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(La solitudine) Sempre maledetta o anche benedetta?

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Sempre maledetta o anche benedetta?

(La solitudine)

di Luigi Lorenzetti

(direttore della rivista di Teologia morale)

È benedetta la solitudine che si apre alla relazione; è benedetta la relazione che rispetta la solitudine, che non è mai compiutamente e totalmente colmata. È aspirazione incessante ad andare oltre, sospinta da un innato desiderio dell’Assoluto che è radicato nel cuore umano.
La solitudine è voluta e cercata, ma anche temuta e fuggita; benedetta ma anche maledetta; è un bene, ma anche un male. Cosa dire della solitudine? Le facili affermazioni e i luoghi comuni non aiutano a comprenderne i volti diversi.
La solitudine è anzitutto una dimensione originaria dell’essere umano, ne indica l’inconfondibile individualità non omologabile a nessun altro tra i miliardi che sono comparsi sulla terra, tra i viventi oggi e quelli che verranno dopo. Per questo, l’individuo è sempre alla ricerca di sé stesso: la sapienza antica parlava della conoscenza di sé come il culmine del sapere.
L’essere umano è solo, ma non è fatto per vivere solo: la relazione con l’altro, con gli altri, lo definisce, lo identifica, lo costituisce. Fin dalle prime pagine bibliche, nel momento in cui crea la donna, Dio dichiara che la solitudine non è un bene: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen. 2,8). E, nel capitolo precedente, si dice che Dio crea l’essere umano «a sua immagine e somiglianza», ma Dio non è solitudine, è Trinità, cioè comunione, rapporto, dialogo. In lui c’è il massimo dell’individualità (una Persona non è l’altra) e, insieme, il massimo della relazione interpersonale. Così si comprende che il mistero trinitario (l’unità nella diversità) è modello e archetipo di ogni tipo di comunità umana dalla più piccola alla più grande.
L’aspirazione profonda e radicale dell’essere umano non è la solitudine, ma la relazione. In questa prospettiva i padri del Concilio Vaticano II insegnano che la realizzazione piena si ha quando l’individuo esce dalla solitudine ed entra in relazione. «L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (Gaudium et spes, 24). La relazione appartiene alla natura della persona, che non è per nulla diminuita dalla presenza degli altri, ma dalla loro assenza.
Tra solitudine e relazione c’è un nesso reciproco: la solitudine è in correlazione con la relazione e, viceversa, la relazione è in correlazione con la solitudine. Si potrebbe dire che gli individui sono solitudini nate fatte per incontrarsi. È benedetta la solitudine che si apre alla relazione; è benedetta la relazione che rispetta la solitudine che, del resto, non è mai compiutamente e totalmente colmata. La solitudine, infatti, è aspirazione incessante ad andare oltre, sospinta da un innato desiderio dell’Assoluto che è radicato nel cuore umano.
Quando si è conquistato ciò che si desidera, si continua a desiderare ancora; quando si crede di aver raggiunto la meta, si vuole andare oltre. La solitudine rinvia sempre oltre, nessuno la può togliere, nemmeno la relazione più riuscita in termini di qualità.
In breve, l’essere umano non è nato per la solitudine anche se è consapevole di non potere eliminarla mai definitivamente. Quanto può fare è uscire dalla solitudine maledetta e vivere la solitudine benedetta.

La solitudine maledetta
Solitudine maledetta è quella creata dalla cultura e dalle strutture sociali dove tutto viene valutato in termini di avere, potere e sapere per competere, per vincere e non per amare. È il vuoto esistenziale nel quale si rinserrano quanti (singoli, ma anche gruppi umani e popoli) che si danno per scopo ultimo le cose e non le persone, e che si muovono solo entro la logica dell’utile, del calcolo.
Solitudine maledetta è quella di chi rifiuta di amare, ma anche di chi, incapace di amare, erige un muro invalicabile, una fortezza inespugnabile tra lui e gli altri.
Solitudine maledetta è quella che è cercata per contrasto a una solitudine più amara ancora: la solitudine di vivere con gli altri senza essere con loro. Allora la solitudine diventa un peso, tanto più grave quanto più forte è il desiderio di vivere con loro.
Solitudine maledetta è anche quella che deriva da relazioni mancate, mal riuscite o interrotte senza capire il perché.
Solitudine maledetta è, ancora, quella di non essere riconosciuti, di sentirsi nulla più che un numero o addirittura di peso. La nostra società è una fabbrica di solitudini. Ci sono dentro persone singole, ma anche categorie di persone, gli anziani, i disabili, e quanti faticano a ottenere un posto dignitoso nella società. È una solitudine che conduce facilmente alla nevrosi, all’abbruttimento, persino alla pazzia.
Ogni individuo, infatti, sperimenta il bisogno di essere riconosciuto. Nessuno può vivere se non raggiunge un concetto adeguato di sé, che gli psicologi chiamano identità. L’identità, a sua volta, si costruisce attraverso il riconoscimento che uno ottiene dall’altro. Il noto filosofo tedesco Hegel scrive che mentre gli animali uccidono per alimentarsi, gli esseri umani uccidono per essere riconosciuti.
«Per onore quindi», commenta Umberto Galimberti, « per salvaguardare la propria identità, non per fame. E come i bambini, misconosciuti in famiglia o a scuola, si associano in bande per trovare, nel cerchio ristretto di appartenenza, il riconoscimento della propria identità, così particolari contingenze storiche e sociali possono attivare analoghi processi socio-psicologici in grado di trasformare le condizioni di disagio vissute da una popolazione in ostilità nei confronti di altri gruppi».
Ma passiamo ora a trattare la solitudine benedetta, quella che permette di ritrovare sé stesso; che rende possibile uno spazio, un tempo, un luogo per riflettere.

