letto in chiave atea. Esso non ci dice che Gesù ha per così dire rinunciato al suo essere Dio, ma esprime piuttosto il fatto che Dio ci soccorre e ci salva perfino nella notte d’eclissi più buia in cui l’uomo possa trovarsi, in cui noi, soprattutto al presente, ci troviamo. Anche in una simile situazione, egli è il Dio presente, egli è il Dio con noi. Luca ha interpretato giustamente le dure parole dell’abbandono riportate in Marco, dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). E in Giovanni troviamo l’affermazione che corona il mistero della croce: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30).
Anche le parole della kenosi nell’inno della Lettera ai Filippesi (2,7; cf. 2 Cor 8,9; Eb 2,9) vanno capite in questo senso. Kenosi significa svuotamento, cessione, rinuncia, alienazione. Attraverso la propria auto-alienazione, Gesù, che era Dio nella forma, ha scelto di prendere il posto di noi peccatori, di noi che siamo assoggettati alla morte e quindi suoi servi. Ecco perché Gesù assume la forma di servo. Ma lasciandosi crocifiggere non per necessità del destino ma per sua propria volontà e per obbedienza al Padre, egli sottrae alla morte il suo pungiglione e ci libera dalla schiavitù, dandoci una nuova vita. L’auto-alienazione non si esaurisce dunque nel vuoto, nel nulla; al contrario, essa è la via verso l’innalzamento, tramite cui Gesù diventa Kyrios, ovvero Signore del mondo. La morte di Gesù è la morte della morte e la liberazione a nuova vita. Agostino ci fornisce una giusta interpretazione di tutto questo quando scrive in modo conciso e pregnante: “Solo perché Dio, abbassandosi, si è reso presente e attivo, è possibile dire: ‘Ucciso dalla morte, egli uccide la morte’ “ (In Jo XII, 10 s.).
Si capisce dunque perché per Paolo la croce costituisca il mistero della sapienza di Dio (1 Cor 1,7-25; 2,6-10; 2 Cor 13,4) e la parola della croce sia l’essenza del messaggio salvifico. Negli scritti più tardi del Nuovo Testamento la croce assume addirittura una dimensione cosmica; attraverso la croce, tutto viene riconciliato a Dio (Col 1,20). L’Apocalisse giovannea ci presenta l’agnello immolato come luce del cosmo (Ap 21,23). Nel Nuovo Testamento la kenosi non è quindi contrapposta al Logos; sul Logos essa getta una nuova luce. A sua volta, il Logos non può essere interpretato in maniera speculativa e dialettica come kenosi. Piuttosto, è la kenosi della croce a svelare pienamente il senso del Logos, che è l’amore. E l’amore è il senso dell’essere. Detto questo, ecco che abbiamo compiuto il primo passo verso una trattazione sistematica della teologia della croce.

LA CRISTOLOGIA DELLA KENOSI
Il Nuovo Testamento ci dice che Dio stesso è all’opera sia nella kenosi di Gesù che nel suo innalzamento. Dio si rivela nel suo Figlio. Nel Gesù terreno, nel Gesù crocifisso si manifesta la gloria di Dio e il suo amore. Sulla croce ci viene dunque svelato Dio stesso come amore. Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV 2). Se la rivelazione è intesa come auto-rivelazione, allora la realtà di Dio non è “qualcosa” che si nasconde “dietro” la sua rivelazione: là, Dio stesso è presente. L’amore di Dio rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come amore. Sulla croce egli si rivela come colui la cui essenza è amore. Detto in maniera più astratta: nella Trinità economica rivelata dalla croce e dalla risurrezione, si rivela la Trinità immanente.

