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LA VITA SECONDO LO SPIRITO [Tratto da "Lettera ai cercatori di Dio]

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125093

LA VITA SECONDO LO SPIRITO

Tratto da « Lettera ai cercatori di Dio »

Il dono dello Spirito da parte di Dio fa comprendere e accogliere ai credenti il suo progetto salvifico, che si manifesta in Gesù, il Cristo crocifisso. Lo Spirito plasma l’identità e l’agire dei discepoli, che proprio in quanto segnati dalla sua opera sono chiamati a vivere in modo “spirituale”, nella sequela di Cristo.

10. LA VITA SECONDO LO SPIRITO
Nella tradizione biblica lo “spirito” è la forza vivificante di Dio, che ispira i profeti e anima la vita dei fedeli che aderiscono all’alleanza. Se ne attende un’effusione abbondante per gli ultimi tempi. I primi credenti in Gesù Cristo sono convinti che la sua risurrezione inaugura i tempi ultimi con l’effusione dello Spirito. San Paolo parla dello “Spirito di Dio”, considerandolo al contempo dono di Gesù risorto ai credenti.
 
Lo Spirito di Cristo
Il dono dello Spirito da parte di Dio fa comprendere e accogliere ai credenti il suo progetto salvifico, che si manifesta in Gesù, il Cristo crocifisso. Lo Spirito plasma l’identità e l’agire dei discepoli, che proprio in quanto segnati dalla sua opera sono chiamati a vivere in modo “spirituale”, nella sequela di Cristo.
Lo Spirito suscita e alimenta quelle disposizioni profonde che sono conformi al progetto di Dio, in antitesi con quelle della “carne”, ossia con un’esistenza chiusa in se stessa ed estranea al progetto di Dio. È lo Spirito a far penetrare nel cuore dei credenti l’amore di
Dio, che diventa fonte dell’amore fraterno. Lo Spirito di Dio suscita in chi crede l’atteggiamento di confidenza filiale di Gesù, che si esprime nell’invocazione Abbà, “Padre”.
Anche nelle situazioni di sofferenza lo Spirito ispira e alimenta la preghiera dei credenti in, sintonia con il disegno salvifico di Dio.
Lo Spirito di Cristo Signore è garanzia della libertà dei discepoli nei confronti della vecchia esistenza ed è fonte di un nuovo dinamismo di vita caratterizzato dall’amore. Effuso nel battesimo, costituisce i credenti in una comunità di persone di pari dignità, facendo superare ogni discriminazione etnica o sociale. La comunità animata dallo Spirito per mezzo di doni (o “carismi”) cresce in modo armonico e unitario con la partecipazione di tutti.
È lo Spirito comunicato dal Risorto la fonte interiore e permanente della libertà del cristiano. Essa è prima di tutto liberazione dalla schiavitù del peccato e della morte per l’iniziativa gratuita di Dio attuata in Cristo: è “libertà da” tale schiavitù e “libertà per” donarsi a Dio e agli altri, perché lo Spirito comunica all’intimo dei cuori la capacità di amare secondo la volontà del Padre, rivelata in Gesù.
La “legge”, sintesi delle esigenze etiche e relazionali, cessa di essere una norma esterna perché viene a coincidere con la “legge dello Spirito”, donata da Dio. Si stabilisce così una sintonia tra le aspirazioni profonde dell’essere umano, che cerca la propria realizzazione nelle relazioni giuste e felici con le persone, e le esigenze etiche concentrate nell’amore.
 
I doni dello Spirito
Lo Spirito Santo, dato ai credenti nel battesimo e negli altri sacramenti, fa di essi ’unico corpo di Cristo e comunica loro i vari doni o carismi. Si può parlare di doni dello spirito solo in un contesto di fede, in cui si riconosce che Gesù è il Signore. Poiché tutti i redenti, in forza dello Spirito, riconoscono Gesù Cristo come il Signore, le differenti manifestazioni dello Spirito si impiantano su una base condivisa, e quindi su un’eguale dignità.
Si deve poi riconoscere che all’origine dei vari e molteplici doni spirituali c’è sempre n solo Dio e Signore che opera per mezzo dell’unico Spirito. Perciò non hanno senso concorrenze o contrapposizioni nella manifestazione e nell’esercizio dei vari carismi. Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo paragona la comunità dei credenti al corpo, che “pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra pur essendo molte, sono un corpo solo” (12,12). Egli conclude il confronto tra la comunità cristiana e il corpo con la dichiarazione: “Voi siete corpo di Cristo” (12,27). Tutti i cristiani infatti sono stati immersi in un solo Spirito per formare un solo corpo.
Il criterio ultimo per valutare i carismi suscitati dallo Spirito nella comunità è l’amore.
Ce lo fa capire san Paolo nell’elogio dell’amore contenuto nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi, quando dice che anche le esperienze mistiche più prestigiose e perfino gli atti di eroismo più grandi sono privi di valore senza l’amore (che in greco è detto “agàpe” ed è per lo più tradotto col termine “carità”):
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come
bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la
conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto,
ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si
gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non
tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto
scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine…
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più
grande di tutte è la carità!” (13,1-7. 13).
Il dono dello Spirito Santo, che Gesù risorto fa ai credenti, diventa in essi la fonte dell’amore di Dio e li rende capaci di attuare la loro fede in un atteggiamento di donazione reciproca. Lo Spirito di Dio fa nascere da un lato la fede in lui e dall’altro l’amore verso il prossimo. La maturità spirituale dei cristiani si misurerà, allora, sulla qualità delle loro relazioni d’amore, rese possibili dai frutti dello Spirito: “amore, gioia, pace, magnanità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Galati 5,22). La libertà cristiana trova nella carità la sua verifica: essa mette in moto decisioni e comportamenti responsabili e si
orienta alla realizzazione di un progetto in cui l’essere umano si gioca personalmente in una costante disponibilità al servizio.
 