La solitudine benedetta
Solitudine benedetta è quella che permette di ascoltare la voce della coscienza che conduce a valutare e decidere con la propria testa e non secondo la massa nella quale l’individuo si disperde. Il momento della decisione che è personale, non delegabile o attribuibile ad altri, è anche il momento dove l’individuo sperimenta la più grande solitudine. La coscienza morale, ricordano i padri del Concilio Vaticano, è «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (Gaudium et spes, 16). Questa solitudine non è da temere, è da amare, perché da quella Fonte non può venire che luce, grazia e motivi di speranza.
Solitudine benedetta è quella che è sperimentata come richiamo di infinito e di assoluto e, se credente, come dialogo con Dio. Allora la solitudine è sorgente di felicità non perché solitudine, ma perché è incontro che costruisce.

Uscire dalla solitudine
Tutti possono incappare nella solitudine maledetta. È una pianta malvagia, una malattia che riduce ogni tipo di comunità a una somma di individui soli, che coesistono ma non convivono, fisicamente vicini, moralmente lontani anni luce.
Molti malati di solitudine sono tentati di uscirne per vie traverse, come la droga, la prostituzione, l’eutanasia, il suicidio, e altre ancora. Non tutti i malati di solitudine finiscono nell’abisso di queste disperazioni, ma ognuno di questi disperati porta nel cuore le ferite della solitudine.
Altri pensano di uscirne per la via della cosiddetta sublimazione che è solo la maschera del vuoto. Desiderano il cielo, e questo permette di evitare il mondo presente ma, al di fuori di questo, l’essere umano non esiste; si rifugiano in Dio, ma l’amore di Dio non può diventare un alibi per fuggire gli altri; l’amore di Dio è inscindibilmente legato all’amore dell’altro, degli altri.
Per uscire dalla solitudine maledetta, la strategia vincente consiste nell’entrare nella solitudine benedetta che si fonda su una nuova consapevolezza di sé stesso secondo una triplice prospettiva.

Sentirsi amato
L’aspirazione più profonda dell’essere umano è sentirsi amato. In modo insuperabile viene descritta con queste parole: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane», così scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptor hominis n. 10, « per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente».
Ma non è forse un’aspirazione destinata a rimanere inevasa? «Non sono nessuno», diceva di sé una ragazza, sorprendendo non poco il suo docente. Allora, per diventare qualcuno, si assume un ruolo, si gioca alle apparenze. Per questa strada, si ottiene anche riconoscimenti ai quali il primo a non credere è il soggetto stesso.
L’amore di Dio è destinato a tradursi in consapevolezza personale e, così, fondare un’autentica autostima, ma può anche rimanere a livello teorico e astratto, e non incidere sul vissuto personale. D’altra parte, l’amore di Dio lo si incontra attraverso le mediazioni umane e, tra queste, assume una nativa originalità la comunità a ogni livello, a cominciare da quella familiare. La persona che si sente amata, diventa capace di amare, di rispondere all’amore. «Amor che a nullo amato amar perdona». Se, al contrario, non si sente amata e riconosciuta, la sua capacità di amare s’indebolisce e subentra facilmente la solitudine maledetta.

