Archive pour la catégorie 'Tempi liturgici: Quaresima'

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – II DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

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VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE AL TORRINO

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – II DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

Domenica, 4 marzo 2012

Cari fratelli e sorelle della Parrochia di San Giovanni Battista de La Salle!

Innanzitutto vorrei dire, con tutto il mio cuore, grazie per questa accoglienza così cordiale, calorosa. Grazie al buon Parroco per le sue belle parole, grazie per questo spirito di familiarità che trovo. Siamo realmente famiglia di Dio e il fatto che vedete nel Papa anche il papà, è per me una cosa molto bella che mi incoraggia! Ma adesso dobbiamo pensare che anche il Papa non è l’ultima istanza: l’ultima istanza è il Signore e guardiamo al Signore per percepire, per capire – in quanto possibile – qualcosa del messaggio di questa seconda Domenica della Quaresima.
La liturgia di questo giorno ci prepara sia al mistero della Passione – lo abbiamo sentito nella prima Lettura – sia alla gioia della Risurrezione.
La prima Lettura ci riferisce l’episodio in cui Dio mette alla prova Abramo (cfr Gen 22,1-18). Egli aveva un unico figlio, Isacco, natogli in vecchiaia. Era il figlio della promessa, il figlio che avrebbe dovuto portare poi la salvezza anche ai popoli. Ma un giorno Abramo riceve da Dio il comando di offrirlo in sacrificio. L’anziano patriarca si trova di fronte alla prospettiva di un sacrificio che per lui, padre, è certamente il più grande che si possa immaginare. Tuttavia non esita neppure un istante e, dopo aver preparato il necessario, parte insieme ad Isacco per il luogo stabilito. E possiamo immaginare questa camminata verso la cima del monte, che cosa sia successo nel suo cuore e nel cuore del figlio. Costruisce un altare, colloca la legna e, legato il ragazzo, afferra il coltello per immolarlo. Abramo si fida totalmente di Dio, da essere disposto anche a sacrificare il proprio figlio e, con il figlio, il futuro, perché senza figlio la promessa della terra era niente, finisce nel niente. E sacrificando il figlio sacrifica se stesso, tutto il suo futuro, tutta la promessa. È realmente un atto di fede radicalissimo. In questo momento viene fermato da un ordine dall’alto: Dio non vuole la morte, ma la vita, il vero sacrificio non dà morte, ma è la vita e l’obbedienza di Abramo è diventa fonte di una immensa benedizione fino ad oggi. Lasciamo questo, ma possiamo meditare questo mistero.
Nella seconda Lettura, san Paolo afferma che Dio stesso ha compiuto un sacrificio: ci ha dato il suo proprio Figlio, lo ha donato sulla Croce per vincere il peccato e la morte, per vincere il maligno e per superare tutta la malizia che esiste nel mondo. E questa straordinaria misericordia di Dio suscita l’ammirazione dell’Apostolo e una profonda fiducia nella forza dell’amore di Dio per noi; afferma, infatti san Paolo: «[Dio], che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32). Se Dio dà se stesso nel Figlio, ci dà tutto. E Paolo insiste sulla potenza del sacrificio redentore di Cristo contro ogni altro potere che può insidiare la nostra vita. Egli si chiede: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi ci condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (vv. 33-34). Noi siamo nel cuore di Dio, questa è la nostra grande fiducia. Questo crea amore e nell’amore andiamo verso Dio. Se Dio ha donato il proprio Figlio per tutti noi, nessuno potrà accusarci, nessuno potrà condannarci, nessuno potrà separarci dal suo immenso amore. Proprio il sacrificio supremo di amore sulla Croce, che il Figlio di Dio ha accettato e scelto volontariamente, diventa fonte della nostra giustificazione, della nostra salvezza. E pensiamo che nella Sacra Eucaristia è sempre presente questo atto del Signore che nel suo cuore rimane in eterno, e questo atto del suo cuore ci attira, ci unisce con se stesso.
Finalmente, il Vangelo ci parla dell’episodio della trasfigurazione (cfr Mc 9,2-10): Gesù si manifesta nella sua gloria prima del sacrificio della Croce e Dio Padre lo proclama suo Figlio prediletto, l’amato, e invita i discepoli ad ascoltarlo. Gesù sale su un alto monte e prende con sé tre apostoli – Pietro, Giacomo e Giovanni –, che gli saranno particolarmente vicini nell’estrema agonia, su un altro monte, quello degli Ulivi. Da poco il Signore aveva annunciato la sua passione e Pietro non era riuscito a capire perché il Signore, il Figlio di Dio, parlasse di sofferenza, di rifiuto, di morte, di croce, anzi si era opposto con decisione a questa prospettiva. Ora Gesù prende con sé i tre discepoli per aiutarli a comprendere che la strada per giungere alla gloria, la strada dell’amore luminoso che vince le tenebre, passa attraverso il dono totale di sé, passa attraverso lo scandalo della Croce. E il Signore sempre di nuovo deve prendere con sé anche noi, almeno per cominciare a capire che questo è il cammino necessario. La trasfigurazione è un momento anticipato di luce che aiuta anche noi a guardare alla passione di Gesù con lo sguardo della fede. Essa, sì, è un mistero di sofferenza, ma è anche la «beata passione» perché è – nel nucleo – un mistero di amore straordinario di Dio; è l’esodo definitivo che ci apre la porta verso la libertà e la novità della Risurrezione, della salvezza dal male. Ne abbiamo bisogno nel nostro cammino quotidiano, spesso segnato anche dal buio del male!
Cari fratelli e sorelle! Come ho già detto, sono molto lieto di essere in mezzo a voi, oggi, per celebrare il Giorno del Signore. Saluto cordialmente il Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare del Settore, il vostro Parroco, don Giampaolo Perugini, che ringrazio, ancora una volta, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi e anche per i graditi doni che mi avete offerto. Saluto i Vicari Parrocchiali. E saluto le Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, qui presenti da tanti anni, particolarmente benemerite per la vita di questa parrocchia, che ha trovato pronta e generosa ospitalità nella loro casa nei primi tre anni di vita. Estendo poi il mio saluto ai Fratelli delle Scuole Cristiane, naturalmente affezionati a questa chiesa parrocchiale che porta il nome del loro Fondatore. Saluto, inoltre, quanti sono attivi nell’ambito della Parrocchia: mi riferisco ai catechisti, ai membri delle Associazioni e dei Movimenti, come pure dei diversi gruppi parrocchiali. Vorrei infine estendere il mio pensiero a tutti gli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà.
Venendo oggi in mezzo a voi, ho notato la particolare posizione di questa chiesa, posta nel punto più alto del quartiere, e dotata di un campanile slanciato, quasi un dito o una freccia verso il cielo. Mi pare sia questa una indicazione importante: come i tre apostoli del Vangelo, anche noi abbiamo bisogno di salire sul monte della trasfigurazione per ricevere la luce di Dio, perché il suo Volto illumini il nostro volto. Ed è nella preghiera personale e comunitaria che noi incontriamo il Signore non come un’idea, o come una proposta morale, ma come una Persona che vuole entrare in rapporto con noi, che vuole essere amico e vuole rinnovare la nostra vita per renderla come la sua. E questo incontro non è solo un fatto personale; questa vostra chiesa posta nel punto più alto del quartiere vi ricorda che il Vangelo deve essere comunicato, annunciato a tutti. Non aspettiamo che altri vengano a portare messaggi diversi, che non conducono alla vera vita, fatevi voi stessi missionari di Cristo ai fratelli là dove vivono, lavorano, studiano o soltanto trascorrono il tempo libero. Conosco le tante e significative opere di evangelizzazione che state attuando, in particolare attraverso l’oratorio chiamato «Stella polare», – sono felice di portare anche questa camicia [la maglietta dell’oratorio] – dove, grazie al volontariato di persone competenti e generose e con il coinvolgimento delle famiglie, si favorisce l’aggregazione dei ragazzi attraverso l’attività sportiva, senza trascurare però la formazione culturale, attraverso l’arte e la musica, e soprattutto si educa al rapporto con Dio, ai valori cristiani e ad una sempre più consapevole partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale.
Mi rallegro che il senso di appartenenza alla comunità parrocchiale sia venuto sempre più maturando e consolidandosi nel corso degli anni. La fede va vissuta insieme e la parrocchia è un luogo in cui si impara a vivere la propria fede nel «noi» della Chiesa. E desidero incoraggiarvi affinché cresca anche la corresponsabilità pastorale, in una prospettiva di autentica comunione fra tutte le realtà presenti, che sono chiamate a camminare insieme, a vivere la complementarietà nella diversità, a testimoniare il «noi» della Chiesa, della famiglia di Dio. Conosco l’impegno che mettete nella preparazione dei ragazzi e dei giovani ai Sacramenti della vita cristiana. Il prossimo «Anno della fede» sia un’occasione propizia anche per questa parrocchia per far crescere e consolidare l’esperienza della catechesi sulle grandi verità della fede cristiana, in modo da permettere a tutto il quartiere di conoscere e approfondire il Credo della Chiesa, e superare quell’«analfabetismo religioso» che è uno dei più grandi problemi del nostro oggi.
Cari amici! La vostra è una comunità giovane – si vede -costituita da famiglie giovani, e tanti sono, grazie a Dio, i bambini e i ragazzi che la popolano. A questo proposito, vorrei ricordare il compito della famiglia e dell’intera comunità cristiana di educare alla fede, aiutati in ciò dal tema del corrente anno pastorale, dagli orientamenti pastorali proposti dalla Conferenza Episcopale Italiana e senza dimenticare il profondo e sempre attuale insegnamento di san Giovanni Battista de La Salle. In particolare, care famiglie, voi siete l’ambiente di vita in cui si muovono i primi passi della fede; siate comunità in cui si impara a conoscere ed amare sempre di più il Signore, comunità in cui ci si arricchisce a vicenda per vivere una fede veramente adulta.
Vorrei, infine, richiamare a voi tutti l’importanza e la centralità dell’Eucaristia nella vita personale e comunitaria. La santa Messa sia al centro della vostra Domenica, che va riscoperta e vissuta come giorno di Dio e della comunità, giorno in cui lodare e celebrare Colui che è morto e risorto per la nostra salvezza, giorno in cui vivere insieme nella gioia di una comunità aperta e pronta ad accogliere ogni persona sola o in difficoltà. Riuniti attorno all’Eucaristia, infatti, avvertiamo più facilmente come la missione di ogni comunità cristiana sia quella di recare il messaggio dell’amore di Dio a tutti gli uomini. Ecco perché è importante che l’Eucaristia sia sempre il cuore della vita dei fedeli, come lo è quest’oggi.
Cari fratelli e sorelle! Dal Tabor, il monte della Trasfigurazione, l’itinerario quaresimale ci conduce fino al Golgota, monte del supremo sacrificio di amore dell’unico Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. In quel sacrificio è racchiusa la più grande forza di trasformazione dell’uomo e della storia. Assumendo su di sé ogni conseguenza del male e del peccato, Gesù è risorto il terzo giorno come vincitore della morte e del Maligno. La Quaresima ci prepara a partecipare personalmente a questo grande mistero della fede, che celebreremo nel Triduo della passione, morte e risurrezione di Cristo. Alla Vergine Maria affidiamo il nostro cammino quaresimale, come quello della Chiesa intera. Ella, che ha seguito il suo Figlio Gesù fino alla Croce, ci aiuti ad essere discepoli fedeli di Cristo, cristiani maturi, per poter partecipare insieme con Lei alla pienezza della gioia pasquale. Amen!