La promessa della vita piena
Lo Spirito donatoci da Gesù ci rende dunque partecipi della vita divina nel tempo e per l’eternità. Ci chiediamo: accogliendolo nel nostro cuore, che cosa ci è dato sperare? Nel libro dell’Apocalisse, il profeta di Patmos descrive l’ultimo atto del dramma della salvezza come “nuova creazione”. L’idea della nuova creazione deriva dalla tradizione biblica, dove i profeti invitano a dimenticare il passato e a guardare alle cose nuove che Dio sta per creare.
San Paolo riprende questo linguaggio per esprimere la consapevolezza che i credenti, uniti mediante il battesimo a Gesù Cristo, sono una “nuova creatura”. L’esperienza della novità di vita nello Spirito, fondata sulla iniziativa radicale di Dio, prefigura e anticipa la comunione piena e definitiva con lui che chi crede attende nella speranza. Nella prospettiva di san Paolo, anche l’attuale condizione del creato è associata al destino dell’essere umano, che lo trascina con sé nella sua storia di peccato. Ma in forza della stessa solidarietà, il creato attende la liberazione dalla sua schiavitù assieme agli esseri umani chiamati a entrare nella gloria di Dio.
Nella visione dell’Apocalisse, espressa col linguaggio evocativo dei simboli, il disegno di Dio sulla storia umana è racchiuso in un rotolo, che solo Gesù Cristo, il messia discendente di Davide, ucciso ma vivo, è in grado di interpretare e di realizzare. Gesù Cristo è il rivelatore e il redentore universale che inaugura la grande liturgia cosmica, in cui tutti gli esseri creati riconosceranno l’assoluta signoria di Dio. Con la sua morte e risurrezione, egli non solo vince le potenze del male e della morte, ma inaugura il tempo e la condizione definitiva della salvezza per tutti quelli che lo seguono anche a costo di perdere la vita fisica. Dopo la vittoria finale sulle forze del male si presenterà la “nuova creazione”, che comprenderà il cielo e la terra, mentre il “mare”, simbolo del caos, scomparirà per sempre.
In questa cornice si colloca la visione della “Gerusalemme celeste”, la “fidanzata e sposa” dell’Agnello, che rappresenta il compimento del disegno della salvezza. In essa si realizzerà la dimora definitiva di Dio con gli uomini. La morte, fonte di ogni dolore, sarà eliminata per sempre. Dio accoglierà gli esseri umani come figli chiamati a partecipare per sempre alla sua vita d’amore. Questo destino è prefigurato nella donna Maria, la madre del Messia.
 
