Archive pour la catégorie 'Tempi liturgici: Quaresima'

LA RICONCILIAZIONE E L’ESPIAZIONE

http://www.parrocchiasantorosario.it/d_riconciliazione13.html

(Parrocchia di Statte, Taranto)

LA RICONCILIAZIONE E L’ESPIAZIONE

Nel vocabolario della Quaresima ci sono due termini che fanno parte del cammino di Conversione, i quali hanno un significato molto diverso da quello che noi siamo soliti attribuire: i due termini sono ôriconciliazioneö ed ôespiazioneö.
Secondo il nostro modo di pensare, la riconciliazione indica quel movimento, che parte da chi ha commesso una mancanza nei confronti di un altro, che porta la persona a chiedere scusa alla persona offesa, che spinge a invocare il suo perdono. Questo movimento lo si pu‗ vivere verso unÆaltra persona o verso Dio. Quando lo viviamo verso Dio, parliamo di Sacramento della Riconciliazione, che nasce dal nostro pentimento, e ci conduce a celebrare questo ôsegnoö per ottenere il perdono di Dio. Solitamente, lÆaltro termine, ôespiazioneö, Þ legato al primo, poichÚ ôespiareö significa, per noi, pagare pegno, sopportare un costo, sostenere una penitenza, un sacrificio, una rinuncia, quasi come rimborso per il danno o per lÆoffesa arrecata.
La domanda che ci poniamo Þ: questi significati sono gli stessi che la Bibbia attribuisce ai due termini? Dio intende dire la stessa cosa che diciamo noi?
Partiamo dalla Riconciliazione. Prendiamo, come esempio, uno dei brani in cui ricorre questa parola: ôse uno Þ in Cristo, Þ una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo per‗ viene da Dio, che ci ha riconciliati con sÚ mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. ╚ stato Dio infatti a riconciliare a sÚ il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dioö (2Cor 5,17-20).
Troviamo sia il verbo ôkatallßss¶ö, che vuol dire cambiare, scambiare, riconciliare quelli che sono in disaccordo, ritornare in buona relazione con qualcuno (il verbo ricorre in totale 6 volte nel N.T.), sia il sostantivo ôkatallaghÚö, che significa scambio, adattamento di una differenza (presuppone che ci fosse un equilibrio che Þ stato rotto), riconciliazione, restaurazione a favore di qualcuno (ricorre nel N.T. 4 volte): chi Þ il soggetto del verbo? Chi compie lÆazione della riconciliazione? Chi ne Þ il protagonista?
Il soggetto di questo verbo Þ sempre Dio, il quale non ne Þ mai lÆoggetto! Ci‗ significa che il protagonista non Þ lÆuomo, nonostante sia lui a dover chiedere perdono a Dio. EÆ Dio, invece, che interviene per offrire il suo perdono, per accogliere presso di sÚ lÆuomo, senza che lÆuomo abbia alcun merito, e questo per la gratuita e amorevole iniziativa di Dio.
Per avere unÆidea di quanto affermiamo, leggiamo il brano su riportato: ôTutto questo per‗ viene da Dio, che ci ha riconciliati con sÚ mediante Cristoà ╚ stato Dio infatti a riconciliare a sÚ il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpeö (vv. 18.19); e soprattutto il testo di Rm 5, dove Paolo ne parla in modo pi¨ esteso: ôMentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morý per gli empi nel tempo stabilitoà Dio dimostra il suo amore verso di noi perchÚ, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo Þ morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto pi¨ ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Ges¨ Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazioneö (Rm 5,6.8-11; cf. anche i passi paralleli).
Questo ministero della riconciliazione, che ha come fonte Dio, Þ innanzitutto, come abbiamo appena visto, un ministero ôcristologicoö, ma, poichÚ la Chiesa Þ il Sacramento di Cristo, il segno efficace della presenza e dellÆazione di Cristo nella storia e nel mondo, Þ anche un ministero ôecclesialeö, nel senso che continua, che si prolunga nellÆazione della comunitÓ ecclesiale: ôTutto questo per‗ viene da Dio,à mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazioneà affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostroö (vv. 18.19-20).
Il pentimento come si pone nei confronti di questa concezione della riconciliazione? Il pentimento non Þ la causa della riconciliazione, ma ne Þ lÆeffetto: non Þ il pentimento che provoca questa azione di Dio, ma Þ lÆazione di Dio, il suo amore sconvolgente, che spinge a pentirsi. Dunque, non ci si pente per timore, per paura di Dio, ma per questo amore smisurato di Dio, che mette in difficoltÓ e porta alla contrizione.
Riconciliare, per‗, non significa soltanto appianare, ritornare nellÆequilibrio che Þ stato rotto, bensý unÆazione di ôcreazioneö, o, per meglio dire, di ri-creazione: Dio quando interviene crea ex-novo: ôse uno Þ in Cristo, Þ una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuoveö (v. 17).
Quanto detto per la riconciliazione, vale anche per la ôespiazioneö. Cosa significa espiare? Chi espia?
LÆespiazione ebraica, il kippur, deriva dal verbo kipper, che significa ôpurificareö, ôperdonare i peccatiö, per cui il soggetto, il protagonista dellÆespiazione, lÆagente che opera non Þ lÆuomo, ma Dio. La traduzione greca, il verbo ilaskomai precisa ancora meglio il significato di tale azione: vuol dire ôpurificareö, ôperdonareö, ôusare graziaö. In sostanza Þ Dio che ôespiaö, contrariamente a quanto pensiamo, mentre noi ne siamo gli usufruitori.
EÆ esattamente ci‗ che abbiamo giÓ detto parlando della riconciliazione!

don Pompilio

LETTERA ENCICLICA PAENITENTIAM AGERE DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI XXIII (1.7.2962)

http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_01071962_paenitentiam_it.html

LETTERA ENCICLICA PAENITENTIAM AGERE DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI XXIII (1.7.2962)
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE SONO IN PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA NELLA QUALE SI INVITA A FARE PENITENZA
PER IL BUON ESITO DEL CONCILIO (1)

Far penitenza dei propri peccati, secondo l’esplicito insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo, costituisce per l’uomo peccatore il mezzo per ottenere il perdono e per giungere alla salvezza eterna. Appare quindi evidente quanto sia giustificato l’atteggiamento della chiesa cattolica, dispensatrice dei tesori della divina redenzione, la quale ha sempre considerato la penitenza come condizione indispensabile per il perfezionamento della vita dei suoi figli e per il suo miglior avvenire.
Per questo motivo, nella costituzione apostolica di indizione del Concilio Ecumenico Vaticano II, abbiamo voluto rivolgere ai fedeli l’invito a prepararsi degnamente al grande avvenimento non solo con la preghiera e con la pratica ordinaria delle virtù cristiane, ma altresì con la volontaria mortificazione.(2)
Approssimandosi l’apertura del concilio, Ci sembra ben naturale rinnovare con maggior insistenza la stessa esortazione, poiché il Signore, pur essendo presente nella sua chiesa «tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20), si renderà allora ancor più vicino alle menti e ai cuori degli uomini attraverso la persona dei suoi rappresentanti secondo la sua stessa parola: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16).
Il concilio ecumenico, in realtà, essendo l’adunanza dei successori degli apostoli, cui il Salvatore divino affidò il mandato di ammaestrare tutte le genti, insegnando loro a osservare tutte le cose che egli aveva comandato (cf. Mt 28,19-20), vuol significare una più alta affermazione dei diritti divini sull’umanità redenta dal sangue di Cristo, e dei doveri che avvincono gli uomini al loro Dio e Salvatore.
Orbene, se interroghiamo i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, vediamo che ogni gesto di più solenne incontro tra Dio e l’umanità – per esprimerci con linguaggio umano – è stato sempre preceduto da un più suadente richiamo alla preghiera e alla penitenza. Infatti Mosè non consegna al popolo ebraico le tavole della legge divina se non quando esso ha fatto penitenza per i peccati di idolatria e di ingratitudine (cf. Es 32,6-35; 1 Cor 10,7). I profeti esortano incessantemente il popolo d’Israele a supplicare Dio con cuore contrito, per cooperare al compimento del disegno provvidenziale che accompagna tutta la storia del popolo eletto. Commovente è fra tutte la voce del profeta Gioele, che risuona nella sacra liturgia quaresimale: «Adesso dunque, dice il Signore: Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nelle lacrime e nei sospiri. E squarciate i cuori vostri, e non le vostre vesti. Tra il vestibolo e l’altare i sacerdoti ministri del Signore giungeranno, e diranno: Perdona, o Signore, perdona al tuo popolo: e non abbandonare la tua eredità all’obbrobrio di essere dominata dalle nazioni» (Gioele 2,12-13.17).