 

GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI: LA VIA DELL’ESPIAZIONE E DELLA PREGHIERA

http://www.zenit.org/it/articles/giovanni-paolo-ii-e-benedetto-xvi-la-via-dell-espiazione-e-della-preghiera

GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI: LA VIA DELL’ESPIAZIONE E DELLA PREGHIERA

Gli ultimi due pontefici hanno compiuto scelte differenti ma ugualmente coraggiose

Roma, 22 Febbraio 2013 (Zenit.org) Don Anderson Alves

Siamo nel periodo dei 40 giorni di preparazione alla Santa Pasqua. La Quaresima ci ricorda i 40 anni di Israele passati nel deserto, i 40 giorni di digiuno, preghiera e penitenza del Signore prima di iniziare il suo ministero pubblico. Il deserto è il luogo del silenzio, della povertà, dell’incontro con Dio; per attraversarlo è necessario scoprire ciò che è essenziale alla vita. Il deserto è anche il luogo della morte, della solitudine, in cui l’uomo sente con più forza la tentazione. Il deserto è pure un’immagine del mondo attuale, nel quale le persone sono diventate aride, senza cuore, allontanandosi da Dio.
Nel deserto Gesù è tentato dal diavolo tre volte. Tutte le tentazioni hanno come essenza il voler mettere se stessi al centro del mondo, al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esistenza o cercando di sottometterlo alla nostra volontà.
Per vincere le tentazioni è necessario fare altro: mettere Dio al primo posto. E questa è la conversione cui la Quaresima ci richiama. E la conversione si concretizza nell’analizzare la nostra vita davanti Dio, cercando di conoscere noi stessi alla sua luce, riconoscendo le nostre capacità e limiti, chiedendolo con sincerità: cosa vuoi da me, Signore? Questo non è facile, perché spesso non abbiamo tempo per Dio, o non vogliamo ascoltarlo. La tentazione di metterci al centro di tutto è sempre molto forte nella nostra vita.
In Quaresima siamo chiamati a porre la nostra vita davanti a Dio con umiltà. Ed è proprio questo che ha fatto papa Benedetto XVI: analizzare ripetutamente la propria coscienza davanti Dio (conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata, ha detto il Papa con un linguaggio agostiniano), chiedendolo con totale disponibilità: che cosa vuoi da me? E il Signore gli ha fatto vedere la sua volontà e lui ha risposto, rinunciando al suo ministero per il bene della Chiesa, perché un altro uomo con più forza fisica possa guidare la Chiesa di Cristo nella strada della Nuova Evangelizzazione nel deserto che è diventato il nostro mondo.
Il Papa ha fatto allora un gesto sorprendente, perché è stato un segno di fede e di umiltà, e non sappiamo bene che cosa sia vivere di fede e che cosa sia l’umiltà. Noi siamo sempre pronti a giudicare il nostro prossimo e non tanto ad analizzare la nostra vita davanti Dio, come il Papa ha fatto. In questo periodo di conversione, dobbiamo ricordarci solo che Dio è onnisciente, solo Lui può giudicare le intenzioni delle persone; e dobbiamo avere molto rispetto sempre per le coscienze altrui.
Il papa Giovanni Paolo II ha analizzato la sua vita davanti Dio, che gli ha chiesto di vivere gli ultimi anni del suo ministero come forma di espiazione per i nostri peccati; e a Benedetto XVI, Dio chiede una vita dedicata totalmente alla preghiera. Chi siamo noi per giudicarli? Questi due uomini, probabilmente i due migliori Pontifici della Storia della Chiesa moderna, hanno avuto il coraggio di mettersi davanti Dio, che gli ha indicato la via dell’espiazione e della preghiera. E queste due cose, espiazione e preghiera, sono le cose essenziali della vita sacerdotale. Questi uomini di Dio l’hanno visto e lo propongono a tutti i sacerdoti. Chi siamo noi per condannarli?
E a tutti i cristiani, queste due grandi uomini insegnano ad avere l’audacia di avanzare per la via della conversione, mettendoci davanti Dio, riconoscendo le nostre capacità e chiedendolo ciò che Lui vuole da noi. Dobbiamo avere molta gioia e ringraziare Dio perché questi uomini hanno servito sempre Dio con generosità e sono esempi per tutti noi.
E non dobbiamo lasciarci ingannare dai falsi profeti. Quelli che ora criticano il Papa Benedetto XVI perché è anziano e ha rinunciato, sono gli stessi che hanno criticato Giovanni Paolo II per essere anziano e non aver rinunciato al suo “potere”. Sono tanti oggi quelli che non pongono la propria vita davanti a Dio e perciò sono sempre pronti a buttare le pietre contro il loro prossimo, anche contro quelli che non hanno fatto nessun peccato. Nella Storia della Chiesa ci sono stati Papi santi che non hanno rinunciato e un Papa santo (Celestino V) che ha rinunciato al suo ministero.
Noi che desideriamo una vera conversione, dobbiamo ringraziare Dio per i ministeri luminosi e complementari di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Loro hanno avuto l’umiltà, la fede e il coraggio di seguire la propria coscienza, analizzata alla luce di Dio; ora dobbiamo pregare per Benedetto XVI, dimostrandogli molto affetto e ringraziando Dio per il bene che lui ha fatto alla Chiesa di Dio in tutti questi anni. Papa Benedetto XVI ci ha sempre insegnato che la Chiesa è una grande famiglia, quella dei figli di Dio.
Quale figlio, avendo un padre con 86 anni, che ha appena subìto un intervento al cuore, lo critica perché non può più lavorare?
Chiediamo al Signore che ci faccia diventare veri cristiani, che sappiano amare il prossimo come Gesù lo ha amato, senza mai metterci al posto di Dio, giudicando o criticando chi è stato sempre un padre esemplare.

***
Don Anderson Alves è sacerdote della diocesi di Petrópolis, Brasile. È dottorando in Filosofia presso alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma.

PAPA FRANCESCO: SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

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SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di Santa Sabina

Mercoledì, 18 febbraio 2015

Come popolo di Dio incominciamo il cammino della Quaresima, tempo in cui cerchiamo di unirci più strettamente al Signore, per condividere il mistero della sua passione e della sua risurrezione.
La liturgia di oggi ci propone anzitutto il passo del profeta Gioele, inviato da Dio a chiamare il popolo alla penitenza e alla conversione, a causa di una calamità (un’invasione di cavallette) che devasta la Giudea. Solo il Signore può salvare dal flagello e bisogna quindi supplicarlo con preghiere e digiuni, confessando il proprio peccato.
Il profeta insiste sulla conversione interiore: «Ritornate a me con tutto il cuore» (2,12).
Ritornare al Signore “con tutto il cuore” significa intraprendere il cammino di una conversione non superficiale e transitoria, bensì un itinerario spirituale che riguarda il luogo più intimo della nostra persona. Il cuore, infatti, è la sede dei nostri sentimenti, il centro in cui maturano le nostre scelte, i nostri atteggiamenti. Quel “ritornate a me con tutto il cuore” non coinvolge solamente i singoli, ma si estende all’intera comunità, è una convocazione rivolta a tutti: «Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (v. 16).
Il profeta si sofferma in particolare sulla preghiera dei sacerdoti, facendo osservare che va accompagnata dalle lacrime. Ci farà bene, a tutti, ma specialmente a noi sacerdoti, all’inizio di questa Quaresima, chiedere il dono delle lacrime, così da rendere la nostra preghiera e il nostro cammino di conversione sempre più autentici e senza ipocrisia. Ci farà bene farci la domanda: “Io piango? Il Papa piange? I cardinali piangono? I vescovi piangono? I consacrati piangono? I sacerdoti piangono? Il pianto è nelle nostre preghiere?”. E proprio questo è il messaggio del Vangelo odierno. Nel brano di Matteo, Gesù rilegge le tre opere di pietà previste nella legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. E distingue, il fatto esterno dal fatto interno, da quel piangere dal cuore. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità sociale. Gesù mette in evidenza una tentazione comune in queste tre opere, che si può riassumere proprio nell’ipocrisia (la nomina per ben tre volte): «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro…Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti…Quando pregate, non siate simili agli ipocriti, che…amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. … E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti» (Mt 6,1.2.5.16). Sapete, fratelli, che gli ipocriti non sanno piangere, hanno dimenticato come si piange, non chiedono il dono delle lacrime.
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce in noi il desiderio di essere stimati e ammirati per questa buona azione, per ricavarne una soddisfazione. Gesù ci invita a compiere queste opere senza alcuna ostentazione, e a confidare unicamente nella ricompensa del Padre «che vede nel segreto» (Mt 6,4.6.18).
Cari fratelli e sorelle, il Signore non si stanca mai di avere misericordia di noi, e vuole offrirci ancora una volta il suo perdono – tutti ne abbiamo bisogno – , invitandoci a tornare a Lui con un cuore nuovo, purificato dal male, purificato dalle lacrime, per prendere parte alla sua gioia. Come accogliere questo invito? Ce lo suggerisce san Paolo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor5,20). Questo sforzo di conversione non è soltanto un’opera umana, è lasciarsi riconciliare. La riconciliazione tra noi e Dio è possibile grazie alla misericordia del Padre che, per amore verso di noi, non ha esitato a sacrificare il suo Figlio unigenito. Infatti il Cristo, che era giusto e senza peccato, per noi fu fatto peccato (v. 21) quando sulla croce fu caricato dei nostri peccati, e così ci ha riscattati e giustificati davanti a Dio. «In Lui» noi possiamo diventare giusti, in Lui possiamo cambiare, se accogliamo la grazia di Dio e non lasciamo passare invano questo «momento favorevole» (6,2). Per favore, fermiamoci, fermiamoci un po’ e lasciamoci riconciliare con Dio.
Con questa consapevolezza, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Maria Madre Immacolata, senza peccato, sostenga il nostro combattimento spirituale contro il peccato, ci accompagni in questo momento favorevole, perché possiamo giungere a cantare insieme l’esultanza della vittoria nel giorno della Pasqua. E come segno della volontà di lasciarci riconciliare con Dio, oltre alle lacrime che saranno “nel segreto”, in pubblico compiremo il gesto dell’imposizione delle ceneri sul capo. Il celebrante pronuncia queste parole: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (cfr Gen 3,19), oppure ripete l’esortazione di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (cfr Mc 1,15). Entrambe le formule costituiscono un richiamo alla verità dell’esistenza umana: siamo creature limitate, peccatori sempre bisognosi di penitenza e di conversione. Quanto è importante ascoltare ed accogliere tale richiamo in questo nostro tempo! L’invito alla conversione è allora una spinta a tornare, come fece il figlio della parabola, tra le braccia di Dio, Padre tenero e misericordioso, a piangere in quell’abbraccio, a fidarsi di Lui e ad affidarsi a Lui. 

TEMPO DI CONVERSIONE, DI RITORNO A DIO – ENZO BIANCHI

http://www.suoredimariabambina.org/tempoliturgico/tempoliturgico201002_1.htm

TEMPO DI CONVERSIONE, DI RITORNO A DIO – ENZO BIANCHI

Uno sforzo compiuto tutti insieme

Ogni anno ritorna la quaresima, un tempo pieno di quaranta giorni da vivere da parte dei cristiani tutti insieme come tempo di conversione, di ritorno a Dio. Sempre i cristiani devono vivere lottando contro gli idoli seducenti, sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore, tuttavia la chiesa – che nella sua intelligenza conosce l’incapacità della nostra umanità a vivere con forte tensione il cammino quotidiano verso il Regno – chiede che ci sia un tempo preciso che si stacchi dal quotidiano, un tempo « altro », un tempo forte in cui far convergere nello sforzo della conversione la maggior parte delle energie che ciascuno possiede. E la chiesa chiede che questo sia vissuto silmultaneamente da parte di tutti i cristiani, sia cioè uno sforzo compiuto tutti insieme, in comunione e solidarietà. Sono dunque quaranta giorni per il ritorno a Dio, per il ripudio degli idoli seducenti ma alienanti, per una maggior conoscenza della misericordia infinita del Signore.
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede.
Sì, la quaresima è il tempo del ritrovamento della propria verità e autenticità, ancor prima che tempo di penitenza: non è un tempo in cui « fare » qualche particolare opera di carità o di mortificazione, ma è un tempo per ritrovare la verità del proprio essere. Gesù afferma che anche gli ipocriti digiunano, anche gli ipocriti fanno la carità (cf. Mt 6,1-6.16-18): proprio per questo occorre unificare la vita davanti a Dio e ordinare il fine e i mezzi della vita cristiana, senza confonderli.
La quaresima vuole riattualizzare i quarant’anni di Israele nel deserto, guidando il credente alla conoscenza di sé, cioè alla conoscenza di ciò che il Signore del credente stesso già conosce: conoscenza che non è fatta di introspezione psicologica ma che trova luce e orientamento nella Parola di Dio. Come Cristo per quaranta giorni nel deserto ha combattuto e vinto il tentatore grazie alla forza della Parola di Dio (cf. Mt 4,1-11), così il cristiano è chiamato ad ascoltare, leggere, pregare più intensamente e più assiduamente – nella solitudine come nella liturgia – la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. La lotta di Cristo nel deserto diventa allora veramente esemplare e, lottando contro gli idoli, il cristiano smette di fare il male che è abituato a fare e comincia a fare il bene che non fa! Emerge così la « differenza cristiana », ciò che costituisce il cristiano e lo rende eloquente nella compagnia degli uomini, lo abilita a mostrare l’evangelo vissuto, fatto carne e vita.
Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima … un gesto che forse oggi non sempre è capito ma che, se spiegato e recepito, può risultare più efficace delle parole nel trasmettere una verità.La cenere, infatti, è il frutto del fuoco che arde, racchiude il simbolo della purificazione, costituisce un rimando alla condizione del nostro corpo che, dopo la morte, si decompone e diventa polvere: sì, come un albero rigoglioso, una volta abbattuto e bruciato, diventa cenere, così accade al nostro corpo tornato alla terra, ma quella cenere è destinata alla risurrezione …
Sì, ricevere le ceneri significa prendere coscienza che il fuoco dell’amore di Dio consuma il nostro peccato; accogliere le ceneri nelle nostre mani significa percepire che il peso dei nostri peccati, consumati dalla misericordia di Dio, è « poco peso »; guardare quelle ceneri significa riconfermare la nostra fede pasquale: saremo cenere, ma destinata alla risurrezione. Sì, nella nostra Pasqua la nostra carne risorgerà e la misericordia di Dio come fuoco consumerà nella morte i nostri peccati.
Nel vivere il mercoledì delle ceneri i cristiani non fanno altro che riaffermare la loro fede di essere riconciliati con Dio in Cristo, la loro speranza di essere un giorno risuscitati con Cristo per la vita eterna, la loro vocazione alla carità che non avrà fine. Il giorno delle ceneri è annuncio della Pasqua di ciascuno di noi.

