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TEOLOGIA DELL’AMORE MISERICORDIOSO, S. E. Mons. Paul Poupard

http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0085.htm

S. E. Mons. Paul Poupard

TEOLOGIA DELL’AMORE MISERICORDIOSO

« Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre Vostro ». Questa direttiva che il Signore ha dato ai suoi discepoli nel Vangelo e che San Luca ha raccolto (Luca 6,36), è passata attraverso due millenni di guerre e di lotte inespiabili, nelle quali i cristiani stessi non hanno purtroppo potuto fare a meno di essere sommersi, anche se l’ideale evangelico della misericordia continua a commuoverli ed animarli: innumerevoli opere di misericordia sono state suscitate dallo Spirito di Dio, sempre operante nella Chiesa. E anche ai giorni nostri, un papa come Giovanni XXIII non trascurava nessuna occasione per celebrare la pratica delle opere di misericordia, che il suo carissimo zio, Saverio, gli aveva insegnato sin dalla prima infanzia. Ritorno al Centro
Ma la misericordia sembrava essere piuttosto una conseguenza, un corollario, un accessorio d’obbligo della fede, e non una prospettiva centrale. E dobbiamo a Papa Giovanni Paolo II e alla sua Enciclica Dives in Misericordia, l’aver operato quello che si può definire un ritorno al centro. Infatti, è proprio di tutti i rinnovamenti della Chiesa e di ogni ritorno spirituale alle sorgenti, l’operare questo riconvergere sul Vangelo, da cui il peso della vita quotidiana ci distrae senza sosta.
Ripercorro con la mente un fatto. Era lo scorso anno, il 30 novembre 1980, nella celebrazione della prima domenica d’avvento. A quell’epoca facevo la spola, ogni mese, tra Parigi – dove mantenevo ancora la mia carica di rettore dell’Istituto Cattolico – e Roma, dove cominciavo ad esercitare la responsabilità di pro-presidente del Segretario per i Non Credenti, responsabilità che, come papa Giovanni Paolo II mi ha chiesto di fare, mi assorbe ora interamente. Si, ricorso l’incredulità di qualcuno quando cominciò a circolare la notizia che il Santo Padre, per la sua seconda Enciclica, dopo la Redemptor Hominis, aveva scelto di parlare della misericordia. Che cosa? Nel nostro mondo tormentato, nella nostra Chiesa in preda a problemi tanto gravi, il Papa non aveva qualcosa di più urgente da dire che parlare della misericordia? Un interrogativo, questo, alquanto rivelatore. Che non possiamo passare sotto silenzio. È chiaro che, per molti, la misericordia è un qualcosa in più, come lo sono le opere di misericordia in relazione alla giustizia. Il merito di Giovanni Paolo II sta nel ricordarci che si tratta invece di cosa essenziale, di una dimensione inalienabile dell’Amore, che è esso stesso nel cuore di Dio, e che tutto il movimento di conversione a cui siamo chiamati dalla fede in Cristo ci conduce ad imitarlo, ci conduce fino al punto di imitarlo.
Popolo di Dio, peccatori riscattati dalla morte e dalla Resurrezione di Cristo, peccatori perdonati, chiamati a perdonare per essere perdonati, come diciamo – senza ben comprenderlo – nel nostro Pater Noster quotidiano: « Perdona le nostre offese, come noi perdoniamo »…. Sii misericordioso con noi, come noi lo siamo: divina e stupefacente analogia tra i costumi di Dio e quelli che noi siamo chiamati a praticare, per mettere la nostra vita all’unisono con la nostra fede. Dio è amore e l’amore è misericordia
Dio è amore e l’amore è misericordia. Ecco l’asse fondamentale della nostra fede, che l’Enciclica di Giovanni Paolo II ci ricorda con fervore. Giovanni Paolo II ci chiama al superamento, sul cammino della salvezza che è il nostro cammino, al superamento del tempo, verso l’eternità. La sua prima Enciclica, Redemptor Hominis, ha tracciato, ha segnalato questo cammino della salvezza, questa strada dell’uomo, che è la strada del Cristo, e la strada della Chiesa. Non si tratta di un cammino tracciato nella terra, è la via regale. L’uomo è a percorrerla nella sequela del Cristo, è chiamato a vivere come figlio di Dio animato dallo Spirito, Dives in misericordia. E, recentemente, con la sua terza Enciclica, Giovanni Paolo II ci ha dato la terza anta di questo trittico teologico e antropologico. Come è stato scritto: « Papa Wojtyla viene da lontano e mira lontano ». L’uomo salvato dal Cristo, circondato dalla misericordia di Dio, procede lavorando, Laborem Exercens, sul cammino della salvezza, cammino della croce, cammino della vita. Ecco le dimensioni fondamentali della nostra fede, che dilatano l’orizzonte della nostra vita quotidiana fino all’infinito di Dio, « ricco di misericordia » (Ef. 2,4). Amore misericordioso, misericordia. Che cosa è, dunque, la misericordia?
Giovanni Paolo II la definisce così nel capitolo quinto della sua Enciclica: « la misericordia è la dimensione indispensabile dell’amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l’uomo ». In altre parole, noi parliamo dell’amore misericordioso perché esiste, tra amore e misericordia, uno stretto vincolo di parentela, e tuttavia una differenza, che è molto reale. Essa si fonda sulla presenza, nel mondo e in mezzo agli uomini, del peccato. La misericordia è la forma assunta dall’amore per affrancare l’uomo dal peccato e sottrarlo al male. Giovanni Paolo II ce lo ripete a suo modo, il modo di un poeta: « La croce è come un tocco di amore eterno sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo ».
Sappiamo che la parola misericordia deriva da due vocaboli latini, misereri, aver pietà di, e cor, cordis, cuore. Come vi è stato spiegato, nella Bibbia la misericordia è il supremo attributo di Dio, che spiega l’intero disegno della salvezza. Dio ama l’uomo. Egli non può rassegnarsi al peccato e alla miseria dell’uomo. Questa miseria commuove il suo cuore e lo sollecita a soccorrerci. E l’uomo, da parte sua, si inserisce in questo grande movimento della misericordia, questa virtù del cuore compassionevole, che condivide la miseria altrui, per soccorrerla. Lo ripeto, non si tratta di un supererogare, ma, al contrario, di una esigenza profonda dell’amore: l’amore genera necessariamente la misericordia, la quale è, già per San Paolo, con la pace e la gioia, una delle se conseguenze più dirette e necessarie. Una strana dimenticanza