I. La penitenza nell’insegnamento di Gesù Cristo e degli apostoli
Anziché attenuarsi, tali inviti alla penitenza si fanno più solenni con la venuta del Figlio di Dio sulla terra. Ecco, infatti, che Giovanni Battista, il precursore del Signore, dà inizio alla sua predicazione col grido: «Fate penitenza, poiché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,1). E Gesù stesso non esordisce il suo ministero con l’immediata rivelazione delle sublimi verità della fede ma con l’invito a purificare la mente e il cuore da quanto potrebbe impedire la fruttuosa accoglienza della buona novella: «Da lì in poi cominciò Gesù a predicare e a dire: Fate penitenza, poiché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Più ancora che i profeti, il Salvatore esige dai suoi ascoltatori il cambiamento totale dello spirito, nel riconoscimento sincero e integrale dei diritti di Dio: «Ecco il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21); la penitenza è forza contro le forze del male; ci insegna lo stesso Gesù Cristo: «Il regno dei cieli si acquista con la forza, ed è preda di coloro che usano violenza» (Mt 11,12).
Uguale richiamo risuona nella predicazione degli apostoli. San Pietro, infatti, così parla alle turbe dopo la pentecoste, allo scopo di disporle a ricevere anch’esse il sacramento della rigenerazione in Cristo e i doni dello Spirito Santo: «Fate penitenza, e si battezzi ciascuno di voi nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati: e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). E l’apostolo delle genti ammonisce i romani che il regno di Dio non consiste nella prepotenza e negli sfrenati godimenti dei sensi, ma nel trionfo della giustizia e della pace interiore: «Poiché il regno di Dio non è cibo e bevanda, ma giustizia, pace e gaudio nello Spirito Santo» (Rm 14,17-18).
Non si deve credere che l’invito alla penitenza sia rivolto soltanto a coloro che devono entrare a far parte per la prima volta del regno di Dio. Tutti i cristiani, in realtà, hanno il dovere e il bisogno di far violenza a se stessi, o per respingere i propri nemici spirituali, o per conservare l’innocenza battesimale, o per riacquistare la vita della grazia perduta con la trasgressione dei divini precetti. Se è vero, infatti, che tutti coloro che sono divenuti membri della chiesa col santo battesimo partecipano della bellezza che Cristo le ha conferito, secondo le parole di san Paolo: «Cristo amò la chiesa, e diede se stesso per lei, allo scopo di santificarla, mondandola con la lavanda di acqua mediante la parola di vita, per farsi comparire davanti la chiesa vestita di gloria, senza macchia e senza ruga, o altra tal cosa; ma che sia santa e immacolata» (Ef 5,26-27); è vero altresì che quanti hanno macchiato con gravi colpe la candida veste battesimale devono temere grandemente i castighi di Dio se non procurano di tornare a farsi candidi e splendenti nel sangue dell’Agnello (cf. Ap 7,14) col sacramento della penitenza e la pratica delle virtù cristiane. Anche ad essi quindi è indirizzato il severo monito dell’apostolo san Paolo: «Se uno che viola la legge di Mosè, sulla deposizione di due o tre testimoni, muore senza alcuna remissione: quanto più acerbi supplizi pensate voi, che si meriti chi avrà calpestato il Figliolo di Dio, e avrà tenuto come profano il sangue dell’alleanza, in cui fu santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito della grazia? … È cosa orrenda cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,28-30).

I. 1 Il pensiero e la prassi della Chiesa
Venerabili fratelli, la chiesa, sposa diletta del Salvatore divino, è sempre rimasta santa e immacolata in se stessa per la fede che la illumina, i sacramenti che la santificano, le leggi che la governano, i numerosi membri che l’abbelliscono col decoro di eroiche virtù. Ma vi sono anche dei figli dimentichi della loro vocazione ed elezione, che deturpano in se stessi la celestiale bellezza e non riflettono in se medesimi le divine sembianze di Gesù Cristo.
Ebbene a tutti, più che parole di rimprovero e di minaccia, Noi amiamo rivolgere la paterna esortazione a tener presente questo confortante insegnamento del concilio di Trento, eco fedelissima della dottrina cattolica: «Rivestiti di Cristo, infatti, nel battesimo (Gal 3,27), per mezzo di esso diventiamo una creatura affatto nuova ottenendo la piena e integrale remissione di tutti i peccati; a tale novità e integrità, tuttavia, non possiamo arrivare per mezzo del sacramento della penitenza, senza nostro grande dolore e fatica, essendo ciò richiesto dalla divina giustizia, di modo che la penitenza giustamente è stata chiamata dai santi padri « un certo laborioso battesimo »».(3)

I. 2 L’esempio nei precedenti Concili
Il richiamo alla penitenza, dunque, come strumento di purificazione e di spirituale rinnovamento, non deve risonare come voce nuova all’orecchio del cristiano, ma come invito di Gesù stesso, che è stato sovente ripetuto dalla chiesa attraverso la voce della sacra liturgia, dei santi padri e dei concili. Così è da secoli che la chiesa supplica Dio nel tempo di quaresima: «L’anima nostra, che si castiga frenando la carne, viva presso di te con il desiderio di possederti»,(4) e anche: «Fa’ che, mitigando gli affetti terreni, comprendiamo più facilmente le cose celesti».(5)
Non vi è quindi da meravigliarsi se i Nostri predecessori, nel preparare la celebrazione dei concili ecumenici, si siano preoccupati di esortare i fedeli alla penitenza salutare. Ci basti ricordare alcuni esempi. Innocenzo III, approssimandosi il concilio Lateranense IV, esortava i figli della chiesa con queste parole: «All’orazione si aggiunga il digiuno e l’elemosina, affinché per mezzo di queste due ali la nostra preghiera più facilmente e più celermente voli alle orecchie di Dio misericordiosissimo, ed egli ci esaudisca benevolmente nel momento opportuno».(6) Gregorio X, con una lettera indirizzata a tutti i suoi prelati e cappellani, dispose che la solenne apertura del II Concilio Ecumenico di Lione fosse preceduta da tre giorni di digiuno.(7) Pio IX infine esortò tutti i fedeli, affinché nella purificazione dell’animo da ogni macchia di colpa o reato di pena, si preparassero degnamente e in perfetta letizia alla celebrazione del concilio ecumenico Vaticano: «Poiché è cosa manifesta che le preghiere degli uomini sono più accette a Dio, se costoro si rivolgeranno a lui con cuore mondo, cioè con l’animo purificato da ogni colpa».(8)

II. Opportuni suggerimenti in preparazione al Concilio Ecumenico Vaticano II
Seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, Noi pure, venerabili fratelli, desideriamo ardentemente invitare tutto il mondo cattolico – clero e laicato – a prepararsi alla grande celebrazione conciliare con la preghiera, le buone opere e la penitenza. E poiché la preghiera pubblica è il mezzo più efficace per ottenere le grazie divine, secondo la promessa stessa di Cristo: «Dove sono due o tre adunati nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20), bisogna dunque che i fedeli tutti siano «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32) come nei primi tempi della chiesa, e impetrino da Dio con la preghiera e la penitenza che questo straordinario avvenimento produca quei frutti salutari, che sono nell’attesa di tutti; e cioè un tale ravvivamento della fede cattolica, un tale rifiorimento di carità e incremento del costume cristiano, che risvegli anche nei fratelli separati un vivo ed efficace desiderio di unità sincera e operosa, in un unico ovile sotto un solo pastore (cf. Gv 10,16).
A questo scopo esortiamo voi, venerabili fratelli, a indire in ogni parrocchia delle diocesi a ciascuno di voi affidate, nella immediata vicinanza del concilio stesso, una solenne novena in onore dello Spirito Santo per invocare sui padri del concilio l’abbondanza dei celesti lumi e delle divine grazie. A tale riguardo, vogliamo mettere a disposizione dei fedeli i beni del tesoro spirituale della chiesa, e perciò a tutti coloro che prenderanno parte alla novena suddetta verrà concessa l’indulgenza plenaria, da lucrarsi secondo le consuete condizioni.
Sarà anche opportuno indire nelle singole diocesi una funzione penitenziale propiziatoria. Questa funzione dovrà essere un fervido invito, accompagnato con un particolare corso di predicazione, ad opere di misericordia e di penitenza, con cui tutti i fedeli cerchino di propiziare Dio onnipotente e di implorare da lui quel vero rinnovamento dello spirito cristiano, che è uno degli scopi precipui del concilio. Infatti, giustamente osservava il Nostro predecessore Pio XI di venerata memoria: «La preghiera e la penitenza sono i due mezzi messi a disposizione da Dio nella nostra età per ricondurre ad esso la misera umanità qua e là errante senza guida; sono essi che tolgono via e riparano la causa prima e principale di ogni sconvolgimento, cioè la ribellione dell’uomo a Dio».(9)

II. 1 Necessità della penitenza interna ed esterna
Anzitutto è necessaria la penitenza interiore, cioè il pentimento e la purificazione dei propri peccati, che si ottiene specialmente con una buona confessione e comunione e con l’assistenza al sacrificio eucaristico. A questo genere di penitenza dovranno essere invitati tutti i fedeli durante la novena allo Spirito Santo. Sarebbero vane infatti le opere esteriori di penitenza, se non fossero accompagnate dalla mondezza interiore dell’animo e dal sincero pentimento dei propri peccati. In questo senso si deve intendere il severo monito di Gesù: «Se non farete penitenza, tutti ugualmente perirete» (Lc 13,5). Che Dio allontani questo pericolo da tutti quelli che ci furono consegnati!
Inoltre i fedeli devono essere invitati anche alla penitenza esteriore, sia per assoggettare il corpo al comando della retta ragione e della fede, sia per espiare le proprie colpe e quelle degli altri. Infatti lo stesso san Paolo, che era salito al terzo cielo e aveva raggiunto i vertici della santità, non esita ad affermare di se stesso: «Mortifico il mio corpo e lo tengo in schiavitù» (1 Cor 9,27); e altrove ammonisce: «Coloro che appartengono a Cristo, hanno crocefisso la carne con le sue voglie» (Gal 5,24). E sant’Agostino insiste sulle stesse raccomandazioni in questa maniera: «Non basta migliorare la propria condotta e cessare dal fare il male, se non si dà anche soddisfazione a Dio delle colpe commesse per mezzo del dolore della penitenza, dei gemiti dell’umiltà, del sacrificio del cuore contrito, unitamente alle elemosine».(10)
La prima penitenza esteriore che tutti dobbiamo fare è quella di accettare da Dio con animo rassegnato e fiducioso tutti i dolori e le sofferenze che incontriamo nella vita, e tutto ciò che importa fatica e molestia nell’adempimento esatto degli obblighi del nostro stato, nel nostro lavoro quotidiano e nell’esercizio delle virtù cristiane. Questa necessaria penitenza non solo vale a purificarci, a renderci propizio il Signore e a impetrare il suo aiuto per il felice e fruttuoso esito del prossimo concilio ecumenico, ma rende altresì più leggeri e quasi soavi le nostre pene, in quanto ci mette dinanzi la speranza del premio eterno: «Le sofferenze del tempo presente non possono avere proporzione alcuna con la gloria, che si dovrà manifestare in noi» (Rm 8,18).

