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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2014 (cfr 2Cor 8,9))

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2014

Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,9)

Cari fratelli e sorelle,

in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione. Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico?

La grazia di Cristo
Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà: «Da ricco che era, si è fatto povero per voi…». Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, “svuotato”, per rendersi in tutto simile a noi (cfr Fil 2,7; Eb 4,15). È un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è grazia, generosità, desiderio di prossimità, e non esita a donarsi e sacrificarsi per le creature amate. La carità, l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato. L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti, «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 22).
Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in se stessa, ma – dice san Paolo – «…perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Non si tratta di un gioco di parole, di un’espressione ad effetto! E’ invece una sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica dell’Incarnazione e della Croce. Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del proprio superfluo con pietismo filantropico. Non è questo l’amore di Cristo! Quando Gesù scende nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovanni il Battista, non lo fa perché ha bisogno di penitenza, di conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente, bisognosa di perdono, in mezzo a noi peccatori, e caricarsi del peso dei nostri peccati. E’ questa la via che ha scelto per consolarci, salvarci, liberarci dalla nostra miseria. Ci colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non per mezzo della ricchezza di Cristo, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Paolo conosce bene le «impenetrabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8), «erede di tutte le cose» (Eb 1,2).
Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerezza e di condivisione. La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio. La povertà di Cristo è la più grande ricchezza: Gesù è ricco della sua sconfinata fiducia in Dio Padre, dell’affidarsi a Lui in ogni momento, cercando sempre e solo la sua volontà e la sua gloria. È ricco come lo è un bambino che si sente amato e ama i suoi genitori e non dubita un istante del loro amore e della loro tenerezza. La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la sua relazione unica con il Padre è la prerogativa sovrana di questo Messia povero. Quando Gesù ci invita a prendere su di noi il suo “giogo soave”, ci invita ad arricchirci di questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”, a condividere con Lui il suo Spirito filiale e fraterno, a diventare figli nel Figlio, fratelli nel Fratello Primogenito (cfr Rm 8,29).
È stato detto che la sola vera tristezza è non essere santi (L. Bloy); potremmo anche dire che vi è una sola vera miseria: non vivere da figli di Dio e da fratelli di Cristo.

La nostra testimonianza
Potremmo pensare che questa “via” della povertà sia stata quella di Gesù, mentre noi, che veniamo dopo di Lui, possiamo salvare il mondo con adeguati mezzi umani. Non è così. In ogni epoca e in ogni luogo, Dio continua a salvare gli uomini e il mondo mediante la povertà di Cristo, il quale si fa povero nei Sacramenti, nella Parola e nella sua Chiesa, che è un popolo di poveri. La ricchezza di Dio non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma sempre e soltanto attraverso la nostra povertà, personale e comunitaria, animata dallo Spirito di Cristo.
Ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare concretamente per alleviarle. La miseria non coincide con la povertà; la miseria è la povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza. Possiamo distinguere tre tipi di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale. La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana: privati dei diritti fondamentali e dei beni di prima necessità quali il cibo, l’acqua, le condizioni igieniche, il lavoro, la possibilità di sviluppo e di crescita culturale. Di fronte a questa miseria la Chiesa offre il suo servizio, la sua diakonia, per andare incontro ai bisogni e guarire queste piaghe che deturpano il volto dell’umanità. Nei poveri e negli ultimi noi vediamo il volto di Cristo; amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo. Il nostro impegno si orienta anche a fare in modo che cessino nel mondo le violazioni della dignità umana, le discriminazioni e i soprusi, che, in tanti casi, sono all’origine della miseria. Quando il potere, il lusso e il denaro diventano idoli, si antepongono questi all’esigenza di una equa distribuzione delle ricchezze. Pertanto, è necessario che le coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione.
Non meno preoccupante è la miseria morale, che consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla droga, dal gioco, dalla pornografia! Quante persone hanno smarrito il senso della vita, sono prive di prospettive sul futuro e hanno perso la speranza! E quante persone sono costrette a questa miseria da condizioni sociali ingiuste, dalla mancanza di lavoro che le priva della dignità che dà il portare il pane a casa, per la mancanza di uguaglianza rispetto ai diritti all’educazione e alla salute. In questi casi la miseria morale può ben chiamarsi suicidio incipiente. Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore. Se riteniamo di non aver bisogno di Dio, che in Cristo ci tende la mano, perché pensiamo di bastare a noi stessi, ci incamminiamo su una via di fallimento. Dio è l’unico che veramente salva e libera.
Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente l’annuncio liberante che esiste il perdono del male commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente, sempre, e che siamo fatti per la comunione e per la vita eterna. Il Signore ci invita ad essere annunciatori gioiosi di questo messaggio di misericordia e di speranza! È bello sperimentare la gioia di diffondere questa buona notizia, di condividere il tesoro a noi affidato, per consolare i cuori affranti e dare speranza a tanti fratelli e sorelle avvolti dal buio. Si tratta di seguire e imitare Gesù, che è andato verso i poveri e i peccatori come il pastore verso la pecora perduta, e ci è andato pieno d’amore. Uniti a Lui possiamo aprire con coraggio nuove strade di evangelizzazione e promozione umana.
Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima trovi la Chiesa intera disposta e sollecita nel testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso, pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona. Potremo farlo nella misura in cui saremo conformati a Cristo, che si è fatto povero e ci ha arricchiti con la sua povertà. La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà. Non dimentichiamo che la vera povertà duole: non sarebbe valida una spogliazione senza questa dimensione penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che non duole.
Lo Spirito Santo, grazie al quale «[siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2 Cor 6,10), sostenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia. Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

Dal Vaticano, 26 dicembre 2013

Festa di Santo Stefano, diacono e primo martire 

‘EBED JHWH – 8IL SERVO SOFFERENTE, ISAIA)

http://www.donalfonsocapuano.it/index.php?option=com_phocadownload&view=category&id=1:catechesi&download=16:i-canti-del-servo-sofferente-2&Itemid=62.

PARROCCHIA SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE

I VENERDÌ DI QUARESIMA 2004

‘EBED JHWH

Fino al secolo XVIII, i cristiani interpretarono i testi isaiani che parlano di un servo sofferente sulla scia del Nuovo Testamento, e solo in quest’epoca si affacciò in ambito cristiano un diverso modo di lettura, già tipico del giudaismo, che vedeva riflessa nell’esperienza tragica del servo quella di tutto il popolo d’Israele (o di parte di esso, cioè di coloro che erano tornati rinnovati dall’esperienza dell’esilio). Si deve inoltre ricordare che fino a quell’epoca il libro di Isaia era visto come un tutto organico e appunto al suo interno possiamo rilevare come l’appellativo di <<servo>> sia applicato a più referenti: con esso infatti si indica semplicemente uno schiavo, ma con tale significato il vocabolo ricorre sole due volte nel libro; con <<servo>> si designa invece il profeta stesso, il popolo d’Israele; un personaggio la cui identificazione non trova concordi gli esegeti e infine, al plurale, si indicano i ministri del re assiro, i proseliti, i fedeli Israeliti. Risulta immediatamente da questa breve rassegna che l’attribuzione del titolo di servo non è univoca, anche se dentro un blocco compatto di capitoli (40-50) la preminenza è data all’applicazione a Israele.
Da quando lo studio critico della Bibbia ha mostrato che nel libro canonico del profeta Isaia sono raccolti gli oracoli di tre profeti vissuti in epoche diverse e impegnati a fronteggiare situazioni diverse, il punto di vista è decisamente mutato.
In effetti i passi in cui l’appellativo di servo è applicato al popolo appartengono tutti al Secondo Isaia, così come quei passi in cui non vi è accordo tra gli esegeti sull’identificazione del personaggio in questione (la domanda del funzionario etiope resta attualissima!).
Nel 1892, un esegeta tedesco, B.Duhm, pubblicò un commentario a Isaia in cui propose di isolare entro il Secondo Isaia quattro canti che si riferivano a un “servo” anonimo: Isaia 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12. Questi quattro poemi sarebbero stati composti da un autore post-esilico, vissuto dopo il Secondo Isaia, che avrebbe scritto sotto l’influsso letterario del Secondo Isaia, di Geremia e del libro di Giobbe. Un redattore posteriore avrebbe introdotto i cantici (che in origine appartenevano a un’opera più ampia andata perduta) nel testo del Secondo Isaia.
Secondo Duhm, il <<servo>> dei canti era un maestro della Torah, una guida della comunità giudaica ritornata in Giudea dopo l’esilio. Era un servitore fedele di JHWH, da lui eletto e illuminato, con una missione nei confronti di Israele e degli altri popoli, e visse la sua missione nel silenzio e nella sofferenza che gli inflissero i membri del suo stesso popolo.
Questa interpretazione ha praticamente determinato tutta la ricerca successiva, la quale si è incentrata soprattutto sulla identificazione del <<servo>>, per individuare il personaggio della storia d’Israele corrispondente alla figura che il profeta delinea, ma nessuna proposta ha finora trovato un ragguardevole consenso.
Un’altra linea di ricerca ha invece tentato di dimostrare che i canti del “servo” sono ben inseriti nella raccolta attribuita al Secondo Isaia e perciò vanno compresi al suo interno. Al di là delle differenti interpretazioni, un fatto è comunque ragguardevole: il “servo” di cui si parla nei canti è descritto in modo diverso dalle altre sezioni del libro.
I canto
Isaia 42:1 Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.

Dio parla e presenta il “suo” servo; è Lui che lo ha “scelto”, è Lui che lo sostiene. Ogni elezione nella Scrittura è sempre in vista di una missione per affrontare la quale c’è bisogno della grazia. Dio dice che il suo servo è “cosa buona” e che ha posto in lui il suo Spirito.

Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.

Il termine mispat ricorre tre volte, in assoluto, ad indicare il contenuto della predicazione del Servo: ma come interpretare questa parola?
Il servo deve:
• diffondere tutt’intorno la verità;
• proclamare il diritto di Dio;
• ristabilire la giustizia di Dio.
In fondo potremmo tenere insieme queste possibilità diverse, pensando alla signoria di Dio, al suo essere proclamato e riconosciuto come A e W.
Isaia 42:2 Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
Isaia 42:3 non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.

Il servo non usa la forza per imporsi, non condanna a morte, non spegne la speranza.

Proclamerà il diritto con fermezza;
Isaia 42:4 non verrà meno e non si abbatterà,
finché non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.
Si prospetta il rischio che il servo perda la convinzione e la perseveranza. Si
apre una prospettiva di universalismo
Riassumendo
Dio presenta il suo servo, da Lui eletto, per ristabilire la Sua Signoria su tutta la terra. Il servo non userà la forza e passerà attraverso una forma di travaglio.
II canto
Isaia 49:1 Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.
Isaia 49:2 Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra.

Si tratta di una tipica vocazione profetica modellata su uno schema che è lo
stesso per Isaia 6, 1-13, Geremia 1, 4-10 ed Ezechiele 2, 3 – 3, 9.

Isaia 6, 1-13

Si tratta di un racconto in tre scene:
1) Incontro con Dio (Is 6,1-5)
2) Purificazione (Is 6,6-7)
3) Vocazione-Missione (Is 6,8-13)
Nella prima scena l’uomo incontra Dio; da notare la distanza qualitativa espressa mediante la simbologia spaziale (Dio sta in alto mentre il profeta piccolo piccolo si rannicchia in un cantuccio) e la simbologia fonetica (nella descrizione di ciò che il profeta vede e sente abbondano termini ebraici gutturali che riempiono la bocca mentre nelle parole del profeta prevalgono suoni sibilanti e brevi); significativo il fatto che il profeta senta la sua impurità come localizzata sulle labbra, a significare programmaticamente il senso profondo della sua elezione.
Nella seconda scena assistiamo ad un evento quasi sacramentale; gesti (carbone ardente poggiato sulle labbra) e parole (quelle dell’angelo) combinati insieme trasformano il profeta da uomo impuro e lontano da Dio ad uomo degno di ascoltare e parlare con Dio; anche qui le labbra sono punto di riferimento costante.
L’ultima scena presenta il tema della chiamata-risposta-missione, che è un annunciare per non essere ascoltato con conseguenze negative (la distruzione) epositive (il resto).
In sintesi: il profeta è un uomo, scelto tra gli uomini; non è migliore degli
altri né più capace; è Dio che gli va incontro, che lo purifica e lo rende capace di dirgli di sì; la chiamata ad essere santo si concretizza nella missione agli altri, quale inviato di Dio; questa missione consiste soprattutto nell’annunziare la Parola, nel prestare la voce a Dio, nell’essere suo testimone. Non ascoltato, né compreso, il profeta rimane esposto a tutte le difficoltà.

Isaia 49:3 Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».

Il servo sembra essere identificato con Israele. Ma si tratta di una glossa,
come dimostreranno i versetti successivi.
Isaia 49:4 Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».

Compare lo scoraggiamento del giusto che non vede i frutti del suo lavoro.
Ne troviamo un esempio in Sal 73 (72).
Isaia 49:5 Ora disse il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
- poiché ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –

Questi versetti dimostrano che nei precedenti l’identificazione del servo con
Israele era frutto di una glossa.
Isaia 49:6 mi disse: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».

Viene ribadito anche qui l’universalismo della missione del servo.

Riassumendo
Il servo, rivolgendosi alle nazioni, si presenta come un Profeta inviato da Dio
ad Israele per la salvezza.
Il servo, dopo una fase di scoraggiamento, si riprende e Dio rilancia la sua
missione per tutte le nazioni.