Maria madre della speranza
Nella tradizione evangelica Maria, la vergine madre di Gesù, si presenta come la donna credente che – coperta dall’ombra dello Spirito – si apre al dono della salvezza definitiva, inaugurato dal suo Figlio. Ella accoglie la parola dell’angelo inviato da Dio con l’adesione pronta e fedele dei grandi testimoni della tradizione biblica. Nel canto del Magnificat, Maria esalta la potenza salvifica di Dio, il santo e il misericordioso, che nel suo figlio Gesù porta a compimento la promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Come umile serva del Signore, Maria, la “figlia di Sion”, si colloca nella storia del suo popolo, Israele, che, a partire dall’esodo e dal cammino nel deserto, fa esperienza dell’agire potente di Dio. Il Magnificat, sintesi della storia della salvezza, è un canto di speranza, di cui Maria si fa voce.
Alla nascita di Gesù a Betlemme, mentre i pastori riconoscono nel bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia il Messia e il Salvatore, Maria conserva e medita nel suo cuore quanto le è stato annunciato e va realizzandosi. La stessa immagine di Maria compare a conclusione dell’episodio di Gesù dodicenne che, in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per la festa di Pasqua, si ferma nel tempio per discutere con i maestri della Legge. Maria e Giuseppe non comprendono le parole di Gesù che rivendica il suo diritto e dovere di dedicarsi alle cose del Padre suo. Il racconto si chiude con una scena paradossale: Gesù ritorna a Nazaret, dove rientra nel suo ruolo di figlio sottomesso, mentre Maria “conserva tutte queste cose nel suo cuore” (Luca 2,51). La madre di Gesù vive nell’attesa del pieno svelamento dell’identità di suo Figlio nella Pasqua di Risurrezione. Maria, in quanto è la credente, che accoglie e conserva nel cuore la parola di Dio, è il prototipo dei discepoli e della Chiesa intera. Quest’identità della Madre di Gesù si trova anche nella tradizione trasmessa nel Vangelo di Giovanni, a partire dal racconto delle nozze di Cana.
Con il dono del vino buono e abbondante, Gesù inaugura la nuova alleanza, fondata su nuove relazioni di amore. Con discrezione, ma anche con determinazione, la Madre entra nella prospettiva della nuova alleanza, richiamando l’attenzione del Figlio sul bisogno venutosi a creare e invitando i servi a fare quello che lui dirà loro. A Cana la Madre anticipa l’ora della rivelazione della gloria di Gesù, che si compirà con la sua morte e risurrezione a Gerusalemme.
La Madre è presente nella scena centrale della crocifissione di Gesù. Prima delle parole “tutto è compiuto”, Gesù le rivela una nuova identità, affidandola come madre al discepolo amato, che l’accoglie come un dono prezioso. Ai piedi della croce nasce la comunità dei credenti, rappresentata dal discepolo e dalla Madre di Gesù. Nel dolore della sua morte avviene il parto, la nascita della nuova creatura, che Gesù ha promesso ai discepoli nel discorso di addio.
In questo orizzonte si colloca anche la visione del capitolo 12 dell’Apocalisse, che presenta il destino finale dell’umanità mediante il grande segno nel cielo, dove compare una donna vestita di sole che partorisce un figlio destinato a regnare come Messia. Per essere sottratto alla minaccia di morte del grande drago, il figlio della donna è portato nel mondo di Dio. Le doglie del parto e il rapimento del figlio presso Dio alludono al mistero pasquale di Gesù, che si prolunga nella storia dei suoi testimoni. Essi sono i figli della donna contro i quali ora combatte il drago.
Nel dramma dell’Apocalisse la figura della madre del Messia si sovrappone a quella di Israele e della Chiesa, sullo sfondo della lotta primordiale tra il serpente antico e la discendenza della donna. Maria è la primizia e l’immagine della Chiesa che vive nell’attesa della salvezza finale. In lei Dio ha fatto risplendere per il suo popolo, pellegrino sulla terra, “un segno di consolazione e di sicura speranza”. Ecco come un figlio della Chiesa dei nostri tempi si rivolge a Maria, la madre di Gesù, figura ideale per ogni donna e per ogni uomo:
Santa Maria, donna dei nostri giorni,
liberaci dal pericolo di pensare
che le esperienze spirituali vissute da te duemila anni fa
siano improponibili oggi per noi…
Facci comprendere che la modestia, l’umiltà, la purezza
sono frutti di tutte le stagioni della storia,
e che il volgere dei tempi non ha alterato
la composizione chimica di certi valori
quali la gratuità, l’obbedienza, la fiducia,
la tenerezza e il perdono.
Sono valori che tengono ancora
e che non andranno mai in disuso.
Ritorna, perciò, in mezzo a noi, e offri a tutti
l’edizione aggiornata di quelle grandi virtù umane
che ti hanno reso grande agli occhi di Dio.
(Preghiera a Maria del vescovo Tonino Bello).
 