II. 2 Cooperare alla divina redenzione
Oltre le penitenze che dobbiamo necessariamente affrontare per i dolori inevitabili di questa vita mortale, bisogna che i cristiani siano così generosi da offrire a Dio anche mortificazioni volontarie, ad imitazione del nostro divin Redentore, il quale, secondo l’espressione del principe degli apostoli: «Una volta per tutte morì per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, allo scopo di condurci a Dio, messo a morte nella carne, ma reso alla vita nello spirito» (1 Pt 3,18). «Poiché, dunque, Cristo patì nella carne, armiamoci anche noi del medesimo pensiero» (cf. 1 Pt 4,1). Siano in ciò di esempio e di incitamento anche i santi della chiesa, le cui mortificazioni inflitte al loro corpo spesso innocentissimo ci riempiono di meraviglia e quasi ci sbigottiscono. Davanti a questi campioni della santità cristiana, come non offrire al Signore qualche privazione o pena volontaria da parte anche dei fedeli, che forse hanno tante colpe da espiare? Esse sono tanto più gradite a Dio, in quanto non vengono dall’infermità naturale della nostra carne e del nostro spirito, ma sono spontaneamente e generosamente offerte al Signore in olocausto di soavità.
È noto infine che il concilio ecumenico tende a incrementare da parte nostra l’opera della redenzione, che nostro Signore Gesù Cristo, «offertosi di sua spontanea volontà» (Is 53,7), è venuto a portare fra gli uomini non solo con la rivelazione della sua celeste dottrina, ma anche con lo spargimento volontario del suo sangue prezioso. Orbene, potendo ciascuno di noi affermare con san Paolo apostolo: «Godo di quel che patisco … e do compimento a quello che rimane dei patimenti di Cristo, a pro del corpo di lui, che è la chiesa» (Col 1,24), dobbiamo dunque godere anche noi di poter offrire a Dio le nostre sofferenze «per l’edificazione del corpo di Cristo» (Ef 4,12), che è la chiesa. Ci dobbiamo sentire anzi quanto mai lieti e onorati di essere chiamati a questa partecipazione redentrice della povera umanità, troppo spesso deviata dalla retta via della verità e della virtù.
Molti, purtroppo, invece della mortificazione e del rinnegamento di sé imposti da Gesù Cristo a tutti i suoi seguaci con le parole: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Lc 9,23), cercano piuttosto sfrenatamente i piaceri terreni, e deturpano e infiacchiscono le energie più nobili dello spirito. Contro questo modo di vivere sregolato, che scatena spesso le passioni più basse e porta a grave pericolo della salvezza eterna, bisogna che i cristiani reagiscano con la fortezza dei martiri e dei santi, che sempre hanno illustrato la chiesa cattolica. In tal modo tutti potranno contribuire, secondo il loro stato particolare, alla migliore riuscita del Concilio Ecumenico Vaticano II, che deve appunto portare a un rifiorimento della vita cristiana.

II. 3 Inviti conclusivi
Dopo queste paterne esortazioni, Noi confidiamo, venerabili fratelli, che non solo voi stessi con entusiasmo le accoglierete, ma stimolerete altresì ad accoglierle i Nostri figli del clero e del laicato sparsi in tutto il mondo. Se infatti, come è nell’aspettazione di tutti, il prossimo concilio ecumenico dovrà apportare un grandissimo incremento della religione cattolica; se in esso risonerà in modo ancor più solenne la «parola del regno», di cui si parla nella parabola del seminatore (Mt 13,19); se vogliamo che per mezzo di esso il «regno di Dio» si consolidi e si estenda sempre più nel mondo: il buon esito di tutto questo dipenderà in gran parte dalle disposizioni di coloro cui saranno rivolti i suoi insegnamenti di verità, di virtù, di culto pubblico e privato verso Dio, di disciplina, di apostolato missionario.
Perciò, venerabili fratelli, adoperatevi senza indugio con ogni mezzo che è in vostro potere, affinché i cristiani affidati alle vostre cure purifichino il loro spirito con la penitenza e si accendano a maggior fervore di pietà; di modo che la «buona semente», che in quei giorni sarà più largamente e abbondantemente sparsa, non venga da essi dispersa né soffocata, ma sia accolta da tutti con animo ben disposto e perseverante, ed essi dal grande avvenimento traggano copiosi e duraturi frutti per la loro eterna salvezza.
Da ultimo, Noi pensiamo che al prossimo concilio si possono giustamente applicare le parole dell’apostolo: «Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6,2). Ma risponde ai disegni della provvidenza di Dio, che vengano distribuiti i suoi doni secondo le disposizioni d’animo di ciascuno. Pertanto coloro che vogliono essere filialmente docili a Noi che da lungo tempo Ci sforziamo di preparare i cuori dei cristiani a questo grandioso evento, diligentemente prestino attenzione anche a questo Nostro ultimo invito. Perciò dietro il Nostro e vostro esempio, venerabili fratelli, i fedeli – e in primo luogo i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i fanciulli, gli ammalati, i sofferenti – innalzino suppliche e compiano opere di penitenza, allo scopo di ottenere da Dio alla sua chiesa quell’abbondanza di lumi e di aiuti soprannaturali, di cui in quei giorni avrà speciale bisogno. Come, infatti, possiamo pensare che Dio non si muova a larghezza di celesti grazie, quando dai suoi figli riceve tale abbondanza di doni che spirano fervore di pietà e profumo di mirra?
Inoltre, tutto il popolo cristiano, in ossequio alla Nostra esortazione, dedicandosi più intensamente alla preghiera e alla pratica della mortificazione, offrirà un mirabile e commovente spettacolo di quello spirito di fede, che deve animare indistintamente ogni figlio della chiesa. Ciò non mancherà di scuotere salutarmente anche l’animo di coloro che, eccessivamente preoccupati e distratti dalle cose terrene, si sono lasciati andare alla trascuranza dei loro doveri religiosi.
Se tutto ciò si avvererà, come è nei Nostri desideri, e voi potrete muovere dalle vostre diocesi verso Roma per la celebrazione del concilio recando con voi un così ricco tesoro di beni spirituali, si potrà legittimamente sperare che sorga una nuova e più fausta era per la chiesa cattolica.
Sorretti da questa speranza, impartiamo di tutto cuore a voi, venerabili fratelli, al clero e al popolo affidati alle vostre cure, l’apostolica benedizione, pegno dei celesti favori e testimonianza della Nostra paterna benevolenza.
Roma, presso San Pietro, il 1° luglio 1962, festa del Preziosissimo Sangue di N. S. G. C., anno IV del Nostro pontificato.

GIOVANNI PP. XXIII 

IL DUPLICE CARATTERE DELLA QUARESIMA

http://www.suoredimariabambina.org/tempoliturgico/tempoliturgico201103_1.html

TEMPO DI QUARESIMA

IL DUPLICE CARATTERE DELLA QUARESIMA

La Quaresima è il tempo dell’Anno Liturgico che va dal Mercoledì delle ceri al giovedì della Settimana santa e costituisce la prima parte del ciclo pasquale (tempo di Quaresima – Triduo santo – tempo di Pasqua/Pentecoste). Simbolicamente la durata di questo tempo liturgico è di quaranta giorni …
Per comprendere il tempo di Quaresima è necessario partire dalla costituzione sulla liturgia del Vaticano II. Nella costituzione Sacrosanctum Concilium il tempo di Quaresima è il tempo dell’Anno Liturgico che riceve maggiore attenzione e del quale si forniscono chiare linee per la successiva riforma.