HO INCONTRATO MIO « PADRE »,VI HO APPOGGIATO LA MIA STANCHEZZA – INCONTRO CON PAPA BENEDETTO (2009)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_tellan1.htm

RIFLESSIONE DI UN PRETE ROMANO DOPO L’INCONTRO CON IL PAPA

 HO INCONTRATO MIO « PADRE »,VI HO APPOGGIATO LA MIA STANCHEZZA

DON MASSIMO TELLAN (« AVVENIRE », 28/2/’09)

Venerdì pomeriggio, il primo Venerdì del nostro « itinerario quaresimale », il Venerdì che segue il consueto incontro del « Clero Romano » con il suo Vescovo, il Papa. La grande « Sala delle Benedizioni » che ci ha accolti è ormai vuota; finito il « vociare » festante che accoglie il Papa, e le mani protese verso di lui nel desiderio di un contatto che esprima l’affetto filiale. Spenti i riflettori dei « media », intenti a cogliere chissà quale novità possa dire il Santo Padre ai suoi Sacerdoti, impegnati nel duro « lavoro pastorale ». Eppure il cuore e l’anima non vogliono archiviare questo incontro, non vogliono voltare pagina come, sovente, la nostra « sbrigativa » società ci induce a fare. Cuore ed anima vogliono fare memoria di un evento che non è uno fra i tanti della nostra Diocesi, ma che vuol essere l’incontro per eccellenza, l’incontro del « Presbiterio » col suo « Pastore », il suo riferimento, la sua guida. Un appuntamento nel quale le distanze, che talvolta si respirano con il « Palazzo oltre Tevere », si annullano attraverso un abbraccio che sostiene, un segno che testimonia l’unità del « Presbiterio » col suo Vescovo e che – come ha sottolineato, con la sincerità che lo contraddistingue, il Cardinale Vicario Agostino Vallini – vuol essere un sereno e costruttivo scambio di esperienze in spirito di autentica familiarità. Questo appuntamento è anche un’opportunità per « domandare », sollecitare risposte alle provocazioni che ci arrivano dal nostro essere « Chiesa tra la gente », per riportare « esperienze pastorali » vissute, dal condividere perplessità e angosce, gioie e speranze. Ma, accanto alle risposte che il nostro Vescovo ci offre con puntualità e « sagacia », ciò che permane e vivifica è l’incontro in se stesso, l’opportunità di un confronto aperto e disponibile con un « Pastore » unico al mondo perché successore di « Pietro », la « roccia », colui che segna la rotta e apre la strada nella « sequela » di Cristo. Tutti noi viviamo immersi in questo tempo a tal punto da esserne segnati interiormente e talvolta « affaticati ». Le domande che agitano il cuore dell’uomo; le nuove problematiche « etiche », sollevate anche dai recenti « fatti di cronaca »; le difficoltà nel costruire « comunità » che siano luoghi di accoglienza e « testimonianza evangelica » nella carità, in un mondo sempre più diffidente e « chiuso »: sono realtà con cui dobbiamo misurarci. Talora l’entusiasmo cede il passo alla stanchezza, la « passione pastorale » è mortificata dal non avere « riscontri » immediati. Capita che una « patina di scoraggiamento » possa minare anche la nostra speranza. Che fare? Dove guardare? In chi trovare una « parola franca » che ci incoraggi, ci sproni a non distogliere lo sguardo da « Cristo risorto », nostra « speranza »? È questo il significato più vero del nostro trovarci col Papa. Spesso si sente dire, da fior di psicologi, che viviamo una stagione nella quale « non vi sono più padri »; ma prima della psicologia è il cuore dell’uomo che rivela l’esigenza di trovare una « paternità » che non lo faccia sentire solo e disorientato in questo mondo. La Chiesa indica all’uomo il volto di Dio come « Padre », ma perché questa « paternità » sia credibile deve renderla visibile con coloro che sono chiamati a esserne testimoni e strumenti. Come « Pastori » delle nostre « comunità » cerchiamo di rivelare questa « paternità » di Dio. Ma, nel contempo, come collaboratori del Vescovo e figli di Dio con tutto il suo « popolo », cerchiamo in Lui il volto e l’autorevolezza amorevole di un vero « Padre ». Abbiamo anche noi bisogno di non sentirci soli e disorientati, di trovare « prossimità » di cuore per noi stessi e rinnovato slancio per quanto possiamo e dobbiamo offrire a quanti ci sono affidati. Mi torna in mente il « Discorso alla Luna » del Beato Giovanni XXIII: «È un fratello che parla a voi, diventato « Padre » per la volontà di nostro Signore». È questo lo spirito che mi muove ogni volta che devo incontrare il mio Vescovo, questo quello che desidero e spero di trovare nel Papa. Questo il senso di un momento che è diventato una « consuetudine », ma è insieme un « seme di novità » per la mia vita di uomo e di Sacerdote.

 

L’UMILTA’ – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

http://digilander.libero.it/rinnovamento/documenti/cate_063.html

L’UMILTA’

 PADRE RANIERO CANTALAMESSA

 Insegnamento tenuto a Chiaravalle Milanese, durante l’Incontro regionale dei Rinnovamento lombardo, Pentecoste 1979. Inizio questo insegnamento richiamando un brano della Parola di Dio che si trova in Luca, cap. 14; si tratta della parabola sulla scelta dell’ultimo posto a tavola, che termina con la frase: « Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato  » (Le 14,7-11). Noi siamo convenuti qui, oggi, pieni di gioiosa attesa, perché vogliamo fare la nostra Pentecoste. La Pentecoste è un evento grande per la Chiesa. Ma che cosa possiamo mettere noi, di nostro, per fare la Pentecoste? Assolutamente niente! La Pentecoste la decide solo Dio; la Potenza che scende dall’alto, scende dall’alto e basta; non la si può strappare a forza dalla terra. Tutto ciò che c’è di positivo, di dono, nella Pentecoste, ci viene da Dio; è il Padre che stabilisce il modo, il tempo e la misura per ognuno. Che cosa possiamo fare noi, allora, per avere la nostra Pentecoste, se non possiamo fare nulla di « positivo »? Possiamo fare il vuoto, che permetta allo Spirito Santo di venire! Creare il vuoto significa metterci in atteggiamento di profonda, sincera umiltà davanti a Dio. In questo, Maria preparò gli apostoli a ricevere la prima Pentecoste: li aiutò a farsi piccoli, umili e docili. Basta saper leggere tra le righe. Quando gli apostoli si erano trovati insieme l’ultima volta, in quello stesso cenacolo, prima della passione del Signore, sappiamo che discutevano ancora tra loro chi fosse il più grande (cfr. Le 22,24ss). Ora che Maria, « l’umile ancella », ha fatto loro scuola di umiltà, durante quella memorabile « novena », ritroviamo gli stessi uomini nello stesso posto, nel cenacolo, ma non discutono più su chi è il più grande; sono invece « assidui e concordi nella preghiera ». Parliamo dunque dell’umiltà poiché essa appare la migliore preparazione a ricevere lo Spirito Santo. Con questo insegnamento intendo anche completare il discorso fatto a Rimini sulla « sobria ebbrezza dello Spirito », sviluppando un punto che in quell’occasione fu appena accennato. e precisamente il significato dell’aggettivo « sobria ». Che ci sia una « ebbrezza » dello Spirito, come ci fu il giorno stesso di Pentecoste, questo dipende da Dio; ma da noi dipende l’essere sobri »,e oggi vediamo che questo vuol dire anche essere « umili ».

L’umiltà di Gesù Gesù terminava la sua parabola degli invitati al banchetto dicendo che chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Ma cosa significa « umiliarsi »? Sono sicuro che se domandassi a varie persone cos’è per loro l’umiltà, otterrei tante risposte diverse, ognuna contenente una parte di verità, ma incomplete. Se lo domandassi a un uomo che è portato per temperamento alla violenza, a far valere il proprio punto di vista con forza, forse mi risponderebbe: « l’umiltà è non alzare la voce, non fare il prepotente in casa, essere più mite e arrendevole Se lo domandassi a una ragazza, forse mi risponderebbe: « l’umiltà è non essere vanitosa, non volere attirare lo sguardo degli altri, non vivere solo per se stessi o per la facciata… » Un sacerdote mi risponderebbe: « Essere umili significa riconoscersi peccatore, avere un sentimento basso di se stesso Ma è facile capire che così non si è toccata ancora la radice dell’umiltà. Per scoprire la vera radice dell’umiltà bisogna, come sempre, rivolgersi all’unico Maestro che è Gesù. Egli ha detto: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mt 11,29). Per un po’ di tempo, confesso che questa frase di Gesù mi ha molto stupito. Infatti: dov’è che Gesù si mostra umile? Leggendo il vangelo non si incontra mai la benché minima ammissione di colpa da parte di Gesù. Questa è anzi una delle prove più convincenti dell’unicità e della divinità di Cristo: Gesù è l’uníco uomo che è passato sulla faccia della terra, ha incontrato amici e nemici senza dover mai dire: « Ho sbagliato! », senza chiedere mai perdono a nessuno, neppure al Padre. La sua coscienza ci appare un cristallo: nessun senso di colpa la sfiora. Di nessun altro uomo, di nessun fondatore di religione, si legge una cosa simile. Dunque Gesù non è stato umile, se per umiltà intendiamo parlare o sentire bassamente di sé, ammettere di avere sbagliato. « Chi di voi – egli può dire con sicurezza – può convincermi di peccato? » (Gv 8,46). Eppure questo stesso Gesù dice con altrettanta sicurezza: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mt 11,29). Allora vuol dire che l’umiltà non è proprio quella cosa che il più delle volte noi pensiamo, ma qualcos’altro che dobbiamo scoprire dai vangeli. Che cosa ha fatto Gesù per essere e dirsi « umile »? Una cosa semplicissima: si è abbassato, è sceso. Ma non con i pensieri o con le parole. No, no; con i fatti! Con i fatti Gesù è sceso, si è umiliato. Trovandosi nella condizione di Dio, nella gloria, cioè in quella condizione in cui non si può né desiderare né avere niente di meglio, è sceso; ha preso la condizione di servo, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte (cfr. Fil 2,6ss). Una volta iniziata questa discesa vertiginosa da Dio a schiavo, non si è fermato ancora; ha continuato a scendere, tutta la vita. Si mette in ginocchio per lavare i piedi ai suoi apostoli; dice: « Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). Non si arresta finché non tocca il punto oltre il quale nessuna creatura può andare, che è la morte, Ma proprio là, nel punto estremo del suo abbassamento, lo raggiunge la potenza del Padre, cioè lo Spirito Santo, afferra il corpo di Gesù nella tomba, lo vivifica, lo risuscita e lo innalza alla sommità dei cieli, gli dà il Nome che è al di sopra di ogni altro nome e ordina che ogni ginocchio si pieghi davanti a lui. Ecco un esempio concreto, la realizzazione massima della parola: « Chi si umilia sarà esaltato ». Vista in questo specchio, che è Gesù, l’umiltà ci appare dunque non una questione di sentimenti, cioè un sentire se stessi in modo basso, ma una questione di fatti. di gesti concreti; non una questione di parole, ma di realtà, di azioni. L’umiltà è la disponibilità a scendere, a farsi piccoli e a servire i fratelli; è la volontà di servizio. E tutto questo, fatto per amore, non per altri scopi. Ci può essere un’attitudine al servizio dei fratelli anche in persone non credenti; dobbiamo ammettere onestamente che ci sono intorno a noi persone che non si dicono cristiane e tuttavia, in certi casi, ci danno l’esempio nel collocarsi accanto ai poveri, agli emarginati. La differenza sta nel fatto che, in un cristiano, tale disponibilità al servizio deve essere ispirata e come sostanziata di amore.

In un certo senso, possiamo dire che l’umiltà è gratuità, è abbassarsi senza alcun interesse proprio o calcolo. La parabola degli invitati al banchetto prosegue con queste parole di Gesù: « Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti » (Le 14,13ss). Questo è un servizio gratuito, perché non ci si aspetta nulla in cambio. In questo l’umiltà si rivela come la sorella gemella della carità, come un aspetto di quella agape, di cui S. Paolo tesse l’elogio nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Quando l’Apostolo dice che la carità « non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto … », intende dire che la carità è umile e l’umiltà è caritatevole. Essere umile secondo il modello di Gesù significa dunque spendersi gratuitamente, non vivere solo per se stessi (cfr. 2 Cor 5,15). Quando noi cerchiamo il plauso, i riconoscimenti, manchiamo di umiltà perché rompiamo la gratuità. In quel momento stiamo ricercando la nostra ricompensa. lo posso andare in un posto a parlare e tornare a casa con una duplice ricompensa: o in soldi, o in compiacenza di me stesso. In tutti e due i casi Gesù mi dice: Hai ricevuto la tua ricompensa.