(Teologo Borèl) Giugno 2009 – autore: Conferenza Episcopale Italiana 

Lo Sconosciuto oltre il Verbo: Considerazioni sullo Spirito Santo

dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=166

Lo Sconosciuto oltre il Verbo

Considerazioni sullo Spirito Santo

di Rino Fisichella
rettore della Pontificia Università Lateranense 
 
      «Lo Sconosciuto che viene oltre il Verbo». È l’espressione più concisa con la quale un teologo dello spessore di Hans Urs von Balthasar poteva parlare dello Spirito Santo. Che lo Spirito Santo sia uno “Sconosciuto” può essere vero per almeno due motivi: il primo, di ordine teologico, è determinato dal fatto che mai come in questo caso siamo posti dinanzi al mistero. Egli è Spirito di Amore e riporta inevitabilmente alla sublimità dell’essenza stessa di Dio come l’ha rivelata Gesù Cristo. Il linguaggio umano trova forte il limite delle sue parole sempre imbrigliate all’interno di quella “gabbia” – per usare l’espressione di Ludwig Wittgenstein – che impedisce di dire ciò che costituisce l’essenza del mistero. Con ragione, quindi, i fratelli di Oriente suggeriscono che è meglio invocare lo Spirito piuttosto che parlare di lui; egli, infatti, è grazia che viene data dall’amore del Padre. Da questa prospettiva, dunque, è importante sottolineare che per avere una coerente intelligenza di questo mistero è determinante acquisire l’atteggiamento dello stupore e della ricezione silenziosa.
      Il secondo motivo è di ordine maggiormente storico e dipende dal fatto che per lungo tempo la teologia ha dimenticato di tenere fisso lo sguardo sull’intelligenza dello Spirito Santo. Ne è scaturita una teologia debole perché priva della centralità del mistero trinitario e, quindi, frammentaria nell’esposizione dei diversi misteri di cui si compone la fede. L’emarginazione del tema dello Spirito alla sola sfera della spiritualità, ad esempio, ha impedito di raggiungere una coerente teologia dei ministeri e del laicato. Il recupero del posto centrale che è dovuto agli studi sullo Spirito Santo ha permesso di verificare, in questi ultimi decenni, quanto ritardo sia stato imposto alla tabella di marcia della teologia sia nel suo corrispondere alla missione ecclesiale che le appartiene sia nel dare voce alla forza della profezia.
      Chi è, dunque, lo Spirito Santo? «Se vuoi sapere quello che deve essere il tuo pensiero intorno allo Spirito Santo, ti è necessario ritornare agli apostoli e ai Vangeli con i quali e nei quali hai certezza che Dio ha parlato» (Lo Spirito Santo, I, 9). Questo testo di Fausto, vescovo di Riez nella metà del V secolo (452/460?) permette al teologo di ritrovare il metodo corretto per balbettare qualche cosa sul mistero dello Spirito di Cristo. “Ritorna agli apostoli e ai Vangeli”. Ecco la fonte originaria della fede cristiana: la Tradizione e la Scrittura nella loro inscindibile unità e nella reciprocità piena che permette di cogliere l’unica Parola che Dio ha rivolto all’umanità (cfr. Dei Verbum 9).
      «Esaminiamo ora le nozioni correnti che abbiamo intorno allo Spirito Santo, sia quelle raccolte dalle Scritture, sia quelle che ci furono trasmesse dalla tradizione non scritta dei Padri… Lo Spirito Santo è chiamato Spirito di Dio, Spirito di verità che procede dal Padre, Spirito retto, Spirito che guida. Il suo nome più appropriato è Spirito Santo, perché questo nome indica l’essere più incorporale, più immateriale e più esente da composizione. Poiché il Signore alla samaritana persuasa che si dovesse adorare Dio in un luogo, insegnò che l’incorporeo non può essere chiuso da limiti, e le disse: “Dio è spirito”. Quindi, chi sente dire “Spirito” non può figurarsi una natura limitata, sottoposta a mutamenti e variazioni, oppure simile in tutto a cosa creata». Sono le parole di san Basilio, monaco e vescovo di Cesarea, che nel 375 scriveva il suo trattato Sullo Spirito Santo.
      Sappiamo che la Scrittura parla con preferenza dello Spirito come «ruah»: «soffio», «aria», «spirito», «vento», «respiro»… tutte realtà di cui, per dirla con le parole di Gesù, «si ode il suono, ma non sai da dove viene e dove va» (Gv 3,8); si percepisce, quindi, la sua presenza e la sua forza, ma non sappiamo dire di più, perché egli è avvolto nel mistero della vita di Dio. Il concilio di Costantinopoli nel professare: «È Signore e dà la vita», cerca di dare corpo all’insegnamento della Sacra Scrittura che pone sempre lo Spirito in relazione alla vita. Il salmista esplicita il testo della Genesi, quando attesta: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33,6). Lo Spirito, insomma, è il soffio che esce dalla bocca di Dio e che crea ogni cosa dando vita. Il genio di Michelangelo, nell’affresco della Cappella Sistina, darà forma artistica a questo insegnamento. Il «digitus paternae dexterae» del Veni Creator, è ciò che dà la vita all’uomo e tutto sostiene (cfr. Sal 8,5). È talmente vero che, «se Dio richiamasse a sé il suo spirito e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe polvere» (Gb 34,14). In una parola, lo Spirito è la potenza e la forza di Dio, per suo mezzo tutto viene alla luce e tutto viene portato a compimento.
      Lo Spirito Santo, dunque, è protagonista di tutta la storia della salvezza. Ogni qual volta Dio interviene in mezzo al suo popolo per liberarlo e per mostrargli il compimento delle sue promesse, è sempre lo Spirito che lo accompagna. È in forza della sua potenza che vengono vinte le battaglie; alla stessa stregua, è la sua forza che trasforma gli uomini permettendo loro di adempiere la missione ricevuta. È, ancora, lo Spirito che «investe Gedeone» o che «penetra in Sansone» dando a ciascuno la forza necessaria per la vittoria. È sempre lo stesso Spirito che scende sul re, lo incorona e lo protegge perché possa regnare a nome di Dio sul suo popolo: «lo Spirito del Signore si posò sopra David da quel giorno in poi» (1Sam 16,13). 
 