La Trinità
Per comprendere più profondamente la natura trinitaria di Dio, possiamo partire dalla natura dell’amore. Precisamente da qui era partito anche Agostino,4 senza però sviluppare oltre il suo pensiero. Per lui, come per la tradizione teologica classica, fondamentale è l’analisi dell’atto conoscitivo. Nella teologia odierna possiamo costatare lo stesso interesse. Stimolato dalle analisi di Fichte, di Schelling, di Hegel e soprattutto dal personalismo dialogico di origine ebraica, come in Martin Buber e, in modo sostanzialmente più radicale, in Emmanuel Lévinas, lo studio del fenomeno dell’amore occupa adesso un posto di primaria importanza.
Oggi, il punto di partenza della riflessione teologica sulla Trinità è principalmente l’auto-comunicazione di Dio. Ma l’amore, che comunica se stesso per essere una cosa sola con l’altro, non significa fusione. Il vero amore non assorbe l’altro, né lo usa per la propria auto-conoscenza o auto-realizzazione. L’amore non ha una struttura dialettica, ma una struttura dialogica. Amore significa essere una cosa sola con l’altro, preservando l’identità di ognuno, e permettendo allo stesso tempo la realizzazione ed il compimento di ciascuno. Chi darà la propria vita, la riceverà. L’unità nell’amore comporta dunque il riconoscimento della differenza. L’amore sa distinguere e sa ritrarsi. L’amore fa un passo indietro; esso rende l’altro libero e ne riconosce l’alterità. La logica dell’amore è dunque quella del lasciarsi spazio reciprocamente: è quella, anche, della rinuncia. Amore e dolore, amore e morte, ecco due realtà strettamente legate, come ci dicono da sempre i grandi poeti.
Possiamo allora interpretare l’affermazione che Dio è amore così: Dio è se stesso nell’essere totalmente per l’altro. Il Dio-amore può essere concepito soltanto come un’auto-differenziazione al suo interno. Pertanto, la dottrina trinitaria non contraddice il monoteismo, come più volte si sente dire. Essa esprime piuttosto il fatto che un Dio-amore può essere pensato soltanto in maniera trinitaria. La Trinità è il monoteismo concreto.
Di fronte alla realtà della sofferenza, la Trinità è l’unica forma di monoteismo che possa essere concepita e che possa esistere. Dalla croce in poi, pensare a Dio in modo trinitario significa pensare a un Dio che al suo interno lascia spazio all’altro se stesso. Diversamente dal Dio onnipotente che molti si immaginano, Dio è assolutamente non violento. Dio, nella sua essenza, è colui che si apre totalmente e che si offre. Dio non opprime; egli si lascia addirittura cacciare dal mondo, e ci si mostra debole, impotente. Dio è in se stesso kenotico. Balthasar parla della kenosi originaria e di una “divisione” all’interno di Dio. Ma in questo suo essere kenotico, Dio non rinuncia a se stesso, non si trasforma in qualcosa di diverso, non abbandona la propria divinità. In questa sua esistenza kenotica, Dio è Dio.

Rivoluzione metafisica
Come la croce è la rivelazione dell’amore intratrinitario di Dio, così l’amore intratrinitario di Dio è la condizione interna che rende possibile la compassione di Dio fino alla morte in croce. La croce è dunque la forma più esterna dell’amore divino che si dà, è la forma più esterna dell’amore costitutivo di Dio. Questa tesi comporta una vera e propria rivoluzione metafisica. La relazione non è più concepita come una semplice realtà accidentale. Così come la vera realtà non corrisponde più semplicemente né alla sostanza, che sussiste in sé e per sé, né al soggetto che esiste in sé e per sé secondo il pensiero moderno. Adesso è nella relazione stessa che si fonda la sussistenza delle persone della Trinità. Dio è relazione, e nella relazione egli viene a noi. Nell’essere il Dio per noi e con noi, egli rivela la sua natura più profonda.
Il tema della sofferenza di Dio, che è stato sempre così spinoso per la tradizione teologica, acquista allora una nuova dimensione. La sofferenza, e in questo dobbiamo riconoscere che la teologia classica ha assolutamente ragione, non può essere sperimentata da Dio in modo passivo. Quando Dio soffre, lo fa in modo divino. La sofferenza divina non è espressione di una mancanza, ma di una libera volontà. Dio non è investito passivamente dal dolore della creatura, ma si lascia coinvolgere intenzionalmente. Per questo, l’onnipotenza di Dio non è in contraddizione con il suo amore; la sua onnipotenza si manifesta nell’amore, poiché è precisamente l’onnipotenza che rende possibile il ritirarsi senza rinunciare a se stessi. L’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza del suo amore, che rivela ciò che è ed è ciò che è proprio nel lasciare spazio all’altro.
Il Dio compassionevole, che si manifesta sulla croce, è la risposta alla questione della teodicea: Dio è il Dio che soffre e che muore, e si fa vicino a coloro che sono oppressi, torturati, martirizzati. Dio è al loro fianco e soffre con loro. Questo non significa però che dobbiamo glorificare o divinizzare la sofferenza. Dio non divinizza la sofferenza, ma la redime, mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la trasforma in speranza. La croce è infatti la via verso la risurrezione e la trasfigurazione. Il dolore e la morte non hanno l’ultima parola. La cristologia della kenosi ci conduce oltre se stessa, verso la cristologia pasquale dell’innalzamento e della trasfigurazione. Come dice la Scrittura, “nella speranza noi siamo stati salvati” (Rom 8,20.24; 1 Pt 1,3).