Umiltà e sobrietà In noi, quasi mai l’umiltà è questa cosa così limpida e pura, cioè abbassarsi a servire per amore. Essa comporta sempre anche qualcosa di negativo, cioè un rinnegarsi, uno sconfessare ciò che c’è di distorto nelle nostre intenzioni e nelle nostre azioni. Un discendere da noi stessi, prima che andare verso gli altri. Quando è Gesù che « scende », lo fa da un’altezza reale, oggettiva, perché è il Santo di Dio (cfr. Gv 6,69). Quando invece siamo noi uomini a « scendere », non ci abbassiamo da un’altezza reale, vera, ma da una pseudo-altezza, da una altezza falsa; ci abbassiamo da un’altezza alla quale ci siamo indebitamente innalzati con l’orgoglio, con la vanità, con l’ira… In noi perciò l’umiltà è sempre anche una virtù « negativa », che serve a rinnegare qualcosa di cattivo che c’è in noi per cui tendiamo a elevarci al di sopra del prossimo. n questo senso si dice giustamente che l’umiltà è verità. E’ ripristinare la verità circa noi stessi, è riconoscere che il nostro posto non è stare sopra gli altri, ma sotto. S. Teresa d’Avila ha scritto: « Mi chiedevo una volta perché il Signore ama tanto l’umiltà, e mi venne in mente d’improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere perché egli è somma Verità e l’umiltà è verità ». Anche S. Paolo parla in questi termini dell’umiltà quando dice: « Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso » (Gal 6,3). Per l’Apostolo, si potrebbe dire che l’umiltà è soprattutto sobrietà spirituale, cioè un sentire in modo sobrio, sano, non eccessivo, non esaltato, di se stessi. Dice: « Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione » (Rm 12,3). Nell’originale greco, la frase suona: « Valutatevi in modo sobrio ». Poco dopo insiste dicendo: « Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi » (Rm 12,16). Quest’umiltà-sobrietà consiste dunque in un sano realismo che ci permette di essere nella verità dinanzi a Dio. Noi non perseguiamo una verità astratta, non vogliamo essere come lo psicanalista che cerca di portare l’uomo alla verità su di sé, in modo che egli si liberi dai suoi complessi. Noi perseguiamo un’altra verità; la verità che cerchiamo è quella che permette di essere veri davanti a Dio, prima ancora che davanti a se stessi e agli altri, anche se queste cose ne derivano di conseguenza. t scritto di Dio che egli è buono e generoso con l’uomo sincero, ma diventa l’astuto » con il perverso, cioè con chi ha il cuore menzognero (cfr. Sal 18,27). Una cosa Dio esige sopra tutte da chi si accosta a lui: 1a sincerità del cuore » (cfr. Sal 5 1,8)

L’umiltà di Dio Dicevo che l’umiltà presenta in noi degli aspetti negativi, di rinnegamento, di sacrificio, di croce, proprio perché noi siamo peccatori e abbiamo bisogno di togliere il male che c’è in ogni nostra azione. Ma se è cosi, dove trovare quell’umiltà allo stato puro che non finirà neppure con la morte e che non dice alcuna relazione con il peccato? La prima risposta che viene spontanea alle labbra è: in Gesù di Nazareth! Ma, a pensarci bene, dobbiamo dire che neppure in lui si trova quell’umiltà allo stato puro, senza alcuna relazione con il peccato. E’ vero infatti che Gesù è l’uomo senza peccato, innocente e santo; è vero che non aveva peccati propri, tuttavia aveva preso su di sé i peccati degli altri uomini e davanti a Dio figurava come « il peccato ». Anche in Gesù, dunque, il suo umiliarsi facendosi obbediente fino alla morte presenta un aspetto di espiazione, cioè di riferimento al peccato. Solo nella seconda venuta, alla fine dei tempi – dice l’epistola agli Ebrei – egli verrà senza più alcuna relazione con il peccato (cfr. Eb 9,28). Allora – insisto – dove troviamo l’umiltà allo stato puro, quel puro e gratuito abbassarsi a servire per amore? Abbiamo bisogno di arrivare a toccare questo fondamento perché da esso la virtù dell’umiltà trae tutta la sua forza e il suo fascino. La troviamo in Dio, nella Trinità! C’è una preghiera di S. Francesco d’Assisi, sicuramente autentica (si conserva in Assisi, nella basilica del Santo, scritta di suo pugno); in questa preghiera intitolata « Laudi di Dio Altissimo », il Poverello intreccia una lode magnifica del Dio Uno e Trino, dicendo tra l’altro: « Tu sei carità, tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei sicurezza, tu sei giustizia, tu sei temperanza Quando lessi la prima volta quell’espressione: « Tu sei umiltà », dissi fra me: « Padre mio S. Francesco, qui non ti capisco più! Forse ti sei lasciato prendere la mano; stavi facendo un elenco delle virtù che si trovano in Dio e vi hai messo dentro anche l’umiltà, senza pensare che l’umiltà è una virtù che non può trovarsi nella Trinità che è tutta gloria, santità, splendore ». Ma sbagliavo io! Il Santo aveva ragione. Anzi egli ci ha dato, con quelle parole, una delle definizioni più delicate e più sublimi di Dio: Dio è umiltà! Se umiltà significa scendere da se stessi per amore, Dio è umiltà perché, dalla posizione in cui si trova, non può far altro che scendere; sopra di lui non c’è nulla, perciò egli non può salire, innalzarsi. Quando fa qualcosa « fuori di sé » (ad extra), Dio non può che « abbassarsi », umiliarsi. Ed è quello che ha sempre fatto dalla creazione del mondo. La storia della salvezza non è che la storia delle successive « umiliazioni » di Dio. Così la vede infatti S. Francesco: « Ecco – scrive – ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare » (FF n. 144); e parlando dell’eucaristia esclama: « Guardate, frati, l’umiltà di Dio! » (FF n. 221). In seguito, mi sono accorto che questa era stata già un’idea familiare ai Padri della Chiesa. Essi parlavano della synkatábasis di Dio, parola che, tradotta, vuol dire « condiscendenza », cioè farsi piccolo per potersi accostare all’uomo e scendere al suo livello. S. Giovanni Crisostomo – a cui tale termine era particolarmente caro – dice che già la creazione è un atto della condiscendenza di Dio; che la rivelazione biblica – il fatto che Dio si adatti a balbettare il linguaggio umano – è un atto della condiscendenza di Dio; tale è pure e soprattutto l’Incarnazione. Ma anche la Pentecoste che stiamo celebrando è un atto di umiltà di Dio. Perché parliamo di « discesa » dello Spirito Santo, se non per lo stesso motivo, e cioè che ogni intervento di Dio a favore dell’uomo è una condiscendenza, un umiliarsi? Nel caso della Pentecoste, lo Spirito Santo si abbassa, assumendo dei poveri segni come sono il fuoco, il vento, le lingue. Si abbassa ad abitare in povere creature di carne facendone il suo tempio. (Soffermiamoci un istante in preghiera su questa scoperta; ringraziamo il Signore perché ha voluto « uscire » da se stesso per amore nostro, dandoci un meraviglioso esempio di umiltà). Dopo ciò ho capito perché S. Francesco, nel « Cantico delle creature », scrive: « Laudato si’, mi’ Signore, per sora aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta ». Uacqua è umile perché, come Dio, dalla posizione in cui si trova non sale mai, ma sempre scende, scende, fino a raggiungere il punto più basso; tende sempre ad occupare l’ultimo posto. Dio è umiltà: che cosa abbiamo scoperto con ciò? Solo un’idea teologica in più? No, abbiamo scoperto il vero motivo per cui dobbiamo essere umili. Noi dobbiamo essere umili per essere figli del Padre nostro, per « riprendere » dal nostro legittimo Padre. Perché se non siamo umili, noi non riprendiamo dal Padre nostro che è nei cieli, ma da un altro padre ben diverso. Chi è, nell’universo, colui che ha come suo movimento proprio il salire, il dare la scalata? Chi è colui che dice: « Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il mio trono… mi farò uguale all’Altissimo? » (Is 14,13-14). Non lo nominiamo neppure, per non fargli questo onore nel giorno di Pentecoste, tanto sappiamo bene di chi si tratta. Bisogna dunque essere umili per riprendere dal Padre nostro, altrimenti Gesù deve dire anche a noi quello che diceva ai farisei che si credevano figli di Abramo: ‘ »Voi fate le opere di un padre che non è Abramo… » (cfr. Gv 8,38ss).

Umili con chi? L’esercizio dell’umiltà Adesso possiamo porci la domanda iniziale: « Che cos’è l’umiltà », ma da un altro punto di vista, molto più profondo. L’umiltà è un atteggiamento verso noi stessi, verso gli altri, o verso Dio? Anni addietro, feci una meditazione sull’umiltà in cui sostenevo che essa non è un atteggiamento verso se stessi o verso gli altri, ma solo verso Dio. Adesso devo correggermi: l’umiltà è tutto questo insieme: è un modo di stare davanti a sé, davanti agli altri e davanti a Dio, pur rimanendo qualcosa di profondamente unitario. Ho detto sopra che l’umiltà è sorella gemella della carità; come la carità si esprime in due atteggiamenti legati intimamente tra di loro: « Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso », così è dell’umiltà. L’umiltà vera consiste nell’essere umili con Dio e umili con il prossimo: le due cose insieme. Non si può essere umili dinanzi a Dio, nella preghiera, se non lo si è con i fratelli. Essere umili davanti a Dio significa essere bambini, essere gli anawin biblici, cioè i poveri che non hanno nessuno su cui appoggiarsi se non Dio solo; significa non confidare né nei carri né nei cavalli, né sulla propria intelligenza, né sulla propria giustizia. E tutto questo va benissimo. Ma se tu non sei umile con il fratello che vedi, come puoi dire di essere umile con Dio che non vedi? Se tu non lavi i piedi al fratello che vedi, cosa significa il tuo voler lavare i piedi a Dio che non vedi? I piedi di Dio sono i tuoi fratelli! Come si vede, si possono dire dell’umiltà le medesime cose che Giovanni dice della carità (cfr. I Gv 4,20). Ci sono persone (io sono certamente tra queste), le quali sono capaci di dire di se stesse tutto il male possibile e immaginabile; che, in preghiera, fanno delle autoaccuse di una schiettezza e di un coraggio ammirevoli. Dunque, sono umili davanti a Dio e verso se stessi. Ma appena un fratello accenna a prendere sul serio le loro confessioni, o si azzarda a dire, di essi, una piccola parte di quello che si son detti da soli, sono scintille! Non era vera umiltà la loro. Il vero umile è colui che si guarda in Dio, in lui scopre ciò che è, e poi trasfonde questa verità nel rapporto con i fratelli. L’umiltà che stiamo scoprendo è un bene che scende dal cielo; essa è quel « dono perfetto che viene dall’alto e discende dal Padre della luce » (cfr. Ge 1, l 7). Non è una pianta che spunta naturalmente sulla nostra terra; il mondo non la conosce. Questa è la sapienza dei Vangelo che confonde la sapienza del mondo. Su questo terreno le due sapienze si scontrano frontalmente, tanto che S. Paolo può dire: « Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio » (1Cor 3,18ss). Lo vediamo chiaramente intorno a noi: il mondo, invece di coltivare l’umiltà, esalta l’orgoglio; quando si vuol fare un comiplimento a qualcuno, si dice che « ha dell’orgoglio ». Il mondo è strutturato sul valore dell’arrivismo, del fare carriera, cioè salire più in alto nella scala sociale. Dalla scuola in su, che cosa si inculca ai giovani se non di fare carriera, di affermarsi al di sopra degli altri, di primeggiare? Il modo di pensare di Gesù è semplicemente diverso di novanta gradi. E tuttavia bisogna non cadere in errore. A che cosa mira l’umiltà evangelica? Forse a creare una comunità di rassegnati, di gente inerte, priva di slancio, che non traffica i talenti? Assolutamente no! Il filosofo che affermava questo (Nietzsche), non aveva capito niente del Vangelo. L’umiltà evangelica non significa che tu non devi trafficare i talenti ricevuti; al contrario. La differenza rispetto al mondo è che questi tuoi talenti tu non li impieghi solamente per te stesso, per porti al di sopra degli altri e dominarli, ma li impieghi per il servizio degli altri; non per essere servito, ma per servire,

Umiltà nel matrimonio Vorrei ora accennare ad alcuni ambiti particolari in cui l’umiltà si rivela particolarmente necessaria. Anzitutto quello della famiglia: come e perché essere umili nel matrimonio. lo dico che l’urniltà è stata inventata da Dio anche per salvare i matrimoni. Il matrimonio, inteso come l’amore tra l’uomo e la donna, nasce dall’umiltà. Innamorarsi di un’altra persona – quando si tratta di un vero fatto di innamoramento – è il più radicale atto di umiltà che si possa immaginare. Significa andare da un altro e dirgli: lo non mi basto, io non sono sufficiente a me stesso; ho bisogno del tuo essere. E’ come stendere la mano e chiedere in elemosina a un’altra creatura un po’ del suo essere. Ripeto: è l’atto di umiltà più radicale. Dio ha creato l’uomo bisognoso, mendicante; ha inscritto l’umiltà nella sua stessa carne, quando li ha creati maschio e femmina, cioè incompleti. Ne ha fatto, fin dall’origine, due esseri in movimento, in ricerca l’uno dell’altro, « insoddisfatti » ognuno di se stesso. Ha posto così la creatura umana come su un piano inclinato verso l’alto, non verso il basso, perché l’unione doveva elevarlo dall’altro sesso, all’Altro per eccellenza che è Dio stesso. Dunque, il matrimonio nasce dall’umiltà, e se nasce dall’umiltà della condizione umana non può sopravvivere che nell’umiltà. S. Paolo diceva ai coniugi cristiani: « Rivestitevi… di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri » (Col 3,12ss). L’umiltà e il perdono sono come il lubrificante che permette, giorno per giorno, di sciogliere ogni principio di ruggine, di abbattere i piccoli muri di incomprensione e di risentimento, prima che diventino grandi muri che non si possono più abbattere. Gli sposi devono vigilare a che 1`altro padre », quello spurio, non instauri tra di loro la logica della ripicca, della rivincita… Non bisogna dare ascolto alla voce che grida dentro: Perché devo essere sempre io a cedere, a umiliarmi? Cedere non è perdere, ma vincere, vincere il vero nemico dell’amore che è il nostro egoismo, il nostro « io ».

