(La solitudine) Sempre maledetta o anche benedetta?
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Sempre maledetta o anche benedetta?
(La solitudine)
di Luigi Lorenzetti
(direttore della rivista di Teologia morale)
È benedetta la solitudine che si apre alla relazione; è benedetta la relazione che rispetta la solitudine, che non è mai compiutamente e totalmente colmata. È aspirazione incessante ad andare oltre, sospinta da un innato desiderio dell’Assoluto che è radicato nel cuore umano.
La solitudine è voluta e cercata, ma anche temuta e fuggita; benedetta ma anche maledetta; è un bene, ma anche un male. Cosa dire della solitudine? Le facili affermazioni e i luoghi comuni non aiutano a comprenderne i volti diversi.
La solitudine è anzitutto una dimensione originaria dell’essere umano, ne indica l’inconfondibile individualità non omologabile a nessun altro tra i miliardi che sono comparsi sulla terra, tra i viventi oggi e quelli che verranno dopo. Per questo, l’individuo è sempre alla ricerca di sé stesso: la sapienza antica parlava della conoscenza di sé come il culmine del sapere.
L’essere umano è solo, ma non è fatto per vivere solo: la relazione con l’altro, con gli altri, lo definisce, lo identifica, lo costituisce. Fin dalle prime pagine bibliche, nel momento in cui crea la donna, Dio dichiara che la solitudine non è un bene: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen. 2,8). E, nel capitolo precedente, si dice che Dio crea l’essere umano «a sua immagine e somiglianza», ma Dio non è solitudine, è Trinità, cioè comunione, rapporto, dialogo. In lui c’è il massimo dell’individualità (una Persona non è l’altra) e, insieme, il massimo della relazione interpersonale. Così si comprende che il mistero trinitario (l’unità nella diversità) è modello e archetipo di ogni tipo di comunità umana dalla più piccola alla più grande.
L’aspirazione profonda e radicale dell’essere umano non è la solitudine, ma la relazione. In questa prospettiva i padri del Concilio Vaticano II insegnano che la realizzazione piena si ha quando l’individuo esce dalla solitudine ed entra in relazione. «L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (Gaudium et spes, 24). La relazione appartiene alla natura della persona, che non è per nulla diminuita dalla presenza degli altri, ma dalla loro assenza.
Tra solitudine e relazione c’è un nesso reciproco: la solitudine è in correlazione con la relazione e, viceversa, la relazione è in correlazione con la solitudine. Si potrebbe dire che gli individui sono solitudini nate fatte per incontrarsi. È benedetta la solitudine che si apre alla relazione; è benedetta la relazione che rispetta la solitudine che, del resto, non è mai compiutamente e totalmente colmata. La solitudine, infatti, è aspirazione incessante ad andare oltre, sospinta da un innato desiderio dell’Assoluto che è radicato nel cuore umano.
Quando si è conquistato ciò che si desidera, si continua a desiderare ancora; quando si crede di aver raggiunto la meta, si vuole andare oltre. La solitudine rinvia sempre oltre, nessuno la può togliere, nemmeno la relazione più riuscita in termini di qualità.
In breve, l’essere umano non è nato per la solitudine anche se è consapevole di non potere eliminarla mai definitivamente. Quanto può fare è uscire dalla solitudine maledetta e vivere la solitudine benedetta.
La solitudine maledetta
Solitudine maledetta è quella creata dalla cultura e dalle strutture sociali dove tutto viene valutato in termini di avere, potere e sapere per competere, per vincere e non per amare. È il vuoto esistenziale nel quale si rinserrano quanti (singoli, ma anche gruppi umani e popoli) che si danno per scopo ultimo le cose e non le persone, e che si muovono solo entro la logica dell’utile, del calcolo.
Solitudine maledetta è quella di chi rifiuta di amare, ma anche di chi, incapace di amare, erige un muro invalicabile, una fortezza inespugnabile tra lui e gli altri.