Eppure, né il Dizionario di teologia cattolica in quindici volumi, né l’Enciclopedia della Fede in quattro volumi, né, più recentemente, il Dizionario di teologia cristiana, i grandi temi della fede, si soffermano, nelle loro erudite colonne, sulla parola misericordia; mentre il Vocabolario di teologia biblica le consacra un importante articolo. Il Dizionario di spiritualità è il solo a soffermarsi sulla misericordia per farne uno studio sostanziale. L’Enciclopedia Catholicisme (« Cattolicesimo »), nel volume nono, trentanove, pubblicato lo scorso anno, comincia così: « Il sostantivo « misericordia » come l’aggettivo « misericordioso » sono termini in disuso, che non appartengono ora che al linguaggio religioso, più precisamente liturgico, e solo in qualche rara occasione. Mentre si tratta di un tema biblico ed evangelico che dà una rivelazione essenziale del mistero di Dio e del mistero di Gesù ». Queste poche parole scritte da quell’eccellente esegeta che è Charles Augrain, dicono tutto: il posto centrale della misericordia nella rivelazione e la sua condizione di marginalità nel cattolicesimo di oggi. Ciò che ci incita a riflettere e a riconsiderare i nostri modi di pensare e di agire.
Noi cristiani, che esistiamo e abbiamo ragione di essere, solo nella fedeltà alla rivelazione, e specialmente nel Vangelo, come abbiamo potuto permettere che una tale distorsione si insinuasse tra la nostra fede professata e la nostra vita vissuta, questa fede che è speranza nell’amore, questo amore che è misericordia? Come è detto nel Vocabolario di teologia biblica, rahamin e hésed sono le due radici ebraiche che danno alla misericordia le sue due componenti: le traduzioni francesi delle parole ebraiche e greche (eleos) oscillano dalla misericordia all’amore, passando attraverso la tenerezza, la pietà, la compassione, la clemenza, la bontà e persino la grazia. Malgrado tale verità, non è impossibile delineare l’intelligenza biblica della misericordia. Dal principio alla fine, Dio manifesta la sua tenerezza nei confronti della miseria umana. E l’uomo, a sua volta, deve mostrarsi misericordioso verso il suo prossimo, a imitazione del suo creatore. Viscere di misericordia
Il nostro Dio è il Dio delle misericordie. Egli ha « delle viscere di misericordia ». Per questo l’infelice si volge a lui nella sua disperazione: ogni persona, come il salmista, o tutto il popolo, quando il castigo si abbatte su di esso. Non è un Dio lontano, ma un Dio vicino. Non è un Dio astratto, ma un Dio incarnato. Egli ode il grido dell’uomo: ci dice il profeta, « Dio non vuole la morte dell’uomo, ma vuole che l’uomo si converta e viva ». È il testo famoso che non si può fare a meno di rileggere, al capitolo trentaquattro dell’Esodo. Proprio quando il popolo si è appena abbandonato all’idolatria, Dio si rivela a Mosé sul Sinai: « Jahvé è pietoso e misericordioso, tardo all’ira e grande in benignità e fedeltà, che conserva il suo favore per migliaia di generazioni, tollera l’iniquità, il misfatto e il peccato ».
Quando il suo popolo si allontana da lui, Jahvé lo conduce nel deserto, per parlare al suo cuore (Osea). E il popolo si converte. È il potente grido del Miserere che scaturisce dalla disperazione dell’uomo e va dritto a colpire il cuore di Dio: « Nella tua bontà, abbi pietà di me, o Signore. Nella tua tenerezza, cancella il mio peccato ». « Non voglio altro che la tua misericordia », questo è l’insegnamento dell’Antico Testamento, quando l’uomo appare come un lupo per l’uomo: homo homini lupus. Alla luce di questa rivelazione del Dio di misericordia, si opera allora un capovolgimento antropologico notevole. Non si tratta più del Dio dei pagani che gli uomini si sono costruiti come un idolo, secondo la loro immagine antropocentrica, ma è l’uomo che rivela la sua vera natura, malgrado le apparenze, come un riflesso di Dio: l’antropologia non è più antropocentrica, essa diventa teocentrica, prima di divenire cristocentrica: non più Dio a immagine dell’uomo, ma l’uomo ad immagine di Dio. E siamo così ricondotti all’importanza del mistero centrale della creazione, mistero a cui, senza sosta, si deve ritornare: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza ». Malgrado le sue imperfezioni, le sue miserie ed il suo peccato, l’uomo resta specchio e riflesso della trascendenza di Dio. Ed è solo così che si dilegua l’antica tentazione, sempre rinascente e sempre rinnovata, del panteismo. Il Padre delle misericordie
Dio non è una forza cieca e impersonale, ma un padre tenerissimo che ci dà suo Figlio. Ricordiamo la parabola del Figliol prodigo, che potrebbe anche avere il nome di Parabola del Padre misericordioso (Luca, 15). Gesù ci mostra il Padre che è come appostato, in attesa di suo figlio. E quando lo scorge da lontano, mosso da compassione, corre verso di lui, gli va incontro.
Come dirà San Paolo, Dio è proprio « il Padre di ogni consolazione » (2 Cor 1, 3). Ciò che spiega il testo misterioso di Romani 11,32: « Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia ». Ciascuno di noi deve riconoscersi peccatore, per essere avvolto nel grande manto della misericordia divina.
Il messaggio di San Paolo è molto coerente: l’assenza della misericordia nei pagani scatena la collera divina (Rom 1, 31). Il cristiano non può chiudere le sue viscere, deve avere compassione nel suo cuore (Ef. 4,31). Come lo dirà San Giovanni, « L’amore di Dio dimora in coloro che non chiudono il proprio cuore » (I Giov. 3,17). È il senso della parabola del buon samaritano (Luca 10, 30-37), in cui la compassione mi rende vicino al più lontano fratello. È la lezione del giudizio secondo il capitolo venticinque di San Matteo: saremo giudicati per la misericordia che avremo esercitato, più o meno consciamente, nei riguardi di Gesù stesso, attraverso i nostri fratelli più derelitti, poveri, ammalati, affamati, assetati, abbandonati. Il mistero dell’alleanza