Umiltà nel Rinnovamento Il Rinnovamento ha bisogno di famiglie rinnovate e le famiglie, abbiamo visto, si rinnovano anche con l’umiltà. à l’amore, certo, che rinnova le famiglie, ma è l’umiltà che rende possibile l’amore. Ma in questa circostanza, devo dire una parola anche a proposito dell’umiltà nel « Rinnovamento ». Se il Rinnovamento, come è stato detto molto giustamente, è « restituire il potere a Dio », allora Si capisce quanto l’umiltà sia urgente nel Rinnovamento nello spirito. L’umiltà è ciò che preserva il Rinnovamento dallo sciuparsi in cosa umana. Bisogna che periodicamente noi rimettiamo il, potere nelle mani di Dio, e questo si fa con l’umiltà. Bisogna che impariamo a dire, con l’Apocalisse e con la liturgia della Chiesa: « Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli! ». Ogni volta che dimentichiamo questo e facciamo centro sulle persone, sono disastri, come a Corinto. I nostri incontri di preghiera talvolta soffrono di questo: non c’è abbastanza pulizia di tutto l’elemento umano. L’umiltà nel Rinnovamento è importante quanto è importante l’isolante nell’elettricità. Più alta è la tensione della corrente che passa in un filo, più deve essere spesso ed efficiente l’isolante; altrimenti: corto circuito! Ricordo vagamente le nozioni che ci inculcava, a questo proposito, il mio vecchio professore di fisica al liceo: « L’isolante – diceva – è una materia inerte e vile, ma è assolutamente indispensabile, come lo sono i fili di rame che trasportano la corrente. Questi servono a trasportare la corrente, quello a non disperderla. I progressi che si fanno nella tecnica della conduzione dell’elettricità devono sempre essere accompagnati da un proporzionato progresso nella tecnica dell’isolamento. Altrimenti, corto circuito! ». In particolare, l’umiltà deve risplendere negli animatori e in chi svolge qualche ministero, come me in questo momento. Bisogna che ci lasciamo contestare senza reagire subito come chi si sente offeso, bisogna che ci lasciamo ammonire e correggere dai fratelli; bisogna che ci lasciamo sostituire e, anzi, che preveniamo in ciò i responsabili, senza che debbano dircelo più volte prima che capiamo. Una tentazione possibile nel Rinnovamento è quella di volersi sempre trovare in quel punto preciso dove, secondo noi, « passa » la corrente dello Spirito, essere sempre nell’occhio del ciclone, cioè, fuori metafora, là dove c’è la persona più famosa, il gruppo più dotato… Se il Signore ci fa capire queste cose è perché ci vuole liberare da esse. E’ bene voler essere nel punto dove agisce lo Spirito di Dio; solo che il punto dove agisce lo Spirito non è dove c’è la persona più in vista, perché lo Spirito di Dio è di preferenza nel nascondimento. Se dunque noi vogliamo essere veramente nell’occhio del ciclone dello Spirito, corriamo a occupare l’ultimo posto. Lì, lo Spirito trovò Maria e la riempì della sua potenza. Il Rinnovamento ha bisogno di vocazioni al nascondimento. Chi oggi sente per sé questa vocazione, dica subito il suo « si », insieme con Maria. Bisogna che ci lasciamo tutti strappare a fatica dall’ultimo posto; i fratelli devono incontrare resistenza a tirarci via dal l’ultimo posto, non dal primo. Occorre poi umiltà anche nei rapporti tra noi del Rinnovamento e i fratelli che servono il Signore in altri gruppi e realtà ecclesiali. Mai una mentalità da « eletti », che sciupa tutto. Non sentiamoci « carismatici », nel senso di persone dotate di particolari poteri, di trascinatori, ma solo nel senso di servitori dello Spirito. Abbiamo ricercato la radice dell’umiltà e l’abbiamo scoperta in Dio; abbiamo considerato il suo tronco, i rami; adesso cerchiamo di coglierne i frutti. I frutti dell’umiltà sono tantissimi, e uno più squisito dell’altro, ma a me piace soffermarmi su questi due soli frutti: l’umiltà attira la compiacenza di Dio, l’umiltà ci riconcilia con i fratelli. L’umile è guardato da Dio con occhio di padre, con tenerezza e simpatia. Il profeta Isaia ci fa seguire lo sguardo di Dio che si volge qua e là per l’universo in cerca di un posto dove posarsi, e non lo trova perché tutto è suo, tutto è uscito dalle sue mani; finché trova un « cuore contrito e umiliato » e in esso si riposa (cfr. Is 66.2). E’ scritto: »Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano » (Sal 138,6). Come il Signore, dalla posizione in cui è, non può salire sopra di sé, così, si direbbe, non può guardare sopra di sé; come non può che scendere, così non può che guardare in basso. « Se tu ti innalzi, egli si allontana da te, se invece ti abbassi, egli si inchina verso di te » (S. Agostino, Ser. 21,2). Per questo Maria dice: « Ha guardato l’umiltà della sua serva  » (Lc 1,48). L’altro frutto, dicevo, riguarda i fratelli. L’umiltà conquista gli uomini. à una cosa curiosa: il mondo non coltiva l’umiltà, gli uomini in genere non sono umili; tuttavia sanno riconoscere a prima vista chi è umile e non sanno resistere all’umile. Non c’è difesa, né del Rinnovamento, né della Chiesa, che valga tanto quanto un atto di vera umiltà.

Termino recitando con voi il Salmo 131 che canta proprio i frutti dell’ umiltà: « Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze (la sobrietà!), lo sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia « .

Raniero Cantalamessa – La sobria ebbrezza dello Spirito – Edizioni RnS – Roma

QUARESIMA: ESODO DI LIBERTÀ DALLA FAME DI POSSEDERE LA VITA, LE PERSONE E DIO – LECTIO

http://www.zenit.org/it/articles/quaresima-esodo-di-liberta-dalla-fame-di-possedere-la-vita-le-persone-e-dio

QUARESIMA: ESODO DI LIBERTÀ DALLA FAME DI POSSEDERE LA VITA, LE PERSONE E DIO

LECTIO DIVINA PER LA I DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO A

Parigi, 08 Marzo 2014 (Zenit.org) Mons. Francesco Follo 

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la I Domenica di Quaresima (Anno A).

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LECTIO DIVINA

Quaresima: esodo di libertà dalla fame di possedere la vita, le persone e Dio
Rito Romano – I Domenica di Quaresima – Anno A – 9 marzo 2014
Gn 2, 7-9; 3, 1-7; Sal 50; Rm 5, 12-19; Mt 4, 1-11

Rito Ambrosiano – I Domenica di Quaresima
Is 58, 4b-12b; Sal 102; 2Cor 5, 18-6,2; Mt 4, 1-11

1) Quaresima: 40 giorni di esodo per andare verso la Terra promessa.

Il modo più sicuro di partecipare alla Quaresima è, come suggerisce la liturgia di oggi, prima Domenica di Quaresima, di ricordare e rivivere quello che furono per lui i 40 giorni di digiuno e preghiera passati nel deserto e che si conclusero con il superamento di tre prove.
Nel racconto che Gesù stesso fece ai suoi discepoli, le tre tentazioni, che ricapitolano questo tempo di prova, lasciano abbastanza chiaramente capire che, in un combattimento che prefigurava la sua agonia, Lui scelse l’amore del Padre e la carità per noi e iniziò a bere il calice della Nuova Alleanza, che sarebbe stata sigillata con la sua offerta sulla Croce.
Questo amore offerto è rifiutato ci è presentato già nella prima lettura, presa dal libro della Genesi, ci mostra che l’uomo è polvere plasmata dalle “mani creative” di Dio e animata dal Suo soffio di vita e di carità. Poche righe dopo, sempre il libro della Genesi illumina il dramma delle scelte sbagliate di fronte al bene e al male, un male che nasce nel cuore dell’uomo, dalle sue scelte, dai suoi rifiuti, dal suo ostinarsi a seguire i propri criteri, anziché i criteri di Dio. Ci viene chiesto di riflettere sulla gravità del rifiuto di inserirsi nel disegno di Dio, pretendendo un’autonomia assoluta nel decidere ciò che è bene e ciò che male. E’ la pretesa di essere alla pari di Dio, di essere Dio a noi stessi e agli altri.
? Poi, nella seconda lettura, ricavata dalla Lettera ai Romani, vediamo che San Paolo si riferisce al racconto della Genesi e mette a confronto il comportamento di Adamo e quello di Cristo e i risultati del loro agire. La ribellione e la disobbedienza del primo hanno causato la separazione da Dio e la morte di tutti gli uomini, l’obbedienza perfetta di Cristo, invece, ha ottenuto a tutti la pienezza della grazia e della vita. Adamo ed Eva sperimentano che la propria presunzione li ha allontanati tra loro, dal creato e da Dio. Gesù, invece, ricuce questo strappo e annulla questa distanza.
Infine, la pagina del Vangelo di Matteo che ci è offerta oggi come terza lettura, ripropone la stessa tentazione di Adamo ed Eva, ma mostra come Gesù ne esce vittorioso e ci indica le vie per realizzare un’esistenza fedele a Dio, una vita libera dal male profondo che ci minaccia.
Il diavolo mette in dubbio la figliolanza divina di Gesù (“Se sei Figlio di Dio …”) che era stata affermata al momento del battesimo sulle rive del fiume Giordano. In effetti, la tentazione non riguarda né il pane, né le cose, perché quelle son quel che sono, ma come vivere la nostra relazione con le cose, con le persone, con Dio. La possiamo vivere da figlio di Dio, come Gesù, oppure rifiutare la paternità amorosa di Dio che offre un rapporto stabile, vivo e vivificante con Lui.
Dio offre un’alleanza tra due libertà: la sua, che è iniziativa d’amore infinito, e la nostra, che è chiamata a fiorire e vivere della e per la libertà amorosa di Dio.
Se con la grazia superiamo la tentazione, Dio dilata il nostro cuore, che può così avere in dono Lui, che è l’Amore, e ci dona di bene operare per rendere tutta la vita una lode a Lui.

2) Fame e deserto.
Un dato non secondario è che il Vangelo di oggi ci dice che Gesù è tentato da Satana dopo quaranta giorni e nottti di digiuno e, quindi, Gesù ha fame.
Ma non si tratta solo di una fame corporale, come ogni essere umano Gesù ha tre fami:
a- di vita, che tenta l’uomo al possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali (le pietre da trasformare in pane),
b- di relazioni umane che possono essere d’amicizia o di potere, simboleggiata dall’offerta di potere,
c- di onnipotenza, che spinge a soffocare il desiderio di Dio cioè l’anelito di infinito e di libertà senza limiti, inducendo alla tentazione di progettare la propria esistenza secondo i criteri umani della facilità, del successo, del potere, dell’apparenza, dell’immagine, vale a dire la tentazione di adorare il Menzognero (il diavolo) invece di adorare il Vero Amore provvidente.
Gesù però sceglie un altro criterio, quello della fedeltà al progetto di Dio, a cui aderisce pienamente e di cui è Parola fatta carne per redimerci assumendo la nostra condizione, segnata dalla povertà e dalla sofferenza, scegliendo con coraggio di farsi servo di tutti. ?
Per vincere queste prove, questa fame di vita, di relazioni e di Dio l’uomo dispone di uno strumento infallibile: la Parola di Dio. Riscriviamo allora una frase di Sant’Agostino: Quando sei colto dai morsi della fame – e possiamo aggiungere anche della tentazione – lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita, lascia che Cristo sia il tuo Pane di Vita.
A questo punto, penso sia giusto chiedersi perché per digiunare Gesù andò nel deserto.
Nella tradizione biblica il deserto rappresentava il luogo della preparazione a una missione divina. Così era stato così per Mosè, che conobbe la rivelazione di Jahvè (Esodo 3,1 e ss), per il popolo uscito dalla schiavitù che sperimentò la fatica della libertà. Così fu per Elia, che vi ascoltò la parola divina (1a Re 19,18). Dunque anche Gesù rimase nella solitudine del deserto per quaranta giorni[2], prima di iniziare il suo ministero pubblico.
Gesù l’ha fatt per insegnarci di vivere la vita come esodo nel deserto come è stato per il popolo ebraico e come deve essere la Chiesa, pellegrina verso il Cielo. Questo significa non poter programmare la propria vita, non poterne disporre, doversi abbandonare a una Parola di promessa. Dio dice anche a noi: “Nulla ti mancherà, ma tutto dovrai attendere da me”. È questo il significato della fede: non solamente l’assenso a un corpo di dottrine ma il fidarsi di un amore, il credere all’amore: a quell’amore che ha iniziato senza di tè (l’uscita dall’Egitto come per noi l’uscita dal grembo di nostra madre), ma che potrà continuare soltanto se troverà la nostra adesione.
Ci è chiesto di tradurre il nostro comportamento quotidiano la « cura » di noi stessi in quell’Altro che ci ha liberata.
La quasi totalità di noi è chiamata a esistere domani non nella situazione di emergenza del deserto, ma nella situazione di normalità di una terra da coltivare e da abitare. Tuttavia tutto noi siamo chiamati a portarvi lo stesso atteggiamento di fondo: vivere su quella terra ma con un cuore di deserto.
Questo cuore è chiesto particolarmente alle Vergini Consacrate, che nella solitudine fisica sono chiamate ad un tu per tu con Dio: parlare al cuore.
Il deserto, la solitudine verginale è il luogo privilegiato, il luogo dove si sta a tu per tu con Dio. Lo Sposo non può costringere la sposa ad amarLo. Il Signore però ha un mezzo infallibile, come lo descrisse, ad esempio il profeta Osea. All’inizio, al cap 2, Osea parla di questo adulterio terrificante, il tornare ad adorare gli idoli che i vecchi padri hanno adorato; il Signore addolorato, angosciato, interviene e dice che ha un mezzo e lo metterà in azione, riporterà di nuovo il popolo nel deserto, gli indicherà di nuovo le strade antiche, parlerà di nuovo al suo cuore, nel deserto, appunto quando le categorie malefiche, i diaframmi opachi sono caduti; allora il cuore dell’uomo, cioè la sua intelligenza, ed il cuore di Dio, cioè la divina Sapienza stanno a tu per tu e l’incontro è immediato, possibile e fecondo.
Le Vergini consacrate vivono il “deserto” della loro vocazione come della disponibilità totale. La loro è una spiritualità della disponibilità generosa verso gli altri, della disponibilità totale verso il Signore da cui attendono tutto.
Con la preghiera, l’elemosina ed il digiuno, impariamo tutti questa disponibilità per camminiare uniti nel “deserto” quaresimale, e della vita, così la fame diventerà desiderio santo di Dio e saremo la Tenda dove l’Emmanuele, il Dio sempre con noi, avrà stabile dimora.