da: E. Bianchi, Dare senso al tempo. Le feste cristiani,
Edizioni Qiqajon 2003, pg. 41-44

INNI DELLA SETTIMANA SANTA: “VEXILLA REGIS PRODEUNT”

http://tuespetrus.wordpress.com/2010/03/29/inni-della-settimana-santa-vexilla-regis-prodeunt/

INNI DELLA SETTIMANA SANTA: “VEXILLA REGIS PRODEUNT”

(link al testo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Vexilla_regis )

29 MARZO 2010

di Inos Biffi

Incominciano con la Settimana Santa i giorni della prolungata e appassionata contemplazione della Croce. Vi risuona, in particolare, il grande inno del Vexilla Regis. L’autore, Venanzio Fortunato – nato a Valdobbiadene (530/540) e morto vescovo di Poitiers (600/610) -, viene considerato come « il creatore della mistica simbolica della Croce, di cui più tardi si faranno cantori ispirati san Bonaventura o Iacopone da Todi » (Henry Spitzmuller).
La composizione, in dimetri giambici acatalettici, fu cantata la prima volta a Poitiers, nel 568, in occasione della deposizione di un frammento della Santa Croce nella chiesa del monastero a essa dedicata, retto dall’abbadessa Radegonda, che aveva ricevuto quel frammento dall’imperatore Giustino ii.
I versi, pur non privi di qualche enfasi e retorica, sono animati da una fede ardente e pervasi da una profonda ispirazione. E a emergere subito con chiarezza è il senso salvifico della Croce, insieme dolorosa e gloriosa.
Al nostro giudizio terreno, la croce appare un ignominioso strumento di morte, un orrendo marchio di infamia, un segno di insensatezza e di impotenza. Qui, invece, la Croce è esaltata come « il vessillo del Re » (vexilla Regis), come « un luminoso mistero » (fulget Crucis mysterium).
Il pensiero va alla « Parola della Croce », di cui parla Paolo, la quale è « stoltezza per quelli che si perdono », ma « potenza di Dio » « per quelli che si salvano ». « I Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza – dichiara l’apostolo – noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani » (cfr. 1 Corinzi, 1, 18ss). La Croce, dal profilo umano, è quanto di più debole e ignobile si possa pensare; e, pure, Dio l’ha scelta per manifestare la sua sapienza e la sua potenza. Dio ha scelto quel legno funesto come il trono della regalità del suo Figlio.
Pilato credeva di irridere Gesù, presentandolo con una « corona di spine » e con addosso « un mantello di porpora » (Giovanni, 19, 5); in realtà, non faceva che esprimere il sorprendente disegno di Dio, che dall’eternità aveva predestinato come Re dell’universo il Crocifisso risorto e come esemplare dell’uomo l’umanità gloriosa del Figlio morto sulla Croce.
Sorprendentemente, sulla Croce non falliva, ma al contrario, di là da ogni ragionevole attesa, si compiva e aveva successo esattamente la scelta divina, presente da sempre nel cuore della Trinità. A Dante, che contemplava estatico la « luce eterna », parve di intravvedere dipinta nel « lume riflesso », il Verbo, la « nostra effigie » (Paradiso, 33, 131): ossia il mistero dell’Incarnazione. Potremmo precisare: in quel « lume riflesso », era impresso il mistero della passione e della risurrezione del Signore, o il Crocifisso glorioso.
La regalità del Risorto da morte – per il quale tutto era stato ed era voluto – non si giustappose, infatti, a riparare un imprevisto divino, dovuto all’uomo, ma era la ragione per la quale tutto da principio era stato creato. Per questo Venanzio Fortunato può avviare felicemente il suo inno, cantando la luce che risiede e promana dal mistero della Croce.
Al patibolo – prosegue il poeta, fissando il suo sguardo pietoso sui particolari di quella crocifissione – è appeso il corpo del « Creatore del mondo »: « Straziato nelle carni / con le mani e i piedi trapassati dai chiodi / vi si è immolato come vittima del nostro riscatto » (redemptionis gratia / hic immolata est hostia).
Poi viene « il colpo di lancia crudele », che « squarcia il suo fianco » (Quo vulneratus insuper / mucrone diræ lanceæ): ne « fluisce sangue e acqua », come da fonte « che lava ogni crimine » (ut nos lavaret crimine / manavit unda, sanguine). Sul fatto si era soffermata l’attenzione dell’evangelista Giovanni, che lo attesta con speciale autorevolezza: la tradizione cristiana vi lesse un evento ricco di simboli: dal Crocifisso, vero Agnello pasquale, scaturisce lo Spirito, e sgorgano i sacramenti, in particolare il lavacro battesimale e il sangue eucaristico.
Lo sguardo è quindi rivolto all’albero della Croce, di cui è elogiata, con profusione un po’ barocca di immagini, la luminosità, il pregio, il profumo, la dolcezza e la fecondità.
In apparenza è uno squallido legno; in realtà è un « albero rivestito di bellezza e di fulgore », « adorno del sangue come di porpora regale » (Arbor decora et fulgida / ornata regis purpura), « scelto tra tutti per essere il tronco degno / di portare membra tanto sante » (electa, digno stipite / tam sancta membra tangere!). Un « albero beato, sulle cui braccia aperte / fu sospeso il prezzo della redenzione del mondo » (Beata, cuius bracchiis / pretium pependit sæculi!), simile a « bilancia », su cui venne pesato il corpo di Cristo, e che strappò la preda all’inferno. Un albero che emana un profumo soave, e stilla una dolcezza più gustosa del miele, e su cui maturano frutti copiosi.
Segue, a conclusione, il solenne saluto alla Croce, e alla Vittima su di essa sacrificata come sopra un altare: luogo dove la Vita sopporta la morte, e la morte elargisce la vita: « Salve, Croce adorabile! / Su questo altare muore / la Vita e morendo ridona / agli uomini la vita » (Salve ara, salve victima / de passionis gloria / qua Vita mortem pertulit / et morte vitam reddidit).
È il paradosso del progetto salvifico: sperimentata dal Figlio di Dio, la morte diviene sorgente di vita: l’onnipotenza divina mirabilmente trasforma uno strumento di rovina in mezzo di redenzione.
« Salve, Croce adorabile – ripete con slancio rinnovato il poeta – sola nostra speranza! » (O crux, ave spes unica); « Concedi perdono ai colpevoli / accresci nei giusti la grazia » (piis adauge gratiam / reisque dona veniam).
Quando apparve il contenuto del « mistero nascosto da secoli e da generazioni » (Colossesi, 1, 26), si rivelò come la gloria del Crocifisso, e come la regalità di Cristo sul trono della Croce. Gesù stesso aveva dichiarato che, una volta innalzato, avrebbe tratto tutto a sé (cfr. Giovanni, 12, 32). E, infatti, tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra, portano l’impronta di Gesù risuscitato da morte, essendo state progettate dal Padre fin dall’origine a sua immagine. « Sul legno avviene la regalità di Dio », canta un verso splendido di Venanzio (Regnavit a ligno Deus).
Non stupisce, allora, che san Massimo di Torino, con esegesi fantasiosa e, pure, acuta e suggestiva, abbia ricercato e rinvenuto « il sacramento della Croce » e la presenza del suo segno nell’intero universo: nella « vela sospesa del marinaio all’albero », nella « struttura dell’aratro, con il suo dentale, i suoi orecchi e il manico », nella disposizione « del cielo in quattro parti », nella « posizione dell’uomo quando innalza le mani »: « Da questo segno del Signore è solcato il mare, è coltivata la terra, è governato il cielo, sono salvati gli uomini ».
Tutto il mistero che ci avvolge è racchiuso nel Crocifisso glorioso. Tutta la nostra aspirazione è di poterlo comprendere, per poter vivere.

La memoria della passione del Signore nella preghiera antica

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MEMORIA DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