SC afferma:
Il duplice carattere della Quaresima che, soprattutto mediante il ricordo o la preparazione al battesimo e mediante la penitenza, dispone i fedeli alla celebrazione del mistero pasquale con l’ascolto più frequente della parola di Dio e la preghiera più intensa, sia posto in maggior evidenza tanto nella liturgia quanto nella catechesi liturgica. Perciò:
a) si utilizzino più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale e, se opportuno, se ne riprendino anche altri dall’antica tradizione;
b) lo stesso si dica degli elementi penitenziali.
Quanto alla catechesi poi, si inculchi nell’animo dei fedeli, insieme con le conseguenze sociali del peccato, quell’aspetto particolare della penitenza che detesta il peccato come offesa a Dio. Né si dimentichi la parte della Chiesa nell’azione penitenziale, e si solleciti la preghiera per i peccatori (SC 109: EV 1/194ss).   
Il documento conciliare sottolinea che due sono le direttrici (« duplice carattere ») della Quaresima: quella battesimale e quella penitenziale. Gli elementi del tempo di Quaresima che possono « disporre » i fedeli alla celebrazione del mistero pasquale sono li battesimo (ricordo o preparazione), la penitenza, l’ascolto più frequente della Parola e la preghiera. Tuttavia preghiera e ascolto più frequente della parola di Dio sono « parte integrante » del « duplice carattere della Quaresima », cioè fanno riferimento al suo carattere battesimale e penitenziale. Infatti, se andiamo a vedere nella storia quali erano gli « ingredienti » del cammino dei catecumeni che si preparavano al battesimo e di quello dei penitenti che si preparavano alla « riconciliazione » , possiamo scoprire che preghiera e ascolto più frequente della parola di Dio, insieme al digiuno e alle opere di carità, ne facevano parte integrante.
A partire dal duplice carattere della Quaresima SC indica le linee della riforma di questo tempo liturgico. Innanzitutto si afferma che « il linguaggio » che la liturgia deve utilizzare nelle celbrazioni quaresimali è quello « battesimale ». Il concilio invita a utilizzare con più abbondanza quegli « elementi battesimali », che « sono propri » di questo tempo liturgico. Inoltre invita, se necessario, a recuperarne alcuni presenti nella tradizione, ma andati persi nel corso della storia. Possiamo pensare, ad esempio, al recupero dei « vangeli battesimali » (le narrazioni giovannee della samaritana, del cieco nato, della risurrezione di Lazzaro) nelle ultime tre domeniche di Quaresima (nell’anno A, oppure quando ci sono dei catecumi che si preparano a celebrare i sacramenti dell’iniziazione della Veglia pasquale).
Il secondo carattere della Quaresima su cui il concilio invita a porre attenzione è quello penitenziale. Anche riguardo a questo SC raccomanda di recuperare e sottolineare nelle celebrazioni liturgiche « gli elementi penitenziali ».
Il concilio quindi ci indica qual è il riferimento fondamentale per comprendere la Quaresima, e afferma che tale riferimento è duplice: il battesimo e la penitenza. A questo duplice riferimento corrisponde anche un « linguaggio » adeguato. La Quaresima per il concilio parla il linguaggio battesimale e penitenziale.
Noi possiamo affermare che, sebbene da un punto di vista storico, litugico e anche terminologico le linee di fondo della Quaresima siano due, in realtà tra le due c’è un’unità di fondo che deriva dal profondo rapporto esistente tra il battesimo e la penitenza. Un rapporto che occorrerebbe sempre approfondire per una migliore celebrazione di questi due sacramenti.

  da: Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli, Fedeltà nel tempo. La spiritualità dell’anno liturgico,
Edizioni EDB 2010, pg. 23-24

MEDITAZIONE DI QUARESIMA – Cardinale arcivescovo di Barcellona

http://www.arqbcn.org/node/1949&lang=it

ARQUEBISBAT DE BARCELONA

MEDITAZIONE DI QUARESIMA (27/03/2011) 

Il peccato è una realtà molto corrente, e il periodo della Quaresima è un momento per ricordarlo ed esserne coscienti. Gesù è venuto a perdonare i peccati. Questa è stata la principale missione del Figlio di Dio fatto uomo. L’angelo lo annunciò così a Giuseppe prima del primo Natale della storia: « Gli devi mettere di nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai peccati ».
Più conosciamo Dio, più sappiamo cos’è il peccato. L’uomo, a causa del peccato, rifiuta l’amore di Dio o cerca di costruire il proprio io e il suo mondo ignorando Dio, come se non esistesse. Il concetto di peccato può essere interpretato correttamente solo nel contesto dei rapporti con Dio. Nel contesto dell’amore di Dio portato fino all’estremo scopriamo la verità dei nostri peccati e ci riconosciamo davvero peccatori.
Leggendo la Bibbia ci rendiamo conto che in ciascuna delle sue pagine si costata l’esistenza del peccato, del quale si spiega la natura e la malizia. Ma nella Bibbia si descrive anche l’amore costante e l’inesauribile misericordia di Dio. La storia della salvezza è la storia dei tentativi ripetuti da Dio creatore per strappare l’uomo dal suo peccato.
Nessuno sfugge alla tendenza al peccato, visto che esso si trova in tutti e in ciascuno di noi. L’universalità e radicalità del peccato è così grande che la Sacra Scrittura parla del peccato del mondo, realtà di peccato originale e di caduta universale preesistente che si realizza nei peccati personali, per i  quali ciascuno si avvicina a questo peccato e  pecca dentro di sé.
Il peccato ha una dimensione personale e sociale. Il peccato, in senso proprio, è un atto libero della singola persona; è di origine personale ed ha conseguenze nel peccatore stesso. Ogni peccato, però, anche il più strettamente individuale, intimo e segreto, ripercute in qualche modo sugli altri, dato che ha un carattere sociale.
Non si deve confondere la coscienza di peccato con il complesso di colpa. Sono due cose diverse. Il primo scaturisce da un cuore consapevole del primato dell’amore nella vita cristiana ed implica un atto di responsabilità. Alla persona che ha questa consapevolezza, la fede cristiana offre il perdono e la misericordia di Dio. È necessario essere coscienti del peccato per sentire un desiderio operativo di conversione e di cambiamento di vita, visto che solo chi riconosce la malattia si mette in cammino per  trovare il rimedio opportuno.
Il complesso di colpa, invece, nasce dalla paura, distrugge la gioia, sommerge nella tristezza e genera angoscia e disprezzo di sé. Forse il male del nostro tempo sta nel fatto che manca molta coscienza del peccato e avanza molto complesso di colpa, come viene evidenziato nella letteratura, nell’arte e nella psicologia.
Dio è Padre e non ci vuole rinchiusi in un complesso di colpa che ci imprigiona in noi stessi e in una sterile angoscia. Giovanni Paolo II, in una delle sue encicliche, ci ricordava che Dio è « ricco di misericordia » e che manifesta costantemente la sua onnipotenza perdonando i nostri peccati. Per questo, Giovanni Paolo II volle che la seconda Domenica di Pasqua fosse chiamata anche « Domenica della Divina Misericordia ». È molto significativo che sia proprio in questa festa, che quest’anno cade il primo di maggio, che sarà beatificato il primo Papa polacco della storia.

† Lluís Martínez Sistach

Cardinale arcivescovo di Barcellona

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PAOLO VI PER LA QUARESIMA 1977

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/messages/lent/documents/hf_p-vi_mes_19770222_lent-1977_it.html

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PAOLO VI PER LA QUARESIMA 1977

Carissimi Figli e Figlie!

Eccoci nella Quaresima! Vogliate ascoltarci un istante! La Quaresima è un periodo favorevole, è il «tempo propizio», di cui parla la sacra Liturgia, per prepararci a celebrare degnamente il Mistero Pasquale. È un periodo certamente austero, ma fecondo ed apportatore di un rinnovamento, quale una primavera spirituale. Noi dobbiamo risvegliare la nostra coscienza; dobbiamo ravvivare il senso del dovere ed il desiderio di corrispondere, in concreto, alle esigenze di una vita cristiana autentica.
Circa dieci anni fa, la nostra Enciclica «Populorum Progressio» sullo sviluppo dei popoli fu come un «grido di angoscia, nel nome del Signore», che noi rivolgemmo alle Comunità cristiane ed a tutti gli uomini di buona volontà. Ed oggi ancora, in questo inizio del tempo liturgico quaresimale, vorremmo far risuonare quell’appello solenne. Il nostro sguardo ed il nostro cuore di Pastore universale continuano, infatti, ad essere profondamente turbati dalla folla immensa di coloro che, in tutte le società del mondo, sono abbandonati ai margini della strada, feriti nel corpo e nell’anima, spogliati della loro umana dignità, senza pane, senza voce, senza difesa, soli nella loro angoscia!
Certo, noi proviamo qualche difficoltà nel far parte agli altri di quel che abbiamo, al fine di contribuire alla scomparsa delle disuguaglianze in un mondo divenuto ingiusto. Tuttavia, le affermazioni di principio non bastano. È per questo che è necessario e salutare ricordarci che siamo semplicemente amministratori dei doni di Dio, e che «la penitenza del tempo di Quaresima non deve esser soltanto interna ed individuale, ma esterna, altresì, e sociale» (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 110).
Noi vi chiediamo di andare incontro al povero Lazzaro, che soffre la miseria, la fame. Fatevi suo prossimo, affinché egli riconosca nel vostro sguardo quello di Cristo che l’accoglie, e nelle vostre mani quelle del Signore, che distribuisce i suoi doni. E vogliate anche rispondere con generosità agli appelli, che vi saranno rivolti nelle vostre Chiese particolari, per consolare i più diseredati e per dare il vostro contributo al progresso dei popoli meno provvisti di beni.
Vi ricordiamo le parole del Signore, che l’Apostolo San Paolo ci ha fortunatamente conservato, perché veniate in aiuto dei deboli: «C’è più felicità nel dare che nel ricevere» (Act. 20. 35). E vi esortiamo tutti, Figli e Figlie carissimi, a purificare il vostro cuore, per accogliere degnamente le prossime celebrazioni pasquali ed annunciare al mondo la Buona Novella della salvezza. Con questo augurio vi benediciamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