NOTE
[1] L’interpretazione cristiana dell’Esodo è guidata da quella lettura che si è soliti chiamare “tipologica”: tutto ciò che riguarda Israele (vicende e personaggi, riti e istituzioni) è la figura – il typos, appunto – di quanto accade in Cristo e nella Chiesa. Riprendiamo brevemente le fasi principali dell’Esodo per vedere in che modo esse vengono riprese e reinterpretate in funzione dell’evento cristiano.
Prima tappa: l’Egitto (e il Faraone) è inteso come figura del peccato. Soprattutto di quella condizione universale di peccato che teneva schiava l’umanità prima di Cristo. Ma Egitto può essere anche colui, che provoca il peccato: Satana; oppure la sua trascrizione storica, l’idolatria pagana. Di conseguenza, la liberazione dall’Egitto attraverso il passaggio del Mar Rosso sarà la figura del battesimo, e l’agnello pasquale immolato assurgerà a simbolo di Cristo nella sua passione.
La tappa del deserto è ripresa come figura della vita del credente in cammino. In essa compaiono, come per Israele, la prova e la tentazione; ma anche la protezione divina vi si dispiega con particolare intensità: i miracoli dell’Esodo diventano il miracolo dell’esistenza sacramentale: la roccia-Cristo da cui zampilla l’acqua battesimale, e la manna diventata eucaristia. Il deserto può essere interiorizzato come cammino individuale dell’anima verso la contemplazione e la perfezione spirituale; o può essere vissuto come itinerario Quaresima preparazione delle celebrazioni pasquali.
Il senso cristiano della Legge è riscontrato, sulla linea paolina, nella condensazione di tutte le leggi etico-sociali nella carità; mentre le leggi rituali trovano la loro verità nel culto cristiano.
Finalmente, la terra promessa ripropone il motivo sacramentale: il passaggio del Giordano, come già quello del Mar Rosso, rimanda al battesimo, mentre nel “paese dove scorre latte e miele” i Padri della Chiesa leggono una suggestiva figura del banchetto eucaristico. Accanto a questa, e ancor più frequente, è l’interpretazione della terra promessa come immagine della vita definitiva con Dio.
Si può riassumere il tutto dicendo che il senso tipologico dell’Esodo è l’itinerario del popolo cristiano dalla schiavitù del peccato attraverso il battesimo e l’esistenza in fede e carità fino alla patria celeste.
[2] Quaranta è un numero simbolico, in questo caso, oltre a collegarsi ai quarant’anni passati dal Popolo di Israele nel deserto, sta a significare tutta una generazione, cioè Gesù, facendosi uomo, è stato tentato per tutta la sua vita.

P. CANATALAMESSA QUARESIMA 2011: 1. LE DUE FACCE DELL’AMORE

http://www.cantalamessa.org/?p=546

PADRE CANTALAMESSA

PRIMA PREDICA DI QUARESIMA – 25 MARZO 2011

1. LE DUE FACCE DELL’AMORE

Con le prediche di questa Quaresima vorrei continuare nello sforzo, iniziato in Avvento, di portare un piccolo contributo in vista della rievangelizzazione dell’occidente secolarizzato che costituisce in questo momento la preoccupazione principale di tutta la Chiesa e in particolare del Santo Padre Benedetto XVI.
C’è un ambito in cui la secolarizzazione agisce in modo particolarmente diffuso e nefasto, ed è l’ambito dell’amore. La secolarizzazione dell’amore consiste nello staccare l’amore umano, in tutte le sue forme, da Dio, riducendolo a qualcosa di puramente “profano”, in cui Dio è “di troppo” e anzi da fastidio.
Ma il tema dell’amore non è importante solo per l’evangelizzazione, cioè nei rapporti con il mondo; lo è anche, e prima di tutto, per la vita interna della Chiesa, per la santificazione dei suoi membri. È la prospettiva in cui si colloca l’enciclica “Deus caritas est” del Santo Padre Benedetto XVI e in cui ci collochiamo anche noi in queste riflessioni.
L’amore soffre di una nefasta separazione non solo nella mentalità del mondo secolarizzato, ma anche, dal versante opposto, tra i credenti e in particolare tra le anime consacrate. Semplificando al massimo, potremmo formulare così la situazione: nel mondo troviamo un eros senza agape; tra i credenti troviamo spesso una agape senza eros.
L’eros senza agape è un amore romantico, più spesso passionale, fino alla violenza. Un amore di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé. Non occorre insistere nella descrizione di questo amore perché si tratta di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, propagandata com’è in maniera martellante da romanzi, film, fiction televisive, internet, riviste cosiddette “rosa”. È quello che il linguaggio comune intende, ormai, con la parola “amore”.
Più utile per noi è capire cosa si intende per agape senza eros. In musica esiste una distinzione che ci può aiutare a farci un’idea: quella tra il jazz caldo e il jazz freddo. Ho letto da qualche parte questa caratterizzazione dei due generi, anche se so che non è l’unica possibile. Il jazz caldo (hot) è il jazz appassionato, ardente, espressivo, fatto di slanci, di sentimenti e quindi di impennate e di improvvisazioni originali. Il jazz freddo (cool) è quello che si ha quando si passa al professionismo: i sentimenti diventano ripetitivi, all’estro si sostituisce la tecnica, alla spontaneità il virtuosismo, si lavora più di testa che di cuore.
Stando a questa distinzione, l’agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore; un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Gli atti di amore rivolti a Dio somigliano, in questo caso, a quelli di certi innamorati sprovveduti che scrivono all’amata lettere d’amore copiate da un apposito prontuario.
Se l’amore mondano è un corpo senz’anima, l’amore religioso così praticato è un’anima senza corpo. L’essere umano non è un angelo, cioè un puro spirito; è anima e corpo sostanzialmente uniti. Tutto quello che fa, compreso amare, deve riflettere questa sua struttura. Se la componente legata all’affettività e al cuore, viene sistematicamente negata o repressa, l’esito sarà duplice: o si tira avanti stancamente, per senso del dovere e per difesa della propria immagine, oppure si cercano compensazioni più o meno lecite, fino ai dolorosissimi casi che ben conosciamo. Al fondo di molte deviazioni morali di anime consacrate, non lo si può ignorare, c’è una distorta e contorta concezione dell’amore.
Abbiamo dunque un duplice motivo e una duplice urgenza di riscoprire l’amore nella sua originaria unità. L’amore vero e integrale è una perla racchiusa dentro due valve che sono l’eros e l’agape. Non si possono separare queste due dimensioni dell’amore senza distruggerlo, come non si possono separare tra loro idrogeno e ossigeno senza privarsi con ciò stesso dell’acqua.
2. La tesi dell’incompatibilità tra i due amori
La riconciliazione più importante tra le due dimensioni dell’amore è quella pratica che avviene nella vita delle persone, ma proprio perché essa sia resa possibile è necessario cominciare con il riconciliare tra loro eros e agape anche teoricamente, nella dottrina. Questo ci consentirà tra l’altro di conoscere finalmente cosa si intende con questi due termini tanto spesso usati e fraintesi.
L’importanza della questione nasce dal fatto che esiste un’opera che ha reso popolare in tutto il mondo cristiano la tesi opposta, quella cioè della inconciliabilità delle due forme di amore. Si tratta del libro del teologo luterano svedese Anders Nygren, intitolato “Eros e Agape[1]. Possiamo riassumere il suo pensiero in questi termini. Eros e agape designano due movimenti opposti: il primo, ascensione e salita dell’uomo a Dio, come al proprio bene e alla propria origine; la seconda, discesa di Dio verso l’uomo nell’incarnazione e nella croce di Cristo: quindi, la salvezza offerta all’uomo senza merito e senza risposta da parte sua, che non sia la sola fede. Il Nuovo Testamento ha fatto una scelta precisa, usando, per esprimere l’amore, il termine agape e rifiutando sistematicamente il termine eros.
San Paolo è quello che con più purezza ha raccolto e formulato questa dottrina dell’amore. Dopo di lui, sempre secondo la tesi di Nygren, tale antitesi radicale è andata persa quasi subito per dar luogo a tentativi di sintesi. Appena il cristianesimo entra in contatto culturale con il mondo greco e la visione platonica, già con Origene, c’è una rivalutazione dell’eros, come movimento ascensionale dell’anima verso il bene, come attrazione universale esercitata dalla bellezza e dal divino. In questa linea, lo Pseudo Dionigi Areopagita scriverà che “Dio è eros[2]” , sostituendo questo termine a quello di agape nella celebre frase di Giovanni (1 Gv 4,10).
In occidente una sintesi analoga è operata da Agostino con la sua dottrina della caritas intesa sì come dottrina dell’amore discendente e gratuito di Dio per l’uomo (nessuno ha parlato della “grazia” in modo più deciso di lui!), ma anche come anelito dell’uomo al bene e a Dio. Sua è l’affermazione: “Ci hai fatto per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]; sua è anche l’immagine dell’amore come di un peso che l’attira l’anima, come per forza di gravità, verso Dio, come al luogo del proprio riposo e del proprio piacere[4]. Tutto questo, per Nygren, inserisce un elemento di amore di sé, del proprio bene, quindi di egoismo, che distrugge la pura gratuità della grazia; è una ricaduta nell’illusione pagana di far consistere la salvezza in una ascesa a Dio, anziché nella gratuita e immotivata discesa di Dio verso di noi.
Prigionieri di questa impossibile sintesi tra eros e agape, tra amore di Dio e amore di sé, restano, per Nygren, san Bernardo quando definisce il grado supremo dell’amore di Dio come un “amare Dio per se stesso” e un “amare se stesso per Dio”[5] , san Bonaventura con il suo ascensionale “Itinerario della mente a Dio”, come pure san Tommaso d’Aquino che definisce l’amore di Dio effuso nel cuore del battezzato (cf. Rom 5,5) come “l’amore con cui Dio ci ama e con cui fa sì che noi amiamo lui” (amor quo ipse nos diligit et quo ipse nos dilectores sui facit”)[6] . Questo infatti verrebbe a dire che l’uomo, amato da Dio, può a sua volta, amare Dio, dargli qualcosa di suo, ciò che distruggerebbe l’assoluta gratuità dell’amore di Dio. La stessa deviazione, secondo Nygren, si ha con la mistica cattolica. L’amore dei mistici, con la sua fortissima carica di eros, altro non è, per lui, che un amore sensuale sublimato, un tentativo di stabilire con Dio un rapporto di presuntuosa reciprocità in amore.
Chi ha rotto l’ambiguità e riportato alla luce la netta antitesi paolina è stato, secondo l’autore, Lutero. Fondando la giustificazione sulla sola fede egli non ha escluso la carità dal momento fondante della vita cristiana, come gli rimprovera la teologia cattolica; ha piuttosto liberato la carità, l’agape, dall’elemento spurio dell’eros. Alla formula della “sola fede”, con esclusione delle opere, corrisponderebbe, in Lutero, la formula della “sola agape”, con esclusione dell’eros.
Non sta a me qui stabilire se l’autore ha interpretato correttamente su questo punto il pensiero di Lutero. Questi – va detto – non ha mai posto il problema in termini di contrasto tra eros e agape, come ha fatto invece tra fede e opere. È significativo, tuttavia, il fatto che anche Karl Barth, in un capitolo della sua “Dommatica ecclesiale”, arriva allo stesso risultato di Nygren di un contrasto insanabile tra eros e agape: “Dove entra in scena l’amore cristiano – egli scrive –, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore e questo conflitto non ha più fine”[7]. Siamo in piena teologia dialettica, la teologia dell’aut-aut, dell’antitesi a tutti i costi.
Il contraccolpo di questa operazione è la radicale mondanizzazione e secolarizzazione dell’eros. Mentre infatti una certa teologia estrometteva l’eros dall’agape, la cultura secolare, da parte sua, era ben felice di fare l’operazione contraria, estromettendo l’agape dall’eros, cioè ogni riferimento a Dio e alla grazia dall’amore umano. Freud è andato fino in fondo in questa linea, riducendo l’amore a eros e l’eros a libido, a pura pulsione sessuale. È lo stadio a cui è ridotto oggi l’amore in molte manifestazioni della vita e della cultura, soprattutto nel mondo dello spettacolo.
Due anni fa mi trovavo a Madrid. Nei giornali non si faceva che parlare di una certa mostra d’arte in atto nella città, intitolata “Le lacrime dell’eros”. Era una mostra di opere artistiche a sfondo erotico – quadri, disegni, sculture – che intendeva mettere in luce l’inscindibile legame che c’è, nell’esperienza dell’uomo moderno, tra eros e thanatos, tra amore e morte. Alla stessa costatazione si arriva, leggendo la raccolta di poesie “I fiori del male di Baudelaire” o “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. L’amore che per sua natura dovrebbe portare alla vita, porta invece ormai alla morte.
3. Ritorno alla sintesi
Se non possiamo cambiare di colpo l’idea d’amore che ha il mondo, possiamo però correggere la visione teologica che –certo senza volerlo – la favorisce e la legittima. È quello che ha fatto in maniera esemplare il Santo Padre Benedetto XVI con l’enciclica “Deus caritas est”. Egli riafferma la sintesi cattolica tradizionale esprimendola in termini moderni. “Eros e agape, vi si legge, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro [...]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni” (nr. 7-8). eros e agape sono uniti alla fonte stessa dell’amore che è Dio: “Egli ama – continua il testo dell’enciclica – e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape” (nr. 9).
Si capisce, così, l’accoglienza insolitamente favorevole che questo documento pontificio ha incontrato anche negli ambienti laici più aperti e responsabili. Essa da una speranza al mondo. Corregge l’immagine di una fede che tocca il mondo in tangente, senza penetrarvi dentro, con l’immagine evangelica del lievito che fa fermentare la massa; sostituisce all’idea di un regno di Dio venuto a “giudicare” il mondo, quella di un regno di Dio venuto a “salvare” il mondo, a cominciare dall’eros che ne è la forza dominante.
Alla visione cattolica, che su questo punto coincide con quella ortodossa, si può apportare, credo, una conferma anche dal punto di vista dell’esegesi. Quelli che sostengono la tesi dell’incompatibilità tra eros e agape si basano sul fatto che il Nuovo Testamento evita accuratamente – e, a quanto pare, volutamente – il termine eros, usando al suo posto sempre e solo agape (a parte qualche raro uso del termine philia, che indica l’amore di amicizia).
Il fatto è vero, ma non sono vere le conclusioni che si traggono da esso. Si suppone che gli autori del NT siano al corrente sia del senso che il termine eros aveva nel linguaggio comune – l’eros cosiddetto “volgare” – sia il senso elevato e filosofico che aveva, per esempio, in Platone, il cosiddetto eros “nobile”. Nell’accezione popolare, eros indicava più o meno quello che indica anche oggi, quando si parla di erotismo o di film erotici, cioè il soddisfacimento dell’istinto sessuale, un degradarsi piuttosto che innalzarsi. Nell’accezione nobile, esso indicava l’amore per la bellezza, la forza che tiene insieme il mondo e spinge tutti gli esseri all’unità, cioè quel movimento di ascesa verso il divino che i teologi dialettici ritengono incompatibile con il movimento di discesa del divino verso l’uomo.
È difficile sostenere che gli autori del Nuovo Testamento, rivolgendosi a persone semplici e di nessuna cultura, intendessero metterli in guardia dall’eros di Platone. Essi evitarono il termine eros per lo stesso motivo per cui un predicatore evita oggi il termine erotico o, se lo usa, lo fa solo in senso negativo. Il motivo è che, allora come adesso, la parola evoca l’amore nella sua espressione più egoistica e sensuale[8]. Il sospetto dei primi cristiani nei confronti dell’eros era ulteriormente aggravato dal ruolo che esso svolgeva negli sfrenati culti dionisiaci.
Appena il cristianesimo entra in contatto e in dialogo con la cultura greca del tempo, cade immediatamente, abbiamo già visto, ogni preclusione nei confronti dell’eros. Esso viene usato spesso, negli autori greci, come sinonimo di agape ed è impiegato per indicare l’amore di Dio per l’uomo, come pure l’amore dell’uomo per Dio, l’amore per le virtù e per ogni cosa bella. Basta ormai, per convincersene, un semplice sguardo al “Lessico Patristico Greco” del Lampe[9]. Quello di Nygren e di Barth è dunque un sistema costruito su una falsa applicazione dell’argomento cosiddetto “ex silentio”.
4. Un eros per i consacrati
Il riscatto dell’eros aiuta anzitutto gli innamorati umani e gli sposi cristiani, mostrando la bellezza e la dignità dell’amore che li unisce. Aiuta i giovani a sperimentare il fascino dell’altro sesso non come qualcosa di torbido, da vivere al riparo da Dio, ma al contrario come un dono del Creatore per la loro gioia, se vissuto nell’ordine da lui voluto. A questa funzione positiva dell’eros sull’amore umano accenna anche il papa nella sua enciclica, quando parla del cammino di purificazione dell’eros che porta dall’attrazione momentanea al “per sempre” del matrimonio (nr. 4-5).
Ma il riscatto dell’eros deve aiutare anche noi consacrati, uomini e donne. Ho accennato all’inizio al pericolo che corrono le anime religiose, che è quello di un amore freddo, che non scende mai dalla mente al cuore. Un sole invernale che illumina ma non riscalda. Se eros significa slancio, desiderio, attrazione, non dobbiamo avere paura dei sentimenti, né tanto meno disprezzarli e reprimerli. Quando si tratta dell’amore di Dio –ha scritto Guglielmo di St. Thierry – il sentimento di affetto (affectio) è anch’esso grazia; non è infatti la natura che ci può infondere un tale sentimento[10].
I salmi sono pieni di questo anelito del cuore a Dio: “A te, Signore, innalzo l’anima mia…”, “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”.”: “Presta dunque attenzione -dice l’autore della “Nube della non conoscenza – a questo meraviglioso lavoro della grazia nella tua anima. Esso non è altro che un impulso improvviso che sorge senza alcun preavviso e punta direttamente a Dio, come una scintilla che si sprigiona dal fuoco…Colpisci questa fitta nube della non conoscenza con la freccia acuminata del desiderio d’amore e non muoverti di lì, qualunque cosa capiti”[11]. È sufficiente, per fare ciò, un pensiero, un moto del cuore, una giaculatoria.
Ma tutto ciò non ci basta, e Dio lo sa meglio di noi. Noi siamo creature, viviamo nel tempo e in un corpo; abbiamo bisogno di uno schermo su cui proiettare il nostro amore che non sia soltanto “la nube della non conoscenza”, cioè il velo di oscurità dietro cui si nasconde il Dio che nessuno ha mai visto e che abita in una luce inaccessibile…
La risposta che si da a questa domanda, la conosciamo bene: proprio per questo Dio ci ha dato il prossimo da amare! “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi…Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 12 20). Ma dobbiamo stare attenti a non saltare un anello decisivo. Prima del fratello che si vede c’è un altro che pure si vede e si tocca: c’è il Dio fatto carne, c’è Gesù Cristo! Tra Dio e il prossimo c’è ormai il Verbo fatto carne che ha riunito i due estremi in una sola persona. È in lui ormai che trova il suo fondamento lo stesso amore del prossimo: “L’avete fatto a me”.
Cosa significa tutto questo per l’amore di Dio? Che l’oggetto primario del nostro eros, della nostra ricerca, desiderio, attrazione, passione, deve essere il Cristo. “Al Salvatore è preordinato l’amore umano fin dal principio, come a suo modello e fine, quasi uno scrigno così grande e così largo da poter accogliere Dio [...]. Il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità e tutto ciò che ispira amore”[12]. Alta risuona in tutta la spiritualità monastica la massima di san Benedetto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo”.
Questo non significa restringere l’orizzonte dell’amore cristiano da Dio a Cristo; significa amare Dio nella maniera in cui egli vuole essere amato. “Il Padre vi ama perché voi mi amate” (Gv 16, 27). Non si tratta di un amore mediato, quasi per procura, per cui chi ama Gesù “è come se” amasse il Padre. No, Gesù è un mediatore immediato; amando lui si ama, ipso facto, anche il Padre. “Chi vede me, vede il Padre”, chi ama me ama il Padre.
È vero che neppure Cristo si vede, ma c’è; è risorto, è vivo, ci è accanto, più realmente di quanto lo sposo più innamorato sia accanto alla sposa. È qui il punto cruciale: pensare a Cristo non come a una persona del passato, ma come il Signore risorto e vivente, con cui posso parlare, che posso anche baciare se lo voglio, sicuro che il mio bacio non termina sulla carta o sul legno di un crocifisso, ma su un volto e su delle labbra di carne viva (anche se spiritualizzata), felici di raccogliere il mio bacio.
La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipende dalla qualità del nostro amore per Cristo. Solo esso è capace di difendere dagli sbandamenti del cuore. Gesù è l’uomo perfetto; in lui si trovano, a un grado infinitamente superiore, tutte quelle qualità e attenzioni che un uomo cerca in una donna e una donna nell’uomo. Il suo amore non ci sottrae necessariamente al richiamo delle creature e in particolare all’attrazione dell’altro sesso (questa fa parte della nostra natura che Dio stesso ha creato e che non vuole distruggere); ci da però la forza di vincere queste attrazioni con una attrazione più forte. “Casto –scrive san Giovanni Climaco – è colui che scaccia l’eros con l’Eros”[13].
Distrugge forse, tutto questo, la gratuità dell’agape, pretendendo di dare a Dio qualcosa in cambio del suo cuore? Annulla la grazia, come pensa Nygren? Nient’affatto, anzi la esalta. Che cosa infatti, in questo modo, diamo a Dio se non quello che abbiamo ricevuto da lui? “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1 Gv 4, 19). L’amore che diamo a Cristo è il suo stesso amore per noi che gli rimandiamo, come fa l’eco con la voce.
Dov’è allora la novità e la bellezza di questo amore che chiamiamo eros? L’eco rimanda a Dio il suo stesso amore, ma arricchito, colorato o profumato della nostra libertà. Ed è tutto quello che lui vuole. La nostra libertà lo ripaga di tutto. Non solo, ma cosa inaudita, scrive il Cabasilas, “ricevendo da noi il dono dell’amore in cambio di tutto quello che ci ha dato, si ritiene nostro debitore”[14]. La tesi che contrappone eros e agape si basa su un’altra ben nota contrapposizione, quella tra grazia e libertà, e anzi sulla negazione stessa della libertà nell’uomo decaduto (sul “servo arbitrio”).
Io ho provato a immaginare, Venerabili Padri e fratelli, cosa direbbe Gesù risorto, se, come faceva nella vita terrena quando entrava di sabato in una sinagoga, adesso venisse a sedersi qui al posto mio e ci spiegasse di persona qual è l’amore che egli desidera da noi. Voglio condividere con voi, con semplicità, quello che penso ci direbbe; ci servirà per fare il nostro esame di coscienza sull’amore:
L’amore ardente:
E’ mettere me sempre al primo posto.
E’ cercare di piacermi in ogni momento.
E’ confrontare i tuoi desideri con il mio desiderio.
E’ vivere davanti a me come amico, confidente, sposo, ed esserne felice.
E’ essere inquieto se pensi di stare un po’ lontano da me.
E’ essere pieno di felicità quando sono con te.
E’ essere disposto a grandi sacrifici pur di non perdermi.
E’ preferire di vivere povero e sconosciuto con me, piuttosto che ricco e famoso senza di me.
E’ parlarmi come all’amico più caro in ogni momento.
E’ affidarti a me guardando al tuo futuro.
E’ desiderare perderti in me come meta della tua esistenza.
Se sembra anche voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, come sembra a me, di essere ancora lontabi da questo traguardo, non ci scoraggiamo. Abbiamo uno che può aiutarci a raggiungerlo se glielo chiediamo. Ripetiamo con fede allo Spirito Santo: Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium et tui amoris in eis ignem accende: Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore.
NOTE
[1] Edizione originale svedese, Stoccolma 1930, trad. ital. Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971
[2] Pseudo- Dionigi Areopagita, I nomi divini, IV,12 (PG, 3, 709 ss.)
[3] S. Agostino, Confessioni I, 1.
[4] Commento al vangelo di Giovanni, 26, 4-5.
[5] Cf. S. Bernardo, De diligendo Deo, IX,26 –X,27.
[6] S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Lettera ai Romani, cap. V, lez.1, n. 392-293; cf. S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 9, 9.
[7] K. Barth, Dommatica ecclesiale, IV, 2, 832-852; trad. ital. K. Barth, Dommatica ecclesiale, antologia a cura di H. Gollwitzer, Bologna, Il Mulino 1968, pp. 199-225.
[8] Il senso che i primi cristiani alla parola eros si deduce chiaramente dal noto testo di S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, 7,2: “Il mio amore (eros) è stato crocifisso e non c’è in me fuoco di passione…non mi attirano il nutrimento di corruzione e i piaceri di questa vita”. “Il mio eros” non indica qui Gesù crocifisso, ma “l’amore di me stesso” , l’attaccamento ai piaceri terreni, nella linea del paolino “Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io” (Gal 2, 19 s.).
[9] Cf. G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, pp.550.
[10] Guglielmo di St. Thierry, Meditazioni, XII, 29 (SCh 324, p. 210).
[11] Anonimo, La nube della non conoscenza, Ed. Áncora, Milano, 1981, pp. 136.140.
[12] N. Cabasilas, Vita in Cristo, II,9 (PG 88, 560-561)
[13] S. Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XV,98 (PG 88,880).
[14] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 4.
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« LA CONVERSIONE A DIO CONSISTE SEMPRE NELLO SCOPRIRE LA SUA MISERICORDIA » (DM, VII, 13)