      Sarà soprattutto con i profeti che la sua azione diventerà maggiormente visibile. Il profeta è l’uomo chiamato dallo Spirito di Jhwh per far ascoltare la sua voce nelle situazioni più disparate della storia. Isaia, Geremia, Ezechiele, come Amos, Osea e tutti i profeti minori, anche se non esplicitamente detto per il timore di fraintendimenti, esprimono la consapevolezza di essere stati chiamati e “rapiti” alla missione profetica dallo Spirito del Signore. Per tutti, vale l’espressione di Ezechiele: «Lo Spirito del Signore venne su di me e mi disse: parla» (Ez 11,5). Il profeta diventa possesso dello Spirito e “bocca” mediante la quale Dio fa udire la sua voce. È interessante, in proposito, osservare che alcuni Padri della Chiesa hanno voluto parlare dello Spirito come della “bocca” di Dio. Simeone il nuovo Teologo, vissuto nel 1022, così scrive nel suo libro di Etica: «La bocca di Dio è lo Spirito Santo e la sua Parola e Verbo è il suo Figlio, anch’egli Dio. Ma perché lo Spirito è chiamato bocca di Dio e il Figlio Parola e Verbo? Nella stessa maniera nella quale il discorso interiore esce dalla nostra bocca e si rivela agli altri, senza che noi possiamo pronunciarlo o manifestarlo con un altro mezzo che non sia quello della bocca, allo stesso modo il Figlio e Verbo di Dio, se non è espresso o rivelato dallo Spirito Santo come da una bocca, non può essere conosciuto né inteso».
      Lo Spirito Santo viene pienamente rivelato da Gesù Cristo. Quasi fosse un’armoniosa sintesi dell’intero Vangelo di Luca e di Giovanni, san Gregorio Nazianzeno così scrive: «Cristo nasce e lo Spirito lo precede; è battezzato e lo Spirito lo testimonia; viene messo alla prova e quello lo riconduce in Galilea; compie i miracoli e quello lo accompagna; sale al cielo e lo Spirito gli succede» (Discorsi, XXX, 29). Su Cristo, infatti, lo Spirito riposa in pienezza e ne accompagna tutta l’esistenza. Poiché Gesù possiede in pienezza lo Spirito Santo, lo può donare in abbondanza e senza misura a quanti credono in lui (Gv 7,37-39). La nuova creazione che Gesù compie, attraverso il sacrificio della sua morte e la risurrezione, diventa evidente quando egli, alitando sui discepoli raccolti nel cenacolo, infonde in loro il suo Spirito: «alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Perché la Chiesa potesse essere forte nel suo annuncio, coerente nella sua vita e capace di portare il perdono e l’amore a tutti, l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste segna l’inizio ufficiale della missione dei discepoli di Gesù davanti al mondo.
      Lo Spirito Santo è dono del Padre e del Figlio; la sua azione è sempre pienamente trinitaria in una relazionalità che forma la pericoresi perenne del donarsi reciproco, pieno e totale delle tre persone divine. «Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,14-15). La missione dello Spirito, dunque, è portare a intelligenza ciò che Gesù ha rivelato. La rivelazione che egli compie non ha un suo contenuto proprio; questa può essere solo ciò che il Logos ha pronunciato avendolo udito presso il Padre. Ma l’intelligenza del mistero non è meno importante del contenuto. Ogni intelligenza è un’azione sempre nuova in cui la Chiesa vede e sperimenta la presenza del suo Signore che non l’ha mai abbandonata e che sempre la segue e accompagna nella storia, fino a quando non avrà raggiunto la verità nella sua pienezza. È sempre l’insegnamento di Fausto da Riez che consente di recepire questa istanza: «La nostra esistenza sembra essere riferita propriamente al Padre “nel quale” come ha detto l’Apostolo, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28); invece il nostro essere capaci di ragione, di sapienza e di giustizia è attribuito in particolare a colui che è ragione (logos), sapienza e giustizia, vale a dire al Figlio. Attraverso la Parola di Dio, poi, nella persona dello Spirito Santo sono chiaramente ascritti la nostra chiamata alla rigenerazione, il rinnovamento che ne consegue e la successiva santificazione… Forse, potreste dire: è più grande lo Spirito Santo, le cui opere sono più importanti e più nobili. Non è così… anche se le singole persone compiono qualcosa di proprio, permane nei tre il disegno di insieme» (Lo Spirito Santo, I,10).
      La Chiesa, che era già presente nel gruppo dei discepoli che per tre anni avevano seguito il Signore formando con lui una comunità, nasce in quella effusione dello Spirito che sulla croce era già stata segnata e raffigurata dallo scorrere di sangue e acqua dal costato aperto del crocifisso. Ora, nel giorno di Pentescoste, essa ha la forza di porsi nel mondo come testimone della resurrezione del Signore. E come Gesù aveva inaugurato la sua missione pubblica con la predicazione della conversione e del perdono, così anche la Chiesa ripercorrendo le stesse orme di Cristo, proclama il suo primo discorso richiamando alla conversione e alla fede nel Signore Gesù (At 2,14). La divisione di Babele frutto del peccato, viene distrutta dalla Pentecoste, riportando l’unità per mezzo dello Spirito. È lo Spirito che dà forza ai discepoli di aprire le porte sbarrate del cenacolo dove si trovavano “per paura” e immette nella missione evangelizzatrice. Ciò che emerge, tuttavia, in maniera originale, tanto da creare una discontinuità con la mentalità e la prassi ebraica, è che in Gesù lo Spirito viene dato a tutti. La visione profetica di Gioele che vedeva nel futuro l’espandersi dello Spirito profetico su tutti i figli e le figlie di Israele si attua e diventa visibile nella comunità dei credenti.
      Come lo Spirito aveva accompagnato Gesù, così ora egli accompagna la sua Chiesa. Uno sguardo alle diverse comunità e alla loro vita interna che si struttura progressivamente, mostra la sua azione onnipresente. È lui che rivela agli apostoli dove andare o non andare (At 16,6-10); è sempre lui che concede a ognuno i carismi necessari per costruire la comunità (1Cor 12,7); è lo stesso Spirito che dona ai discepoli le parole necessarie per difendersi durante i processi (Lc 12,11-12), ed è lo Spirito del Risorto che permette a Stefano di offrire la sua testimonianza suprema (At 7). È lo stesso Spirito che ispira gli autori sacri a mettere per iscritto i Vangeli e gli insegnamenti degli apostoli perché la Chiesa potesse avere nel futuro un riferimento costante per la sua vita; ed è sempre lo stesso Spirito che guida l’incessante trasmettersi di tutto ciò che non è stato scritto, ma che costituisce la fede di sempre e di tutti. È lo Spirito di verità che non viene mai meno nella storia della Chiesa; questi consente a tutti i credenti di mantenersi intatti in quel «senso della fede» (Lumen gentium,12) che permette ai più semplici di sapere in che cosa consiste la fede e che dà certezza ai suoi Pastori uniti a Pietro di interpretare il Vangelo nella verità.
      Quanto mai significative, in questo senso, risuonano le parole di uno degli ultimi autori della letteratura romana del III secolo, Novaziano: «Lo Spirito costituisce nella Chiesa i profeti, istruisce i maestri, dispone le lingue, opera i prodigi e le guarigioni, compie azioni meravigliose, concede il discernimento degli spiriti, assegna i posti di comando, suggerisce i consigli, dispone e distribuisce tutti gli altri doni; e così rende perfetta e completa la Chiesa del Signore in ogni luogo e in ogni cosa… Egli rende testimonianza a Cristo negli apostoli, mostra la fede stabile nei martiri, circonda nelle vergini la mirabile castità della carità insigne, negli altri custodisce inalterati e incontaminati i precetti della dottrina del Signore, annienta gli eretici, corregge gli infedeli, smaschera i bugiardi, frena i malvagi, custodisce la Chiesa incorrotta e inviolata nella santità della perpetua verginità e della verità» (La Trinità, 26, 10-26).   
 