PAULUS PP. VI

UNA CONVERSIONE È SEMPRE UNA NUOVA NASCITA – Alessandro Manzoni

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UNA CONVERSIONE È SEMPRE UNA NUOVA NASCITA

Alessandro Manzoni *

Alessandro Manzoni, dopo un breve periodo di sbandamento interiore, si convertì a 25 anni. Conversione già preparata da una ricerca profonda della verità. Da allora in poi la religione cristiana improntò costantemente la sua vita e la sua opera. Suo capolavoro è il romanzo «I promessi sposi». Questo libro, tra i più grandi della prosa italiana, dai personaggi plastici, che scaturiscono da una acuta analisi psicologica, è tutto penetrato da una profonda concezione cristiana della vita.
Appena introdotto l’Innominato, Federico gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a persona desiderata… I due stettero alquanto senza parlare e diversamente sospesi. L’Innominato, che era stato come portato lì per forza da un determinato disegno, d stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, ‘una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva e, dirò così, gli imponeva silenzio.
La presenza di Federico era infatti di quelle che annunziano una superiorità e la fanno amare…
Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’Innominato il suo sguardo penetrante ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio di una tal visita, tutto animato, «Oh! – disse – Che preziosa visita è questa!… Voi avete una buona nuova da darmi… ».
«Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual’è questa buona nuova che aspettate da un par mio».
«Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuoi farvi suo», rispose pacatamente il cardinale.
«Dio! Dio! Dio! Se io vedessi! Se io sentissi! Dov’è queste Dio?».
«Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che vi agita, che non vi lascia stare e nelle stesso tempo vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?».
«O certo! Ho qui qualche cosa che mi opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è queste Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?».
Queste parole furono dette con un accento disperato; ma Federico, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispese: «Cosa può fare Dio di voi? Cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavare da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare… quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusare voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa fare di voi?.. cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento?.. Cosa può Dio fare di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compiere in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di lui? Oh pensate! se io miserabile qual sono, mi struggo ora tanto della vostra salute… Oh pensate come vi ami, come vi veglia quello che mi comanda e mi ispira un amore per voi che mi divora!».
A misura che queste parole uscivano dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne ispirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, da stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevano le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furono cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto che fu come l’ultima e più chiara risposta.

* I promessi sposi – U. Hoepli editore – Milano 1906 – pp. 326-329.

DALLE TENEBRE DELL’ERRORE, IL PECCATORE ASPIRA ALLA LUCE ETERNA – Fénelon

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DALLE TENEBRE DELL’ERRORE, IL PECCATORE ASPIRA ALLA LUCE ETERNA

RINNEGARE SE STESSI ED ACCOSTARSI DOLCEMENTE A DIO

FÉNELON *

François de La Mothe-Fénelon nasce nel Périgord nel 1651. Nobile di carattere, dalla sensibilità molto delicata, riceve una formazione classica dai Gesuiti di Gahors. In seguito si prepara al sacerdozio a Parigi, a saint-Sulpice, dove impara la pedagogia dell’amore di Dio. Nel 1689 diviene istitutore del Duca di Borgogna. Verso quest’epoca incontra Mme. Guyon, la cui amicizia lo stabilisce più solidamente nel suo cammino interiore, compromettendolo però, in parte, nell’affare del quietismo. Nominato arcivescovo di Gambrai nel 1697, cadrà in disgrazia e verrà condannato da Roma. Si sottometterà e si dedicherà fino alla morte (1715) al ministero pastorale e alla predicazione. Le opere spirituali di Fénelon sono piene di puro amore di Dio verso cui ha indirizzato tutta la sua vita.

Il totale abbandono a Dio… è fonte di tranquillità e di serenità sia nei confronti del passato che dell’avvenire. Si abbia pure di noi stessi la peggiore considerazione possibile; ma ci si abbandoni ciecamente nelle braccia di Dio. La più perfetta penitenza consiste nel dimenticarsi, nel completo oblìo di noi stessi. La conversione, infatti, si realizza con la rinuncia di sé per occuparsi esclusivamente di Dio.
Questo dimenticarsi è il martirio dell’amor proprio. Preferiremmo contraddirci, condannarci, tormentare la nostra anima ed il nostro corpo, piuttosto che disinteressarci del nostro ‘io’. Dimenticarsi significa annientare il proprio egoismo, non lasciandogli risorsa e scampo alcuni. Allora il nostro cuore si allarga; ci sentiamo sollevati dal peso di noi stessi, peso che ci opprimeva; e con stupore ci rendiamo conto di quanto retta e semplice fosse la via da seguire.
Credevamo che fossero necessari sforzo e tensione ininterrotti, unitamente ad un continuo rinnovarsi di azioni e di fatti. Ci rendiamo conto, invece, che poche sono le cose da fare; è infatti sufficiente, senza neppure troppo ragionare sul passato o sul futuro, guardare Dio con fiducia, come ad un padre che ci conduce nella realtà presente, come per mano. Se per una momentanea distrazione lo dovessimo perdere di vista, non indulgiamo in essa, ma rivolgiamoci a Dio, e comprenderemo quale sia la sua volontà. Se compiamo degli errori, cerchiamo di fare una penitenza che sia un dolore tutto d’amore. Rivolgiamoci a colui dal quale ci eravamo allontanati. Se il peccato sembra orribile, l’umiliazione le ne deriva, e per la quale Dio l’ha permesso, appare buona. Le riflessioni dell’orgoglio sui nostri errori personali, sono tanto amare, inquiete e penose, quanto raccolto, pacato e sostenuto dalla fiducia è il ritorno a Dio dell’anima dopo le sue mancanze.
Sentirete, per esperienza, come questo ritorno semplice sereno, faciliterà la vostra correzione più di tutti i risentimenti nei riguardi dei vostri difetti. Siate unicamente costanti nel rivolgervi a Dio con semplicità, dal momento stesso in cui vi rendete conto della vostra mancanza. C’è poco da cavillare con voi stessi; non è con voi che dovete prendere le vostre precauzioni. Quando vi lamentate per le vostre miserie, nel vostro modo di ragionare vi vedo soli le prese con voi stessi. Povero ragionamento, dove non è Dio!
Chi vi tenderà la mano per uscire dal fango? Ne uscirete forse da soli? Eppure siete voi che vi ci siete messi
e non potete uscirne! Anzi, il pantano siete voi in persona! La vera sostanza del vostro male è di non essere capaci di uscirne da soli. Sperate forse di liberarvi da questa condizione con le vostre sole forze, alimentandovi esclusivamente I voi e nutrendo la vostra sensibilità con la vista delle vostre debolezze? Con tutti questi espedienti, non fate alo che alimentare la commiserazione che provate per voi. la lo sguardo di Dio, anche il più piccolo, calmerà assai i più il vostro cuore torturato da queste eccessive atte noni per il vostro ‘io’. Egli, con la sua presenza, fa sì che vi possiate liberare di voi, e questo è ciò che vi occorre. Uscite dunque da voi stessi, e sarete in pace. Ma in che modo? on dovete fare altro che rivolgervi a Dio ed accostarvi dolcemente a lui e, con costanza, formare a poco a poco l’abitudine a ricorrere a lui tutte le volte che vi rendete conto di esservi da lui stesso allontanati.

 * Instructions et avis sur divers points de la morale et de la perfection chrétienne, XIV: in « Oeuvres de Fénelon», voI. XVIII. Lebel, Parigi 1823, pp. 264-267

IL DIGIUNO PER RISCOPRIRE LA VERA UMANITÀ NELLA RELAZIONE CON DIO

http://www.zenit.org/it/articles/il-digiuno-per-riscoprire-la-vera-umanita-nella-relazione-con-dio