http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0091.htm

« LA CONVERSIONE A DIO CONSISTE SEMPRE NELLO SCOPRIRE LA SUA MISERICORDIA » (DM, VII, 13)

Domenico Cancian

Mi propongo di fare una semplice introduzione che aiuti la celebrazione dell’Amore Misericordioso nel momento in cui ci offre il perdono dei nostri peccati.
La celebrazione della Riconciliazione e della Eucaristia diventa il cuore del nostro incontro, verifica ed esperienza della verità di quanto abbiamo ascoltato in questi giorni. Ora, non « parliamo » della Misericordia divina; la ri-gustiamo, la ri-esperimentiamo in modo nuovo, lasciando che essa ci penetri l’animo, in un momento di preghiera calma che ci permetta di riscoprire questo privilegiato momento ecclesiale nel quale il Padre incontra e abbraccia i suoi figli.
Senza questo, il Convegno può correre il rischio di rappresentare solamente un’occasione di tipo teoretico e forse ideologico: abbiamo aumentato « il sapere », ma non la conoscenza-esperienza-viva dell’Amore di Dio che oggi vuole scuoterci per convertirci.
La conversione dell’uomo a Dio è centrale nel Vangelo: è messa in diretto rapporto con la salvezza. « Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc 5, 32). « … se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo » (Lc 13,5). « In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli » (Mt 18,3).
Ora dobbiamo prendere atto che tutto il processo della nostra conversione avviene sotto l’influsso e la spinta della Misericordia divina, alla quale noi nella fede diamo il nostro assenso.