Sentirsi voluto
Sono al mondo per caso? Un semplice incidente nel succedersi dei miliardi di vite umane? Sono interrogativi che attendono risposta per non sprofondare nella solitudine maledetta.
Molti non si sentono accettati, voluti, scelti. Il mondo è pieno di persone che si domandano se non sarebbe stato meglio non essere nate. Se la domanda rimane nel sottofondo senza plausibile risposta, diventa fonte di sofferenza per l’intero arco dell’esistenza e conduce in vario grado alla malattia della solitudine, e di qui alla frustrazione, alla depressione, alla disperazione e anche al suicidio.
Di certo, finché si permette ad altri di decidere se si è voluti o no, scelti o no, ci si trova irretiti nelle maglie di un mondo soffocante che accetta o rifiuta secondo i suoi calcoli di utilità e di controllo. Nel disegno di Dio, nessuno esiste per caso: «Dio», afferma André Frossard, sa contare fino a uno»; come nessuno, per altro, esiste per necessità: si poteva non esistere; chi esiste, esiste per dono e il dono rinvia al donatore.
Questa consapevolezza permette di uscire dalla solitudine e di coltivare autentiche relazioni con l’altro, con gli altri. Se si è convinti di valere, si diventa capaci di riconoscere il valore dell’altro, di ogni altro e il posto unico che ha nel disegno di amore di Dio. La persona che si sente accolta, diviene capace di accogliere l’altro/a, di includere e non escludere, di riconoscere l’altro per quello che è e non per quello che si vuole che sia.

Sentirsi benedetto
Il sentimento di essere benedetti non è, purtroppo, il sentimento dominante che si ha di sé, anche perché si presta attenzione più alle male-dizioni che alle benedizioni.
Essere bene-detti porta a bene-dire. «La caratteristica di coloro che sono bene-detti», osserva il teologo americano Henri J.M. Nouwen, «è che, ovunque vadano, dicono sempre parole di benedizione. Se uno è consapevole di essere bene-detto, benedice gli altri, dice cose buone a loro e di loro. Il benedetto benedice sempre. E la gente vuole essere bene-detta. Nessuno è portato a vivere attraverso le maledizioni, il pettegolezzo, le accuse o i biasimi. Troppe cose del genere accadono attorno a noi, e questo causa soltanto oscurità, distruzione e morte. In qualità di bene-detti, si può camminare attraverso questo mondo e offrire benedizioni».
Se questo è vero nella relazione con gli altri in generale, in quanto la bene-dizione guarisce le relazioni che si erano distrutte con le male-dizioni, non si può non riconoscere la particolare virtù terapeutica nel rapporto di coppia e di famiglia e di ogni tipo di comunità civile o religiosa che sia. Non è forse dominante la tendenza a mantenere la relazione con l’altro, con gli altri, sotto il segno della male-dizione? Ci si interessa degli altri solo per censurare, ammonire, rimproverare, richiamare. Non è forse più giusto il rovescio: interessarsi degli altri per bene-dire (dire bene)? Non è necessario nascondere quello che è male che certamente esiste; è necessario però non nascondere il bene che, senza alcun dubbio, è più grande.

Luigi Lorenzetti

Publié dans:meditazioni, Teologia morale |on 15 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

Decalogo, legge naturale, ethos mondiale. Considerazioni teologico-morali a margine di due recenti documenti

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Decalogo, legge naturale, ethos mondiale. Considerazioni teologico-morali a margine di due recenti documenti

Giuseppe Quaranta

1. Introduzione

Negli ultimi mesi del 2008 sono stati approvati in via definitiva due documenti particolarmente significativi per gli studiosi e i cultori di teologia morale cattolica. Il primo, redatto dalla Pontificia commissione biblica e intitolato Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano[1], si propone di raggiungere un duplice obiettivo: far emergere più chiaramente la specificità e l’originalità della morale cristiana, situandola «nell’orizzonte più vasto dell’antropologia e delle teologie bibliche» (BM 3) e definire i criteri metodologici per un corretto approccio alla Scrittura nello studio delle problematiche di carattere etico e morale (cf. BM 3 e 92).
Il secondo documento si intitola, invece, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale[2] ed è uno studio preparato dalla Commissione teologica internazionale (CTI) a sostegno di un’urgenza più volte segnalata da papa Benedetto XVI, preoccupato che il «concetto metafisico della legge naturale» – concetto «quasi assente, incomprensibile» in un mondo formato dalle scienze naturali – sia «di nuovo riproposto e reso comprensibile»[3].
Come si può facilmente immaginare, i due autorevoli contributi, considerando l’importanza, la complessità, ma anche la diversità delle questioni affrontate, meriterebbero di essere studiati singolarmente. In relazione all’argomento complessivo del nostro fascicolo, tuttavia, i due documenti mostrano un significativo punto di convergenza, indicando entrambi un’interpretazione del decalogo in chiave di etica universale che, a nostro giudizio, merita di essere puntualizzata e valutata criticamente. Ecco esposto in sintesi, allora, il duplice obiettivo del presente articolo: offrire una breve istantanea della tematica richiamata e tentare di ricostruire il punto di vista proprio della teologia morale più recente.