IL DIGIUNO PER RISCOPRIRE LA VERA UMANITÀ NELLA RELAZIONE CON DIO

NON È SOLO RINUNZIARE AD UN DONO, MA RICHIAMARE L’ATTENZIONE SU DATORE DEL DONO

ROMA, 24 FEBBRAIO 2013 (ZENIT.ORG) OSVALDO RINALDI

Il digiuno è una delle pratiche quaresimali insieme alla preghiera e all’elemosina alle quali la Chiesa invita i suoi fedeli per prepararsi degnamente alla celebrazione della Pasqua.
Ma il digiuno nei nostri tempi può considerarsi solamente l’astinenza dal cibo? Digiunare significa solo rinunziare a qualcosa senza ricevere nulla in cambio?
E’ vero che il cibo è un dono di Dio, ma digiunare non significa solo rinunziare ad un dono, ma vuol richiamare l’attenzione su datore del dono. Noi spesso siamo attratti da quello che riceviamo, ma ci dimentichiamo molto facilmente del donante.
Ebbene, il digiuno è un invito a far memoria di Dio come origine e fonte di ogni dono. Il digiuno vuole riportare l’uomo a riscoprire la sua dimensione di Figlio adottivo di Dio per ridare il primato alla nostra relazione con Dio, trascendendo dai doni ricevuti.
Vivendo l’intimità di questo rapporto amoroso con Dio si scopre di avere molto di più rispetto a quanto si pensa già di possedere.
Digiunare è il miglior antidoto per vincere la crisi economica, perchè ci riapre gli occhi su quanto si possiede e ci rende solidali verso gli altri, ci rende capaci di compiere gesti di carità autentici.
L’elemosina non è solo frutto del digiuno, ma è dare ciò che appartiene all’altro più povero di noi, dare l’eccesso che è ostacolo alla relazione con lui.
Digiunare diventa l’arma silenziosa e segreta per combattere l’avarazia, la cupidigia, e restituire a Dio quei meriti che noi non abbiamo.
Il cibo non è solo opera del lavoro dell’uomo, ma è prima di tutto frutto della terra. Sia che il contadino dorma o vegli, la pianta cresce e dona i suoi frutti. Allora la relazione con Dio, stimolata attraverso il digiuno, produce come primo frutto quello di rientrare in noi stessi, dove abita Dio.
Tante distrazioni, affanni, preoccupazioni, impegni ci conducono continuamente fuori di noi stessi e ci portano a cercare la felicità nell’approvazione degli altri, nel denaro, nella carriera. Il digiuno accompagnato dalla preghiera, il  dialogo familiare con la Trinità,  ridona vigore e dignità al nostro essere, perchè scopriamo che il dedicare tutta la vita al lavoro, alla carriera, all’apparire, non sono sacrifici graditi a Dio. La volontà di Dio, l’essere graditi a Dio, è prima di tutto lasciarsi amare da Dio, vivere questa relazione con Dio sapendo di essere tutto per Lui.
E questo è esattamente quello che oggi non avviene nella nostra società che ha perso ogni forma di dialogo e comunicazione con Dio.
Abbiamo tanti mezzi di comunicazione di massa, ma quello in cui viviamo è un tempo storico in cui gli uomini avvertono tanta solitudine interiore. Tantissimi giovani sono iscritti ai  social network per comunicare tra loro, ma sono rarissime le amicizie vere.
E’ il tempo in cui con facebook, twitter, skype, siamo sempre collegati per tenere informati l’altro su quello che stiamo facendo, eppure abbiamo la sensazione di non essere compresi, ci sentiamo poco capiti dell’altro.
Siamo sempre davanti a smartphone, tablet per essere sempre connessi, sempre aperti all’altro, ma viviamo chiusi nel nostro mondo, incapaci di essere veramente noi stessi.
Si potrebbero fare tanti altri esempi per motivare la necessità di fare un uso più moderato di internet, ma la questione fondamentale è far capire che il digiuno non significa solo rinunzia. Il digiuno è il mezzo naturale per riscoprire la nostra vera identità di uomini, che sono amati da un Dio che desidera ardentemente rompere la solitudine dell’’uomo, ed entrare così in una relazione di amore con noi.
Questo è una aspetto ostico da capire, perchè quando parliamo di penitenza si pensa immediatamente a rinunziare ad un proprio desiderio, privarsi di qualcosa che piace, dire di “no” a qualcosa alla quale si vorrebbe dire di “si”.
E’ la stessa considerazione che viene fatta sui dieci comandamenti quando sono visti come una serie di “no” ai piaceri più belli che offre la vita. Ma chi conosce un minimo i comandamenti sa benissimo che è vero che essi dicono dei “no”, ma nello stesso tempo aprono a tanti “si”.
Prendiamo ad esempio il comandamento di non desiderare le cose degli altri. Esso chiude alla possibilità di desiderare quello che gli altri hanno, ma nello stesso tempo apre a considerare tutto quello che uno possiede e a ringraziare Dio per la sua immensa bontà.
Non tutti dobbiamo avere le stesse cose e nella stessa misura, come ci hanno inculcato alcune ideologie dello secolo passato. Se andiamo a considerare bene, noteremo che quello che si desidera maggiormente dell’altro non sono tanto i beni materiali, ma le capacità, le conoscenze, il carisma dell’altro. Tutti doni provvienti da Dio che si possono chiedere nella preghiera.
Il digiuno è strettamente legato alla preghiera. Come è bello entrare nella propria stanza, chiudere la porta del cuore al mondo e aprirsi al silenzioso dialogo con Dio. Non serve usare tante parole per esprimere i propri stati d’animo, le proprie insoddisfazioni o i propri bisogni. Dio sa quello che ci serve ancora prima che gli lo chiediamo. Dio conosce quello di cui abbiamo bisogno e non quello di cui noi pensiamo di avere bisogno.
Allora la preghiera svolge l’azione di purificare i nostri desideri, sanare le ferite del peccato che ci rendono incapaci di andare incontro ai bisogni dell’altro.
Vissuto in questa maniera il digiuno è vero che indebolisce la nostra carne, ma rafforza la nostra anima e la eleva sino alle altezze di Dio. Ma l’ultimo passo decisivo, quello che ci introduce nella profondità del nostro cuore dove abita Dio, deve essere compiuto dalla nostra volontà, perchè l’amore di Dio si esprime prima di tutto nel lasciarci liberi.
Questo è l’amore di Dio, la onnipotenza di Dio, condividere con noi la sua libertà, lasciarci liberi di amarlo o di rifiutarlo, ma nello stesso tempo attendere impazientemente e costantemente la nostra conversione, perchè possiamo vivere sempre uniti a lui.
E quanti possono essere i frutti del digiuno e della preghiera vissuti in questo modo. Se uno si sente amato da Dio ridiventa capace di amare la moglie malgrado le tante inconprensioni del vivere quotodiano. Diventa capace di riconoscere i talenti dei propri figli per svilupparli secondo la loro natura. Diviene capace di parlare serenamente con quel collega con il quale si litiga giornalmente. Trova lo spazio necessario per passar maggiore tempo con i genitori anziani sempre meno autosufficenti. Aiuta il vicino di casa che si trova in difficoltà economiche.
In poche parole si riscopre la propria vera identità, quel carico di umanità in quanto persone pensate, volute e amate da Dio.

MEDITAZIONE DETTATA AGLI OPERATORI PASTORALI, RIUNITI IN CATTEDRALE, ALL’INIZIO DELLA QUARESIMA 2012

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/77/2012-03/03-333/Meditazione%20per%20la%20Quaresima.pdf

MEDITAZIONE DETTATA AGLI OPERATORI PASTORALI, RIUNITI IN CATTEDRALE, ALL’INIZIO DELLA QUARESIMA 2012

+ Gualtiero Sigismondi, Vescovo di Foligno

La liturgia quaresimale, dopo averci condotto nel deserto di Giuda (cf. Mc 1,12-13), ci invita a salire con Gesù sul Tabor (cf. Mc 9,2-10). Considerati insieme, entrambi gli episodi anticipano il Mistero pasquale: la lotta di Gesù col Tentatore prelude al duello finale della Passione, mentre la luce incomparabile del suo volto trasfigurato, oltre a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo
della Croce, dà un fondamento solido alla speranza della Chiesa. Da una parte vediamo Gesù pienamente uomo, che condivide con noi persino la tentazione; dall’altra lo contempliamo Figlio di Dio, che “nella sua umanità, in tutto simile alla nostra, fa risplendere la sua divinità”. Questi due eventi fungono da pilastri su cui poggia tutto l’edificio della Quaresima, anzi, dell’intera struttura
della vita cristiana, che ha essenzialmente un dinamismo pasquale: dalla morte alla vita. “Sei giorni dopo” il primo annuncio della Passione Gesù “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli” (Mc 9,2; Mt 17,1). Luca osserva che il volto di Gesù, “mentre pregava, cambiò d’aspetto” (Lc 9,29); Matteo e Marco lasciano intendere che Egli “fu trasfigurato” dal Padre (Mt 17,2; Mc 9,2), precisando che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2) e “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime” (Mc 9,3). Gli evangelisti sono concordi nel testimoniare che la Trasfigurazione di Gesù è “il balenare della futura Risurrezione”, è una sorta di “preludio pasquale” che prepara i discepoli a sostenere lo scandalo della Croce e
anticipa la meravigliosa sorte della Chiesa. “Sul monte – canta un antico inno – ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua Passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”. Accanto a Gesù “apparvero Mosè con Elia”, figura della Legge e dei Profeti, “che conversavano con Lui” (Mt 17,3). Luca indica l’oggetto della conversazione: “Parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (Lc  9,31). “Le voci dell’Antico e del Nuovo Testamento  – scrive san Leone Magno  – si uniscono in perfetto accordo” nel testimoniare che il Cristo dovrà patire molte sofferenze “per entrare nella sua gloria” (cf. Lc 24,26.46). Secondo il racconto lucano, Pietro, Giacomo e Giovanni sono oppressi dal sonno (cf. Lc 9,32); quando verrà l’ora del tradimento, nonostante l’invito di Gesù a vegliare e pregare con Lui (cf. Mt 26,38), il torpore li assalirà di nuovo (cf. Mt 26,40.43). Se al Getsemani i discepoli dormono “per la tristezza” (cf. Lc 22,45), sul Tabor, nonostante l’intensità della luce, si assopiscono a motivo dello spavento (cf. Mc 9,6) che procura loro la visione di un mistero “affascinante e tremendo”, intimo intreccio di Croce e di gloria. A tale riguardo Benedetto XVI nota che “la verifica della Trasfigurazione è, paradossalmente, l’agonia nel Getsemani” (cf. Lc 22,39-46).  Pietro, destatosi dal sonno, prende la parola e dice a Gesù: “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Lc 9,33). L’espressione estatica di Pietro, il quale “non sapeva quello che diceva” (Lc 9,33) o “non sapeva che cosa dire” (Mc 9,6), tradisce il suo desiderio di evadere dalla realtà e dalle responsabilità che essa comporta, senza assumerle fino in fondo. La sua reazione istintiva dimentica che le consolazioni del Signore in genere sono brevi esperienze, che Egli a volte concede, specialmente in vista di dure prove. Quella del Tabor è una sosta, uno “scalo tecnico”, che consente ai discepoli di “fare il pieno” di luce prima di entrare nella “notte oscura” del grande silenzio della Passione. Essi, però, stentano a riconoscere che le gioie seminate da Dio nella vita non sono punti di arrivo, ma tappe che rinfrancano il passo del pellegrinaggio terreno. Il cammino di fede, infatti, procede più nella penombra che in piena
luce, non senza momenti di oscurità e anche di buio fitto.“Venne una nube che li coprì con la sua ombra” (Mc 9,7): mentre Pietro sta parlando, una nube avvolge lui e gli altri discepoli; si tratta di una “colonna di nube” che copre e rivela, simile a quella che ha guidato il popolo pellegrinante nel deserto (cf. Es  13,21-22). Dalla nube esce una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato; ascoltatelo!” (Mc 9,7). In queste parole risuona l’eco della chiamata rivolta dal Signore ad Abramo: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto” (Gen  22,2). Sul Tabor il Padre rompe il silenzio per
spronare i discepoli ad ascoltare il Figlio suo, che ha annunciato loro la potenza misteriosa della Croce. Tre volte il Padre ha fatto sentire la sua voce: al Giordano, dopo il Battesimo di Gesù che dà inizio alla sua missione (Mc 1,11); sul Tabor, che rappresenta il “giro di boa” del suo “esodo pasquale”; a Gerusalemme, prima di dare compimento al mistero della sua Morte e Risurrezione:
“L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!” (Gv 12,28). “Appena la voce cessò, restò Gesù solo” (Lc 9,36). Gesù è solo davanti al Padre, mentre prega, ma, allo stesso tempo, “Gesù solo” è tutto ciò che è dato ai discepoli, i quali, “guardandosi
attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro” (Mc 9,8). “Gesù solo”: è Lui l’unica voce che la Chiesa di ogni tempo deve ascoltare e seguire. “Finché siamo quaggiù  – avverte Benedetto XVI –, il nostro rapporto con Dio avviene più nell’ascolto che nella visione; e la stessa contemplazione si attua, per così dire, a occhi chiusi, grazie alla luce della parola di Dio”. Ecco,
dunque, il dono e l’impegno quaresimale per eccellenza: ascoltare Cristo nella sua Parola, custodita nella Scrittura e interpretata dal Magistero alla luce dei Padri; ascoltarlo negli eventi stessi della vita, cercando di leggere in essi i messaggi della Provvidenza; ascoltarlo nei fratelli, specialmente nei piccoli e nei poveri. Frutto maturo dell’ascolto è la conversione, che, essendo la “porta della
fede”, si configura come esperienza di trasfigurazione, la quale avrà compimento quando il Signore “trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21).