Tale è il mistero essenziale dell’alleanza del Dio di misericordia con l’uomo peccatore. La storia dell’alleanza, così come è riportata dalla Bibbia, è la storia del dialogo del peccato con la misericordia. Il peccatore David preferisce cadere « nelle mani del Signore, perché grandi sono le sue misericordie, anziché cadere nelle mani dell’uomo » (2 Samuele 24, 14). Di conseguenza, vivere secondo l’alleanza, essere fedeli all’alleanza, non è solo sperare nella misericordia di Dio per l’uomo, ma anche testimoniarne, vivere di essa, metterla in pratica ad immagine di Dio: « perché io sono compassionevole, dice il Signore » (Esodo 22, 20-26). « La pietà del Signore si estende a tutti i viventi » (Ecclesiastico 18, 13). Questo universalismo che infrange la corazza nazionalista di Israele, si incarna in Gesù Cristo, che non fa parzialità, e viene per salvare tutti gli uomini, non i giusti, ma i peccatori. Di conseguenza, persino i pubblicani e le prostitute sono chiamati a precederci nel Regno di Dio. Si è detto di San Luca, che il suo Vangelo è il vangelo della misericordia, nel cuore stesso delle sofferenze della passione: sguardo di chiamata e di perdono a Pietro che ha rinnegato, parole alle donne di Gerusalemme, preghiera al Padre per i suoi carnefici: « Perdonali, perché non sanno quello che fanno », promessa al malfattore buono (Luca 22-23). Beati i misericordiosi
Ed ecco il famoso appello del capitolo sei, trentasei di Luca: « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro », appello che riecheggia la massima di Matteo: « Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste » (Matteo 5, 48). Ho citato Matteo. Come non evocare la beatitudine che riassume in modo perfetto tutta la vita e tutto l’insegnamento di Gesù: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Ne dobbiamo dimenticare il commento, come di consueto, realista di Giacomo: « Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia, la misericordia invece ha sempre la meglio sul giudizio » (Giacomo 2, 13). Ho citato San Giacomo. Forse, ascoltando il suo linguaggio così diretto toccare i nostri cuori, possiamo megli esorcizzare quell’antica tendenza occidentale che vela la misericordia, attribuendole il sospetto di accondiscendente paternalismo. In Gesù comprendiamo che Dio stesso si è rivestito della nostra miseria per esorcizzarla. Secondo la meditazione dell’autore della Lettera agli Ebrei, egli è diventato per noi « sommo sacerdote misericordioso e fedele » (Ebrei 2, 17). È questa la vera misericordia, il condividere l’umana debolezza, la comunione fraterna nella condizione umana.
Non più condiscendenza, ma compartecipazione, è questo il senso del mistero centrale dell’incarnazione. Come i Padri della Chiesa non hanno mai cessato di ripeterlo, Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio e, per fare questo, egli deve dapprima, nel suo terreno errare, comprendere con pazienza quali siano i costumi di Dio e, ad immagine di Dio, e secondo il suo esempio, deve diventare misericordioso.
Perché noi non viviamo in un modo perfetto, che avrebbe, se così fosse, tutti i meriti, ma un grave difetto: quello di non esistere…! Non viviamo in un modo utopico, ma in un mondo reale, segnato da profondi impedimenti e dalla grazia, dall’aspra lotta tra peccato e virtù. Tornando da un mondo fraterno, ci imbattiamo nella durezza degli uomini e nella loro disperazione. E nell’uno e nell’altro caso ci si chiede di essere misericordiosi, caritatevoli per gli uomini che soffrono e compassionevoli per coloro che hanno durezza di cuore. Non è forse questo il paradosso del mondo moderno: affabile con il peccato e duro con il peccatore? Inversamente, dobbiamo, secondo l’esempio di Cristo con la donna adultera, condannare il peccato ed amare il peccatore. Questo è il cuore compassionevole, che anima una volontà ferma, perché esso si radica in uno spirito retto. Questo è il movimento dell’amore, che ci fa mettere in pratica le parole di San Paolo: « Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto » (Romani 12,15). Un posto centrale nell’economia della salvezza
Si comprende allora quanto sia centrale il posto che la misericordia ha nell’economia della salvezza. Un atto di volontà, perché – insito – è proprio di un atto di volontà che si tratta, e non di un mero impulso emozionale, un atto di volontà che è governato dalla ragione, il quale ci fa efficacemente detestare la miseria dell’altro e ci conduce ad agire per liberarlo di questa miseria. Così noi partecipiamo al movimento d’amore misericordioso di Dio stesso, venuto a rivelare la disperazione della sua miseria per introdurla nella pienezza della sua vita vivificante, sublime compartecipazione in cui il cuore che assume la miseria esorcizza la miseria del cuore. Gesù non è venuto per rendere giustizia – dirà Madeleine Delbrel nella nostra epoca – ma per rendere gli uomini giusti: ecco il segreto della misericordia!
In tal modo la misericordia appare come un compimento di quella crescita spirituale alla quale tutti noi siamo chiamati, in Cristo Gesù, attraverso l’impulso dello Spirito che egli ci ha dato. È così che si crea l’umanità nuova, in opposizione, come contro corrente, all’umanità peccatrice. L’uccisione di Abele da parte di Caino aveva trascinato dietro di sé la spirale omicida della vendetta che è illustrata da Lamek. Il cammino che conduce l’umanità al perdono è lento, così come testimonia l’interrogativo di Pietro: « Signore, quante volte si deve perdonare? ». Sette volte?. No, settantasette volte vette, cioè senza stancarsi mai, come fa il Padre delle misericordie, come fa il Cristo sulla croce. Storia lunga e commovente, in cui si procede e si regredisce, una storia costellata di intuizioni luminose, come quella di Massimiliano Kolbe, nel suo ignobile campo di concentramento, come quella di Jean Mialet, con il quale ho avuto il privilegio di partecipare, lo scorso anno, ad un programma della televisione francese intitolato Apostrophes (« Apostrofi »), la sera del venerdì santo: « Il deportato. L’odio e il Perdono » (Fayard, 1980). Nel cuore della Conversione Cristiana
Non nascondiamolo. La misericordia ci conduce al cuore stesso della conversione cristiana, vera metanoia, se paragonata alle mode, agli usi e ai principi che governano la vita degli uomini. E non è cosa di oggi! Che mi sia permesso di fare dei riferimenti.
Per Platone, la misericordia è una debolezza (cfr. Leggi XI, Repubblica X). Nella morale di Aristotele, la misericordia non è una virtù, ma una mancanza, che si può scusare solo negli anziani e nei fanciulli (Etica a Nicomano 2,4). Per gli stoici, è la malattia dell’anima. E l’uomo maturo deve saper dominare con la ragione queste manifestazioni di affettività (cfr. Seneca, De Clementia 2, 3-4). Bisogna arrivare a Cicerone per una denuncia del concetto stoico come assurdo, e per riconoscere che la misericordia per il vero filosofo è la saggezza: Viri boni esse misereri (Pro Murena 29,61). Un Sant’Agostino saprà trarvi la sua ispirazione, dimostrando come la misericordia sia l’autentica filiazione imitatrice di Dio.