2. La portata etico-universale del decalogo
Prima di esprimersi sulla portata etico-universale del decalogo, nella convinzione che esso illustri al meglio la comprensione biblica dell’agire umano descrivendolo come risposta all’iniziativa divina[4], BM afferma che «paradossalmente, nel suo tenore originale, il decalogo riflette un’etica allo stesso tempo iniziale e potenzialmente molto ricca»[5]. Il carattere paradossale dell’affermazione, come risulta evidente, non sfugge al documento. Sono molti a pensare, infatti, che i dieci comandamenti, a motivo della loro esteriorità, della valenza essenzialmente comunitaria e della formulazione per lo più negativa dell’esigenza morale, non possano essere riproposti nell’attuale contesto culturale (cf. BM 26). Nonostante questo, però, il «decalogo originale» è detto «fondamento insostituibile di una morale stimolante e ben adatta alla sensibilità del nostro tempo», proprio perché i comandamenti, in forza della loro «portata virtualmente universale» (BM 27), promuovono valori che «possono essere applicati a tutta l’umanità di tutte le regioni e di tutti i periodi della storia» (BM 27,1).
In linea con queste ultime indicazioni, BM propone di tradurre e di attualizzare il decalogo nei termini di una «morale dei valori», capace di spingersi oltre i limiti di una morale di soli divieti o di gesti minimi (cf. BM 30). Convinzione degli estensori del testo, infatti, è che trasposti in prospettiva assiologica, i precetti del decalogo non solo rivelino alcuni tra i valori fondamentali dell’uomo – «l’Assoluto, la riverenza religiosa, il tempo, la famiglia, la vita, la stabilità della coppia marito e moglie, la libertà […], la reputazione, la casa e le persone umane che vi appartengono, la casa e i beni materiali» (BM 30) – ma persino «un fondamento chiaro per una carta dei diritti e delle libertà, valevole per tutta l’umanità»[6]. Di conseguenza – prosegue BM – «la teologia morale e anche la catechesi che ne deriva, può proporre all’umanità di oggi un ideale equilibrato che da una parte non privilegia mai i diritti a danno degli obblighi o viceversa e che, d’altra parte, evita lo scoglio di un’etica puramente secolare che non tenga conto del rapporto dell’uomo con Dio» (BM 31). Il tutto nella certezza che «proponendo una lettura assiologica della legge fondamentale del Sinai, secondo i valori ivi implicati, non facciamo altro che camminare sulle tracce di Gesù», che dei precetti del decalogo ha dato un’interpretazione quanto mai radicale «da un triplice punto di vista: approfondimento, interiorizzazione, superamento di se stesso fino a raggiungere la perfezione quasi divina (Mt 5,17-48)» (BM 32).
Quanto al contributo specifico di LN, si deve evidenziare fin da subito la natura squisitamente teologica del documento e la maggiore ampiezza del suo raggio di indagine. Pensato in un momento storico nel quale «la ricerca di valori etici comuni conosce un ritorno di attualità»[7], LN si propone di «invitare tutti coloro che si interrogano sui fondamenti ultimi dell’etica, come pure dell’ordine giuridico e politico, a considerare le risorse che contiene una presentazione rinnovata della dottrina della legge naturale» (LN 9). A giudizio della CTI, infatti, il concetto di legge morale naturale, affermando «che le persone e le comunità sono capaci, alla luce della ragione, di riconoscere gli orientamenti fondamentali di un agire morale conforme alla natura stessa del soggetto umano e di esprimerlo in modo normativo sotto forma di precetti o di comandamenti» (LN 9), è in grado di garantire fondamento e ispirazione adeguati alla vita degli uomini e delle società, assicurando la tutela della dignità della persona umana di fronte al fluttuare delle ideologie (cf. LN 9).
All’interno di questo preciso orizzonte ermeneutico, LN ripropone in due occasioni la lettura universalistica del decalogo. Nella parte prima del documento, intitolata Convergenze, si dice che «il dono della legge sul Sinai, di cui le “Dieci parole” costituiscono il centro […] comporta precetti etici fondamentali», che «definiscono il modo in cui il popolo eletto deve rispondere con la santità della vita alla scelta di Dio […] ma valgono anche per gli altri popoli»[8]. La seconda ricorrenza, invece, compare nell’ultima parte del testo, che ha per titolo: Gesù Cristo compimento della legge naturale. Parlando dell’incarnazione del Figlio come di un evento preparato dall’economia della legge antica, LN, sulla scia di Tommaso d’Aquino (cf. ST I-II, q.100), ricorda che «la tradizione cristiana ha visto nel decalogo un’espressione privilegiata e sempre valida della legge naturale»[9], la quale, al contempo, è assunta e realizzata «in modo eminente» dalla nuova legge, «la legge del vangelo, che consiste principalmente nella grazia dello Spirito Santo operante nel cuore dei credenti per santificarli» (LN 102).
In conclusione, pertanto, possiamo evidenziare così il differente insegnamento dei due documenti: BM afferma in modo diretto ed esplicito la convinzione che il decalogo, in forza della sua «portata virtualmente universale», possa valere anche oggi come nucleo fondamentale di una proposta morale stimolante; LN, invece, menziona il potenziale etico del decalogo in forma indiretta, mediata e più consueta sotto il profilo teologico, riproponendo la dottrina tradizionale che vede nel decalogo non solo il centro della legge antica, ma anche il compendio della legge naturale.