SPIRITUALITÀ CRISTIANA ODIERNA
Lo abbiamo appena detto: la teologia della kenosi non è una speculazione astratta. Essa costituisce la tela di fondo della riflessione sulla teodicea e sul significato esistenziale della sofferenza e della morte. Essa è inoltre di grande importanza per il dialogo ecumenico. Una considerazione a parte meriterebbe il suo ruolo all’interno del dialogo interculturale e interreligioso, soprattutto per l’incontro con la spiritualità buddista e il suo concetto di nirvana.
In questo contesto, desidero fare solo alcune osservazioni conclusive sul significato che la teologia della kenosi riveste per una spiritualità cristiana odierna. Vi sono molte figure di grande rilievo che hanno mostrato l’importanza della sostituzione vicaria e che, testimoniandola con la propria vita, costituiscono un esempio luminoso per la spiritualità odierna e per un rinnovamento missionario della Chiesa: Teresa di Lisieux, C. de Foucauld, E. Stein, M. Kolbe, D. Bonhoeffer, O. Romero e molti altri. Ognuno a modo proprio, essi si sono immersi nel grido di dolore e di abbandono di Gesù e hanno portato sulle proprie spalle, con solidarietà, il peso dell’eclissi di Dio dal mondo. Per loro, l’esperienza della notte, del deserto, dell’ultimo posto non ha significato un cammino verso un niente privo di senso, ma si è trasformata in qualcosa di attivo, in una vita spesa per gli altri, affinché la luce di Dio risplendesse anche nel buio più opprimente.
Anche per il cristiano di oggi non esiste un altro cammino. Nel mondo occidentale, egli normalmente non è esposto a una brutale violenza anti-cristiana, ma è costretto a vivere in una società che non conosce Dio, o lo conosce così poco da non essere neppure in grado di sostenere un ateismo cosciente. A Dio si è ormai indifferenti. Il mondo è diventato un deserto, una notte in cui non si distingue più nulla, in cui non c’è più né un sotto né un sopra, in cui si è perso l’orientamento. In questa situazione, la Chiesa non può più atteggiarsi a potente istituzione, portando davanti a sé la croce come segno temporale di vittoria. Il cristiano, piuttosto, dovrà sperimentare l’impotenza della croce, dovrà condividere la sofferenza di altri. Ed è proprio ora, in questa notte d’eclissi, che egli dovrà preservare e testimoniare per gli altri la luce della fede, della speranza e dell’amore. Ecco la sfida del cristiano di oggi e di domani: una presenza attiva a favore degli altri.
Maria è esempio e tipo di questa esistenza kenotica, lei, l’umile serva che ha dato spazio a Dio, dapprima nel suo cuore e poi nella sua carne. Maria ha portato avanti la speranza fino ai piedi della croce. E lo ha fatto per noi. Ha pronunciato il suo “fiat” al posto di tutta l’umanità. Maria è fulgido esempio di un’esistenza attiva “per” l’altro; ella è l’aurora di un nuovo mondo.