Tale è l’uomo nuovo, in Gesù Cristo. L’amore è la sorgente e la struttura essenziale della misericordia, scaturita dal cuore di Dio e incarnata nel Cristo, perfetta immagine di Dio. Mentre troppo spesso teologi e moralisti si sono compiaciuti di contrapporre le diverse componenti delle virtù cristiane, è tutto l’agire dell’uomo rendendo in Cristo che è innalzato dallo Spirito. L’unico amore soffuso dallo Spirito nel cuore dei nostri pensatori umani è grazia multiforme e compenetrazione armonica dell’infinita varietà degli aspetti della nostra vita quotidiana.
San Paolo non si stanca di ritornare su queste parènesi soffuse di un alito liberatore. Ricordiamo il capitolo tre dell’Epistola ai Colossesi che ci esorta a vivere la nostra nuova vita di battezzati nel Cristo risorto, rigettando gli atteggiamenti dell’uomo vecchio: « Come eletti di Dio, santi ed amati, di viscera misericordiae, di bontà, di umiltà, di dolcezza, di pazienza. Sopportatevi a vicenda; e se qualcuno ha di che lagnarsi di un altro, perdonatevi scambievolmente: come vi ha perdonato il Signore, così fate voi » (Colossesi 3, 12-13). Così fate voi, è questo il principio essenziale: siate imitatori del Cristo, come Cristo stesso è imitatore del Padre delle misericordie, con « delle viscere di pietà, di bontà, chrestoteta », verso tutti, come Cristo. Una misura che non ha misura
Si può ben comprendere che le nostre considerazioni sono lontanissime da quelle dei moralisti tradizionali e dal loro orizzonte intermedio. Secondo il punto di vista degli uomini, noi siamo, invece, nell’eccesso. Che si tratti della misericordia o dell’amore; e la sua misura consiste nel non avere misura. Quanto si medita il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, è chiaro che per San Paolo la misericordia di Dio è un mistero che supera ogni intelletto, soprattutto quando egli riflette sull’infedeltà di Israele e sulla vocazione dei pagani della salvezza promessa ai figli d’Israele, avvolti nella misericordia che avvolge tutti i figli di Abramo, noi, figli della promessa, numerosi come le stelle nel cielo, e i granelli di sabbia nei mari, figli di Abramo, figli di Adamo, figli di Dio: come è grande il mistero della fede! La nuova alleanza di misericordia
La misericordia, lo ripeto secondo San Paolo, è nel cuore del mistero dell’Alleanza, estesa a tutti gli uomini in Gesù Cristo, nuovo Adamo (cfr. Romani 5). Essa ci rivela gli abissi del cuore di Dio, le sue insondabili dimensioni di tenerezza misericordiosa, di giustizia e di fedeltà. Il nostro Dio, il Dio dei Padri, non è un Dio lontano, un Dio di pietà condiscendente, è il Dio vicino, il Dio dell’amore misericordioso. Il suo simbolo più tragico e commovente non è forse quello del Libro di Osea, dello sposo tradito da una sposa infedele, e che manifesta in questa prova – perché di una prova si tratta – la grandezza della sua misericordia, attraverso il perdono del cuore, perdono che arriva a rinnovare il cuore della stessa infedele. E c’è forse bisogno di precisare che questa infedele, è ciascuno di noi?
Non è forse, in fondo, l’esegesi della prima Lettera di San Pietro (2, 9-10), che spiga a dei pagani convertiti la grazia del battesimo, applicando loro il testo di Osea 1, 6-9 e 2, 3-25: « Voi che prima non eravate un popolo e che ora siete il popolo di Dio, voi che eravate esclusi dalla misericordia e che ora invece avete ottenuto misericordia ». Come lo afferma Théodore Koehler nel suo articolo del Dizionario della Spiritualità (volume X, colonna 1318): in Osea, i fanciulli della prostituta erano stati chiamati: « Non-Mio-Popolo » e « Non-Amati-di misericordia ». Dopo la Nuova Alleanza, sono chiamati « Mio-Popolo » e « Amati-di misericordia ». L’Epistola di Pietro indica così che la nuova alleanza di Dio con i pagani deve essere compresa in quel clima di misericordia annunciato e preparato dall’antica alleanza, da « questo amore paterno e tenero » secondo l’espressione usata da Roberto Bellarmino (Explanatio in Psalmos, Ps. 50, versetto 2). Maria Madre di Misericordia
In Gesù Cristo la misericordia di Dio si estende di epoca in epoca a tutti coloro che lo temono, secondo il Magnificat della Vergine Maria (Luca 1,50): par viscere misericordiae Dei nostri. Visitando Maria, Dio si è ricordato della sua misericordia, secondo quanto aveva promesso. In Maria, la misericordia pianta la sua tenda messianica, rispondendo all’attesa di tutti i poveri d’Israele, quegli anawim, di cui noi siano i discendenti spirituali, « quella stirpe mistica dei clienti di Jahvé », che si abbandonano alla sua alleanza misericordiosa, secondo l’espressione adoperata da A. Gelin, nel suo libro Les idées maîtresses de l’Ancien Testament (« Le linee conduttrice dell’Antico Testamento », Edizione Le Cerf, collezione Lectio divina, 1948, p. 72), e nel libro dello stesso autore: Les pauvres de Yahvé (« I Poveri di Yahvé », Edizione Le Cerf, collezione Lectio divina, 1953, p. 125).
Giovanni Paolo II ha commentato tutti questi testi, e altri ancora, con grande interiorità, in questa sua Enciclica, essa stessa soffusa del medesimo amore misericordioso per l’uomo, amore attinto dal cuore del Cristo, dal cuore del Padre delle misericordie, il cui spirito ci fa scoprire ogni giorno delle ricchezze insondabili. Il Santo Padre ci invita a meditare il mistero di Maria, madre di misericordia, colei che più profondamente ha penetrato questo mistero di misericordia, come la Chiesa che ella rappresenta e significa nella sua misteriosa maternità. Dives in misericordia
Vi invito a mia volta a farlo, in questa svolta misteriosa della nostra storia che si volge verso l’esasperazione alla soglia del nuovo millennio.
Come non rileggere allora quelle righe premonitrici che concludono *Dives in Misericordia?
« Per quanto forte possa essere la resistenza della storia umana, per quanto marcata l’eterogeneità della civiltà contemporanea, per quanto grande la negazione di Dio nel mondo umano, tuttavia tanto più grande deve essere la vicinanza a quel mistero che, nascosto da secoli in Dio, è poi stato realmente partecipato nel tempo all’uomo mediante Gesù Cristo ».