di Padre Felice Artuso

La memoria della passione del Signore nella preghiera antica

Ogni popolo ricorda con frequenza gli eventi lieti e tristi della sua storia. Conserva così la propria identità e progetta un futuro piacevole. Se dimenticasse il suo passato, trascurerebbe le proprie caratteristiche, si conformerebbe facilmente alla mentalità di altri popoli e rischierebbe di scomparire alla svelta.
Per distinguersi dalle altre nazioni, il popolo d’Israele evoca sempre le sue origini e la sua storia. Ripete ogni giorno la professione di fede nell’unicità di Dio, nella quale ricorda l’impegno ad amare lui con tutte le facoltà interiori e a darne testimonianza (Dt 6,4-7). Recita anche la formula inerente gli inizi della sua elezione a divenire il popolo di Dio: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa» (Dt 26,5). Nei riti familiari, nelle celebrazioni liturgiche del sabato e delle solennità annuali dà risalto agli episodi più considerevoli del suo passato (Lv 32,1ss). Passa in rassegna gli eventi, che gli hanno procurato consistenza e libertà. Nel memoriale pasquale presenta a Dio le preoccupazioni, le afflizioni e le aspirazioni personali (Sal 34,19), lo ringrazia Dio per tutto quello che ha fatto (Es 12,14), si affida quindi alla sua potenza redentrice e rinnovatrice.
Reputa la preghiera quotidiana equivalente ai sacrifici del tempio. Alimenta la sua fede in Dio, cantandogli dei salmi (Sal 119,164) all’aurora, a mezzogiorno e alla sera (Sal 55,18; Dn 6,11). Considera che il momento del culto più eminente è l’ora dell’olocausto mattutino e vespertino (Sal 5,4; 4,5-6). In questi due tratti di tempo s’associa alla preghiera ufficiale dei sacerdoti nel tempio (Es 29,38-39; Sal 141,2; Sir 50,20). Per consacrare poi a Dio tutta la creazione, secondo le proprie possibilità canta o recita dei salmi nelle ore notturne (Sal 119,62).
All’orario della preghiera quotidiana i farisei aggiungono delle spontanee benedizioni, da eseguirsi specialmente prima e dopo il pasto. Nel periodo di rottura con i giudeocristiani terminano la salmodia mattutina e pomeridiana, inserendovi 18 benedizioni, tuttora conosciute. Il Talmud mantiene l’osservanza della preghiera oraria, ricevuta dalla tradizione farisaica.
Gesù si attiene ai ritmi e alle norme liturgiche del suo popolo. Salmeggia abitualmente al mattino, a mezzogiorno, a sera e durante la notte. In privato e nei raduni comunitari canta i salmi con gioia o con il cuore contrito. Prima e dopo i pasti benedice Dio per i doni della terra. Nelle preghiere personali adora, loda, invoca il Padre celeste e intercede per tutti. Insegna ai suoi discepoli di pregare con insistenza e con fiducia (Lc 18,1-8). Nell’istituzione eucaristica comanda agli apostoli di ricordare il dono del suo corpo e del suo sangue: «Fate questo in ricordo di me» (Lc 22,19). Sul Calvario celebra un’autentica azione liturgica: immola se stesso sull’altare della croce, si offre al Padre suo e lo glorifica pienamente. Lascia alla Chiesa un autentico esempio di adorazione, di lode, di supplica, di offerta e di abbandono a Dio, creatore, salvatore e santificatore.
I primi cristiani, uomini e donne, perseverano nella memoria pasquale. Partecipano alla sacra liturgia del tempio o della sinagoga. Tramite la salmodia rivivono le grandi opere di Dio, gli offrono il sacrificio della lode (Eb 13,15) e gli rendono un culto pubblico. Ricordano anche l’atteggiamento misericordioso e ablativo di Gesù, morente sulla croce. Santificano poi il corso del giorno, evocando il suo esodo pasquale, fonte di perenne gioia (At 3,1; 10,9; 16,25). Non avendo ancora dei luoghi destinati al nuovo culto comunitario, celebrano l’eucaristica in alcune grotte e nelle case private (1 Cor 11,21). Prolungano il culto di lode a Dio Padre, offrendogli Gesù, vittima pura e santa. Uniscono a quest’offerta le sofferenze di ogni persona. Gli chiedono quindi la liberazione dal peccato, la comunione fraterna e il dono della salvezza ultraterrena.
Allenato nell’orazione personale e comunitaria, l’apostolo Paolo raccomanda ai cristiani di pregare a tutte le ore, per impedire le deviazioni da Dio, per unirsi saldamente a Gesù Cristo, per percorrere un’ascensione spirituale. Infatti scrive: «Siate incessantemente nella preghiera: in ogni circostanza rendete grazie» (1 Ts 5,17). «Siate in preghiera in ogni tempo» (Ef 6,8). «Siate perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12).
Nel secolo II i cristiani, che vogliono vincere le tentazioni del mondo, privilegiano la liturgia delle Ore. Secondo il libro della Didaché (8,2-3) osservano i tempi liturgici degli olocausti ebraici e li pongono in stretta relazione con la celebrazione eucaristica. All’alba, prima di iniziare l’attività quotidiana, celebrano le Lodi, in cui ricordano la gloriosa risurrezione di Gesù e pregano lui, aurora e garanzia di un mondo nuovo. Al tramonto del sole interrompono il lavoro e celebrano i Vesperi, nei quali evocano la sua morte e sepoltura. Osservano inoltre le Ore minori di Terza, Sesta e Nona.
Trasmettendo la prassi liturgica della comunità romana, Ippolito dà un’indicazione oraria per la preghiera privata e la riferisce ai momenti principali della passione redentrice del Signore. Attesta che occorre attenersi a questa consuetudine: «All’ora terza, se sei a casa tua, prega e loda Dio; se, in questo preciso momento, sei altrove, prega Dio nel tuo cuore. A tale ora difatti il Cristo fu inchiodato sulla croce… Ugualmente prega all’ora sesta, perché, quando il Cristo fu inchiodato sul legno della croce, il giorno fu interrotto e si ebbe una grande oscurità. Pertanto a quell’ora si faccia una preghiera vigorosa, imitando la voce di Colui che pregò e ricoprì di tenebre l’intero creato… Alla nona ora si preghi e si lodi a lungo Dio. A quell’ora il Cristo fu colpito nel costato ed effuse sangue ed acqua e rischiarò il resto del giorno fino a sera» .
I monaci egiziani, greci e slavi conservano il principio della preghiera continua, attenendosi più o meno alla stessa disposizione oraria, menzionata da Ippolito. Nel corso della giornata si presentano più volte al Signore, loro sposo. Durante lo svolgimento della preghiera uniscono alla salmodia la memoria della passione, morte, sepoltura, risurrezione ed esaltazione di Gesù. Si uniformano a «quelle che furono le ore canoniche: all’ora terza cioè alle nove del mattino, preghiera in onore della preparazione del legno della croce; all’ora sesta, cioè a mezzogiorno, salmi, lamentazioni e orazioni in onore di Cristo inchiodato sulla croce; a all’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, inni e preghiere diverse in onore di Cristo morente sulla croce; all’ora dodicesima, cioè alle sei di sera, un ufficio più lungo in onore di Cristo disceso all’inferno» .
I Padri della Chiesa reputano che nella preghiera liturgica Gesù prosegue a lodare Dio Padre, a invocarlo e operare mediante il suo Santo Spirito. Raccomandano la recita o il canto comunitario dei salmi, quale mezzo che apre a Dio, dispone a comprenderlo, ad abbandonare il peccato e a crescere nell’amore. Organizzano la liturgia delle Ore con lo stesso riferimento cronologico delle prime comunità cristiane. Mettono in primo piano la celebrazione delle Lodi e dei Vespri, essendo i momenti più adatti per il ricordo degli eventi dolorosi e gloriosi del Signore. Scelgono i salmi più adeguati alle Ore canoniche, alle solennità, alle feste, alle domeniche e alle memorie liturgiche. Estraggono dai salmi delle brevi antifone e dei responsori, che favoriscono la contemplazione di un fatto salvifico. Inseriscono nella salmodia le letture bibliche, gli inni evangelici, il Padre nostro e le molteplici invocazioni, corrispondenti ai bisogni quotidiani. Educano i cristiani a percepire l’afflato spirituale di tutti testi biblici, dove Gesù prega il Padre con la Chiesa, sua sposa. Li esortano a riconoscere la sua voce che parla con Dio e con loro. Li invitano anche a penetrare nei suoi vari sentimenti, per conferire più efficacia alla loro preghiera. Inoltre suggeriscono ad ognuno delle pertinenti riflessioni e indicano applicazioni di natura teologica, sacramentale e morale.
Danno alle ricorrenze festive un’impostazione solenne e gioiosa. Incensano l’altare, che rappresenta il Signore, vittima immolata. Sistemano l’Ufficio del Venerdì Santo, riferendolo alle molteplici spoliazioni, rinunce, umiliazioni e sofferenze di Gesù.. Imprimono ad ogni mercoledì e venerdì un volto penitenziale, scegliendo i salmi di lamentazione e le letture bibliche che evocano il percorso doloroso di Gesù. Compongono delle invocazioni nelle quali chiedono a Dio la liberazione dal peccato e da ogni mele. Per la celebrazione delle Ore Minori immettono un breve ricordo della storia della salvezza, che il suo apice nella crocifissione, nell’agonia, nella morte, nella sepoltura e nella risurrezione di Gesù, come anche nel dono dello Spirito Santo, nell’inizio della predicazione evangelica e nell’attesa della gloria eterna.
Iniziano la preghiera liturgica con il segno della croce e con il versetto salmico: «O Dio, vieni a salvarmi; Signore, vieni presto in mio aiuto» (Sal 70,2). Intercalano ogni salmo con la lode trinitaria del «Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo». Per corrispondere all’auspicio del papa Gregorio Magno, dispongono che la salmodia sia cantata assieme nelle chiese, nei monasteri e nelle case private. Concludono la liturgia con una preghiera e una benedizione.

La preghiera salmica nel monachesimo, negli istituti religiosi e nella Chiesa

I primi eremiti d’Oriente memorizzano tutto il Salterio, per evocarlo personalmente nell’arco di una giornata. I monaci invece si radunano negli orari stabiliti e assieme cantano i salmi, riferendoli a tutta la vita di Gesù, specialmente alla sua passione, morte, risurrezione ed esaltazione .
I monaci d’Occidente apprendono il metodo di preghiera dagli orientali e applicano il significato dei salmi alla esodo pasquale di Gesù. Infatti, commentando il versetto salmico «come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 41,2) san Giovanni Cassiano conferisce la seguente interpretazione cristologica: «In queste parole si può comprendere più spiritualmente un’allusione a quel sacrificio della sera, compiuto dal Signore e Salvatore durante l’ultima Cena… oppure a quello stesso sacrificio che …offrì alla sera» sul Golgota .
San Benedetto di Norcia insegna ai monaci che il Salterio è il principale libro di preghiera. Ritma la loro giornata sull’ascolto della Parola di Dio, sulla preghiera corale e sul lavoro. Programma che cantino tutti i salmi nel corso di una settimana.
I legislatori successivi considerano la salmodia delle Ore canoniche la principale attività spirituale del cristiano. Rilevano che essa distoglie dalle effimere vanità, suscita il desiderio di riparare il male, induce a camminare dietro a Gesù e incrementa la speranza teologale. Inventano l’orologio meccanico, per sincronizzare i ritmi della preghiera, del lavoro e del riposo.
San Bernardo, grande maestro di contemplazione, esorta i monaci di prestare la massima attenzione al canto dei salmi, di vivacizzarlo e di unire ad ogni Ora canonica un particolare stato d’animo: la vigilanza per accogliere l’arrivo del nuovo giorno, il pentimento per le conseguenze del peccato, la compassione per la morte di Gesù e la gioia per la sua gloriosa risurrezione.
Il benedettino Goscelin di Sant-Bertin, guida esperta nella preghiera, propone di dedicare tutte le ore della giornata a un episodio della passione del Signore.
San Francesco d’Assisi adotta il Breviario della curia romana. Esorta i suoi frati e le suore claustrali ad onorare, a benedire e a supplicare Dio, servendosi dei salmi. Compone un Ufficio della passione del Signore e vi inserisce un’antifona, che echeggia la sua regola di vita. Ricevute le stimmate, contempla nei salmi i momenti dolorosi e gloriosi di Gesù.
Santa Chiara educa le novizie a contemplare di Gesù, ricorrendo alla lettura dei salmi. Lei stessa «tra le ore del giorno, di solito a Sesta e a Nona, è più compresa in Dio, per immolarsi con il Signore immolato» .
San Bonaventura, divenuto generale dei Frati Minori, amplia e perfeziona l’Ufficio della passione del Signore, approntato da san Francesco . Raccomanda ad ognuno di loro: «Medita come per te digiunò, ebbe fame e sete, lavorò e si stancò. Per te pianse, sudò sangue, ti alimentò con il suo santissimo Corpo e preziosissimo Sangue. Medita come per te fu schiaffeggiato, sputacchiato e deriso e flagellato. Non dimenticare che è stato crocifisso per te, ricoperto di piaghe e ucciso con una morte orrenda e amarissima. In questo modo ti ha redenta» .
In seguito i religiosi perfezionano i metodi di meditazione, nella quale selezionano i propri pensieri, giudicano i loro atti, suscitano la conversione, incrementano la padronanza interiore e si dispongono a pregare più intensamente. Inoltre pubblicano libri di orazione e di meditazione sulla passione, morte e risurrezione del Signore. Compilano anche delle filastrocche orecchiabili, per disporre l’orante ad immedesimarsi nell’annientamento di Gesù e nelle continue sofferenze della Chiesa. Accanto alla preghiera liturgica, divenuta un ufficio clericale, sviluppano la pratica delle devozioni personali.
Giovanni Ruysbroeck introduce l’Orologio della passione del Signore nel quale ad ogni ora del giorno dà delle indicazioni commemorative, che partono della lavanda dei piedi dei discepoli e terminano con la sepoltura di Gesù .
La badessa agostiniana, santa Chiara da Montefalco, insignita di visioni estatiche, osserva l’indicazione di Ruisbroeck. A sua volta prescrive alle sue monache: «Dovete sempre meditare la passione di Cristo. All’inizio della giornata fate memoria della flagellazione di Gesù; all’ora prima, dell’Ecce Homo; all’ora terza, di Gesù che porta la croce; all’ora sesta, di Gesù crocifisso; all’ora nona, della morte di Gesù; a Compieta, della sepoltura di Gesù. Durante le altre ore, dell’incoronazione di spine, delle sofferenze di Maria Vergine» .
Passano alcuni secoli e mons. Tommaso Struzzieri passionista, accoglie lo schema della cronologia della passione menzionata e nell’opuscolo dei suoi propositi scrive: «Per recitare con applicazione il s. Officio lo distribuirò sopra la Passione di Gesù Cristo nella seguente maniera. Nel primo notturno penserò al sudore di sangue di Gesù nell’orto, nel secondo notturno alla prigionia dolorosa di Gesù, nel terzo allo strapazzo che ebbe Gesù dall’orto a Gerusalemme. Nelle laudi alle pene sofferte da Gesù allorché fu trascinato in diversi tribunali. A prima alla flagellazione. A terza alla coronazione di spine. A sesta alla crocifissione, a nona alla morte di croce; e a vespro la sepoltura. A compieta al dolore di Maria Santissima, che se ne ritornò a casa senza il Suo Figlio» .
In questo periodo qualche autore tenta di introdurre il popolo nei ritmi della preghiera liturgica, inventando delle preghiere sostitutive al Breviario come le Coroncine e i Piccoli Uffici Votivi della passione di Gesù e della compassione di Maria. Sollecita pertanto il popolo a ricordare la cronologia della passione di Gesù e gli eventi posteriori, così elencarli: l’orazione e la cattura; i processi, presieduti da Caifa e da Pilato; la flagellazione, l’incoronazione di spine e la salita al Calvario; la crocifissione e la diffusione delle tenebre; la morte e i fenomeni tellurici; la deposizione dalla croce e la sepoltura; la risurrezione e le apparizioni; l’effusione dello Spirito Santo; la predicazione apostolica e l’attesa dell’incontro finale con il Signore.
Non ottiene ottimi risultati, perché i fedeli laici preferiscono pregare nella loro lingua e praticare le proprie devozioni. Svanisce quindi nelle loro coscienze il significato teologico delle singole Ore canoniche. Rimane tuttavia in vigore il Breviario di Pio V, pubblicato nel 1568 per il clero, per i monaci e per i religiosi.
L’introduzione della lingua nazionale a norma del Concilio Ecumenico Vaticano II risolve il problema della preghiera comune, ordinata ad inserire l’orante nella storia salvifica, a contemplare le opere della nostra redenzione, a santificare tutto il corso del giorno e a intercedere per le necessità di tutti gli uomini. Nel 1971 Paolo VI promulga il nuovo Ufficio Divino, che completa il rinnovamento della celebrazione corale, attenendosi all’indole festiva o penitenziale di ogni ricorrenza.
Nei giorni domenicali e festivi l’Ufficio dà più spazio ai salmi che annunciano il passaggio di Gesù dalla morte alla vita gloriosa e rispondono alle attese sia di Dio che degli uomini. Nei venerdì conferisce più rilevanza ai salmi, che commemorano le opere salvifiche di Dio ed evocano le sofferenze di Gesù. Reca maggiore rilievo al triduo pasquale, nel quale la Chiesa in un clima di fervida preghiera rivive solennemente l’esodo pasquale di Gesù, si associa ai suoi sentimenti, entra nel processo storico salvifico di Dio e incrementa il desiderio di salvezza.
Le citazioni bibliche delle Lodi invitano a contemplare la risurrezione e ad offrire a Dio le fatiche della giornata. I testi biblici dei Vespri contengono allusioni o riferimenti espliciti alla passione del Signore. Ricordano con insistenza le sue sofferenze e quelle del prossimo. Esortano tutti gli oranti a rendere grazie a Dio per i suoi meravigliosi interventi nella storia.