3. Puntualizzazioni di carattere teologico-morale
Terminata l’analisi dei due documenti, possiamo dire che sono almeno tre le grandi questioni aperte:
– la necessità di una corretta ermeneutica teologico-morale della Scrittura;
– l’urgenza e, al contempo, la difficoltà di approdare a un’etica universale in grado di sostenere una forma di responsabilità morale globale;
– il tentativo di rilanciare la legge morale naturale come garanzia di un’etica rispettosa della dignità e della libertà della persona.
Si tratta di problematiche molto complesse, come si può notare, difficilmente affrontabili nel breve spazio di questo contributo. L’obiettivo del presente articolo, pertanto, sarà più limitato, ma – ci auguriamo – non meno utile. Dopo aver focalizzato il principale nucleo tematico dei due documenti in esame, lo metteremo a confronto con la più recente riflessione teologico-morale, nella speranza di offrire ai lettori un quadro aggiornato e sufficientemente approfondito dell’argomento.
3.1. Il decalogo, «grande codice etico dell’umanità»[10]
L’espressione di Benedetto XVI sintetizza efficacemente il dettato di BM relativo al decalogo. Com’è stato sottolineato, infatti, il documento, ricordando che la Sacra Scrittura, in ambedue i Testamenti, rimane «un luogo valido e utile al dialogo con l’uomo contemporaneo sulle questioni che toccano la morale» (BM 1), raccomanda di valorizzare il potenziale etico dei comandamenti anche mediante una loro riformulazione in chiave assiologica. Ora, di fronte a questa soluzione, ci possiamo chiedere quale sia – se effettivamente c’è – il punto di vista della teologia morale più recente.
Analizzando alcuni tra i più noti manuali pubblicati in diverse fasi del postconcilio, possiamo dire che essi non riportano un’interpretazione del decalogo riconducibile a quella di BM. Anzi, tra i testi consultati, alcuni tradiscono persino una specie di sottile «insofferenza» verso i comandamenti, reagendo probabilmente all’uso fattone da gran parte della manualistica che, pur articolando spesso la propria proposta morale sullo schema delle «dieci parole», sorvolava sulla necessità di una più adeguata trattazione biblica e teologica della materia[11]. B. Häring, per esempio, nel suo celebre trattato: La legge di Cristo, enfatizza a tal punto la discontinuità tra legge di Mosè e legge di Cristo da scrivere che «l’essenziale per il discepolo di Cristo è che il Maestro non gli comanda dall’esterno, come il legislatore umano e come la legge di Mosè – considerata come “legge della lettera” (cf. 2Cor 3,6 ss.) – ma specialmente dall’interno, mediante una incorporazione viva in lui»[12]. Considerazioni piuttosto critiche non mancano nemmeno in tempi più recenti. E. Chiavacci, per citare un altro autore molto noto, sulla base degli studi esegetici di G. von Rad, precisa che i diversi elenchi normativi dell’Antico Testamento, tra cui anche il decalogo, non solo «non sono né definitivi né esaustivi»[13], ma nemmeno adatti a fondare un ethos, perché, in forza della loro formulazione prevalentemente negativa, non possono costituire il fondamento di «un principio assoluto di compor-tamento»[14].
Accanto alle voci più restie nei confronti delle potenzialità etico-teologiche del decalogo, però, non mancano i teologi che ne riconoscono il valore e l’attualità. A. Auer, per esempio, pur sottolineando come il decalogo «nella sua forma tradizionale è davvero troppo legato a un determinato contesto socioculturale» per poter fungere da «modello orientativo fondamentale»[15] e per risolvere i molteplici problemi etici della contemporaneità, ritiene di poterlo considerare come una fonte ispirativa tra le più importanti per la morale di oggi in ragione di tre motivi ben precisi. In primo luogo, perché il decalogo è «modello di un ordinamento fondamentale della convivenza umana»; a suo giudizio, «ogni singolo comandamento suppone e protegge un diritto fondamentale dell’uomo, anteriore allo Stato: i comandamenti della prima tavola toccano infatti l’ambito degli adempimenti religiosi e quindi l’ancoraggio dell’uomo a un sommo, trascendente orizzonte pieno di significato; i comandamenti della seconda tavola riguardano invece l’ambito dei beni fondamentali per la sicurezza dell’esistenza personale e collettiva, e per lo sviluppo dell’esistenza»[16]. In secondo luogo, per il fatto che il decalogo, in forza della sua brevità e chiarezza, è facilmente memorizzabile e può quindi assolvere la funzione di strumento di orientamento etico immediatamente richiamabile alla coscienza[17]. In terzo luogo, l’attualità del decalogo emerge se lo si considera come paradigma di quella felice integrazione religiosa di un codice etico di origine extrabiblica che Auer, fedele all’impostazione fondamentale della sua morale autonoma, giudica quanto mai necessaria nel contesto della modernità[18]. Tutto questo, però – conclude il teologo tedesco – non significa che l’etica teologica scientifica debba necessariamente riferirsi al decalogo nel determinare le norme di condotta morale. A suo giudizio, infatti, essa non dispone ancora di un adeguato strumentario ermeneutico capace di coniugare «l’esposizione del decalogo con la riflessione sopra gli attuali problemi morali in modo conforme alla realtà e ai tempi»[19].
Pur muovendosi in un’ottica completamente diversa rispetto a quella adottata da Auer e dai suoi numerosi discepoli, anche G. Angelini, in tempi più recenti, ha dedicato al decalogo riflessioni originali e interessanti. Il teologo milanese chiarisce innanzi tutto come sia la storia della salvezza sia i comandamenti della rivelazione mosaica – decalogo in primis – debbano essere compresi a partire dalla loro «originaria valenza simbolica»[20]. Storia della salvezza e decalogo sono in grado di «interpretare la verità iscritta in tutte le esperienze fondamentali della vita umana» e in tutti «i comportamenti umani», i quali, a loro volta, sono dotati di «un obiettivo, ma nascosto, significato universale». Essi, infatti, «dicono del cuore dell’uomo» o, in altre parole, «della disposizione radicale del singolo per riferimento a tutti, e per riferimento ad ogni tempo della vita»[21]. Se questo è vero però, è altrettanto vero che l’uomo può accedere alla verità del simbolo solo a condizione che egli creda alla promessa dischiusa dall’evento di salvezza, diventando egli stesso «capace di “promettere”, come Dio stesso promette»[22]. In questa direzione – continua Angelini – il significato più proprio dei comandamenti è quello di promuovere nell’uomo la capacità di promettere, definendo quell’orizzonte fermo, che solo gli consente «di assumere consapevolmente e in maniera deliberata quegli impegni che l’agire di oggi obiettivamente comporta in riferimento al suo agire di sempre e nei confronti di tutti»[23].
