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SINDONE. IL DIO NASCOSTO (C.M.MARTINI)

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SINDONE. IL DIO NASCOSTO (C.M.MARTINI)

POSTED ON 8 MARZO 2010

Al cuore della fede cristiana, per il filosofo Paul Ricoeur, c’è «un nucleo simbolico», quello del «servitore sofferente, dell’uomo gradito a Dio perché dà la vita per i suoi amici».   Prefigurato da Isaia, svelato nei Vangeli e ricordato dall’immagine misteriosa impressa sul sacro lino. La riflessione dell’arcivescovo emerito di Milano di Carlo Maria Martini, Avvenire 7.3.10

Giovanni Paolo II, nel discorso in occasione del suo pellegrinaggio del 24 maggio 1998, ha insistito sulla funzione di segno da cui parte un messaggio per noi. Ha chiamato la Sindone «immagine intensa e struggente di uno strazio inenarrabile», «immagine della sofferenza», «immagine dell’amore di Dio, oltre che del peccato dell’uomo», «immagine di impotenza», «immagine del silenzio». E ha sottolineato che essa «diventa così un invito a vivere ogni esperienza, compresa quella della sofferenza e della suprema impotenza, nell’atteggiamento di chi crede che l’amore misericordioso di Dio vince ogni povertà, ogni condizionamento, ogni tentazione di disperazione».   C’è in questa immagine un mistero di nascondimento, che richiama l’enigmatico versetto del profeta Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, Salvatore» (45,15). È il versetto che ho scelto come filo conduttore per la mia riflessione, insieme ad una frase del filosofo Paul Ricoeur in un’intervista di qualche anno fa. A chi gli domandava in quale modo definiva da filosofo la fede cristiana, rispondeva: «Il cuore della fede cristiana» consiste anzitutto in un «nucleo simbolico centrale, quello del servitore sofferente, dell’uomo gradito a Dio perché dà la sua vita per i suoi amici». Faceva quindi riferimento sia ai canti del Servo del Signore (Is 42-53) sia alla parola di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). (…) Una situazione storica in cui la presenza­assenza del divino, misteriosa e ricca di potenza, raggiunge il suo acme è certamente quella della passione di Gesù.   Ignazio di Loyola, che aveva a lungo contemplato i misteri della sofferenza del Signore, invita colui che fa gli Esercizi spirituali a meditare, nella settimana dedicata alla passione, su questo tema: «Considerare come la divinità si nasconde, come cioè, potendo distruggere i suoi nemici, non lo fa e come lasci soffrire tanto crudelmente la santissima umanità» di Gesù (n. 196).   Noi non sappiamo se sant’Ignazio si sia lasciato ispirare per la sua importante annotazione dal versetto di Is 45,15 – «Tu sei un Dio nascosto» –. Più probabilmente aveva in mente la parola di Gesù al discepolo che voleva difenderlo con la forza da coloro che venivano per catturarlo: «Rimetti la spada nel fodero… Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?» (Mt 26,52-53). Da testi come questo Ignazio traeva la riflessione sul voluto occultamento della potenza divina nella passione del Signore, e comunque è chiaro che annetteva grande importanza al mistero del nascondimento di Dio. Infatti vi ritorna nella settimana dedicata alla risurrezione invitando a contemplare «come la divinità, che sembrava nascondersi nella passione, appare e si mostra ora tanto miracolosamente nella santissima risurrezione attraverso i meravigliosi effetti di essa» (n. 223).   Del resto, la congiunzione di potenza e impotenza, di debolezza e gloria, gloria nascosta nel mistero delle umiliazioni e sofferenze di Gesù, è ciò che il quarto vangelo ci invita a contemplare nel racconto della passione. Ad Andrea e Filippo, i due apostoli che riferiscono a Gesù, nel giorno del suo ingresso trionfale a Gerusalemme, il desiderio di alcuni greci di vederlo – e che si aspettano una risposta entusiasta per la domanda di fede che sembra contagiare pure i pagani – egli risponde parlando della gloria della sua morte: «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,23-24). Subito dopo l’evangelista riporta un detto enigmatico di Gesù che unisce l’esaltazione alla croce: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire» (Gv 12,32-33). E, dopo aver raccontato che Giuda era uscito dal Cenacolo per consumare il tradimento, Giovanni fa dire subito a Gesù: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato» (Gv 13,31).   Dunque il cristiano che legge Isaia non può non pensare alla passione di Gesù come il momento in cui la potenza di Dio, e addirittura la sua gloria, si è espressa nell’umiliazione e nella passività del Figlio dell’uomo torturato a morte.   E la Sindone ci parla proprio di un uomo sotto i tormenti, il cui volto – come recita la bella preghiera composta dall’arcivescovo di Torino cardinale Severino Poletto – «tumefatto e macchiato di sangue» appare «dolcissimo nella serena solennità della morte», così che, pur non potendo dire con certezza chi sia questa persona, avvertiamo il «fascino di questa immagine» e «il cuore si commuove nel constatare che qui si riflette, come in uno specchio, il Vangelo».   L’espressione «Tu sei un Dio nascosto» di Is 45, 15 offre davvero una molteplice serie di piani interpretativi. Nel contesto di Isaia fa riferimento a un agire di Dio che si nasconde negli enigmi della storia. Nel contesto della passione e morte di Gesù può essere colto quale riferimento al nascondersi della potenza divina e all’inermità del sofferente tormentato fino alla morte.   Ela Sindone, pur nella sua enigmaticità, costituisce – dice Giovanni Paolo II nel discorso sopra citato – «un segno veramente singolare che rimanda a Gesù, la Parola vera del Padre, e invita a modellare la propria esistenza su quella di colui che ha dato se stesso per noi».   Un’esistenza capace di mostrare la gloria di Dio anche nell’inermità e nella debolezza.   Nel desiderio di approfondire il significato cristologico del versetto di Isaia, siamo rimandati ad altre pagine che si trovano nel medesimo contesto di Isaia 45, cioè ai capitoli 42-53 dove si accenna alla missione di un servo presentato anche quale servo sofferente; quella missione che costituisce, secondo Paul Ricoeur, il nucleo simbolico centrale del mistero cristiano.   