IL TEMPO DI QUARESIMA: E DICEVA: « ABBÀ, PAdre … »

 http://www.suoredimariabambina.org/tempoliturgico/tempoliturgico201202_7.html

TEMPO LITURGICO  

IL TEMPO DI QUARESIMA: E DICEVA: « ABBÀ, PAdre … »

Dal punto di vista artistico, i racconti della passione sono veramente scritti bene; a parte il linguaggio un po’ « naif », sono racconti stupendi. Purtroppo, nel leggere la Bibbia, non badiamo mai alla bellezza del racconto, della scenografia. E, invece, la teologia appare anche attraverso questi strumenti. Procederemo con un’analisi letteraria semplice: non si richiedono molte regole, ma un po’ di spirito d’osservazione sul testo, che va letto e riletto. Emerge così una teologia, una visione di Cristo, icona di Dio, ma emerge anche la figura del discepolo e quella della comunità. E’ teologia narrativa, perché è il racconto stesso che parla.
Cominciamo con il racconto di Marco perché accettiamo l’ipotesi comoda e diffusissima, anche se non provata, che sia il vangelo più antico, da cui dipendono quelli di Matteo e Luca. In Giovanni, invece, la scena del Getzemani non è presente.
E giungono in un podere chiamato Getzemani, e dice ai suoi discepoli: « Sedetevi qui, finché io prego ».
E prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e smarrimento, e dice loro: « Sono triste da morire, restate qui e vegliate ». E andato un poco più in là, si prostrava per terra e pregava che, se fosse possibile, l’ora passasse da lui, e diceva: « Abbà, Padre, Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice: però non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu ».
E viene e li trova che dormivano, e dice a Pietro: « Simone, dormi? Non hai avuto la forza di vegliare neppure un’ora. Vegliate e pregate per non soccombere nella prova. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole ». E allontanatosi di nuovo, pregò dicendo le stesse parole. E di nuovo tornato, li trovò che dormivano: i loro occhi, infatti, erano appesantiti e non sapevano che cosa rispondergli.
E viene per la terza volta e dice loro: « Ancora dormite e riposatevi! Finito. L’ora è giunta: ecco, il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo. Colui che mi consegna è vicino » (14,32-42).
Prima osservazione: il verbo « giungono » è al plurale e sottintende Gesù e i suoi discepoli. Poi, però, la narrazione passa al singolare. Questo passaggio dal plurale al singolare si ritrova anche in altre parti del vangelo di Marco, per esempio nel capitolo V, quando si racconta il bellissimo episodio della liberazione dell’indemoniato dei Geraseni (quello dei porci, per intenderci): Intanto giunsero all’altra riva del mare … Come scese dalla barca … (Mc 5,1-2). Un altro esempio lo troviamo al capitolo I: …andarono a Cafarnao e, entrato di sabato nella sinagoga, Gesù si mise a insegnare (Mc 1,21). Gesù è sempre con il suo gruppo, ma il protagonista è lui; Gesù è sempre con la sua Chiesa, ma la Chiesa fa un po’ da tappezzeria, è Gesù che agisce.
Seconda osservazione: Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Questa scelta di prendere solo alcuni discepoli con sé non è così nuova, la si ritrova poco prima nel racconto della Trasfigurazione (Mc 9,2).
Il confronto tra i due racconti è splendido: in quello della Trasfigurazione, un uomo si trasfigura e in lui si vede la gloria di Dio; nel racconto del Getzemani, il Figlio di Dio mostra tutta la profondità della debolezza dell’uomo.
Ci sono alcuni verbi che Marco utilizza senza remore: cominciò a provare paura e smarrimento. La traduzione non è delle migliori. Risalendo alla versione greca, il primo verbo, ekthambeísthai è un verbo fortissimo: Matteo lo sostituirà con « essere triste », Luca lo lascia cadere del tutto, Marco, invece, con la sua ingenuità, ma anche con la sua profondità, lo adopera. Ekthambeísthai è un verbo che dice lo sconcerto. Denota bene il momento in cui una cosa inaspettata, angosciante, troppo brutta o troppo bella, ti piomba addosso e tu sei come scioccato, pietrificato, incapace di reagire. Dopo magari scapperai o griderai di gioia, ma c’è il momento in cui sei ammutolito e pietrificato.
Ademoneín è il secondo verbo, che di per sé vorrebbe dire « fuori patria », « spaesato ». Anche questo, quindi, un verbo dal significato forte.
Ma dopo i verbi usati da Marco, Gesù stesso esprime il suo stato d’animo e dice: « Sono triste da morire », forse ancor più triste, « tristissimo ». Del resto, questo momento di angoscia di Gesù è espresso molto bene anche dal suo andare e venire, dal suo chiedere ai discepoli di rimanere a vegliare. Dunque, un Gesù veramente sofferente, impietrito, smarrito.    
Osservando con più attenzione, si nota che questo racconto, il quale ha una sua unità, è scandito – a parte l’introduzione iniziale descrittiva – dal verbo « dire », che ricorre cinque volte (vv. 32.34.36.37.41). E diceva: il verbo usato all’imperfetto mette in risalto l’importanza della preghiera. Infatti, mentre il presente storico (aoristo) esprime un’azione puntuale, momentanea, veloce, l’imperfetto è il verbo della continuità, dell’azione lunga, distesa.
La preghiera, dunque, appare come il centro della questione, il segreto della pagina.          
Pregando, Gesù si prostrava per terra. Vedere Gesù prostrato, per il credente è qualcosa di sorprendente, perché nelle pagine precedenti si legge che erano gli altri a prostrarsi davanti a lui. In questo momento Gesù non è dalla parte di Dio rivolto all’uomo, ma sta dalla parte dell’uomo rivolto a Dio, condivide l’esperienza più delicata dell’uomo: prova cosa vuol dire stare davanti a un Dio che pare non ascoltarti, che sembra silenzioso.
E diceva: « Abbà,Padre … »: un’invocazione tenerissima, usata dai bambini per il loro papà. Sorprende che questa tenerezza, nel vangelo di Marco, affiori proprio nel momento dell’angoscia, dell’abbandono. Il modo di pregare di Gesù è questo. Lui che, nelle parabole, ha definito Dio con diversi titoli (padrone, re …) ora, al di fuori della parabole, lo chiama « padre ».
Le altre definizioni, quindi, devono essere lette alla luce della paternità.                              
Poi c’è il riconoscimento, la professione di fede: « tutto è possibile a te ». Ma proprio da queste due cose di cui Gesù è convinto, che cioè Dio è padre e che gli è tutto possibile, proprio qui nasce lo sconcerto. Se è padre, mi vuole bene e se gli è tutto possibile, può cambiare le cose: ma allora perché non lo fa? Questa è l’angoscia del credente.
Segue la richiesta, che nel vangelo di Marco è molto decisa: « allontana da me questo calice ». Quindi la consegna: « però non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu ».
La consegna viene solo dopo la richiesta di essere liberato: è una formulazione tipicamente umana! Il Figlio di Dio affronta umanamente il suo martirio. Questa pagine sono senza retorica: è un Figlio di Dio antiretorico. Il « calice » e « l’ora » sono due immagini che Gesù adopera alludendo alla croce. Del calice ha già parlato due volte nel vangelo di Marco: « Potete bere il calice che io bevo …? » (Mc 10,38-39). L’ora è il momento  decisivo.                                                                                                                                                                      Quando Gesù prega così, trova i discepoli addormentati e dice a Pietro: « Simone dormi? Non hai avuto la forza di vegliare neppure un’ora. Vegliate e pregate per non soccombere nella prova. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole ». Sono parole rivolte ai discepoli, a tutti. Attraverso la prova si passa indenni, anche se dolorosamente, soltanto se si veglia e si prega, ed è proprio quello che sta facendo Gesù, il contrario di quello che fanno i discepoli.
Bisogna pregare, perché la forza non si trova in se stessi.
Lo spirito è pronto, ma la carne è debole: questa frase ha un senso diverso a secondo della cultura nella quale si legge.
In una cultura dualistica, come poteva essere quella ellenistica, in cui lo spirito è la realtà vera, nobile, mentre il corpo è la prigione dello spirito e causa della sua pesantezza, si dà colpa al corpo. Per la cultura ebraica, per la Bibbia, in genere, spirito e carne, invece, non rappresentano le due parti dell’uomo, ma le due modalità dell’uomo.