L’esempio di Abramo, in questo contesto, è paradigmatico. Egli, accettando di obbedire alla promessa di Dio e di lasciare la propria terra, dispone di tutto il proprio futuro e non solo del comportamento di un giorno preciso. Così facendo, il grande patriarca rivela una verità decisiva per la teologia: la fede pensa l’universalità della legge non in relazione all’universalità della ragione, bensì a una speranza escatologica, fondata sulla promessa di Dio e inscritta in quelle forme buone (promettenti) dell’agire umano, che il confronto con la legge consente di riconoscere[24]. La legge biblica, infatti, abilitando l’uomo a promettere e ad accogliere così la precedente promessa di Dio, «deve avere in un modo o nell’altro forma di comando incon-dizionato, sciolto cioè (ab-solutus) da ogni riferimento condizionale a ciò che sarà»[25]. Essa pertanto non viene sminuita nel suo valore e nella sua pretesa per il fatto di derivare gran parte dei suoi contenuti da una tradizione etico-giuridica comune ad altri popoli. Simile circostanza induce piuttosto «a pensare che quella fedeltà, alla quale impegna già la legge nota a tutti i popoli, trovi la sua ultima verità nella fedeltà a Dio; trovi dunque il suo sicuro fondamento nella promessa iscritta nei suoi precedenti benefici»[26].
In questa linea, l’interpretazione in chiave universale della legge e del decalogo, a giudizio di Angelini, non conduce all’ela-borazione di una qualche forma di etica globale o comune – impresa del tutto estranea all’orizzonte teorico complessivo dell’autore[27] –, ma pone la necessità di una rinnovata comprensione antropologica e morale dell’agire umano[28].
La riflessione di Angelini, bisognosa di essere meglio chiarita e approfondita, ma senz’altro originale e provocatoria, fino ad ora non sembra aver suscitato particolari reazioni né di apprezzamento né di critica. Per quanto ne sappiamo, infatti, gli autori che, come lui, si sono spinti a pensare il significato universale del decalogo, pur giungendo a conclusioni opposte, lo hanno fatto dall’interno del tradizionale quadro teorico. È questo il caso di L. Lorenzetti e di M. Vidal.
Il primo, sulla base dell’autorevole dettato di Veritatis splendor e del Catechismo della chiesa cattolica – testi che sottolineano la dimensione umanista e l’orientamento razionale dei dieci comandamenti[29] – scrive che la morale del decalogo, essendo «una morale della fede e, insieme, della ragione, può legittimamente entrare in dialogo con la cultura moderna che rivendica la possibilità di un’etica fondata razionalmente, che argomenta ex ratione, nel rifiuto metodologico di ogni riferimento di tipo religioso o di fede»[30]. Di tutt’altro parere, invece, è il moralista spagnolo M. Vidal. Convinto del fatto che non sia stato ancora formulato un paradigma etico universale soddisfacente, egli non ritiene opportuno utilizzare in tale prospettiva la norma etica espressa dal decalogo sia per l’ambito sacrale da cui proviene – del tutto inaccettabile nell’attuale contesto pluralista e secolarizzato – sia per le inevitabili difficoltà insite nel suo radicamento storico, culturale e religioso[31].
3.2. Il decalogo, «compendio» della legge naturale
La tesi classica, che vede compendiati nel decalogo i precetti morali della legge naturale, è riportata da molti dei recenti testi di morale fondamentale come un autorevole dato della tradizione, ma in genere senza essere accompagnata da riflessioni critiche o da approfondimenti ulteriori. Anche a questo riguardo, però, non mancano le eccezioni.
Il già citato volume di Angelini, per esempio, si occupa della questione nel corso della sua lunga e articolata revisione della dottrina morale di san Tommaso. Dopo aver sintetizzato le considerazioni dell’Aquinate, l’autore richiama l’attenzione sul fatto che l’asserita equivalenza tra i precetti morali della legge mosaica e quelli della legge naturale comporta una precisa identità tra morale rivelata e morale universalmente umana[32], almeno sul piano dei contenuti materiali. Ad Angelini non sfugge come per Tommaso la moralità non si esaurisca sul piano dei contenuti oggettivi, ma richieda necessariamente la qualità dell’intenzione, cioè la qualità della disposizione soggettiva che presiede all’agire. Vista da questo versante, allora, la legge morale antica – in sostanza il decalogo e, di riflesso, anche la legge naturale in esso compendiata – è manchevole e richiede di essere completata dalla legge nuova. Quest’ultima figura della legge rivelata, infatti, identificandosi in primo luogo con «la grazia dello Spirito Santo» (ST I-II, 106, 1, c.), consente di superare il limite principale della legge antica, e cioè la sua incapacità di abilitare il soggetto a compiere il bene indicato dalla legge materiale[33].
Su questa linea, troviamo un altro teologo milanese, A. Fumagalli, autore di un pregevole articolo, nel quale si ripropone di suggerire una rinnovata interpretazione della legge morale, rivisitandola alla luce dell’insegnamento biblico[34]. Entro questo sfondo più generale, le riflessioni di Fumagalli ci consentono di arricchire le considerazioni finora svolte. Egli da un lato riesce a esprimere nel linguaggio dell’amore, oggi più comprensibile, la manchevolezza contenutistica della legge naturale. Sulla base di un’attenta esegesi del pensiero tommasiano, si può dire infatti che i precetti del decalogo – «traccia scritta della legge naturale»[35] – si riassumono nel comandamento di amare il prossimo (cf. ST I-II, 99, 1, ad 2.), ma risultano imperfetti rispetto all’amore dei nemici illustrato dal discorso della montagna (cf. Mt 5,1-7,28), il documento scritto della legge nuova[36]. Dall’altro lato, Fumagalli valorizza intelligentemente la differenza tra decalogo e legge evangelica. In un contesto come quello attuale, particolarmente sensibile alla necessità di una piattaforma etica più adeguata alle problematiche del mondo globalizzato, l’amore del prossimo declinato nei precetti del decalogo potrebbe infatti rappresentare quel nucleo di pochi principi pratici non negoziabili, sui quali basarsi per prevenire e per arginare le molteplici forme di violenza che minacciano la convivenza pacifica degli individui e dei popoli[37]. Il paradigma dell’amore cristiano del nemico, invece, potrebbe fungere come «criterio di eccellenza per distinguere nelle complesse vicende dell’umano vivere ciò che è amore da ciò che solo pretende di esserlo»[38].