      Sulla stessa lunghezza d’onda si muove san Massimo il Confessore: «Uomini, donne, ragazzi, profondamente divisi in ciò che riguarda la razza, la nazione, la lingua, la classe sociale, il lavoro, la scienza, la dignità, i beni… tutti questi la Chiesa li ricrea nello Spirito. A tutti ugualmente essa imprime una forma divina. Tutti ricevono da essa un’unica natura impossibile a romperla, una natura che non permette più che si tenga ormai conto delle molteplici e profonde differenze che li riguardano. Di qui deriva che tutti siamo uniti in una maniera veramente cattolica. Nella Chiesa, nessuno è separato dalla comunità, tutti si fondano, per così dire, gli uni negli altri, dalla forza indivisibile della fede. Cristo è, così, tutto in tutti, lui che assume tutto in lui secondo la sua forza infinita e a tutti comunica la sua bontà. Egli è come un centro a cui convergono tutte le linee. Così avviene che le creature di Dio unico, non restino più estranee e nemiche le une per le altre, per mancanza di un luogo comune dove possano manifestare la loro amicizia e la loro pace» (Mystagogia, I). Come si può osservare, attraverso i doni che vengono dati possiamo ricostruire la sublimità di colui che li dona.
      Tutta la vita della Chiesa si svolge, fino ai nostri giorni, nell’obbedienza allo Spirito del Signore. L’apostolo ricorda che nella preghiera «noi non sappiamo neppure cosa è conveniente chiedere… lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e con i suoi gemiti inesprimibili ci permette di rivolgerci a Dio e chiamarlo: Padre» (Rm 8,26 ss). È soprattutto nella liturgia che la sua opera diventa percepibile in maniera chiara, perché lì egli santifica l’intera comunità cristiana e ogni singolo credente in essa. L’eucaristia, in modo particolare, consente di vedere realizzata l’opera dello Spirito. Essa costituisce come la sintesi di tutta la vita sacramentale perché si ha la vera e reale presenza di Cristo. L’epiclesi, cioè l’invocazione dello Spirito Santo sulle offerte, si conferma come il centro focale in cui riconoscere la sua azione: «Manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo» rimane come l’espressione culminante per vedere concretizzata la missione dello Spirito Santo. Senza di lui, il pane e il vino restano tali, così come l’acqua del battesimo o il crisma della confermazione e gli olii per le unzioni; se egli non è presente, non vi è trasformazione alcuna nel patto di amore tra i coniugi né in quell’uomo disteso a terra in attesa che gli vengano imposte le mani per il sacerdozio; se egli non viene invocato, nessun peccato può essere rimesso a colui che chiede perdono. La grandezza dello Spirito Santo, in tutta l’azione liturgica, si manifesta nell’obbedienza che egli pone alle parole del ministro che lo invoca perché venga a trasformare la materia del sacramento. In qualche modo, è possibile vedere quasi una “kenosi” dello Spirito (Hans Urs von Balthasar), non solo perché obbedisce alle parole del ministro, ma ancora di più perché si rende visibile nella sua Chiesa anche nella forma dell’Istituzione.
      La vita teologale è opera dello Spirito. Dove si crede, spera ed ama là egli opera permettendo di compiere un lento, ma progressivo cammino verso l’identificazione piena del volto che deve ricevere la nostra obbedienza della fede, la certezza della speranza e la passione dell’amore. Con ragione, san Tommaso poteva sostenere che «omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est» (Summa Theologica, II, 109, 1 ad 1). I semi del Logos sono piantati in ognuno per l’azione del suo Spirito; la maturazione necessaria che richiede l’attesa per i tempi dello Spirito obbliga alla pazienza e al rispetto, senza intraprendere strade che potrebbero manifestare un pio desiderio umano ma non necessariamente una spinta propulsiva dello Spirito. Questo tema che apre in modo particolare al dialogo interreligioso permette di ribadire l’impegno che il teologo è tenuto ad assumere in sé in quanto soggetto ecclesiale. Lo Spirito “soffia dove vuole” è freschezza di una giovinezza perenne della Sposa che sempre e dovunque è chiamata a seguire le strade dello Spirito. Lui indica le terre e segna i ritmi dei tempi: a lui si deve guardare e lui si deve ascoltare perché possiamo essere ancora segni di una speranza che non è mai venuta meno.
      «Sine tuo numine nihil est in homine, nihil est innoxium». Questa visione della fede, lontano dal rendere passiva l’azione del credente, apre alla libera obbedienza che sa fare della testimonianza cristiana il frutto più genuino di un’esistenza vissuta nell’ entusiasmo, cioè mossa dallo Spirito che dà vita.   