Nella nostra epoca di esacerbati conflitti e di lotte inespiabili, è con l’ispirazione dello Spirito che Giovanni Paolo II ci ha invitati a recuperare le nostre convinzioni spirituali, nella forza della fede al Padre delle misericordie. Nel nostro mondo ce tanto povero è di viscere di misericordia, egli ci ha invitato così a recuperare la forza dell’amore misericordioso. Bisognava essere coraggiosi per dirlo. E noi dobbiamo essere altrettanto coraggiosi per metterlo in pratica. Confusi tra una pietà condiscendente, tra il disprezzo e l’odio, tanti uomini del nostro tempo hanno sete di vera tenerezza, una tenerezza che sia il riflesso e la promessa della tenerezza di Dio. Non si tratta di convenienza morale o di necessità sociale, ma piuttosto di esigenza evangelica. Giovanni Paolo II non ci ha forse dato, lui stesso, all’indomani della pubblicazione della sua Enciclica, il commovente esempio della sua applicazione pratica, perdonando pubblicamente, durante l’Angelus del 17 maggio, colui che aveva tentato di ucciderlo il 13 maggio: « Ho già perdonato al fratello che mi ha colpito ». La dignità dell’uomo
Chi non lo vede? Molti uomini si sono allontanati dalla Chiesa perché non hanno scorto il suo volto fraterno. Ed essi hanno rifiutato Dio perché l’hanno scambiato per un tiranno intollerante o un padre abusivo, un padre che non riconosce la loro libertà. Ciò indica l’urgenza di assumere un comportamento cristiano radicato nelle Beatitudini, che restituisca, attraverso il comportamento dei discepoli di Cristo, il volto del Cristo stesso, Cristo dolce e umile di cuore. Fallirei il compito che il Santo Padre mi ha misteriosamente affidato – quello di prendere cura dell’immensa parrocchia dei non-credenti in tutto il mondo – se non condividessi con voi questa angoscia pastorale. Ne va del vero volto di Dio, volto che è dono e perdono. Ne va del vero volto dell’uomo, così come lo mostra la parabola del Figliuol prodigo, come è ammirevolmente commentato dal Santo Padre: invero di umiliare, la misericordia da un nuovo valore; rende la perduta dignità di umiliare, la misericordia da un nuovo valore; rende la perduta dignità d’uomo e di figlio. La gioia del Padre nel ritrovare suo figlio risiede nella sua consapevolezza « che è stato salvato un bene fondamentale, il bene dell’umanità del suo figlio » (Dives in Misericordia n. 6).
Perché la misericordia, contrariamente alla caricatura che di essa si fa da secoli, non testimonia di un rapporto di ineguaglianza tra Dio e gli uomini, o degli uomini tra di loro. Essa si fonda invece « sulla esperienza comune di questo bene che è l’uomo, sull’esperienza comune della dignità che gli è propria » (ibid.). Come lo afferma Giovanni Paolo II, la misericordia « è realmente un atto di amore misericordioso: quando, attuandola, siamo profondamente convinti che, al tempo stesso, noi la sperimentiamo da parte di coloro che l’accettano da noi » (n. 14). A questo livello, o, se si preferisce, a questa « profondità », si può ben comprendere che, non solo la misericordia non è la sorella minore della giustizia, ma al contrario, essa è « la sua sorgente più autentica » (n. 14).
È sorgente divina. Il suo canale è sacramentale, dalla penitenza all’eucarestia. E allora comprendiamo che l’ »amore misericordioso è più forte del peccato » (ibid.). La teologia dell’amore misericordioso
Mi sia concesso, alla fine di queste mie riflessioni, troppo brevi e troppo lunghe al tempo stesso, di confidarvi qualcosa. Rileggendo l’Enciclica di Giovanni Paolo II per preparare questo incontro, la mia anima si è come dilatata. Ritornando con la mente a certi insegnamenti di teologia, tanto logici nel senso umano del termine, tanto logici da lasciare appena un pò di posto alla logica dell’amore, mi sono detto che troppo spesso noi non arriviamo fino al fondo del Vangelo che ci è proposto, e che rimaniamo al livello di una meditazione troppo umana, una specie di dibattito intellettuale che coinvolge solo l’intelletto. La teologia dell’amore misericordioso che ci propone Giovanni Paolo II ci fa, invece, tornare alle fonti autentiche della nostra fede, alla speranza nell’amore del Dio di misericordia. Ecco la novità della grazia e della salvezza in Gesù Cristo, che ha assunto il nostro peccato, perché ci amava più di quanto lo amassimo noi. Ecco la potenza dell’amore misericordioso. Un parroco di Ars l’aveva capito bene, quando affermava la necessità di avere un cuore tenero, mentre il suo era troppo spesso simile alla pietra.
Ho citato il parroco di Ars. Da buon francese, penso inevitabilmente a San Vincenzo de Paoli, Santa Teresa di Lisieux e a Charles de Foucauld. Ma come non citare anche San Francesco d’Assisi e tutti i santi che sono stati consumati dalla fiamma di questo amore misericordioso? Bernanos ha affermato ai nostri giorni che il nostro mondo batte i denti per il freddo e che solo l’amore dei Santi, l’amore attinto dal cuore di Cristo, può riscaldarlo.
Ho parlato poco fa di teologia. Esiste una visione teologica più profonda di quella che ricorda come Dio renda le cose buone amandole? Non era forse San Tommaso a dichiarare che « perdonare gli uomini, essere compassionevoli con loro, è opera più grande della stessa creazione del mondo »?
Davanti alla folla omicida dell’uomo contemporaneo, in che altro modo si può addolcire il suo cuore, se non riconducendolo alla contemplazione della dolcezza inerme del Cristo in croce, l’Agnello ferito dai nostri peccati? San Domenico nella sua preghiera domandava « un po’ di quella carità che ha fatto salire il Cristo sulla croce ».
Mi era stato chiesto di parlarvi, sulla scia dell’Enciclica Dives in Misericordia, della teologica dell’amore misericordioso. Era mia intenzione comunicarvi la mia convinzione profonda: l’uomo è chiamato a partecipare alla beatitudine. Questa beatitudine è Dio. E Dio è per l’uomo amore misericordioso. Non esiste teologia antropologica che sul fondamento rivelato, incarnato nel Cristo. Si, « la misericordia è la sola realtà che possa ricapitolare e illuminare definitivamente tutti gli altri aspetti del mistero cristiano » (R. P. Bernard BRO, Introduzione all’Enciclica di Giovanni Paolo II, Dieu riche en Miséricorde, Editioni Le Cerf, 1980, p. 16).