1. È l’Amore Misericordioso di Dio che ci fa prendere coscienza del nostro peccato.
Le culture non possono avere la pretesa che quanto non è da loro compreso non esista. Non possono, ad esempio, convincerci che l’uomo non è peccatore. Tuttavia, le culture del sospetto hanno paradossalmente (perché questa non era proprio la loro intenzione) contribuito a purificare la nostra comprensione di ciò che il peccato non è (teologia negativa). Non è un tabù che tradizionalmente ci blocca, non è l’errore puro e semplice, non è il condizionamento storico o psicologico, non è il limite umano, non è il complesso di colpa.
Che cos’è il peccato ce lo dice l’incontro interpersonale dell’Amore Misericordioso di Dio con l’uomo, finalmente disponibile ad ascoltare la verità tutta intera sulla sa vita. Proprio perché ci ama con Amore e con Misericordia, Dio scuote e sveglia la nostra coscienza fin nelle sue ultime pieghe. Con tutti i mezzi e con tutti i modi, inventando sempre occasioni, come la mamma col figlio, rispettando sempre, fino all’ultimo, la nostra libertà, e obbedendo Lui alla forza invincibile del suo Immenso Amore.
Abbiamo esempi svariati di interpellazioni di Dio che si dirigono alla responsabilità dell’uomo. Ora viene chiamato per nome e interrogato (« Adamo, dove sei?… Chi ti ha fatto sapere che eri nudo »? E a Caino: « Dov’è Abele, tuo fratello? …Che hai fatto »? cf Gen 3,9.11.13; 4.9-10).
In altre occasioni Dio incomincia un dialogo appassionato, teso a mostrare come il peccato sia un tradimento all’Amore suo (« Ascolta popolo mio, voglio parlare, testimonierò contro di te Israele… Hai fatto questo e dovrei tacere? cf Sal 50; « O mio popolo, che male ti ho fatto? » cf Liturgia del venerdì santo. « Accusate vostra madre, accusatela, perché essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito! » cf Os 2.2).
Oppure, cosa per noi straordinaria, Dio ci lascia partire per le nostre strade senza dirci una parola. Ma Egli è lì ad aspettare col cuore in mano, sicuro del ritorno del figlio, pronto a riabbracciarlo e a fargli festa, vincendo in questo modo ogni dubbio sulla serietà dell’Amore capace di perdonare così (cf Lc 15, 11ss). Addirittura va incontro a chi si perde e arriva fino al fondo del burrone dove quel tale, che è pur sempre suo figlio, si è cacciato: lo prende su, lo cura, se lo mette sulle spalle (cf Lc 15, 4 ss).
Tantissimi sono i modi con cui il Signore interviene, ma sempre in essi riscopriamo la fantasia del Suo Amore che non ha il gusto di rimproverare con l’aria offesa e arrabbiata, come siamo soliti fare noi. Egli ci fa il servizio della verità. « Che farò quando ti accuserò?… Farò che tu ti veda… Perché vuoi nasconderti a te stesso? » (Sant’Agostino, Commento al Salmo 51). Il suo Amore, paziente, infinito, luminoso, ci fa prendere atto con onestà della triplice tentazione (cf Mt 4,1-11), o della triplice concupiscenza (cf 1 Gv 2,16) e del conseguente peccato (quando si dà il nostro consenso) che è in noi. Scopriamo che le matrici culturali dalle quali provengono il bene e il male del nostro mondo, radicano in noi. L’istinto di (pre)potenza, di violenza, di desiderio (cf relazione di Morra), insomma ogni forma di egoismo, con un certo gusto farisaico, muovono proprio dal cuore dei singoli uomini (cf Mt 7,15ss; 12,33ss).
Che cos’è il peccato se non l’inferno del nostro egoismo che respinge il mondo dell’Amore di Dio? « Voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo… se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati » (Gv 8,23 s).
Lo Spirito di Cristo ci è dato per far luce sulla nostra situazione, per smascherare le nostre ingiustizie, per snidare le nostre responsabilità che ci impediscono il cammino della libertà, per suscitare in noi il desiderio e la volontà dell’entrare nel mondo di Dio come figli. Lui « convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio » (Gv 16,8 s). L’Amore di Cristo Crocifisso e Risorto, essendo l’Amore assoluto (= fino alla fine, fino all’incredibile) scopre la radicalità della nostra libertà, rispettata fino alla scelta dell’inferno e pur sempre chiamata ad arrendersi all’Amore che salva. « L’Amore di Dio – scrive U. Von Balthasar! – scopre la vera paura e il vero inferno » (Solo l’amore è credibile, Borla 1977, p. 95 s). Proprio perché egli è la nostra grazia, è anche il nostro vero giudice, ma per essere il nostro Liberatore. Allorché è stato conosciuto l’Amore, il peccato emerge con tutta chiarezza, le cose hanno il loro nome e finalmente possiamo superare la confusione di Babele. Anche perché l’uomo alla fine… deve pur sapere dove andare.
Quello sguardo d’Amore Crocifisso ci penetra fino in fondo, perché ci ha amati fino in fondo. « Se non fossi venuto e non avessi parlato non avrebbero alcun peccato: ma ora non hanno scusa per il loro peccato » (Gv 15,22). « Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me » (Gv 12,32). Dio si è fatto Logos e questo si è fatto Amore (charis) e Verità (Aletheia): ecco la gloria di Dio!
Non ci resta che accogliere riconoscenti questa Grazia. « O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? » (Rom 2,4).

2. L’Amore Misericordioso ci attira al pentimento e suscita la nostalgia del ritorno alla casa del Padre.
Noi seguiamo Cristo, ma è più vero che Lui cerca noi. Noi andiamo a Cristo, ma è più vero che Lui viene a noi. Come il pastore in cerca della pecora perduta, Lui rifà tutta la strada del nostro allontanamento dalla sua casa: « ci insegue ». Ci viene dietro per prenderci come siamo e dove siamo, per offrirci le sue cure, caricarci sulle sue spalle e portarci dove dobbiamo andare.
È sempre là, a suscitare la nostalgia della sua casa, del suo seno, da dove siamo venuti e dove è giusto, bello, rimanere e vivere. « Vi supplichiamo in nome di Dio: lasciatevi riconciliare con Cristo » (2 Cor 5,20).
L’Amore solo convince l’uomo: è la violenza più dirompente, lo apre alla speranza, quella che non è utopia, ma realtà di salvezza riconosciuta e accettata. « Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo: rinnova i nostri giorni » (Lam 5,21).
Lo stesso castigo o correzione, molto presente nella bibbia, è il richiamo dell’amore. Il non-castigo sarebbe il disinteresse di Dio sulla nostra perdizione. La passione dell’Amore divino escogita tutti i modi per non lasciare che l’uomo si perda. Una preghiera di Madre Speranza, che poi è diventata il titolo di una raccolta di pensieri suoi, dice: « Castigami e salvami »!. Una Benedizione dell’Antico Testamento dice: « Il Signore nostro Dio sia con noi come è stato con i nostri Padri; non ci abbandoni e non ci respinga, ma volga piuttosto i nostri cuori verso di lui, perché seguiamo tutte le sue vie… Il vostro cuore sarà tutto dedito al Signore nostro Dio, perché cammini secondo i suoi decreti » (1Re 8,57 ss).
Il pentimento è dunque il riconoscere di essere inseguiti dall’Amore appassionato di Dio, pronto a rifare il nostro volto; è il lasciarsi conquistare (cf Fil 3,12), il lasciarsi sedurre (cf Ger 20, 7), dall’Amore di Dio, arrendendoci ad esso al fine di fare un’altra strada, quella dietro di Lui.

3. L’Amore Misericordioso perdonando cambia il nostro cuore
La giustificazione in Cristo, il suo perdono, è una nuova creazione che comporta una vera dimensione ontologica, un nuovo modo di essere da cui nasce un nuovo modo di agire. A partire da questa grazia del perdono comprendiamo come il peccato sia una profonda ferita che lacera le fibre del nostro essere, toccandoci nell’essenziale.
Infatti i termini che la Parola di Dio impiega per farci capire il perdono di Dio sono: cancellare, lavare, purificare, gettare via, dimenticare, togliere la sentenza di condanna, rimuovere, allontanare, dissipare, rimettere… Ma quello che più esprime l’intervento di Dio è il verbo « creare », collegato proprio come nella creazione all’opera dello Spirito. « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi » (Gv 20,22). Il passaggio dall’egoismo (peccato) all’amore (grazia) è opera dello Spirito di Dio, un intervento che comporta una vera creazione come progressivo inserimento ontologico nella vita del Risorto, per cui l’uomo diventa figlio di Dio. La remissione dei peccati sta per il cambio dell’uomo vecchio, ossia peccatore, in giusti-ficato, ossia nuovo. Muore il peccatore e risorge l’uomo secondo Dio: mistero di Cristo nel cristiano.
Nel Salmo 51 chiediamo: « Oh Dio, crea in me un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso » (12,14). L. Alonso Schökel scrive: « Il verbo creare suona con tutta la sua forza all’inizio di questi tre versi che chiamerò « epiclesi » perché sono una triplice petizione di spirito. Come nella creazione (Gen 1) lo Spirito di Dio si librava sull’oceano per formare il cosmo, così in questa preghiera si chiede che un triplice spirito ricrei il penitente. L’uomo non può con le sue forze alzarsi dal regno del peccato al regno della grazia: deve essere azione e dono di Dio. E trasferire un uomo dal peccato alla grazia è un modo di creare. Paolo dirà che dov’è un cristiano c’è una nuova creazione (2 Cor 5,17) » (Treinta Salmos: Poesia y Oraciòn, ed. Cristiandad, Madrid 1981, p. 217).
Infatti nel nuovo rito della Riconciliazione il Sacerdote stende la mano sul penitente, come quando stende la mano sulle offerte del pane e del vino per invocare lo Spirito (epiclesi), al fine di chiedere alla forza dello Spirito la trasformazione sostanziale del pane (Eucaristia) e del peccatore (Penitenza o Riconciliazione).
Un altro testo che, se non è ispirato direttamente al Salmo 51, appartiene allo stesso ambiente spirituale è il testo profetico di Ex 36,25 ss. Si tratta di un oracolo composto da un profeta che era stato sacerdote e che ora intende pronunciare in nome di Dio la formula di assoluzione o di perdono durante l’esilio (cf Ib, p. 224). Le espressioni più significative sono: « Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati… vi darò un cuore nuovo… metterò dentro di voi uno spirito nuovo… vi farò vivere secondo i miei statuti… voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio ».
Tutto questo si concretizza nei « perdonati » del Vangelo: vedi Zaccheo, la peccatrice, l’adultera, Matteo. Tutte persone che la grazia del perdono ha letteralmente trasformato. L’unica situazione che non è raggiungibile da questo intervento che è miracolo, è quella farisaica. Dei farisei Gesù dice: « Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane » (Gv 9,41). È la vera crisi della speranza, ben riconoscibile ai nostri giorni.
Laddove invece l’uomo si apre (crede) all’Amore di Dio, comincia l’esperienza umana che può essere intitolata: « L’uscita dalla caverna e la salita al monte Moria » (Cf. S. GRYGIEL, L’uomo visto dalla Vistola, CSEO, Bologna 1978, p. 96).

4. L’Amore Misericordioso ci fa vivere da uomini nuovi in questo mondo
Se il perdono trasforma il nostro essere, segue una nuova vita. Eccone le caratteristiche: – ci accompagna la gioia della nostra identità vera: sappiamo chi siamo, abbiamo un volto. Usciamo dalla confusione dell’istinto, del desiderio, del sentimento, della sola ragione, della sola volontà, intese o in modo separato o giustapposto o contraddittorio. Siamo figli di fronte al Padre, generati dal suo Amore. – riscopriamo il volto degli altri. Non sono più degli antagonisti, dei concorrenti, oppure degli amici perché la pensano come noi, senza mai dirci la verità. Sono fratelli, luogo della Presenza di Dio, perdonati anche loro da Dio, bisognosi del nostro perdono così come noi lo siamo del loro. Nasce l’amore fraterno: diventiamo capaci di amarci e di comprenderci, di sostenerci e di costruire insieme la comunione.
Nel rapporto con gli altri riscopriamo il senso del gratuito, per cui si supera la « cerchia » degli amici. « Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?… E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? » (Mt 5,46 s). E così amiamo disinteressatamente i poveri, i bisognosi, i bambini, i vecchi, i malati, certi che, proprio da loro che non hanno, riceviamo più di quel che diamo.
Impariamo lo stile dell’Amore Misericordioso. « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro » (Lc 6,36). – Capiamo il senso del nostro andare, cioè della nostra storia personale e comunitaria. Il lavoro non è più la produzione semplice e meccanica dei beni di consumo, ma l’espressione di tutta la nostra creatività animata dall’amore. La famiglia non è la casa dove si mangia, si dorme, ci sono tutte le nostre comodità, ma l’ambiente accogliente e aperto alle necessità dei poveri, il luogo dove si sta bene perché si fa comunione, anzitutto con Dio. Il tempo libero non è gestito sulla base della soddisfazione dei bisogni artificiosi o indotti, ma servizio e festa allo stesso tempo, liberazione e distensione. Non abbiamo quella fretta assurda che ci fa frenetici, superficiali, disordinati. I fatti della storia, il presente e il futuro, non sono letti in chiave di pessimismo o di ottimismo, in modo unilaterale e di parte, ma con verità, realismo e fiducia in Dio e nell’uomo, convinti che è in atto una vera storia della salvezza che supera anche le nostre contraddizioni.
Viviamo il nostro tempo con molta Pace e con grande Responsabilità: la Pace di poter essere e rimanere nell’Amore di Dio che mai si stanca di operare con noi cose meravigliose, la Responsabilità di non tradire l’Amore di Dio e l’appello del fratello; la Pace come certezza che Dio ci può e ci vuole salvare in ogni situazione, anche la più disperata, la Responsabilità come sentire sulle nostre spalle il sempre possibile fallimento.
La Grazia dell’Amore che ci perdona, ci colloca al di là dell’autosufficienza presuntuosa o eroica e al di là della paura. Ci libera come uomini che hanno senso pieno nell’orizzonte di Dio (figli), popolo che sa vivere nella gioia e nel dolore, nelle fatiche e nel riposo, con l’animo contento, come un Inno all’Amore che si sta salvando. 