Continua, infatti, Ricoeur, parlando del «simbolismo» strutturante del servo sofferente»: «La nostra fede ha un valore strutturante ed è pure sorgente di riflessione sulla condizione umana, sui rapporti dell’uomo con se stesso e con gli altri». Egli ritiene che il simbolismo fondamentale del cristianesimo – la figura del servo sofferente che dà la vita per i suoi amici – sia accessibile a ogni uomo: «Ogni uomo può comprenderlo. Entrare nel movimento della fede è decidere di fare di questo servitore, di Gesù Cristo, il principio organizzatore della propria vita, della sua comprensione e del rapporto con altri». (…) Stimolato dalle riflessioni di un filosofo vorrei cercare di delineare alcune coordinate dei canti del servo sofferente nel contesto di Is 42-53, per cogliere successivamente come si realizzano nella passione di Gesù e che cosa dicono a chi contempla oggi il volto dolente dell’uomo della Sindone pensando alla morte del Signore per noi.   Suppongo noti i quattro canti e non li rileggo: sono quattro oracoli, quattro brevi poemi (da cinque a sedici versetti ciascuno) inseriti nella seconda parte del libro di Isaia, che parlano di un misterioso, innominato Servo del Signore, eletto da lui, inviato per una missione e sottoposto a gravi sofferenze fino alla morte. Da tali sofferenze scaturisce il bene e la salvezza del popolo.   Anzitutto sottolineo le convergenze esteriori, superficiali e però interessanti tra gli enigmi dei quattro carmi e l’enigma dell’uomo della Sindone.   1) Entrambi sono anonimi. Non sappiamo determinare l’autore dei canti del Servo e neppure del contesto in cui si trovano. Gli esegeti si accordano sul fatto che i capitoli 42­53 sono di uno o più autori ignoti, certamente posteriori al profeta Isaia.   2) Misteriosa rimane pure l’identificazione del Servo. Talvolta sembra si parli di tutto il popolo d’Israele; talvolta, invece, il Servo è identificato col re dei persiani Ciro, che conquistò Babilonia e permise il ritorno degli esiliati a Gerusalemme. In alcuni brani, quelli chiamati appunto i «carmi del servitore di Dio», la figura del servitore si precisa come persona singola pur restando anonima, persona che dà la vita per il popolo e subisce terribili torture fisiche e morali. È qualcuno che «ha presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che gli strappavano la barba» e che «non ha sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6).   Anche l’uomo della Sindone rimane ignoto e non si è riusciti a stabilire con esattezza scientifica il tempo al quale risale. Chiaramente si tratta di un uomo che è stato sottoposto ai flagelli, il cui volto è stato offeso.   Per questo mi pare importante rendersi conto più da vicino della missione e del mistero del Servo sofferente descritto da Isaia. Notiamo anzitutto che il protagonista dei capitoli 42-53 di Isaia non è il Servo del Signore, bensì Dio stesso, colui che è il dominatore dei tempi, del passato e del futuro, colui che in ogni circostanza e situazione è capace di salvare Israele. Egli si serve per la sua azione anche di rappresentanti e uno di essi è appunto una precisa persona storica, Ciro che, come ho accennato sopra, soggiogherà la potenza che aveva distrutto il regno di Giuda e farà rientrare i deportati del popolo.   Un altro rappresentante è appunto questo servo enigmatico e misterioso, membro del popolo del Signore, a cui viene affidata una missione non soltanto riguardo al popolo eletto, ma al mondo intero. Un servitore che ha una particolare intimità con il suo Signore. Dio stesso «gli ha aperto l’orecchio, gli ha dato una lingua da iniziati» (Is 50,5.4), il linguaggio profetico; Dio è il suo unico sostegno e il servo professa un’assoluta obbedienza che si caratterizza per una straordinaria tenacia e capacità di affrontare la contraddizione, e si esprime in una sorprendente pazienza e dolcezza.   Il dramma stesso della morte cui egli va incontro, e che a prima vista sembrerebbe un fallimento della sua missione, sta a dire una dedizione e un amore capaci di superare ogni resistenza, addirittura divenendo intercessione e offerta sacrificale per la salvezza di tutto il popolo. Proprio in tal senso la figura del Servo pone la questione sul modo con cui Dio salva, e quindi sul suo modo di essere potente e sapiente.   Emerge dalle pagine di Isaia la figura di un Dio che cerca anzitutto l’obbedienza della fede, l’interiorità del culto, la dedizione incondizionata, l’amore che non viene meno e che perdona agli offensori.   La figura del Servo così delineata esprime anche un’immagine di un Dio esposto alla contraddizione e al rifiuto, di un Dio ricco di misericordia e di perdono, che si presenta come un amore tenacemente e gratuitamente offerto, un amore fragile e disarmato. Il suo «eletto esporrà il diritto alle nazioni senza gridare né alzare il tono… senza spezzare la canna incrinata, né spegnere la fiammella smorta» (Is 42,2-3). Il soffrire di questo servo (cf. Is 50,4­9; 52,13-53,12) mette in luce l’immagine di un Dio che sembra nascondersi nella sofferenza e nella debolezza dell’uomo. Questo servo è «disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3); oppure sono nostre le malattie che ha portato, nostri i dolori che si è addossato. È apparso come se fosse «castigato, percosso da Dio e umiliato», ma noi otteniamo la guarigione grazie alle sue piaghe (cf. Is 53,4-5).   Ancora, questo servo non si pone come estraneo al suo popolo e all’umanità, si pone piuttosto come un nuovo, vi è in lui un elemento di inconfrontabilità. Contempliamo quindi il mistero di un uomo mediante il quale si ha anche una nuova rivelazione personale di Dio, in quanto Salvatore.   È ovvio che soltanto di fronte a Gesù di Nazaret comprenderemo che la figura del servo di Isaia è un’anticipazione della rivelazione di Dio nel suo Figlio fatto uomo, di conseguenza una rivelazione della figura di un’umanità autentica. Quel servo esprime dunque qualcosa i cui contorni dovranno essere definiti in seguito, pur se in maniera sorprendente e imprevedibile. Gradualmente verrà alla luce che la storia del servo doveva in definitiva essere la storia di Dio con e per gli uomini, capace di rivelare Dio all’uomo e l’uomo a se stesso. Il nuovo modo, singolare, di essere del servo aveva la sua ragione profonda nel fatto che in lui si esprimeva il modo umano di essere dell’amore salvifico di Dio.