COSE DA BUTTARE

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COSE DA BUTTARE

Buttiamo via i mormorii
Cosa c’è di peggio in una Chiesa che dei credenti che mormorano? Si lamentano di tutto e di tutti, non gli va bene assolutamente niente. Loro stessi non fanno nulla ma giudicano severamente l’operato di chi s’impegna per l’opera di Dio. La Scrittura ci fa un identikit dei mormoratori: « Sono dei mormoratori, degli scontenti; camminano secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce cose incredibilmente gonfie, e circondano d’ammirazione le persone per interesse » (Giuda 1:16).
Dio c’invita a buttare via dal nostro cuore i mormorii: « Non mormorate, come alcuni di loro mormorarono, e perirono colpiti dal distruttore » (1 Corinzi 10:10).
Ogni credente desideroso di fare la volontà di Dio, deve fare ogni cosa senza mormorii: « Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute » (Filippesi 2:14).

Buttiamo via le nostre giustificazioni
Se abbiamo la tendenza a giustificare le nostre debolezze e l’amore per le cose del mondo, smettiamola! Il Seme, cioè la Parola di Dio che è caduto fra le spine, rappresenta coloro che hanno udito, ma se ne vanno e restano soffocati dalle cure e dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non arrivano a maturità: « Quello che è caduto tra le spine sono coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità » (Luca 8:14).
Quante scuse a volte troviamo, per giustificare le nostre debolezze: « Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: « Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi ».Un altro disse: « Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi ». Un altro disse: « Ho preso moglie, e perciò non posso venire » (Luca 14:18-20).
Buttiamo via le nostre giustificazioni e l’amore per le cose del mondo: « Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno » (1 Giovanni 2:15-17).

Buttiamo via tutte quelle abitudini che non ci permettono di leggere e meditare la Parola di Dio
Talvolta ci sono abitudini che ci tolgono il tempo per la lettura e la meditazione della Parola di Dio. Ricordiamoci che senza cibo e senza acqua, l’uomo muore. Allo stesso modo, senza la Parola di Dio, l’uomo è destinato alla morte spirituale. Colui che trascura la Parola di Dio, vede il suo cuore indurirsi giorno dopo giorno: « Perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile, sono divenuti duri d’orecchi, e hanno chiuso gli occhi, affinché non vedano con gli occhi e non odano con gli orecchi, non comprendano con il cuore, non si convertano, e io non li guarisca » (Atti 28:27). Non è forse vero che mentre l’uomo parla a Dio attraverso la preghiera, Dio parla all’uomo attraverso la Sua Parola? Dio vuole comunicare la Sua volontà: « Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai » (Giosuè 1:8). È Dio che dette questo consiglio a Giosuè che resta valido per ogni generazione. Deve essere presente in ogni sincero credente questo desiderio: « Mi alzo prima dell’alba e grido; io spero nella tua parola. Gli occhi miei prevengono le veglie della notte, per meditare la tua parola » (Salmo 119:147,148).
Quanto tempo dedichiamo alla TV? Quanto tempo perdiamo in cose futili ed inutili? Torniamo alla Parola di Dio se vogliamo vedere l’aurora: « Alla legge! Alla testimonianza! » Se il popolo non parla così, non vi sarà per lui nessuna aurora! » (Isaia 8:20).

Buttiamo via gli aspetti negativi del nostro carattere
Un’espressione che l’apostolo Paolo usa al riguardo è: « Gettare via »: « Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! » (Efesini 4:31).
Il nostro temperamento deve essere controllato dallo Spirito Santo. Nel momento in cui ciò non avviene, ecco manifestarsi i frutti della carne: « Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutez-za, dolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni,
sètte, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio » (Galati 5:19-21). Un temperamento controllato dallo Spirito Santo, produrrà invece il frutto dello Spirito: « Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c’è legge. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche guidati dallo Spirito » (Galati 5:22-25).
Non giustifichiamoci dietro la famosa frase: « Questo è il mio carattere », perché dicendo questo, affermiamo che Dio non può fare più nulla per noi. Dio ci ama così come siamo ma ci ama così tanto da non lasciarci come siamo: « Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato » (1 Corinzi 9:26,27).

Buttiamo via la nostra ansia
Quanta apprensione si nasconde talvolta nella nostra vita, che facilmente si trasforma in ansia. Domandiamoci: « Siamo o no figli di Dio? Dio è nostro Padre? » Se soltanto rispondiamo di si a queste domande, non dobbiamo temere di nulla: « Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: « Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo? » Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno » (Matteo 6:25-34).
Notiamo in questi versetti l’invito del Signore: « Non siate in ansia ». Gettiamo via da noi ogni sollecitudine ansiosa, perché Dio si prende cura di noi: « Io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto! Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto », dice il Signore. « Il tuo salvatore è il Santo d’Israele » (Isaia 41:13,14).

Buttiamo via la nostra pigrizia
A volte capita d’incontrare cristiani particolarmente pigri: hanno voglia di non fare nulla. La pigrizia è un pericolo da non trascurare. Il grande re Davide cadde in un vortice di peccati a causa della pigrizia: « L’anno seguente, nella stagione in cui i re cominciano le guerre, Davide mandò Ioab con la sua gente e con tutto Israele a devastare il paese dei figli di Ammon e ad assediare Rabba; ma Davide rimase a Gerusalemme. Una sera Davide, alzatosi dal suo letto, si mise a passeggiare sulla terrazza del
palazzo reale; dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno. La donna era bellissima » (2 Samuele 11:1,2).
Se la pigrizia trovò posto nel cuore di Davide, può trovarla anche nel nostro e in quel caso grande sarà la nostra rovina: « Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato? Quando ti sveglierai dal tuo sonno? Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare. La tua povertà verrà come un ladro, la tua miseria, come un uomo armato » (Proverbi 6:9-11).
La via del pigro conduce velocemente alla povertà come dimostrano i seguenti versetti:
- Proverbi 13:4 « Il pigro desidera, e non ha nulla, ma l’operoso sarà pienamente soddisfatto.
- Proverbi 15:19 « La via del pigro è come una siepe di spine, ma il sentiero degli uomini retti è piano ».
- Proverbi 19:15,24 « La pigrizia fa cadere nel torpore, e la persona indolente patirà la fame ». Il pigro tuffa la mano nel piatto e non fa neppure tanto da portarla alla bocca ».
- Proverbi 20:4 « Il pigro non ara a causa del freddo; alla raccolta verrà a cercare, ma non ci sarà nulla ».
- Proverbi 21:25 « I desideri del pigro lo uccidono, perché le sue mani rifiutano di lavorare ».
- Proverbi 26:15 « Il pigro tuffa la mano nel piatto; e gli sembra fatica riportarla alla bocca ».
- Ecclesiaste 10:18 « Per la pigrizia sprofonda il soffitto; per la rilassatezza delle mani piove in casa ».
Buttiamo via da noi la pigrizia: « Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore » (Romani 12:11).
Rimbocchiamoci le maniche perché le campagne sono bianche da mietere e gli operai sono pochi: « E diceva loro: « La mèsse è grande, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il Signore della mèsse perché spinga degli operai nella sua mèsse » (Luca 10:2).

Buttiamo via i giudizi
Gesù dice – e la nostra esperienza lo ha più volte dimostrato – che è più facile vedere la pagliuzza che è nell’occhio del fratello, che la trave che è nel nostro occhio, è più facile che ingoiamo il cammello, mentre filtriamo il moscerino. I difetti degli altri sono come gli anabbaglianti della macchina: sono sempre quelli degli altri che ci danno fastidio: « Non giudicate, affinché non siate giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi. Perché guardi la
pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? O, come potrai tu dire a tuo fratello: « Lascia che io ti tolga dall’occhio la pagliuzza », mentre la trave è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dal tuo occhio la trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello » (Matteo 7:1-5). È facile giudicare gli altri, più difficile giudicare noi stessi: « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia. Così anche voi, di fuori sembrate giusti alla gente; ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità » (Matteo 23:27,28).
L’ipocrita era una maschera teatrale, dietro la quale si nascondeva l’attore. Buttiamo via da noi questa maschera, mostriamo il nostro vero volto, perché solo così saremo meno severi con gli altri. Talvolta capita che proprio quando viviamo una vita non conforme alla volontà di Dio, che diventiamo troppo severi con gli altri, come accadde a Davide: « Davide si adirò moltissimo contro quell’uomo e disse a Natan: « Com’è vero che il Signore vive, colui che ha fatto questo merita la morte e pagherà quattro volte il valore dell’agnellina, per aver fatto una cosa simile e non aver avuto pietà ». Allora Natan disse a Davide: « Tu sei quell’uomo! » (2 Samuele 12:5-7).
Impara ad essere tollerante verso gli sbagli degli altri come lo sei con te stesso e soprattutto guarda gli altri non dimenticando che Gesù è morto anche per loro.

Buttiamo via la gelosia e l’invidia
Secondo un’enciclopedia, la gelosia è: « Invidia, rivalità », mentre l’invidia è: « Sentimento di rancore e d’astio per la felicità o le qualità degli altri ».
La gelosia che porta alla contesa è prova di carnalità nella chiesa: « Fratelli, io non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma ho dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in Cristo. Vi ho nutriti di latte, non di cibo solido, perché non eravate capaci di sopportarlo; anzi, non lo siete neppure adesso, perché siete ancora carnali. Infatti, dato che ci sono tra di voi gelosie e contese, non siete forse carnali e non vi comportate come qualsiasi uomo »? (1 Corinzi 3:1-3). Invidia e gelosia verso dei fratelli sono dunque sentimenti negativi presenti in coloro che non gioiscono del bene e delle qualità altrui, ma se ne irritano perché le vorrebbero per sé. È mancanza di amore e di sottomissione a Dio nello accettare la « misura della fede » che Lui ci ha assegnata. Gelosia per un dono di predicazione che può farci ombra, per una famiglia ordinata e sottomessa a Dio, per un’intesa profonda fra coniugi, per l’apprezzamento che altri fratelli ottengono.
Invidia e gelosia, finché non generano contese e altri guai, possono non trasparire all’esterno, ma rodono il nostro rapporto col fratello e rovinano la nostra vita spirituale.
Un esame interessante sarebbe accertare quando proviamo nel nostro cuore (spesso senza rendercene chiaramente conto) il compiacimento per le disgrazie degli altri. Se riusciamo ad essere sinceri fino in fondo, credo che dovremmo vergognarci e gridare al Signore. Tendenziosità, sospetto, cattiva intenzione presunta negli altri, modo negativo di considerare il fratello, compiacimento per gli errori altrui: tutti sentimenti purtroppo diffusi che restano dentro, ma che avvelenano sovente i rapporti e preparano a guasti più clamorosi.

Buttiamo via l’ira e la collera
Quest’impeto dell’animo improvviso e violento che si rivolge contro qualcuno o qualcosa, quest’infiammarsi, accendersi, avvampare, ardere d’ira, non deve essere presente nella vita del credente: « Sia ogni uomo lento all’ira, perché l’ira dell’uomo non mette in opera la giustizia di Dio » (Giacomo 1:19).
L’ira dell’uomo è sempre vista negativamente. Nella parabola del figlio prodigo, il fratello maggiore si adira e non vuole entrare nel banchetto d’amore: « Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose al padre: « Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato » (Luca 15:28-30).
L’ira è sempre condannata da Gesù: « Chiunque s’adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale » (Matteo 5:22).
Ira e collera sono fra le cose da deporre: « Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene » (Colossesi 3:8).
Le parole di Efesini 4:26: « Adiratevi e non peccate, il sole non tramonti sopra la vostra collera », non esortano all’ira, significano piuttosto: « Mostrate sdegno, però, attenti a non peccare » (TILC) e non rimanete in quest’atteggiamento. « Sia tolta via ogni ira » (v. 31).