Solitudine maledetta è quella che è cercata per contrasto a una solitudine più amara ancora: la solitudine di vivere con gli altri senza essere con loro. Allora la solitudine diventa un peso, tanto più grave quanto più forte è il desiderio di vivere con loro.
Solitudine maledetta è anche quella che deriva da relazioni mancate, mal riuscite o interrotte senza capire il perché.
Solitudine maledetta è, ancora, quella di non essere riconosciuti, di sentirsi nulla più che un numero o addirittura di peso. La nostra società è una fabbrica di solitudini. Ci sono dentro persone singole, ma anche categorie di persone, gli anziani, i disabili, e quanti faticano a ottenere un posto dignitoso nella società. È una solitudine che conduce facilmente alla nevrosi, all’abbruttimento, persino alla pazzia.
Ogni individuo, infatti, sperimenta il bisogno di essere riconosciuto. Nessuno può vivere se non raggiunge un concetto adeguato di sé, che gli psicologi chiamano identità. L’identità, a sua volta, si costruisce attraverso il riconoscimento che uno ottiene dall’altro. Il noto filosofo tedesco Hegel scrive che mentre gli animali uccidono per alimentarsi, gli esseri umani uccidono per essere riconosciuti.
«Per onore quindi», commenta Umberto Galimberti, « per salvaguardare la propria identità, non per fame. E come i bambini, misconosciuti in famiglia o a scuola, si associano in bande per trovare, nel cerchio ristretto di appartenenza, il riconoscimento della propria identità, così particolari contingenze storiche e sociali possono attivare analoghi processi socio-psicologici in grado di trasformare le condizioni di disagio vissute da una popolazione in ostilità nei confronti di altri gruppi».
Ma passiamo ora a trattare la solitudine benedetta, quella che permette di ritrovare sé stesso; che rende possibile uno spazio, un tempo, un luogo per riflettere.
La solitudine benedetta
Solitudine benedetta è quella che permette di ascoltare la voce della coscienza che conduce a valutare e decidere con la propria testa e non secondo la massa nella quale l’individuo si disperde. Il momento della decisione che è personale, non delegabile o attribuibile ad altri, è anche il momento dove l’individuo sperimenta la più grande solitudine. La coscienza morale, ricordano i padri del Concilio Vaticano, è «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (Gaudium et spes, 16). Questa solitudine non è da temere, è da amare, perché da quella Fonte non può venire che luce, grazia e motivi di speranza.
Solitudine benedetta è quella che è sperimentata come richiamo di infinito e di assoluto e, se credente, come dialogo con Dio. Allora la solitudine è sorgente di felicità non perché solitudine, ma perché è incontro che costruisce.
Uscire dalla solitudine
Tutti possono incappare nella solitudine maledetta. È una pianta malvagia, una malattia che riduce ogni tipo di comunità a una somma di individui soli, che coesistono ma non convivono, fisicamente vicini, moralmente lontani anni luce.
Molti malati di solitudine sono tentati di uscirne per vie traverse, come la droga, la prostituzione, l’eutanasia, il suicidio, e altre ancora. Non tutti i malati di solitudine finiscono nell’abisso di queste disperazioni, ma ognuno di questi disperati porta nel cuore le ferite della solitudine.
Altri pensano di uscirne per la via della cosiddetta sublimazione che è solo la maschera del vuoto. Desiderano il cielo, e questo permette di evitare il mondo presente ma, al di fuori di questo, l’essere umano non esiste; si rifugiano in Dio, ma l’amore di Dio non può diventare un alibi per fuggire gli altri; l’amore di Dio è inscindibilmente legato all’amore dell’altro, degli altri.
Per uscire dalla solitudine maledetta, la strategia vincente consiste nell’entrare nella solitudine benedetta che si fonda su una nuova consapevolezza di sé stesso secondo una triplice prospettiva.
Sentirsi amato
L’aspirazione più profonda dell’essere umano è sentirsi amato. In modo insuperabile viene descritta con queste parole: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane», così scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptor hominis n. 10, « per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente».