LA « RADICE » EBRAICA DELLO SPIRITO SANTO

 dal sito:
 http://www.nostreradici.it/la_radice.htm 

LA « RADICE » EBRAICA DELLO SPIRITO SANTO
Lea Sestieri

 scritto nell’Anno dello Spirito Santo in presparazione del Giubileo del 2000

(non è importante certo, ma è stata la mia prima, primissima, insegnante di religione)

Nei «Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica» del 1985 i cristiani sono invitati ad avere una conoscenza più rispettosa ed adeguata del patrimonio comune a cristiani ed ebrei perché tale conoscenza «può aiutare a comprendere meglio alcuni aspetti della vita della Chiesa» (I, 3).

Tale conoscenza riguarda anche il mistero dello Spirito Santo che il Nuovo Testamento e soprattutto la tradizione cristiana professano come la terza Persona della Santa Trinità, consustanziale al Padre e al Figlio e «con il Padre e il Figlio adorato e glorificato» (Simbolo di Nicea-Costantinopoli).

Anche se nelle scritture ebraiche lo Spirito Santo non viene mai presentato come una persona ma come una forza divina capace di trasformare l’essere umano e il mondo, resta comunque il fatto che la teologia pneumatologica cristiana si radica su quella ebraica. Nella predicazione e nella catechesi sarà necessario pertanto richiamare questo legame, sottolineandone gli aspetti principali:

il nome: «Spirito» traduce il termine ebraico «Ruah» che, nel suo senso primario significa soffio, aria, vento. Gesù utilizza proprio l’immagine sensibile del vento per suggerire a Nicodemo la novità trascendente dello Spirito divino in persona (Catechismo della Chiesa Cattolica 691). Lo spirito come irruzione e come trascendenza: operante nella storia ma altro dalla storia, irriducibile alle sue logiche e instauratrice di un’altra logica, quella della responsabilità e dell’amore per l’altro;

la funzione ordinatrice: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn 1.1). Sul mondo informe si posa «lo spirito di Dio» e la sua discesa produce il miracolo della creazione: la trasformazione del caos in cosmos, del disordine in ordine;

la funzione vivificante: «il Signore Dio plasmò l’essere umano con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici uno spirito di vita e l’essere umano divenne uno spirito vivente» (Gn 2, 7). Sull’essere umano-polvere viene soffiato lo spirito di Dio e, in conseguenza di questo soffio, l’essere umano è trasformato in essere vivente: non più essere animale ma partner con il quale e al quale Dio parla e affida la responsabilità del mondo;

la funzione di guida: «Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza, di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore» (Is 11. 2). Lo spirito di Dio si impadronisce di determinate persone (patriarchi, matriarche, giudici, re, profeti, sapienti, ecc,) e, dotandole di poteri particolari, le abilita alla funzione di guida e di maestri interpreti, nel mondo, della volontà di Dio;

la funzione risanatrice: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo… Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 27). Entrando nell’essere umano, lo spirito lo ricrea e lo risana, vincendone il peccato e ricostituendolo partner di Dio nell’alleanza e nell’osservanza della Torah;

la dimensione universale: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito» (Gl 3f 1-2). Verrà un giorno in cui tutti gli esseri umani saranno posseduti dallo spirito e questo giorno coinciderà con il giorno messianico;

la festa di Pentecoste «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire… essi [gli apostoli] furono tutti ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2 1,4). L’effusione dello Spirito operata dal Risorto coincide con la festa ebraica della Pentecoste che celebra il dono dell’alleanza e della Torah ad Israele. Lo Spirito del Risorto non è cancellazione ma rinnovamento dell’alleanza del Sinai: responsabilità di fronte all’uomo producendo frutti di giustizia e santità nel mondo.