Fruga negli angoli più remoti della tua vita, forse si è ammucchiata tanta spazzatura: non risparmiarla, buttala via.

IL PIANTO DI MARIA E IL NOSTRO PIANTO

http://www.stpauls.it/madre06/0607md/0607md03.htm

IL PIANTO DI MARIA E IL NOSTRO PIANTO

DI STEFANO DE FIORES

L’Addolorata che piange sul Figlio morto è paradigma particolarmente efficace del senso cristiano del dolore e del nostro pianto.
Dobbiamo ammettere che l’evangelista Giovanni non si preoccupa minimamente di farci comprendere la situazione interiore della Madre di Gesù né di comunicarci il suo eventuale pianto. In questo senso ha ragione Sant’Ambrogio quando osserva: « Leggo che [Maria] era presente, non leggo che era piangente ». Infatti, resta fuori della prospettiva giovannea offrire informazioni di ordine psicologico o di cronaca: egli mira soprattutto al significato storico-salvifico.
Tuttavia, tre argomenti ci conducono a ricuperare il pianto di Maria: il ricorso alle usanze ebraiche di cordoglio funebre, la profezia della spada nell’anima e il paragone della donna partoriente cui ricorre Gesù, per parlare agli Apostoli della ripercussione in loro del mistero pasquale.
Le lacrime di « Nostra Signora della Esperanza », Macarena di Siviglia [Spagna] e nel riquadro
A. Mantegna, Presentazione di Gesù al Tempio e profezia di Simeone – Galleria degli Uffizi, Firenze.

Le lacrime nella Bibbia
Poiché le lacrime appartengono alla natura degli esseri umani, esse caratterizzano parecchi personaggi biblici, uomini e donne; e, contrariamente alla filosofia che si disinteressa delle lacrime, il Giudaismo le considera essenziali.
Le lacrime di Giacobbe, quelle di Esaù, di Lia o ancora di Giuseppe, per esempio, poi quelle dei Profeti, soprattutto d’Isaia e di Geremia, ma anche quelle del Salmista, incitano così a riflettere sulle diverse emozioni che esse significano.
Il pianto non risparmia Dio, cui si attribuiscono lacrime segrete, e neppure il Messia che secondo il Talmud e lo Zohar « piange sul male che regna nel mondo senza rassegnarvisi ». Ne consegue che non tutte le lacrime della Bibbia sono ascrivibili al cordoglio funebre. Secondo il ‘chassidismo’ esse sgorgano dall’incontro del cuore spezzato dalla tristezza e dalle prove con il Dio vicino che si lascia sperimentare. « Esse svelano una verità umana decisiva: la presenza dell’infinito nel finito », perciò sono una breccia e insieme una grazia.
Mentre il silenzio si consuma nella solitudine, piangere è sempre rivolgersi a qualcuno, sia pure assente o sconosciuto. Le lacrime vegliano su questa destinazione, interpellano una relazione, sperano una visita.
Le lacrime di cui si parla nella Bibbia sono dunque polisemiche. Denotano la situazione religiosa del fedele israelita che vive in esilio nell’incomprensione dell’ambiente per cui si consuma nella tristezza e nel pianto: « Le lacrime sono mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: ‘Dov’è il tuo Dio?’  » (Sal 42, 4). Oppure esternano la commozione, come nel caso di Giuseppe che scoppia in lacrime nell’abbracciare i suoi fratelli e quando il padre lo benedice: la sua sensibilità al bene lo fa piangere [cfr. Gen 45, 2.14-15; 50, 1].
Più spesso, le lacrime sono legate al cordoglio funebre. Il profondo dolore per la morte di un congiunto si esprime nel pianto e nel lamento, come avviene per Abramo che piange Sara [cfr. Gen 23, 1-2] o per Giacobbe che « fece lutto sul figlio [Giuseppe] per molti giorni » (Gen 37, 34-35). Il lutto israelitico non viene combattuto, se non nelle forme più aspre che includono incisioni corporali [cfr. Dt 14, 1], ma diviene un’istituzione con l’intervento delle prefiche o lamentatrici, i cui lamenti venivano trasmessi oralmente o in apposite raccolte: « Attenti, chiamate le lamentatrici, che vengano! […] Accorrano e facciano presto, per intonare su di noi un lamento. Sgorghino lacrime dai nostri occhi, il pianto scorra dalle nostre ciglia » (Ger 9, 16-17).

« Beati quelli che piangono »
A noi interessa legare il pianto di Maria a quello delle madri d’Israele, alle lacrime di cordoglio sparse secondo l’uso ebraico sui loro figli uccisi. L’ecatombe della grande deportazione a Babilonia scatena le lacrime incontenibili di Rachele: « Una voce si ode in Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta di essere consolata perché non sono più » (Ger 31, 15).
Il Talmud associa il pianto di Rachele alle due lacrime che scorrono dagli occhi di Dio quando pensa ai suoi figli esiliati; esse, cadendo in mare, producono un rumore simile a un terremoto che si estende alle estremità della terra. I figli di Rachele sono i figli di Dio stesso: entrambi si rifiutano di rassegnarsi alla loro scomparsa in paese nemico. Il pianto di Rachele assume un carattere riparatorio e finisce per essere ascoltato da Dio che le fa una promessa consolatrice: « Dice il Signore: ‘Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini’  » (Ger 31, 16-17).
De Martino nota che « la crisi decisiva del lamento funebre come rito pagano ha luogo soltanto con l’avvento del Cristianesimo », poiché con la morte e risurrezione di Cristo il morire umano è sottratto alla disperazione.
Già durante la sua vita terrena Gesù, pur offrendo l’esempio di uno scoppio di pianto al sepolcro di Lazzaro [cfr. Gv 11, 35], e facendo perfino l’elogio del pianto: « Beati quelli che piangono, perché saranno consolati » (Mt 5, 5); « Beati voi, che ora piangete » (Lc 6, 21), frena i tradizionali lamenti della « moltitudine in clamore » presso la figlia morta del capo della Sinagoga: « Ritiratevi! » [cfr. Mt 9, 24], così pure ingiunge affettuosamente alla vedova di Naim: « Non piangere! » (Lc 7, 13).
Infine, sulla via del Calvario, Gesù rimprovera le donne che lo seguono battendosi il petto e facendo lamenti su di lui: « Non piangete su di me… » (Lc 23, 28), spostando il pianto dalla morte fisica a quella morale causata dal peccato.

Le lacrime di Maria
Considerando il contesto dell’Antico Testamento e della tradizione ebraica, che permetteva ed esigeva il pianto funebre purché non parossistico, ed insieme tenendo conto del freno posto da Gesù alle lacrime sui defunti e su se stesso, possiamo concludere che Maria sotto la Croce si trovava in una posizione paradossale.
Doveva piangere secondo l’uso ebraico e in forza della pressione naturale del sentimento materno, eppure doveva tener conto del monito del Figlio alle donne, con le quali si trovava verosimilmente anche lei sulla via del Calvario: « Non piangete su di me… » (Lc 23, 28).
Da una parte si vedeva inclusa nella profezia di Zaccaria, che Giovanni applicherà a Cristo crocifisso [cfr. Gv 19, 37], la quale prevedeva ed autorizzava un pianto universale su di lui, a cominciare dalla madre che prorompe in lacrime per la morte violenta del suo primogenito: « Guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito » (Zac 12, 10).
E dall’altra parte Maria si sente spinta dalle parole del Figlio a dirottare l’oggetto delle sue lacrime da Gesù innocente al mondo peccatore, in particolare a Gerusalemme ingrata e chiusa alla visita divina su cui Gesù stesso aveva pianto [cfr. Lc 19, 4].
Il piangere di Maria evita l’esagerazione e il difetto, e si risolve in un pianto sommesso e allargato alle dimensioni del mondo. Ella piange il suo primogenito secondo l’uso ebraico, evitando il parossismo, ma esterna con le lacrime il suo dolore di madre colpita nel più caro degli affetti.
Maria piange per un comprensibile sfogo della natura, ma si eleva al piano salvifico seguendo Gesù nell’orientare il pianto verso il peccato, causa della rovina dell’uomo ma di cui egli si è caricato per espiarlo. Ella si unisce al suo Unigenito offrendo le sofferenze per la redenzione del mondo.

Il pianto cristiano
Un simile pianto di Maria sconfigge in anticipo l’interpretazione stoica che le attribuisce un cuore impassibile e un ciglio asciutto, soprannaturalizzandola eccessivamente sia pure con l’intento d’immetterla nell’orbita storico-salvifica, ma rischiando di assimilarla al filosofo che rimane immoto anche se il mondo gli cade accanto. Ma esso neutralizza pure la corrente apocrifo-popolare, tradotta anche nelle espressioni artistiche medievali, che attribuisce a Maria il pianto funebre parossistico, con urla, lamenti, percussione del petto e graffi del volto, oppure l’attassamento [lo stato "di immobilità fisica che riflette un vero e proprio blocco psichico più o meno accentuato"].
Generalmente, la Chiesa batte una via intermedia: esclude il parossismo e l’attassamento e attribuisce a Maria una sofferenza profonda, esternata in un pianto sommesso. è la linea seguita dallo Stabat Mater, in cui l’interiore patire della Vergine « si ravviva e si umanizza in un contemplare velato di lacrime ». Il pianto di Maria non è disperato, non solo perché sa che il Figlio muore per la salvezza degli uomini, ma pure perché crede nella promessa della risurrezione. Maria diviene così il modello del pianto cristiano, un paradigma particolarmente efficace per cristianizzare il cordoglio funebre. Da San Giovanni Crisostomo a San Luca di Bova ritorna la polemica contro il perdurare del costume pagano del cordoglio funebre. Più che prediche e canoni occorreva un modello con funzione trasfiguratrice del lamento rituale.
Il grande strumento pedagogico del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte fu la figura della Mater dolorosa, così integralmente umana nel suo dolore per il Figlio morto,  tuttavia così interiore e raccolta nel suo silenzioso « stare » velato di lacrime davanti alla Croce.

 

BENEDETTO XVI: CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (2011)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20110417_palm-sunday_it.html

CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro
XXVI Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica, 17 aprile 2011

Cari fratelli e sorelle,
cari giovani!