Ma non è forse un’aspirazione destinata a rimanere inevasa? «Non sono nessuno», diceva di sé una ragazza, sorprendendo non poco il suo docente. Allora, per diventare qualcuno, si assume un ruolo, si gioca alle apparenze. Per questa strada, si ottiene anche riconoscimenti ai quali il primo a non credere è il soggetto stesso.
L’amore di Dio è destinato a tradursi in consapevolezza personale e, così, fondare un’autentica autostima, ma può anche rimanere a livello teorico e astratto, e non incidere sul vissuto personale. D’altra parte, l’amore di Dio lo si incontra attraverso le mediazioni umane e, tra queste, assume una nativa originalità la comunità a ogni livello, a cominciare da quella familiare. La persona che si sente amata, diventa capace di amare, di rispondere all’amore. «Amor che a nullo amato amar perdona». Se, al contrario, non si sente amata e riconosciuta, la sua capacità di amare s’indebolisce e subentra facilmente la solitudine maledetta.
Sentirsi voluto
Sono al mondo per caso? Un semplice incidente nel succedersi dei miliardi di vite umane? Sono interrogativi che attendono risposta per non sprofondare nella solitudine maledetta.
Molti non si sentono accettati, voluti, scelti. Il mondo è pieno di persone che si domandano se non sarebbe stato meglio non essere nate. Se la domanda rimane nel sottofondo senza plausibile risposta, diventa fonte di sofferenza per l’intero arco dell’esistenza e conduce in vario grado alla malattia della solitudine, e di qui alla frustrazione, alla depressione, alla disperazione e anche al suicidio.
Di certo, finché si permette ad altri di decidere se si è voluti o no, scelti o no, ci si trova irretiti nelle maglie di un mondo soffocante che accetta o rifiuta secondo i suoi calcoli di utilità e di controllo. Nel disegno di Dio, nessuno esiste per caso: «Dio», afferma André Frossard, sa contare fino a uno»; come nessuno, per altro, esiste per necessità: si poteva non esistere; chi esiste, esiste per dono e il dono rinvia al donatore.
Questa consapevolezza permette di uscire dalla solitudine e di coltivare autentiche relazioni con l’altro, con gli altri. Se si è convinti di valere, si diventa capaci di riconoscere il valore dell’altro, di ogni altro e il posto unico che ha nel disegno di amore di Dio. La persona che si sente accolta, diviene capace di accogliere l’altro/a, di includere e non escludere, di riconoscere l’altro per quello che è e non per quello che si vuole che sia.
Sentirsi benedetto
Il sentimento di essere benedetti non è, purtroppo, il sentimento dominante che si ha di sé, anche perché si presta attenzione più alle male-dizioni che alle benedizioni.
Essere bene-detti porta a bene-dire. «La caratteristica di coloro che sono bene-detti», osserva il teologo americano Henri J.M. Nouwen, «è che, ovunque vadano, dicono sempre parole di benedizione. Se uno è consapevole di essere bene-detto, benedice gli altri, dice cose buone a loro e di loro. Il benedetto benedice sempre. E la gente vuole essere bene-detta. Nessuno è portato a vivere attraverso le maledizioni, il pettegolezzo, le accuse o i biasimi. Troppe cose del genere accadono attorno a noi, e questo causa soltanto oscurità, distruzione e morte. In qualità di bene-detti, si può camminare attraverso questo mondo e offrire benedizioni».
Se questo è vero nella relazione con gli altri in generale, in quanto la bene-dizione guarisce le relazioni che si erano distrutte con le male-dizioni, non si può non riconoscere la particolare virtù terapeutica nel rapporto di coppia e di famiglia e di ogni tipo di comunità civile o religiosa che sia. Non è forse dominante la tendenza a mantenere la relazione con l’altro, con gli altri, sotto il segno della male-dizione? Ci si interessa degli altri solo per censurare, ammonire, rimproverare, richiamare. Non è forse più giusto il rovescio: interessarsi degli altri per bene-dire (dire bene)? Non è necessario nascondere quello che è male che certamente esiste; è necessario però non nascondere il bene che, senza alcun dubbio, è più grande.
Luigi Lorenzetti