4. Conclusioni
A conclusione di questo breve studio, vorremmo ribadire la bontà degli stimoli offerti dai due autorevoli contributi BM e LN. In particolare, riteniamo che lo sforzo di riproporre all’attenzione della teologia morale il decalogo con tutto il suo potenziale etico-religioso sia da valutare in termini più che positivi. A questo proposito, infatti, l’intento dei due documenti non è quello di recuperare semplicemente uno schema architettonico per la suddivisione della materia. L’obiettivo, almeno così sembra a chi scrive, è ben più alto e impegnativo. Si tratta di continuare ad approfondire quel processo volto a dotare la teologia morale di un più chiaro e soddisfacente fondamento biblico avviato dal Vaticano II e per diversi aspetti ancora incompiuto[39]. Si tratta, inoltre, di ripensare le categorie centrali della teologia morale – in questo caso la categoria di «legge» – sottoponendo le formulazioni tradizionali a una revisione critica maggiormente ispirata all’originalità della rivelazione biblica, la quale, come dimostrato nel caso del decalogo e della sua rilettura in chiave cristologica, non è assolutamente priva di quell’apertura universalistica oggi così necessaria per far fronte alle sfide etiche poste dai processi di globalizzazione.
Su questa strada, come si è cercato di evidenziare, la teologia morale contemporanea non è del tutto sprovveduta. Il lavoro da compiere, tuttavia, è ancora molto. Ricerca e confronto aperto delle reciproche posizioni non possono che giovare a rivitalizzare la disciplina e a dotarla di un’autorevole parola da spendere tanto nella comunità ecclesiale quanto nello spazio pubblico.