Ci commuove nuovamente ogni anno, nella Domenica delle Palme, salire assieme a Gesù il monte verso il santuario, accompagnarLo lungo la via verso l’alto. In questo giorno, su tutta la faccia della terra e attraverso tutti i secoli, giovani e gente di ogni età Lo acclamano gridando: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”
Ma che cosa facciamo veramente quando ci inseriamo in tale processione – nella schiera di coloro che insieme con Gesù salivano a Gerusalemme e Lo acclamavano come re di Israele? È qualcosa di più di una cerimonia, di una bella usanza? Ha forse a che fare con la vera realtà della nostra vita, del nostro mondo? Per trovare la risposta, dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa Gesù stesso abbia in realtà voluto e fatto. Dopo la professione di fede, che Pietro aveva fatto a Cesarea di Filippo, nell’estremo nord della Terra Santa, Gesù si era incamminato come pellegrino verso Gerusalemme per le festività della Pasqua. È in cammino verso il tempio nella Città Santa, verso quel luogo che per Israele garantiva in modo particolare la vicinanza di Dio al suo popolo. È in cammino verso la comune festa della Pasqua, memoriale della liberazione dall’Egitto e segno della speranza nella liberazione definitiva. Egli sa che Lo aspetta una nuova Pasqua e che Egli stesso prenderà il posto degli agnelli immolati, offrendo se stesso sulla Croce. Sa che, nei doni misteriosi del pane e del vino, si donerà per sempre ai suoi, aprirà loro la porta verso una nuova via di liberazione, verso la comunione con il Dio vivente. È in cammino verso l’altezza della Croce, verso il momento dell’amore che si dona. Il termine ultimo del suo pellegrinaggio è l’altezza di Dio stesso, alla quale Egli vuole sollevare l’essere umano.
La nostra processione odierna vuole quindi essere l’immagine di qualcosa di più profondo, immagine del fatto che, insieme con Gesù, c’incamminiamo per il pellegrinaggio: per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. È il cammino a cui Gesù ci invita. Ma come possiamo noi tenere il passo in questa salita? Non oltrepassa forse le nostre forze? Sì, è al di sopra delle nostre proprie possibilità. Da sempre gli uomini sono stati ricolmi – e oggi lo sono quanto mai – del desiderio di “essere come Dio”, di raggiungere essi stessi l’altezza di Dio. In tutte le invenzioni dello spirito umano si cerca, in ultima analisi, di ottenere delle ali, per potersi elevare all’altezza dell’Essere, per diventare indipendenti, totalmente liberi, come lo è Dio. Tante cose l’umanità ha potuto realizzare: siamo in grado di volare. Possiamo vederci, ascoltarci e parlarci da un capo all’altro del mondo. E tuttavia, la forza di gravità che ci tira in basso è potente. Insieme con le nostre capacità non è cresciuto soltanto il bene. Anche le possibilità del male sono aumentate e si pongono come tempeste minacciose sopra la storia. Anche i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità.
I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà.
Dopo la liturgia della Parola, all’inizio della Preghiera eucaristica durante la quale il Signore entra in mezzo a noi, la Chiesa ci rivolge l’invito: “Sursum corda – in alto i cuori!” Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo “cuore” deve essere elevato. Ma ancora una volta: noi da soli siamo troppo deboli per sollevare il nostro cuore fino all’altezza di Dio. Non ne siamo in grado. Proprio la superbia di poterlo fare da soli ci tira verso il basso e ci allontana da Dio. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce. Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile, dice oggi la seconda lettura. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto.
Il Salmo processionale 24, che la Chiesa ci propone come “canto di ascesa” per la liturgia di oggi, indica alcuni elementi concreti, che appartengono alla nostra ascesa e senza i quali non possiamo essere sollevati in alto: le mani innocenti, il cuore puro, il rifiuto della menzogna, la ricerca del volto di Dio. Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se sono unite a questi atteggiamenti – se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore. Tutti questi elementi dell’ascesa sono efficaci soltanto se in umiltà riconosciamo che dobbiamo essere attirati verso l’alto; se abbandoniamo la superbia di volere noi stessi farci Dio. Abbiamo bisogno di Lui: Egli ci tira verso l’alto, nell’essere sorretti dalle sue mani – cioè nella fede – ci dà il giusto orientamento e la forza interiore che ci solleva in alto. Abbiamo bisogno dell’umiltà della fede che cerca il volto di Dio e si affida alla verità del suo amore.
La questione di come l’uomo possa arrivare in alto, diventare totalmente se stesso e veramente simile a Dio, ha da sempre impegnato l’umanità. È stata discussa appassionatamente dai filosofi platonici del terzo e quarto secolo. La loro domanda centrale era come trovare mezzi di purificazione, mediante i quali l’uomo potesse liberarsi dal grave peso che lo tira in basso ed ascendere all’altezza del suo vero essere, all’altezza della divinità. Sant’Agostino, nella sua ricerca della retta via, per un certo periodo ha cercato sostegno in quelle filosofie. Ma alla fine dovette riconoscere che la loro risposta non era sufficiente, che con i loro metodi egli non sarebbe giunto veramente a Dio. Disse ai loro rappresentanti: Riconoscete dunque che la forza dell’uomo e di tutte le sue purificazioni non basta per portarlo veramente all’altezza del divino, all’altezza a lui adeguata. E disse che avrebbe disperato di se stesso e dell’esistenza umana, se non avesse trovato Colui che fa ciò che noi stessi non possiamo fare; Colui che ci solleva all’altezza di Dio, nonostante la nostra miseria: Gesù Cristo che, da Dio, è disceso verso di noi e, nel suo amore crocifisso, ci prende per mano e ci conduce in alto.
Noi andiamo in pellegrinaggio con il Signore verso l’alto. Siamo in ricerca del cuore puro e delle mani innocenti, siamo in ricerca della verità, cerchiamo il volto di Dio. Manifestiamo al Signore il nostro desiderio di diventare giusti e Lo preghiamo: Attiraci Tu verso l’alto! Rendici puri! Fa’ che valga per noi la parola che cantiamo col Salmo processionale; cioè che possiamo appartenere alla generazione che cerca Dio, “che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe” (Sal 24,6). Amen. 

RISCOPRIRE IL SENSO DEL SACRIFICIO – Messaggio per la quaresima 2012 – Vescovo di Padova

http://www.diocesipadova.it/diocesi_di_padova/news___in_evidenza/00005483_Riscoprire_il_senso_del_sacrificio.html

RISCOPRIRE IL SENSO DEL SACRIFICIO

Messaggio per la quaresima 2012

Antonio Mattiazzo
Vescovo di Padova

Con il mercoledì delle Ceneri, il 22 febbraio, entriamo nel Tempo della Quaresima, il cui scopo è un ripensamento della nostra vita per prepararci a celebrare degnamente la Pasqua. È fortemente avvertito il bisogno di un cambiamento. Nella luce della fede si comprende che Dio stesso ci offre la grazia di un rinnovamento profondo e salutare della nostra vita.
In questo tempo di grave crisi economica sono risuonati frequentemente appelli ed esortazioni ad affrontare dei sacrifici, come necessari per una ripresa. In antecedenza, nell’era del benessere e del consumismo, si poteva ascoltare chi lamentava: “Si è perso il senso del sacrificio”. È un tema che vale la pena di meditare in questo tempo di Quaresima.
La parola ‘sacrificio’ è tipica del linguaggio religioso. Ma che cosa significa esattamente in tale contesto? E come si rapporta alla sfera profana?
Generalmente si pensa di saperlo, interpretando ‘sacrificio’ come equivalente di ‘rinuncia-privazione’ di qualche bene, di qualcosa che piace. Ma è proprio così?
Con questa riflessione vorrei dare una risposta a queste domande al fine di trovare il senso genuino di sacrificio, le sue motivazioni ideali e le sue applicazioni.
1. La parola sacrificio vuol dire letteralmente ‘sacrum facere’, rendere sacro qualcosa o qualcuno, offrendolo alla divinità. È da osservare che l’idea e la pratica del sacrificio si incontra nelle varie religioni, nell’Induismo, nel Buddismo Zen, nell’Islam e nelle cosiddette religioni naturali, seppure con accentuazioni e sfumature diverse. Si può dire che il sacrificio fa parte della storia dell’umanità, a cominciare da Caino e Abele (cfr. Gen 4,3-4), tanto che, secondo alcuni studiosi, le società sono fondate sul sacrificio. Da rilevare, inoltre, che i riti sacrificali rivestivano un carattere istituzionale-pubblico. I cristiani che rifiutavano di sacrificare agli dei, nell’Impero romano, erano condannati a morte.
Il sacrificio viene inteso, solitamente, come “immolazione di una vittima”, e questo ha a che vedere con la vita e con la morte. Lo scopo del sacrificio è, essenzialmente, la comunicazione con il Sacro, con la Divinità per adorarla e ottenere i suoi benefici.

2. Nell’Antico Testamento il sacrificio, collegato con il sacerdozio e il tempio, assume una notevole importanza, ed è regolato da una legislazione del culto sacrificale contenuta, specialmente, nei libri del Levitico e Numeri. I sacrifici sono di tipo diverso. L’“olocausto” si ha quando la vittima è bruciata totalmente, per cui tutto è offerto a Dio. Il sacrificio di “comunione” è l’offerta di lode, di devozione, di compimento di un voto a Dio. Vi è, poi, il sacrificio di “espiazione” per i peccati.
È da notare che, agli inizi dell’umanità, secondo la Bibbia, vigeva un regime vegetariano e il sacrificio consisteva in un’offerta di vegetali. Il passaggio ai sacrifici cruenti di animali viene interpretato dal fatto che l’umanità post-diluviana non era guarita dalla violenza, per cui l’abbattimento di animali le viene consentito, ma con la proibizione di consumo del sangue.
La Bibbia conosce la pratica dei sacrifici umani (cfr. Sal 106,37s.), ma essa è severamente proibita come pratica idolatrica. È questo il senso del “sacrificio di Abramo” (cfr. Gen 22,1-13): al posto del figlio Isacco, in obbedienza a Dio, egli sacrifica un ariete.
Dio, per mezzo di Mosè, prescrive al popolo di Israele:
«Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia» (Dt 18,9s.).
Importanza tutta particolare è il sacrificio pasquale dell’agnello immolato, per mezzo del quale il popolo di Israele è stato liberato dalla schiavitù, ha fatto l’alleanza con Dio ed è entrato nella Terra promessa. In questo sacrificio c’è l’unione del rito cruento (agnello immolato) e dell’offerta vegetale (pane e vino). Esso è un ‘memoriale’ da essere celebrato ogni anno.
Nello stesso tempo, i Profeti hanno elaborato una interpretazione personalizzata e spirituale del sacrificio mettendo in luce quello che doveva essere il suo valore profondo di obbedienza a Dio e di amore al prossimo. Samuele dice a Saul:
«Il Signoregradisceforsegliolocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio» (1Sam 15,22).
Il profeta Osea, con la stessa ispirazione, enuncia questa intenzione di Dio che sarà riproposta da Gesù stesso:
«Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6; cfr. Mt 9,13; 12,7).
Osea propone, anche, il “sacrificio di lode”:
«Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: “Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra”» (Os 14,3).
Questo senso del sacrificio viene espresso nei salmi:
«La mia preghiera stia davanti a te come incenso, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 141,2).
In questa stessa linea, è sacrificio davanti a Dio “il cuore contrito” nella confessione dei propri peccati:
«Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 51,18-19).

3. Il sacrificio di Cristo e dell’Eucaristia
È familiare al cristiano la figura di Gesù che sulla croce offre la sua vita come un sacrificio di redenzione. È l’“Agnello immolato” della Pasqua che porta a compimento e sostituisce la figura dell’agnello dell’antica alleanza. Viene crocifisso nell’ora in cui, nel tempio di Gerusalemme, si offrivano i sacrifici. Occorre che comprendiamo bene il senso genuino del sacrificio di Cristo sulla croce, che ha posto fine a tutti gli altri sacrifici.
Il sacrificio di Cristo consiste, essenzialmente e primariamente, nell’offerta di se stesso e della sua vita in obbedienza e amore a Dio Padre e a noi per la nostra salvezza. Con l’oblazione di se stesso, Gesù opera il passaggio dal sacrificio di cose esteriori a un’oblazione di sé esistenziale, che prende il centro della vita per donarlo a Dio e ai fratelli. Il sacrificio di Cristo è il dono totale di sé, della sua persona fino alla morte, dono ispirato da un amore senza misura, che va «fino all’estremo» (Gv 13,1).
In conseguenza della sua obbedienza a Dio e del suo amore, della sua solidarietà con noi peccatori, Cristo ha subìto e accettato la croce. Quindi, Cristo non ha scelto la sofferenza e la croce, – nel Getsemani ha pregato il Padre di allontanargli questo calice (cfr. Mt 26,39) – ma l’ha accettata come espressione di obbedienza e di amore. Il sacrificio di Cristo sulla croce, che ripara il rifiuto di Adamo e stabilisce la piena comunione con Dio e tra gli uomini, è avvenuto una volta per tutte e per tutti. Non ha senso che sia ripetuto. Il sacrificio della Santa Messa non è la ripetizione, ma la ripresentazione nel tempo e nello spazio, dell’unico sacrificio di Cristo.
Nella celebrazione dell’Eucaristia, che rende presente e attuale l’immolazione di Cristo sulla croce, la parola sacrificio ritorna con frequenza riferita a Cristo ma, anche, ai partecipanti:
«Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi.
… Questo è il mio sangue versato per voi».
E dopo la consacrazione, il celebrante prega:
«Egli faccia di noi un sacrificio perenne a Te gradito».