Lo Spirito Santo o lo Spirito di Santità nel pensiero ebraico

 L’espressione «Spirito Santo» come tale (sostantivo più aggettivo attributivo) non si trova nel testo biblico ebraico dove il riferimento allo Spirito è sempre accompagnato da un genitivo di appartenenza. È pertanto lo Spirito di Dio (ruah Elohim) nel caso della creazione; Spirito del Signore (ruah Jhwh) nel caso della relazione di Dio con le sue creature. Solo due volte si trova un riferimento alla Santità (ruah qodesh) Spirito di Santità, in cui Santità è sinonimo di Dio (Is. 63,10s., Sal 51,13). Se nella creazione rappresenta la premessa ordinatrice, «la prima rivelazione di Dio al mondo, quasi l’annuncio, il germe delle rivelazioni future» tanto da suggerire nel Targum Neofiti l’interpretazione delle parole «Lo Spirito di Dio si librava» come «uno spirito d’amore da davanti al Signore»; nella vita delle creature si versa su alcuni, trasmette loro «la sua intenzione, la direzione della sua volontà», li investe con particolare intensità (giudici, re) e fa sì che la loro parola diventi parola di profezia e il profeta sia riconosciuto come ish haruah, un uomo dello spirito (Os. 9,7). Ma lo Spirito in determinate circostanze può investire tutti; i versi di Gioele 3,1-2 sono in questo caso i più indicativi (v. appendice). Ezechiele inoltre in 36, 24 a proposito del cuore di pietra e del cuore di carne suggerisce l’impegno dello Spirito nella realizzazione della rivoluzione spirituale, nel desiderio di cambiamento attraverso la teshuvah (pentimento, conversione), che deve portare al compimento dell’«amare il tuo prossimo che è come te». Si potrebbe suggerire pertanto che lo Spirito pur non avendo né corporeità, né materialità è presente nell’intimità delle creature per arricchirle.

 Nel pensiero rabbinico si parte dallo Spirito come Spirito di profezia che sarebbe cessato come tale con Aggeo, Zaccaria e Malachia (Yoma 9b), lo si riconosce poi come ispirazione carismatica e sarebbe promesso agli studiosi. La Mishnah ne parla come di qualcosa che può essere raggiunto dall’uomo pio attraverso varie tappe spirituali (v. appendice). Mai nei testi rabbinici si considera lo Spirito come entità separata da Dio, anche se a volte è usato come sinonimo di Dio e intercambiabile con la Shekinah (maestà di Dio presente in mezzo agli uomini e alla natura; l’immanenza).

 La filosofia ebraica avvicina lo Spirito alla Shekinah rabbinica (Filone), alla Gloria di Dio (Jehudah HaLevi); mentre Maimonide lo designa come ispirazione dell’Intelletto divino (emanato da Dio sui profeti) e Nahmanide, a proposito di Gn. 2,7 sottolinea «è lo spirito del grande nome, dalla cui bocca viene conoscenza e intelligenza»(Perushe haTorah 1,33).

 La Mistica del Hassidismo renano (sec. XII-XIII) si riferisce di nuovo alla Gloria «è il grande splendore che si chiama Shekinah e pertanto identico allo Spirito di Santità dal quale provengono la voce e la parola di Dio». Lo Zohar (I, 15a) mostra che è grazie allo Spirito che il mondo è stato creato, in quanto esso è l’emanazione di questo chiarore punto splendente e primordiale, come già era stato espresso dal filosofo Saadia (sec. IX).

 In questo ultimo secolo l’idealismo ritrova lo Spirito assoluto come nome per l’Io assoluto. F. Rosenzweig, riferendosi alla creazione sottolinea «lo spirito covante di Gn 1, 2 come qualcosa che tende alla spersonalizzazione cioè alla maggiore trascendenza». A. Neher lo definisce un principio assoluto di rivelazione. Infine lo Spirito divino è considerato come ciò che rappresenta la inscindibile correlazione fra Dio e l’uomo (Herman Cohen).

APPENDICE (Testi)

 Gioele 3,1-2: «E accadrà dopo di questo e Io verserò il mio Spirito su ogni carne e profetizzeranno i vostri figli e le vostre figlie, i vostri anziani avranno sogni profetici, i vostri giovani avranno visioni profetiche, ed anche sugli schiavi e sulle schiave in quei giorni verserò il mio Spirito».

 Ezechiele 36, 25-27: «Poi verserò sopra di voi acqua pura e diventerete puri. Io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri atti di idolatria, e vi darò un cuore nuovo metterò in voi uno spirito nuovo, toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, metterò in voi il mio Spirito».

 Mishnah, Sota 9,15: «R. Pinehas ben Jair diceva: La diligenza porta all’innocenza; l’innocenza porta alla castità; la castità porta all’astinenza; l’astinenza porta alla purità; la purità conduce all’umiltà; l’umiltà conduce al timore del peccato; il timore del peccato conduce alla pietà; la pietà conduce al santo spirito (ruah haqodesh) e il Santo Spirito ci rende degni della resurrezione dei morti, la quale resurrezione dei morti si compirà a mezzo di Elia».

 Talmud, Pesahim 117a: «Il titolo Per David un salmo ci insegna che David s’è messo a dire il salmo e la Presenza divina s’è subito posata su lui. Ciò prova che la Presenza divina non si manifesta quando ci lasciamo andare o alla tristezza o alla frivolezza o alle parole futili, ma solo grazie alla gioia che si mette nel compiere un comandamento come è detto in II Re 3,15: « E mentre il sonatore toccava le corde, la mano del Signore (cioè lo Spirito profetico) si posò su di lui »».

Publié dans:ebraismo, teologia: lo Spirito Santo |on 21 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

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