NOTE SUL SITO

Publié dans:Teologia morale |on 27 mars, 2012 |Pas de commentaires »

Moralismo e morale

dal sito:

http://www.karamazov.it/moralismo_morale.htm

Moralismo e morale
 
 La corruzione della moralità – oggi particolarmente in voga – si chiama moralismo. Il moralismo è la scelta unilaterale dei valori per avallare la propria visione delle cose. Normalmente gli uomini capiscono che, senza un certo ordine, non si può concepire la vita, il reale, l’esistere. Ma come definiscono quest’ordine? Considerando la realtà secondo i vari punti di vista da cui partono, la descrivono nei suoi dinamismi stabili e mettono in fila un seguito di principi e di leggi, adempiendo i quali sono persuasi che l’ordine si crei. Ecco allora che si scandiscono, in ogni epoca, le varie proposizioni analitiche in cui la riflessione distende le sue pretese: “Bisogna fare così e così”. I farisei definivano l’ordine con un numero quasi infinito di leggi: da un certo punto di vista il fariseo è l’uomo affezionato all’ordine, il difensore della morale intesa come quell’ordine affermato e delineato, in quanto possibile all’uomo, secondo tutti i suoi dettagli.
Il moralismo si traduce in due sintomi gravi. Il primo è, appunto, il fariseismo. Nessuno è più antievangelico di chi si considera onesto, perchè non ha più bisogno di Cristo. Il fariseo vive senza tensione, perchè stabilisce lui stesso la misura del giusto e la identifica con ciò che crede di poter fare. Come contraccolpo, egli usa la violenza contro chi non è come lui. Il secondo sintomo perciò è la facilità alla calunnia. Da un lato, dunque, giustificazione per se stessi. Dall’altro, odio e condanna del prossimo. (..)
Nel Regno di Dio non c’è nessuna misura, nessun metro. “Nessuno giudichi, perchè Dio solo giudica”. San Paolo dice anche: “Io non giudico nessuno, neanche me stesso”. Solo Dio misura tutti i fattori dell’uomo che agisce e la sua misura è oltre ogni misura: si chiama misericordia, qualcosa per noi di ultimamente incomprensibile. Come l’uomo Gesù che ha detto di coloro che lo uccidevano: “Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”: sull’infinitesimo margine della loro ignoranza Cristo costruiva la loro difesa. La nostra imitazione di Lui è nello spazio della misericordia.
Per questo la moralità è una tensione di ripresa continua. Come un bambino che impara a camminare: cade dieci volte, ma tende a sua madre, si rialza e tende. Il male non ci ferma: possiamo cadere mille volte, ma il male non ci definisce, come invece definisce la mentalità mondana, per cui alla fine gli uomini giustificano quello che non riescono a non fare. (..)
 

Luigi Giussani   

 Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli
 ———————————————–
 
 Quest’uomo ingiuriava Cristo in mia presenza con i più bassi insulti,
e tuttavia non è mai stato capace
 di mettere a confronto con Cristo se stesso
 e tutti i progressisti di questo mondo.
Non è mai stato capace di accorgersi quanto c’era in lui stesso
di meschino amor proprio, di odio, d’insofferenza,
d’irritabilità, di volgarità, ma soprattutto di amor proprio.
Insultando Cristo, lui non si è chiesto:
ma cosa metteremo al suo posto?
Non possiamo mica metterci noi stessi, che siamo così spregevoli.

Fëdor Michailovic Dostoevskij
Lettere

Publié dans:Teologia morale |on 21 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

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