1 Discorso nel Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006.
2 Tommaso d’Aquino, Summa theol. I q. 25, a.1; III q. 16 a. 4; q. 46 a.12 ecc.
3 La teologia della croce di Lutero si trova già nella disputa di Heidelberg del 1518.
4 Agostino, «Ecce tria sunt, amans et quod amatur et amor». De Trinitate VIII,10.
Link utili:
http://www.dehoniane.it
(Teologo Borèl) Aprile 2007 – autore: card. Walter Kasper

CHI PRATICA LA CARITÀ MA NON HA FEDE PUÒ MERITARSI IL REGNO DEI CIELI?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Chi-pratica-la-carita-ma-non-ha-fede-puo-meritarsi-il-Regno-dei-Cieli

CHI PRATICA LA CARITÀ MA NON HA FEDE PUÒ MERITARSI IL REGNO DEI CIELI?

Una domanda a partire dalla Lettera ai Corinzi dove Paolo fa l’elogio della carità. Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà Teologica dell’Italia centrale.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA Chi pratica la carità ma non ha fede può meritarsi il Regno dei Cieli? 20/09/2015 di Redazione Toscana Oggi  

Nella meravigliosa prima lettera ai Corinzi di San Paolo, dove si fa un vero e proprio inno alla carità, nelle righe finali si legge: «Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità, ma la più grande di esse è la carità». In base a quanto scritto da San Paolo, se un uomo possiede la carità e la mette in pratica verso i fratelli e non possiede la fede, cioè non crede in Dio, può, alla fine dei suoi giorni, meritarsi il Regno dei Cieli? Gian Gabriele Benedetti

Il centro della prima lettera ai cristiani di Corinto, Paolo scrive questo vero e proprio inno alla carità-amore, e si tratta della forma più alta dell’amore (che è molto di più della carità, come talvolta è intesa). La parola viene usato addirittura per descrivere il modo in cui Dio si è manifestato a noi, come scrive Giovanni nella sua prima lettera: «abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,16). E continua: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Giovanni 3,1); «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). E nel Vangelo dello stesso Giovanni leggiamo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (Gv 15,12-13). Fra l’altro, per mostrare il contatto dei testi originali tra Paolo e Giovanni, nella lettera ai Corinzi ho mutato il testo della versione originale: da «carità» ad «amore». Paolo apre il suo inno all’«amore», che occupa tutto il capitolo 13 della 1 Corinzi, con queste parole: «desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via oltre ogni misura» (1Cor 12,31). Questa via «oltre ogni limite», «oltre ogni misura», descrive la vita cristiana. Paolo descrive i doni gratuiti, i «doni dello Spirito» (i «carismi») che costruiscono la comunità cristiana nei capitoli 12 e 14 della stessa lettera (non ce ne possiamo occupare adesso). Così conclude: «chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore» (1Cor 14,37). Del resto ha affermato – è anche il punto da cui muove la domanda del lettore – che «rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e l’amore. Ma la più grande di tutte è l’amore». Ora il tono in cui l’apostolo si esprime non è quello di creare una classifica tra fede, speranza e amore, ma ricondurle ad un orizzonte reale della comunità cristiana: «aspirate all’amore. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia», ossia l’annuncio del Vangelo (1Cor 14,1). Riprendiamo brevemente gli aspetti principali del pensiero dell’apostolo: l’amore è ciò che da significato a quei doni, anche lo stesso amore-carità: «se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi l’amore, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,1-3). Tutti i doni ricevuti dallo Spirito, senza l’amore non sono nulla. Ma che cos’è l’amore di cui Paolo descrive quasi in un canto sinfonico tutte le caratteristiche? Lasciamo parlare direttamente l’apostolo: «l’amore è magnanimo, benevolo è l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,4-7). Ebbene, scrive ancora Paolo: «l’amore non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà» (1Cor 13,8-10). Facendo un passo indietro, quando Paolo apre lo scritto alla chiesa di Corinto ha detto espressamente che «la mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,4-5). Se la fede, anche quella capace di «trasportare le montagne» deve avere alla sua base l’amore, allora possiamo comprendere che la vita cristiana è fatta di elementi essenziali, compresi i «doni dello Spirito», alcuni dei quali scompariranno nella vita eterna. Viceversa l’amore è strettamente legato alla fede e alla speranza: per cui «rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e l’amore». Ma «la più grande di tutte è l’amore», perché questo è il solo legame indissolubile con Dio, quando la fede e la speranza saranno totalmente assorbite in lui, nel momento in cui lo vedremo direttamente e non più in maniera confusa.

Stefano Tarocchi

 

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