Lo spirito è l’uomo che è attratto da Dio; la carne è l’uomo nella sua debolezza, che vorrebbe scappare. C’è una lacerazione nell’uomo, ma non fra corpo e spirito bensì tra la volontà di aderire, di accettare, e la volontà di fuggire.
Una lacerazione interiore tipica dell’uomo di sempre, nel medesimo tempo attratto e timoroso di Dio. Ricordo di aver conosciuto, diversi anna fa, un missionario in partenza che, poco prima di imbarcarsi dal porto di Genova, mi prese vicino e mi disse in confidenza: « Don Bruno, se non mi vergognassi, tornerei indietro ». Sono trent’anni che è in missione. Ne ho accompagnato un altro, che conoscevo meno; al momento della partenza era euforico, esaltato, accompagnato da un codazzo di giovani entusiasti.
Dopo tre anni si è sposato. Non è detto, quindi, che la lacerazione sia segno di debolezza o di mancanza di fede.
A questo punto vorrei rimettere a fuoco alcune cose.
UNA PRIMA CONSIDERAZIONE. Questa pagina è il rovescio della Trasfigurazione: là la gloria, qua la debolezza; là un uomo che si manifesta come il Figlio di Dio, qua il Figlio di Dio che sembra quasi nascondersi nella debolezza di un uomo. Sia là, sia qua c’è il discepolo che non comprende, perché entrambi gli aspetti di Gesù non sono compresi o, per lo meno, c’è il rischio che non siano compresi. Nella tradizione cristiana è sempre stata presente una duplice tentazione: da una parte quella di sminuire l’umanità di Gesù a vantaggio della divinità; dall’altra quella di vederlo come uomo e non come Figlio di Dio. Ci vuole il coraggio, invece, di accettare l’una e l’altra cosa. Per cui la fede cristiana matura conosce una doppia meraviglia: che quest’uomo sia Figlio di Dio e che il Figlio di Dio si sia fatto uomo.
UNA SECONDA CONSIDERAZIONE. La scena, tutto sommato, è abbastanza affollata, perché ci sono diversi personaggi: i discepoli, poi i tre che si staccano dagli altri. Gesù che invoca il Padre, Pietro, e infine il traditore …. ma rileggendo il testo, si nota che nessuno parla, nessuno si muove, tranne Gesù. E’ un racconto scenografico attraversato da diverse tensioni.
La prima è quella, palese, tra Gesù e i discepoli: Gesù veglia e loro dormono, e il sonno è il massimo della distanza in un momento di tragedia. Il discepolo, chiamato a comprendere, in realtà non capisce; chiamato a restare, fugge. C’è, comunque, una somiglianza tra Gesù che resta e i discepoli che fuggono: anche lui ha chiesto che gli venisse allontanato il calice amaro, solo che lui non è fuggito, pur avendone sentito il peso e provato quello che ha fatto fuggire gli altri.
E’, dunque, il momento della distanza, ma anche della massima vicinanza: Cristo, infatti, ha provato cosa vuol dire essere uomo davanti a Dio. La cosa risalta ancora più chiaramente perché, in precedenza, il vangelo ha registrato una distanza tra Gesù e i discepoli. All’inizio, in particolare, è una distanza « missionaria »: al capitolo 1,37-38 ai discepoli che lo chiamano per dirgli: « Tutti ti cercano! », Gesù risponde: « Andiamocene altrove per i villaggi, perché io predichi anche là … ». E’ l’universalità della missione.
Una seconda tensione è fra Gesù e il Padre: Gesù prega il Padre e poi, con tenerezza, si aggrappa a lui. Ma il Padre non parla. Nella Trasfigurazione, nel Battesimo si è sentita la sua voce, qui niente. E’ quanto, generalmente, capita all’uomo. Ma poi si scopre che in realtà il Padre ha parlato, perché Gesù, che prima era nell’angoscia, dice ai discepoli: « Alzatevi, andiamo ».
Ha ripreso in mano il suo cammino, perché il Padre ha parlato, non allontanando la croce, ma facendogli ritrovare la sua prontezza.
Una terza tensione. Immediatamente prima del Getzemani, durante l’ultima cena, Gesù, da signore, parla serenamente della sua croce. Qui, invece, c’è un Cristo angosciato. Secondo alcuni esegeti ci sono due cristologie soggiacenti: l’una di tipo eucaristico, l’altra di tipo più « umano » che Marco ha messo insieme non armonizzandole molto bene. Ma chi ha un briciolo di fede sa che può veramente succedere di essere un momento sereni e il momento dopo angosciati. E’ la preghiera dell’angoscia, sentimento di cui la Bibbia è piena: l’angoscia della morte, della sconfitta, anche della distanza da Dio, che pare lontano. Ci sono tante angosce, quindi, tra cui anche quella della colpa, soprattutto nei Salmi. Ma, in Gesù, di quest’ultimo tipo di angoscia non c’è traccia: nei vangeli ci sono tutte le altre, mai questa. A mio avviso, di tutti i tentativi che sono stati fatti per « nobilitare » l’angoscia di Gesù, quasi fosse una cosa di cui vergognarsi (dicendo, ad esempio, che Gesù in un istante ha visto tutti i peccati del mondo e ne è rimasto schiacciato), non c’è traccia nel vangelo. Noi vogliamo sempre nobilitare l’umanità di Gesù, e invece la nostra fierezza sta proprio nel fatto che il Figlio di Dio si è fatto veramente uomo e che quell’uomo è il Figlio di Dio.
Il racconto del Getzemani in Matteo 26,36-46 è molto simile a quello di Marco, solo un po’ più ripulito. Il tratto forse più bello è che Matteo ha esplicitato il desiderio di comunione di Gesù con i discepoli: « Restate qui e vegliate con me » (v. 38).
Quel « con me » esplicita ciò che, a di la verità, era già implicito in Marco. Matteo lo fa spesso, come un catechista che non lascia nulla d’implicito, per paura che non si capisca.
LEGGIAMO, INVECE, QUELLO DI LUCA.
Uscito si recò come era sua abitudine sul monte degli uilivi. Lo seguirono anche i discepoli. Giunto sul posto disse loro: « Pregate per non soccombere nella prova ».
Allontanatosi da loro quanto un tiro di sasso e postosi in ginocchio, pregava dicendo: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice; però non la mia volontà, ma la tua sia fatta ».
Gli apparve un angelo dal cielo a rincuorarlo. E nel momento dell’agonia più fortemente pregava, e il suo sudore cadeva per terra come gocce di sangue.
Alzatosi dalla preghiera, venne presso i discepoli e li trovò addormentati per la tristezza. E disse loro: « Perché dormite? Alzatevi e pregate per non soccombere nella prova » (22,39-46).
Luca inizia e finisce il racconto con l’imperativo: « pregate per non soccombere nella prova », lo sottolinea più di Marco, come se fosse la cornice del quadro. Anche nella preghiera c’è qualcosa di diverso: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice ».
E’ un po’ più attenuata rispetto a Marco, perché il « se vuoi » è anteposto alla richiesta. Inoltre, mentre in Marco il Padre era rimasto silenzioso, qui gli appare un angelo: il divino si è fatto manifesto.
E nel momento dell’agonia più fortemente pregava: anche qui Gesù trova la sua forza nella preghiera, si aggrappa al Padre. Interessante è la parola agonia, a volte tradotta semplicemente con « angoscia », è un vocabolo mutuato dal linguaggio sportivo e indica la tensione dell’atleta prima della gara. Nel testo di Luca può indicare la lotta che il giusto deve sostenere per praticare la virtù morale in modo eroico.
Per Luca il Getzemani non è tanto il momento dell’abbattimento, ma è il momento culminante della lotta, quando l’atleta è teso fino allo spasimo perché deve superare gli ultimi metri. Il Gesù di Luca è proteso, non afflosciato, impietrito, come quello di Marco. Quelli di Marco e di Matteo sono due quadri diversi, non facilmente armonizzabili con quello di Luca.
Giovanni ha tralasciato di raccontare questo momento della passione di Gesù. C’è, tuttavia, qualcosa di interessante da notare, a tale proposito, nell’episodio in cui alcuni greci chiedono di vedere Gesù. In quell’occasione, agli apostoli Cristo dice: « E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome » (12,23-28). Il passaggio finale assomiglia al racconto del Getzemani. Anche Giovanni conosce il turbamento di Gesù. Nel vangelo di Giovanni, inoltre, Gesù dirà: non sia turbato il vostro cuore (14,1), però lui è stato turbato, l’umanità e il turbamento interiore non mancano.

da: Bruno Maggioni, I racconti della Passione
Centro Ambrosiano PIMedit 2004, pg. 17-27
web site official: www.suoredimariabambina.org

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