IL MISTERO DEL TEMPO

Ihttp://www.tanogabo.it/religione/tempo_dio.htm

IL MISTERO DEL TEMPO

Michael McDermott

Un Giubileo ha certamente a che fare con le cifre ed il tempo, ed in special modo il Grande Giubileo che coincide con la nascita di nostro Signore. Giustamente la Tertio Millennio Adveniente dedica il suo secondo capitolo ad una meditazione sul tempo. Giacchè il tempo è un mistero. In un certo senso esso rappresenta la realtà più ovvia e superficiale. Tutti lo misurano con ogni genere di orologi e programmano gli incontri in funzione di esso.
Eppure, che accadrebbe se tutti gli orologi smettessero di funzionare? Si fermerebbe il tempo? Gli orologi evidentemente non ci danno il tempo si limitano a misurarlo quale è. Aristotele definì il tempo «il numero del movimento secondo il prima e il poi». Ma la nostra epoca post-Einsteiniana ha conosciuto la relatività del tempo. Il moto può essere calcolato in misura diversa da prospettive diverse entro un universo in movimento. Non esiste un punto fisso fuori dell’universo dal quale il tempo possa essere misurato universalmente né può essere fornito uno standard oggettivo.
Cos’è dunque il tempo. Nella sua famosa meditazione nelle Confessioni Agostino decise che il tempo «è un’estensione dell’anima» a successione di stati psichici tramite la memoria e l’anticipazione. Ma questa risposta è soltanto parziale in quanto l’anima tesa a misurare è essa stessa avvolta dal tempo. La misurazione implica un inizio ed una fine. Se il tempo va oltre l’uomo, come può essere misurato? Il tempo sembra piuttosto misurare l’uomo.
Cos’è dunque il tempo? Come osservò Agostino, il passato non esiste più ed il futuro non esiste ancora. Il presente è fuggevole ed alla stregua di un punto di fuga di un paradosso Zenoniano può essere suddiviso all’infinito. Nel momento in cui lo misuriamo esso è già passato. L’espressione latina, Tempus fugit, coglie bene il paradosso, giacchè il verbo riflette al contempo presente e passato: nello stesso momento «il tempo fugge» ed «il tempo è fuggito».
Da dove proviene e dove fugge il tempo ? Poiché l’uomo non controlla né il suo inizio né la sua fine, egli non può rispondere a questa domanda. In un linguaggio più filosofico il tempo è radicato nella potenza della materia e la materia è inintelligibile all’uomo. Ragion per cui la questione del tempo riflette la questione dell’esistenza umana. Perché passa la scena di questo mondo. ( I Cor. 7,31)
Come può l’uomo gestire il tempo, un tempo che fornisce la «sostanza» della propria esistenza terrena e tuttavia minaccia la sua stessa esistenza? Le religioni naturali tentarono di legare il tempo alla ciclicità delle stagioni, immaginando questi eventi come riflessi di eventi celesti. Ma l’eterno ritorno debilita l’azione dell’uomo e svuota il tempo del suo significato. Le religioni più elevate e speculative riconoscono che la salvezza può consistere solo nella fuga dal ciclo della reincarnazione, dal tempo e da ogni limitazione verso la beatitudine di una conoscenza illimitata o verso il suo equivalente, la mancanza di conoscenza. Ma tale visione distrugge definitivamente il significato di questo mondo e di tutto ciò che accade in esso.
L’uomo è preso in una trappola: egli deve vivere bene nel mondo senza attribuire ad esso alcun significato. La rivelazione giudaico-cristiana contraddice ogni saggezza meramente umana proclamando che il tempo ha un inizio ed una fine e ciò che accade nel tempo ha un significato eterno. Dio dà al tempo un inizio ed una fine e poiché Dio è amore non vi può essere alcuna opposizione finale tra Infinito e finito, l’eternità ed il tempo, Dio e l’uomo. Dio ha creato il tempo affinché la libera creazione potesse tornare a Lui. La creazione non è avvenuta perché un Dio amorevole l’ha posta in essere, e tuttavia ciò non implica una diminuzione o limitazione di Dio giacché viene dal nulla (ex nihilo). La creazione esiste in se stessa sebbene sia interamente riconducibile a Dio. Il Tempo quindi diventa il luogo d’incontro fra Dio e l’uomo, il luogo di libertà quando l’amore risponde all’Amore. La vera struttura della libertà implica la congiunzione tra Infinito e finito, Assoluto e relativo. Se l’uomo fosse incapace di incontrare l’Assoluto egli non avrebbe alcuna ragione ultima per qualsiasi scelta. Qualunque ragione addotta potrebbe essere relativizzata e la scelta diventerebbe arbitraria. Parimenti, neppure un immediato incontro con l’Assoluto priverebbe l’uomo della libertà di scelta. Poiché non vi sarebbe alcuna distanza, la libertà umana di scelta sarebbe sopraffatta, come nella visione beatifica dalla necessità di scegliere il Bene Supremo. Solo nella congiunzione tra Assoluto e finito la libertà umana è resa possibile. Il finito fornisce la distanza che garantisce che quella scelta non è obbligata mentre l’Assoluto motiva la scelta stessa.
In ciò si riflette l’intera struttura sacramentale del cattolicesimo per cui il Dio infinito si rende presente in una forma finita che richiede un risposta d’amore totale e dalla risposta dell’uomo dipendono la sua eterna salvezza o la sua dannazione. Questa struttura sacramentale era presente nella creazione di Adamo ed Eva che furono creati ad immagine di Dio che è Amore. Nel loro amore matrimoniale, un sacramento della creazione, Dio era presente come suo fondamento, forza e obiettivo. Il loro amore manifestava e rifletteva l’amore che è Dio. Sfortunatamente il peccato è entrato nel mondo. Quando Adamo proclamò Eva carne dalla mia carne o osso dalle mie ossa dopo il peccato non vollero assumersi la responsabilità dei loro atti, ma l’attribuirono ad altri ; e così la loro unità risultò distrutta (Gen. 2,23 ; 3,11-13). Avendo distrutto l’immagine divina dell’amore, gli uomini non sarebbero più stati capaci di trovare Dio in un mondo di peccato. Non vi sarebbe alcuna ragione per amare, né per cercare l’Assoluto. Il mondo sarebbe senza senso e l’uomo potrebbe assolutizzare il finito o disperare in tutti i sensi.
Sebbene l’uomo abbia respinto l’amore, l’Amore non ha respinto l’uomo. Già nel cacciare l’uomo dal Paradiso, notava S.Ireneo, Dio mostrò la Sua misericordia, sostituendo alle pungenti foglie di fico che ricoprivano le nudità di Adamo ed Eva indumenti di pelle. Con Abramo i ripetuti interventi divini diventarono storia pubblica poiché Egli formò un popolo particolare Suo proprio in previsione della incarnazione del proprio Figlio. Poiché Gesù è l’incarnazione dell’Amore, gli uomini dovevano possedere qualche conoscenza di ciò che era stato loro offerto come il più grande dei misteri. Il Vecchio Testamento preparò il Nuovo, istruendo gli uomini all’amore fedele di Dio e all’umano peccato, alla necessità di un Salvatore per vincere la durezza del cuore. Il Tempo è visto quindi come una preparazione a Cristo. Come ha scritto il Papa, «il Tempo è in effetti rappresentato dal fatto autentico che Dio, nella Incarnazione, si è calato nella storia umana» (TMA 9). In Gesù l’Assoluto ed il finito sono riuniti nella stessa persona in modo indissolubile. Dio offre Se stesso all’uomo, rinnovando l’immagine di Dio e facendola riflettere pienamente e sacramentalmente l’amore di Dio. Il mistero dell’amore è reso più manifesto e l’incarnazione dell’Amore consente all’uomo di incontrare Dio nel modo più chiaro possibile in un mondo di peccato. Proprio perché l’umanità di Gesù è pienamente umana essendo legata alla persona divina, il Tempo resta finito. Esso non è assolutizzato bensì salvato. E’ diventato in pienezza il luogo d’incontro delle libertà divine ed umane. Poiché l’Assoluto è penetrato nel tempo, Eschaton è giunto Il Tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino ;convertitevi e credete al Vangelo .(Mc 1,15)
Come rivelazione divina Gesù non può essere superato. Poiché non vi è nessuno più grande di Dio. Egli chiama gli uomini ad una assoluta adesione, per seguirlo anche fino alla morte. La libertà degli uomini deve essere realizzata congiungendosi personalmente a Gesù nella libertà e formando così il Suo Corpo, la Chiesa. L’obiettivo è stato raggiunto, il luogo della promessa e dell’amore realizzati.
Essa è inoltre il luogo della crescita nella pienezza, verso una più grande pienezza. Il «già» della presenza di Dio non distrugge ma potenzia il «non ancora» della risposta della libertà umana. Nella chiamata di Gesù all’apostolato che comporta il sacrificio e la relativizzazione del mondo intero (Mc 8,34-38) l’onnipotenza di Dio si è manifestata non per distruggere la libertà dell’uomo bensì per realizzarla.
L’«indicativo» dell’amore di Dio realizzato storicamente nella croce di Gesù e nella Resurrezione è il fondamento dell’«imperativo» dell’apostolato. L’amore di Dio ha fatto di tutto per liberarci dall’egoismo ma la nostra risposta dipende anche da noi. Così il Tempo conserva il suo significato per il cristiano. Non più una preparazione per Cristo, ma una vita ricolma di pienezza. E’ la sovrabbondanza dell’Amore incarnato, una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo (Lc. 6,38). Da questa sovrabbondanza scaturisce la missione cristiana, l’evangelizzazione. L’amore cristiano è naturalmente espansivo e Dio chiama tutti gli uomini ad esso. Talvolta i non credenti sono chiamati a diventare cristiani ed i cristiani sono sfidati a diventare ancor più se stessi, e ad identificarsi sempre più in Cristo, pienezza dell’Amore, pienezza del Tempo, l’Alfae l’Omega (Apoc. 1,8 ; 21,6), unendosi alla Chiesa, il suo Corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose per realizzare il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. (Eph.1,10-23) Cristo è la misura ultima che contiene tutto il tempo e lo riporta a Dio.