4. Il culto della vita: amore, obbedienza, carità, preghiera.
In virtù dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana e, soprattutto, partecipando all’Eucarestia, riceviamo la grazia di far passare nel nostro vissuto esistenziale l’atteggiamento di donazione di Gesù Cristo.
Le indicazioni del Nuovo Testamento vanno nella direzione, già indicata dai profeti, di una interiorizzazione del senso essenziale del sacrificio, da tradursi in atteggiamenti vitali verso Dio e verso il prossimo. Viene, quindi, proposto di rendere la vita una espressione liturgica, la liturgia della vita. Qui si vede una re-interpretazione della separazione tra sacro e profano. San Pietro così si esprime:
«Quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2,5).
Sacrificio spirituale è la preghiera, “sacrificio di lode”.
San Paolo propone analogamente un “culto spirituale” consistente nel “sacrificio vivente” che è l’offerta del proprio vissuto espresso dal corpo.
«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro cultospirituale» (Rm 12,1).
Parte integrante del “sacrificio spirituale” è l’esercizio della carità.
È interessante, in questa ottica, rilevare come san Paolo qualifichi la colletta delle comunità cristiane greche, a favore della Chiesa di Gerusalemme, come “attività liturgica”, come ‘Eucaristia’ (cfr. 2Cor 9,12).
Similmente egli denomina come ‘azione liturgica’ l’assistenza che gli ha prestato Epafrodito (cfr. Fil 2,25. Per significare l’assistenza si usa il termine “leiturgon”).
Sant’Agostino, in riferimento polemico con i sacrifici pagani, ha espresso con la sua acutezza il senso cristiano del sacrificio.
«Vero sacrificio – scrive – è ogni azione compiuta per unirsi a Dio in santa comunione, ossia riferita a quel sommo bene che ci può rendere veramente beati» (cfr. De civitate Dei, LX,6).
È l’uomo stesso, in quanto vive consacrato a Dio, ad essere un sacrificio vivente. Riferendosi al testo di Rm 12,1, che abbiamo citato, Agostino scrive che è un sacrificio la temperanza con cui trattiamo il nostro corpo. Sacrificio è soprattutto l’amore. Ancor più «la stessa anima diviene un sacrificio quando si rivolge a Dio per essere accesa dal fuoco del suo amore» (Ivi).
Con grande profondità, poi, Agostino considera come vero sacrificio le «opere di misericordia, sia verso noi stessi sia verso il prossimo, fatte in riferimento a Dio» (Ivi). Ne consegue – egli scrive – che «tutta la città redenta, cioè l’assemblea e la società dei Santi, viene offerta a Dio come sacrificio universale» (Ivi).
Agostino esprime qui la grandiosa visione del “Cristo totale” che unisce Capo e membra in un unico corpo e rende, quindi, i cristiani partecipi dello stesso sacrificio di Cristo: «Questo è il sacrificio dei cristiani» (Ivi).

5. Educare allo spirito del sacrificio
Sulla base delle considerazioni che abbiamo espresso, è possibile e importante recuperare il senso e il valore del sacrificio, anche se non è facile cambiare mentalità. Anche noi cristiani non sempre l’abbiamo compreso e proposto nel suo genuino significato. Notiamo, anzitutto, che l’evoluzione socio-culturale ha condotto, con il processo di secolarizzazione, a una visione della vita di tipo “profano” che astrae dalla religione e dal sacro. In questa ottica, il sacrificio, nel senso religioso sacrale, non appare più significante. Nella concezione secolarizzata il termine viene assunto come impegno e rinuncia a qualcosa e, persino, alla vita stessa per una “nobile causa”: la Patria, lo Stato, per ottenere uno status sociale etc. Quanto alla concezione cristiana del sacrificio, come s’è detto, essa lo ha interpretato in chiave personalistica spirituale ed etica, ma in riferimento, anzitutto, a Dio.
Il sacrificio, interpretato alla luce dei profeti e di Gesù, significa, essenzialmente, l’offerta, il dono di se stessi, della propria persona a Dio e al prossimo. Possiamo dire che è l’applicazione del 1° comandamento: «Io sono il Signore tuo Dio, […] non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20,2s.; Dt 5,6s.), oppure, come l’esprime il Vangelo: «..adorare il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).
Dare il primato a Dio significa riconoscere la Sorgente della vita e dei valori, rende liberi dalla schiavitù degli idoli, che sono falsi assoluti, infonde luce di sapienza per valutare rettamente la realtà.
Il senso genuino, l’ispirazione e l’anima del sacrificio è l’amore, il dono di sé che, in un mondo caratterizzato dalla menzogna, dall’egoismo, dalla violenza, comporta rinuncia e sofferenze, anche dolorose.
Il cristianesimo propone una concezione della persona che si realizza pienamente nel dono di sé (cfr. Concilio Vaticano II, GS, 24), sacrifica se stessa per gli altri, non sacrifica gli altri per il proprio benessere. Una conseguente affermazione della fede cristiana, consona alla verità che «Dio è amore» (1Gv 4,8), è che «la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento dell’amore» (GS, 38).
Il Papa Benedetto XVI, nell’Enciclica “Caritas in veritate”, ha proposto, nella sfera economica e dello sviluppo, il significato e il valore del dono valorizzando la categoria della fraternità.
Queste considerazioni portano a chiedersi: in che cosa consiste il vero progresso sociale? Può essere computato solo in termini di Pil, di economia e di tecnologia? La nostra società ha realmente progredito, in termini di valori, in questi anni?
Questa considerazione porta, anche, ad interrogarsi sul tema educativo che, oggi, attraversa una fase critica, al punto che i Vescovi italiani hanno proposto un decennio (2010-2020) per affrontare l’esigenza educativa. Come educare o ri-educare allo spirito di sacrificio?
È chiaro che, se sacrificio viene inteso primariamente o solo come rinuncia-privazione, appare una proposta non percorribile.
Il problema è quello di un’antropologia, esplicita o implicita, secondo cui il movente ultimo della realtà sarebbe il principio del piacere, inteso in senso riduttivo psico-fisico, avulso dalla dimensione spirituale, relazionale e comunitaria della persona. Già sant’Agostino aveva compreso che noi, nel nostro agire, siamo determinati, più che dalle idee, da quello che ci procura diletto; ma egli intendeva il diletto in senso integrale, quello, cioè, che dà un senso di realizzazione piena all’esistenza.
In realtà, quello che procura diletto è la percezione che ciò che scegliamo e facciamo, anche se faticoso, ha un senso. La crisi più grave, personale e sociale, che affligge la persona, è il vuoto interiore, l’oscuramento e lo smarrimento del senso della vita; è questa la frustrazione più deleteria che si manifesta, anche, in una malattia diffusa: la depressione.
Ad essere frustrate vuote e depresse non sono le persone che si sacrificano per l’amore di Dio e per gli altri spinti da un ideale di servizio, ma quanti, pur avendo ricchezze e piaceri, non hanno uno scopo per cui vivere e donare se stessi.
Il nocciolo del problema educativo sta qui. Il resto appartiene ai metodi e alla didattica.
La nostra società, veneta in particolare, che ha sperimentato nell’ultimo ventennio una “grande trasformazione” (cfr. D. Marini, La grande trasformazione, Padova, 2012) in aspetti fondamentali, non solo demografici e di stili di vita ma, anche, di visione e di senso della vita, appare, oggi, piuttosto incerta e smarrita. Certamente il vivere è diventato più complesso e faticoso. La visione secolarizzata della vita si rivela insufficiente e incapace di rispondere ai desideri più profondi della persona e al senso pieno della vita. Per questo, la domanda di senso e di spiritualità è diventata una esigenza più acuta.
In questa situazione, le comunità cristiane sono chiamate e sfidate a proporre e a testimoniare esperienze di “vita nuova secondo lo Spirito”, in una rinnovata evangelizzazione.
La crisi economica incombente rappresenta una prova molto seria. Il governo attuale persegue l’obiettivo dell’equità. E, in verità, è necessario correggere situazioni di grave sperequazione e ingiustizie sociali, di ricchezze nascoste, di favoritismi, di evasioni fiscali. In questo caso, non si tratta tanto di ‘sacrifici’, quanto, piuttosto, di giustizia e di giusta riparazione. Dovrebbe essere chiaro che attività economica ed etica non sono separabili.
Una questione molto seria si pone riguardo all’obiettivo della crescita. La crescita economica non dovrebbe essere disgiunta dalla crescita di autentici valori che ispirano una “vita buona”.
Abbiamo visto che la storia registra il fatto di sacrifici umani offerti agli idoli; e questo fa pensare all’uomo moderno di aver superato questa fase di sacro selvaggio dell’umanità.
Ma è proprio così? A ben considerare non si compiono forse, oggi, dei sacrifici di vittime umane a qualche idolo? Pensiamo all’idolo della razza e all’antisemitismo che hanno indotto genocidi, pulizia etnica e Shoa, pensiamo al terrorismo e alla violenza perpetuata in nome di una falsa concezione di Dio o di interessi politici, economici, etc.
Pensiamo, anche, all’aborto volontario. Non è, forse, una vita umana innocente sacrificata all’idolo dell’egoismo, del benessere e del tornaconto personale?
Qui si pone una questione di enorme rilevanza. Se accettiamo il male giustificandolo con argomenti che riteniamo ragionevoli, si pone la domanda: ci può mai essere vero progresso dell’umanità? E se al male non c’è soluzione, non è questa una visione di radicale pessimismo? A questi inquietanti interrogativi è proprio il Sacrificio di Cristo sulla Croce che dà la risposta, sacrificio che ha conseguito la Risurrezione.
Gesù Cristo, accettando di essere immolato sulla Croce come vittima innocente, sarà sempre dalla parte delle vittime della menzogna, della violenza, dell’ingiustizia, capace di ridare quella vita che è stata loro tolta.

6. Attingere dall’Eucaristia, dalla purificazione del cuore e dalla preghiera lo spirito del sacrificio
La Quaresima è il tempo propizio e di grazia, offerto da Dio, per ritrovare le sorgenti più rinnovatrici della nostra vita. È l’invito, anzitutto, a riscoprire la grandezza del Sacrificio di Cristo, che è il suo infinito amore misericordioso per noi peccatori. Il sacrificio di Cristo lo incontriamo vivo e attuale nell’Eucaristia.
Prendervi parte con una fede viva vuol dire ricevere da questa inesauribile sorgente divina la capacità di vivere lo spirito del sacrificio, di fare, cioè, della nostra vita e della nostra attività un dono che non può essere distrutto dalla morte e, neppure, dalla violenza e dall’ingiustizia, perché il Crocifisso, apparentemente sconfitto, è Risorto ed è, dunque, il vero Vincitore.
Nella celebrazione dell’Eucaristia viene assunto e offerto a Dio il lavoro. Nel pane e nel vino il celebrante presenta a Dio il “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. Ecco il senso grande del lavoro: «nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione nel quale Cristo ha accettato per noi la croce» (Giovanni Paolo II, Enciclica Laborem exercens, 27). Partecipando all’Eucaristia preghiamo, anche, perché tutti possano avere un lavoro onesto e dignitoso.
C’è un altro aspetto del “sacrificio eucaristico” che è importante considerare e interiorizzare.
All’offerta del pane e del vino, collocata sull’altare affinché divengano corpo di Cristo, la Chiesa chiede che si uniscano le offerte per i poveri, che rappresentano anch’essi il corpo di Cristo e sono da collocare nel cuore della Chiesa, custoditi e venerati con la carità. È importante far comprendere e vivere questo atteggiamento, come scrive Benedetto XVI: «La frazione del pane eucaristico deve proseguire nello “spezzare il pane” della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così vivere. È semplicemente l’amore in tutta la sua immensità che si manifesta in questo gesto, e con esso il nuovo concetto cristiano di culto e di cura per il prossimo» (Prefazione al libro diJ.P. Cordes,L’aiuto non cade dal Cielo, Cantagalli, 2012).
In questa prospettiva raccomando le proposte della “Quaresima di fraternità” della Diocesi.
È un vero peccato che la Domenica, Giorno del Signore, sia ormai praticamente considerata giorno di mercato, al pari degli altri. La ritengo una scelta profondamente sbagliata, non un guadagno ma una perdita non solo per la fede cristiana ma, anche, per dare senso alla vita e all’attività umana. Ritengo, inoltre, ingiusto che si privino tante persone del loro diritto di santificare la domenica partecipando alla Santa Messa e godendo della gioia delle relazioni familiari. Considero contraddittorio difendere il crocifisso come oggetto ma non il Crocifisso Risorto dell’Eucaristia domenicale; la Realtà vale infinitamente più del segno.
In questa Quaresima c’è un sacrificio che tutti siamo chiamati a compiere: è il sacrificio del «cuore contrito e umiliato» (Sal 51,19) per i nostri peccati. Questo è davvero sacrificio gradito a Dio.
La Sacra Scrittura considera la “durezza del cuore” come particolarmente grave, in quanto denota insensibilità e indifferenza verso Dio e verso il prossimo. Ascoltiamo la voce di Dio che ci chiama alla conversione in questo tempo di Quaresima. Lo fa con i richiami della sua Parola, lo fa, anche, con quel senso di tristezza, di vuoto e di frustrazione che proviamo nel nostro intimo quando la nostra vita non è orientata a Dio e non lo accogliamo. È un richiamo alla conversione di modelli e stili di vita anche l’attuale crisi. Incoraggio, inoltre, a riscoprire il senso profondo del digiuno per liberare la nostra vita da tante cose inutili e vane che ci appesantiscono.
E poi vorrei esortare a offrire a Dio il “sacrificio della lode”, della preghiera.
Dio non ne ha bisogno, ma gradisce la preghiera per riversare sulla nostra vita il suo amore, la sua luce, la sua forza divina.
Cerchiamo, in questa Quaresima, di dedicare più tempo a rientrare in noi stessi e a riscoprire la sorgente viva della preghiera.
La Quaresima è un cammino di fede che conduce, sulle orme di Cristo, alla Pasqua di Risurrezione. Intraprendiamola con fiducia e ne trarremo un rinnovato senso di vita e di speranza.

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