I SEGNI (SOBRI) DELLA QUARESIMA

http://www.diocesi.torino.it/pls/diocesitorino/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=25993

(Diocesi di Torino)

I SEGNI (SOBRI) DELLA QUARESIMA  

La Quaresima è un tempo liturgico ricco di segni e di simboli, che dicono insieme conversione e lotta, desiderio e penitenza attesa e condivisione. Dal simbolismo del numero 40, ai grandi simboli dell’ascesi quaresimale, come la cenere, il digiuno e le altre opere della penitenza (varie forme di astinenza), della preghiera e della carità, la Quaresima scrive sul corpo la sete di Dio e il desiderio di tornare a Lui con tutto il cuore. I grandi simboli della parola di Dio quaresimale – il deserto, il monte, l’acqua, la luce, la vita, la croce – non hanno tuttavia trovato nei primi secoli una traduzione pratica nella liturgia: non ci si è tanto preoccupati di sottolineare con gesti e immagini la ricchezza del simbolismo quaresimale. Piuttosto la Quaresima si è sempre caratterizzata per la tendenza a togliere, a creare uno spazio vuoto, tanto nel corpo, quanto nella liturgia. Per antica tradizione, in Quaresima non si canta il Gloria e l’Alleluia; il suono dell’organo è limitato, e i fiori sono fuori posto sull’altare; le immagini sono velate e le suppellettili (i candelabri delle nostre chiese barocche…) ridotte; inoltre è bene non celebrare battesimi, matrimoni, né messe di «prima comunione». È una sobrietà che colpisce, e in qualche modo urta con la nostra esigenza di sottolineare con segni e simboli la ricchezza della quaresima, per far entrare, per coinvolgere, soprattutto i più piccoli. È una sobrietà che vale essa stessa come simbolo, di una povertà e di un’austerità che attende la Pasqua perché la vita risorga, e fiorisca nei suoi colori e nelle immagini, nella festa del canto e nella gioia del corpo. In Quaresima tutto richiama all’essenziale: anche la ricchezza delle catechesi battesimali della terza, quarta e quinta domenica di quaresima, attende la notte di Pasqua per dare corpo e voce a quei simboli – l’acqua, la luce, la vita – che prima sono interiorizzati dall’ascolto della Parola. Un invito a spegnere le molte iniziative che rendono la liturgia domenicale della Quaresima più curata e più attenta dal punto di vista pedagogico? Non si tratta di fare i pompieri: si tratta anzitutto di riconoscere il primato della Pasqua sulla quaresima, così che è buona regola della liturgia non anticipare troppo, non sovraffollare, duplicando i simboli. Così, ad esempio, la simbolica dell’acqua e della luce attende la Pasqua per esprimere con potenza il suo senso battesimale. È vero che ogni domenica è celebrazione del mistero pasquale di morte e risurrezione: come dicevano gli antichi padri della chiesa, per un cristiano che ha compreso l’infinito valore del dono di Gesù Cristo, ogni giorno è Pasqua (Origene). Ma è altrettanto vero che per un cristiano che cammina nella fede e nella speranza, ogni giorno è pasqua/passaggio di morte a stessi, di rinuncia al proprio orgoglio, per entrare nel regno di Dio. Con le sue pratiche e i suoi riti, la Quaresima ci ricorda proprio questo: che tutta la vita ha bisogno di silenzio e distacco dai beni, di digiuno di parole, suoni, cibo, rapporti immediati, per conoscere da chi siamo davvero abitati, e per fare spazio al Signore. Non si tratta, dunque, di fare un teatrino, di far finta di essere tristi almeno in Quaresima perché siamo peccatori, e il mondo è lontano da Dio. Si tratta di entrare fino in fondo nel mistero della Croce. Altri segni, apparentemente più semplici e meno spettacolari, attendono di essere valorizzati: il corpo che si prostra, in segno di penitenza; il digiuno effettivo, non ridotto alla semplice astinenza dalla carne; il silenzio, che rinuncia a dire l’ultima parola, nell’illusione che a forza di parole si possa convertire gli altri; il grido del cuore, che si fa supplica e invocazione ripetuta (Signore pietà; Ascoltaci, Padre; Agnello di Dio…) nella forma e nella forza del canto.

don Paolo Tomatis

Publié dans:Tempi liturgici: Quaresima |on 5 mars, 2014 |Pas de commentaires »

MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2011 – OMELIA DI PAPA BENEDETTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20110309_ceneri_it.html

STATIO E PROCESSIONE PENITENZIALE DALLA CHIESA DI SANT’ANSELMO
ALLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO

SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di Santa Sabina
Mercoledì delle Ceneri, 9 marzo 2011 – anno A

Cari fratelli e sorelle,

iniziamo oggi il tempo liturgico della Quaresima con il suggestivo rito dell’imposizione delle ceneri, attraverso il quale vogliamo assumere l’impegno di convertire il nostro cuore verso gli orizzonti della Grazia. In genere, nell’opinione comune, questo tempo rischia di essere connotato dalla tristezza, dal grigiore della vita. Invece esso è dono prezioso di Dio, è tempo forte e denso di significati nel cammino della Chiesa, è l’itinerario verso la Pasqua del Signore. Le Letture bibliche dell’odierna celebrazione ci offrono indicazioni per vivere in pienezza questa esperienza spirituale.
«Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Nella prima Lettura, tratta dal libro del profeta Gioele, abbiamo ascoltato queste parole con cui Dio invita il popolo ebraico ad un pentimento sincero e non apparente. Non si tratta di una conversione superficiale e transitoria, bensì di un itinerario spirituale che riguarda in profondità gli atteggiamenti della coscienza e suppone un sincero proposito di ravvedimento. Il profeta prende spunto dalla piaga dell’invasione delle cavallette che si era abbattuta sul popolo distruggendo i raccolti, per invitare ad una penitenza interiore, a lacerarsi il cuore e non le vesti (cfr 2,13). Si tratta, cioè, di porre in atto un atteggiamento di conversione autentica a Dio – ritornare a Lui -, riconoscendo la sua santità, la sua potenza, la sua maestà. E questa conversione è possibile perché Dio è ricco di misericordia e grande nell’amore. La sua è una misericordia rigeneratrice, che crea in noi un cuore puro, rinnova nell’intimo uno spirito fermo, restituendoci la gioia della salvezza (cfr Sal 50,14). Dio, infatti, – come dice il profeta – non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 33,11). Il profeta Gioele ordina, a nome del Signore, che si crei un propizio ambiente penitenziale: bisogna suonare la tromba, convocare l’adunanza, risvegliare le coscienze. Il periodo quaresimale ci propone questo ambito liturgico e penitenziale: un cammino di quaranta giorni dove sperimentare in modo efficace l’amore misericordioso di Dio. Oggi risuona per noi l’appello «Ritornate a me con tutto il cuore»; oggi siamo noi ad essere chiamati a convertire il nostro cuore a Dio, consapevoli sempre di non poter realizzare la nostra conversione da soli, con le nostre forze, perché è Dio che ci converte. Egli ci offre ancora il suo perdono, invitando a tornare a Lui per donarci un cuore nuovo, purificato dal male che lo opprime, per farci prendere parte alla sua gioia. Il nostro mondo ha bisogno di essere convertito da Dio, ha bisogno del suo perdono, del suo amore, ha bisogno di un cuore nuovo.
«Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Nella seconda Lettura san Paolo ci offre un altro elemento nel cammino della conversione. L’Apostolo invita a distogliere lo sguardo su di lui e a rivolgere invece l’attenzione su chi l’ha inviato e sul contenuto del messaggio che porta: «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (ibid.). Un ambasciatore ripete quello che ha sentito pronunciare dal suo Signore e parla con l’autorità e dentro i limiti che ha ricevuto. Chi svolge l’ufficio di ambasciatore non deve attirare l’interesse su se stesso, ma deve mettersi al servizio del messaggio da trasmettere e di chi l’ha mandato. Così agisce san Paolo nell’assolvere il suo ministero di predicatore della Parola di Dio e di Apostolo di Gesù Cristo. Egli non si tira indietro di fronte al compito ricevuto, ma lo assolve con totale dedizione, invitando ad aprirsi alla Grazia, a lasciare che Dio ci converta: «Poiché siamo suoi collaboratori, – scrive – vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (2Cor 6,1). «L’appello di Cristo alla conversione – ci dice il Catechismo della Chiesa Cattolica – continua a risuonare nella vita dei cristiani. […] è un impegno continuo per tutta la Chiesa che « comprende nel suo seno i peccatori » e che, « santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento ». Questo sforzo di conversione non è soltanto un’opera umana. È il dinamismo del « cuore contrito » (Sal 51,19), attratto e mosso dalla grazia a rispondere all’amore misericordioso di Dio che ci ha amati per primo» (n. 1428). San Paolo parla ai cristiani di Corinto, ma attraverso di loro intende rivolgersi a tutti gli uomini. Tutti infatti hanno bisogno della grazia di Dio, che illumini la mente e il cuore. E l’Apostolo incalza: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2). Tutti possono aprirsi all’azione di Dio, al suo amore; con la nostra testimonianza evangelica, noi cristiani dobbiamo essere un messaggio vivente, anzi, in molti casi siamo l’unico Vangelo che gli uomini di oggi leggono ancora. Ecco la nostra responsabilità sulle orme di san Paolo, ecco un motivo in più per vivere bene la Quaresima: offrire la testimonianza della fede vissuta ad un mondo in difficoltà che ha bisogno di ritornare a Dio, che ha bisogno di conversione.
«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro» (Mt 6,1). Gesù, nel Vangelo di oggi, rilegge le tre opere fondamentali di pietà previste dalla legge mosaica. L’elemosina, la preghiera e il digiuno caratterizzano l’ebreo osservante della legge. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità. Gesù mette in evidenza in queste tre opere di pietà una tentazione comune. Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi. Nel riproporre queste prescrizioni, il Signore Gesù non chiede un rispetto formale ad una legge estranea all’uomo, imposta da un legislatore severo come fardello pesante, ma invita a riscoprire queste tre opere di pietà vivendole in modo più profondo, non per amore proprio, ma per amore di Dio, come mezzi nel cammino di conversione a Lui. Elemosina, preghiera e digiuno: è il tracciato della pedagogia divina che ci accompagna, non solo in Quaresima, verso l’incontro con il Signore Risorto; un tracciato da percorrere senza ostentazione, nella certezza che il Padre celeste sa leggere e vedere anche nel segreto del nostro cuore.
Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Quaranta giorni ci separano dalla Pasqua; questo tempo «forte» dell’anno liturgico è un tempo propizio che ci è donato per attendere, con maggiore impegno, alla nostra conversione, per intensificare l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera e la penitenza, aprendo il cuore alla docile accoglienza della volontà divina, per una pratica più generosa della mortificazione, grazie alla quale andare più largamente in aiuto del prossimo bisognoso: un itinerario spirituale che ci prepara a rivivere il Mistero Pasquale.
Maria, nostra guida nel cammino quaresimale, ci conduca ad una conoscenza sempre più profonda di Cristo, morto e risorto, ci aiuti nel combattimento spirituale contro il peccato, ci sostenga nell’invocare con forza: «Converte nos, Deus salutaris noster» – «Convertici a Te, o Dio, nostra salvezza». Amen!

MERCOLEDÌ DELLE CENERI – STORIA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20240

MERCOLEDÌ DELLE CENERI

5 MARZO (CELEBRAZIONE MOBILE)

Il mercoledì delle Ceneri, la cui liturgia è marcata storicamente dall’inizio della penitenza pubblica, che aveva luogo in questo giorno, e dall’intensificazione dell’istruzione dei catecumeni, che dovevano essere battezzati durante la Veglia pasquale, apre ora il tempo salutare della Quaresima.
Lo spirito comunitario di preghiera, di sincerità cristiana e di conversione al Signore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, si esprime simbolicamente nel rito della cenere sparsa sulle nostre teste, al quale noi ci sottomettiamo umilmente in risposta alla parola di Dio. Al di là del senso che queste usanze hanno avuto nella storia delle religioni, il cristiano le adotta in continuità con le pratiche espiatorie dell’Antico Testamento, come un “simbolo austero” del nostro cammino spirituale, lungo tutta la Quaresima, e per riconoscere che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale, come un sacrificio reso al Dio della vita in unione con la morte del suo Figlio Unigenito. È per questo che il mercoledì delle Ceneri, così come il resto della Quaresima, non ha senso di per sé, ma ci riporta all’evento della Risurrezione di Gesù, che noi celebriamo rinnovati interiormente e con la ferma speranza che i nostri corpi saranno trasformati come il suo.
Il rinnovamento pasquale è proclamato per tutta l’umanità dai credenti in Gesù Cristo, che, seguendo l’esempio del divino Maestro, praticano il digiuno dai beni e dalle seduzioni del mondo, che il Maligno ci presenta per farci cadere in tentazione. La riduzione del nutrimento del corpo è un segno eloquente della disponibilità del cristiano all’azione dello Spirito Santo e della nostra solidarietà con coloro che aspettano nella povertà la celebrazione dell’eterno e definitivo banchetto pasquale. Così dunque la rinuncia ad altri piaceri e soddisfazioni legittime completerà il quadro richiesto per il digiuno, trasformando questo periodo di grazia in un annuncio profetico di un nuovo mondo, riconciliato con il Signore.

Martirologio Romano: Giorno delle Ceneri e principio della santissima Quaresima: ecco i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e la salvezza delle anime. Ecco il tempo adatto per la salita al monte santo della Pasqua.

Ascolta da RadioRai:

L’origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell’antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Il liturgista Pelagio Visentin sottolinea che l’evoluzione della disciplina penitenziale è triplice: « da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, previa all’assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all’assoluzione ».
La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell’imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l’importanza di questo segno.

La teologia biblica rivela un duplice significato dell’uso delle ceneri.
1 – Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell’uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: « Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… » (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: « Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere » (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell’uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).
2 – Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: « I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere » (Gio 3,5-9). Anche Giuditta invita invita tutto il popolo a fare penitenza affinché Dio intervenga a liberarlo: « Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore » (Gdt 4,11).
La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: « Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai » e « Convertitevi, e credete al Vangelo ». Adrien Nocent sottolinea che l’antica formula (Ricordati che sei polvere…) è strettamente legata al gesto di versare le ceneri, mentre la nuova formula (Convertitevi…) esprime meglio l’aspetto positivo della quaresima che con questa celebrazione ha il suo inizio. Lo stesso liturgista propone una soluzione rituale molto significativa: « Se la cosa non risultasse troppo lunga, si potrebbe unire insieme l’antica e la nuova formula che, congiuntamente, esprimerebbero certo al meglio il significato della celebrazione: « Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai; dunque convertiti e credi al Vangelo ».
Il rito dell’imposizione delle ceneri, pur celebrato dopo l’omelia, sostituisce l’atto penitenziale della messa; inoltre può essere compiuto anche senza la messa attraverso questo schema celebrativo: canto di ingresso, colletta, letture proprie, omelia, imposizione delle ceneri, preghiera dei fedeli, benedizione solenne del tempo di quaresima, congedo.
Le ceneri possono essere imposte in tutte le celebrazioni eucaristiche del mercoledì ma sarà opportuno indicare una celebrazione comunitaria « privilegiata » nella quale sia posta ancor più in evidenza la dimensione ecclesiale del cammino di conversione che si sta iniziando.

Autore: Enrico Beraudo

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