 

Publié dans:STUDI, TEMI INTERESSANTI |on 6 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

Il monaco buddhista Shingon, Shobo Habukawa, racconta il suo incontro con il fondatore di CL e la loro comune ricerca dell’Infinito

http://www.zenit.org/article-32186?l=italian

« LA MIA AMICIZIA CON DON GIUSSANI VA OLTRE LA MORTE »

Il monaco buddhista Shingon, Shobo Habukawa, racconta il suo incontro con il fondatore di CL e la loro comune ricerca dell’Infinito

di Luca Marcolivio
RIMINI, martedì, 21 agosto 2012 (ZENIT.org) – Al suo ingresso nella sala B7 di Riminifiera, è stato accolto da un caloroso applauso. Il volto e la voce di Shobo Habukawa sono ormai familiari al pubblico del Meeting al quale il monaco buddhista Shingon, Abate del Muryoko-in Temple, ha partecipato per la prima volta nel 1988.
Il convegno Homo religiosus è stata l’occasione per celebrare i venticinque anni del primo incontro tra Habukawa e don Luigi Giussani. L’amicizia tra l’esponente del buddhismo Shingon e il fondatore di Comunione e Liberazione non fu soltanto un fulgido esempio di dialogo interreligioso ma soprattutto un intenso percorso comune di due uomini di culture tra loro lontane ed assai diverse, eppure felicemente convergenti nella ricerca dell’infinito.
La tavola rotonda è stata l’occasione per invitare il pubblico del Meeting a visitare la mostra Il Koyasan. La montagna sacra del Buddhismo Singon Mikkyo che don Giussani ha tanto amato.
Come ha sottolineato la presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, quello dell’homo religiosus è da sempre “un tema forte del Meeting”. Homines religiosi per eccellenza sono stati sia don Giussani che il reverendo Habukawa, non tanto perché rappresentanti dei rispettivi cleri, quanto per la loro profonda attenzione alla natura dell’uomo e alla sua incapacità di limitarsi alle realtà “orizzontali”.
Come rammentato dalla presidente del Meeting, Habukawa considera il suo incontro con don Giussani, avvenuto presso il monastero del Monte Koya, il 28 giugno 1987, come un momento spartiacque della propria vita. “Don Giussani mi ha sempre parlato del mistero e lui stesso è segno del mistero presente”, dichiarò anni fa il monaco giapponese.
Assente giustificato all’incontro è stato il cardinale belga Julien Ries. Ricevuta all’età di 92 anni, la porpora cardinalizia da papa Benedetto XVI, lo scorso febbraio, durante l’ultimo concistoro, Ries, professore emerito all’Università di Lovanio, è considerato il maggiore studioso vivente di antropologia della religione.
Ospite di ben 17 edizioni del Meeting negli ultimi 30 anni, il porporato belga è ancora chiamato affettuosamente il “professor Ries” dagli habitués della kermesse riminese.
In un filmato proiettato al convegno di ieri pomeriggio, il cardinale Ries ha spiegato in termini sintetici la natura dell’homo religiosus, ovvero di colui che “qualunque sia il contesto storico in cui è immerso, crede all’esistenza di una realtà assoluta, il Sacro, che trascende questo mondo ma si manifesta e, così facendo, lo santifica e lo rende reale”.
L’homo religiosus, ha spiegato l’antropologo, diventa tale quando entra in contatto “con un evento che gli mostra la trascendenza”. Un tipo umano, dunque, agli antipodi con l’uomo a-religioso – specifico di quest’epoca – incapace di prestare attenzione alle realtà fondamentali sull’esistenza umana e sul creato.
Ries ha anche reso omaggio alla figura di don Giussani, individuando nel Meeting di Rimini, “una delle più grandi risposte al ‘68”, anche per le virtù carismatiche dello stesso Giussani, “per la sua fede, per come comunicava la fede e per la sua attenzione ai giovani”.
Il reverendo Habukawa ha ringraziato il pubblico della calorosa accoglienza con un inchino e con un breve saluto in italiano: “Buonasera, vi ringrazio”. Ha poi rievocato l’esperienza del Meeting di Tokyo dello scorso ottobre e, soprattutto, “i 25 anni dell’amicizia tra Italia e Giappone”, con riferimento al suo primo incontro con don Giussani.
L’amicizia con il fondatore di Comunione e Liberazione, dura da un quarto di secolo, ha spiegato Habukawa, perché “sovrasta la morte”. Un tratto comune tra questi due uomini di paesi e culture lontanissimi è proprio la convergenza con il pensiero del fondatore del buddhismo Shingon, Kobo-Daishi, che invitava a “osservare tutte le cose con la massima e più profonda attenzione”.
Di Giussani, il monaco buddhista giapponese apprezzava a sua volta, l’inclinazione alla “apertura del cuore a tutte le cose”, che sta a significare che “io esisto con tutto l’universo”. È in questi termini che l’uomo diventa religioso: quando sviluppa, “una tenerezza, un amore per tutto ciò che esiste”, ha spiegato Habukawa.
Il rapporto dell’uomo con l’infinito, tema dell’attuale edizione del Meeting, è riscontrabile nel Mistero che si annida in ogni singolo fenomeno dell’universo, a partire, ad esempio, dal susseguirsi delle stagioni, ha aggiunto il monaco Shingon.
Habukawa ha poi raccontato dell’interesse che don Giussani mostrò per la statua di Kannon, la divinità che, con le sue mille braccia, realizza la salvezza di tutti gli esseri umani. Secondo il sacerdote di Desio, quel simulacro faceva comprendere ai cristiani cosa fosse la misericordia di Dio.
Ha chiuso il ciclo di interventi don Stefano Alberto, professore di introduzione alla teologia all’Università Cattolica di Milano. Al pubblico del Meeting, don Alberto ha raccontato altri episodi dell’amicizia tra il fondatore di CL e il monaco del Monte Koya.
Quando Habukawa andò a Milano a far visita all’amico sacerdote, al momento del congedo, a mani giunte, si sporse dal finestrino dell’auto che lo riaccompagnava in aeroporto, senza mai distogliere lo sguardo da don Giussani. Quest’ultimo, poi, disse commosso: “Se quest’uomo fosse nato duemila anni fa, al tempo di Gesù, sarebbe stato uno degli apostoli”.
Don Alberto ha poi riflettuto sulle sfide dell’homo religiosus di oggi: l’alternativa, in tal senso, è tra “la chiusura della ragione nei confronti della realtà in un mondo auto-costruito” e “l’apertura alla totalità del reale fino al riconoscimento del Tu-che-mi-fai”.
Per usare le parole di Benedetto XVI, durante la sua visita al parlamento tedesco dello scorso settembre, la vera urgenza è quella di “tornare a spalancare la finestra del bunker della ragione positivista che impedisce la consapevolezza della dipendenza dall’infinito”.
“A noi il senso religioso serve per accorgersi che, nel Mistero che si fa uomo, tutto diventa interessante”, ha poi concluso il teologo.
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Publié dans:ATTUALITÀ, TEMI INTERESSANTI |on 21 août, 2012 |Pas de commentaires »

Lo stupore è la chiave dell’intelligenza

dal sito:

http://salute.leiweb.it/sesso-psicologia/10_a_stupore-intelligenza.shtml

Lo stupore è la chiave dell’intelligenza

Gli adulti in grado di sorprendersi hanno il cervello più sveglio e più allenato. I consigli per continuare a farvi incantare dalla vita

Lo stupore di fronte a un rubinetto: una vera sopresa per chi ha sempre preso l’acqua al pozzo (foto di Erwin Olaf apparsa su un numero di OK).

Sorpresa uguale plasticità mentale
Il verbo stupirsi, stando all’etimologia, vuol dire reagire a qualcosa di inaspettato, da cui siamo stati colpiti. «Se non sei in grado di provare né stupore né sorpresa sei per così dire morto, i tuoi occhi sono spenti», scrisse Albert Einstein.
Malgaroli annuisce: «Ha ragione lo scienziato. Lo stupore è una forma di plasticità mentale che si dovrebbe tenere viva a tutte le età».
Ma cosa avviene nella testa quando rimaniamo di sasso davanti a una situazione imprevista? «Succede che un’emozione forte stordisce il cervello», spiega Malgaroli. «All’inizio viene registrata come una sorta di preoccupazione per la novità. È il momento in cui si attivano amigdala e sistema limbico, coinvolti quando si prova una sensazione di paura, quindi la corteccia prefrontale, che interviene nella valutazione di un potenziale pericolo. Così si accende il sistema dell’attenzione, che ha sede nel tronco cerebrale e che è deputata a trovare le risorse per gestire un evento fuori dall’ordinario».
Ed è allora che l’emozione iniziale, quel misto di timore e curiosità, diventa stimolo a conoscere: carburante per la testa. «Ad accendersi sono le aree sedi del pensiero astratto: corteccia frontale, giro cingolato, lobo limbico. Infine entrano in gioco altre funzioni cognitive superiori, per stabilire un nesso tra la cosa sorprendente e quanto si conosceva. Il risultato è che, dopo essere rimasti a bocca aperta, si apprende qualcosa, e in fretta».

Fatevi incantare ogni giorno
«Per continuare a stupirsi nella vita di tutti i giorni, potete provare con questi piccoli trucchi», suggerisce la psichiatra pisana Donatella Marazziti (puoi chiederle un consulto).
• Osservate il mondo che vi circonda con attenzione, soffermatevi sui particolari, cercate legami tra gli eventi. Provate a sentirvi parte viva della natura.
• Non date tutto per scontato: opinioni, gusti e preferenze si possono cambiare, a qualsiasi età e in qualsiasi momento. Non si rimane gli stessi nel corso di una vita, per cui i cambiamenti vanno assecondati e non ostacolati.
• Lasciatevi tentare, provate e sperimentate anche quello che a prima vista non suscita il vostro interesse o sembra annoiarvi. Ascoltate i consigli di altri per intraprendere un nuovo corso in palestra, dedicarvi a un hobby insolito, andare a vedere una mostra o uno spettacolo teatrale.
Francesca Gambarini – OK La salute prima di tutto

Ultimo aggiornamento: 26 gennaio 2010

Publié dans:TEMI INTERESSANTI |on 9 mai, 2011 |Pas de commentaires »

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