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – VENERAZIONE DELLA SANTA SINDONE – « ICONA DEL SABATO SANTO »

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20100502_meditazione-torino_it.html

VISITA PASTORALE A TORINO

VENERAZIONE DELLA SANTA SINDONE – « ICONA DEL SABATO SANTO »

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Domenica, 2 maggio 2010

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In diverse altre occasioni mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.
Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.
Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.
Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.
E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.
In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.
Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – “Passio Christi. Passio hominis” -, da questo volto promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.
Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sindone (la) |on 19 avril, 2014 |Pas de commentaires »

LA VERIDICITÀ DELLA SINDONE CONFERMATA DAI POLLINI

http://www.zenit.org/article-31058?l=italian

LA VERIDICITÀ DELLA SINDONE CONFERMATA DAI POLLINI

Si è svolto a Valencia un convegno sulla Sindone. Presentato il lavoro di una studiosa universitaria, Marzia Boi, ricercatrice presso l’Università delle Isole Baleari

di Marco Tosatti
ROMA, mercoledì, 6 giugno 2012 (ZENIT.org) – Il polline rivela: la Sindone è un lenzuolo funebre. Nei giorni scorsi si è svolto a Valencia un convegno sulla Sindone. E’ sembrato
particolarmente interessante il lavoro di una studiosa universitaria, Marzia Boi, ricercatrice presso l’Università delle Isole Baleari.
La Boi è una specialista di “palinologia” la scienza che studia i pollini. Come è noto agli appassionati del genere, il tessuto della Sindone è coperto di pollini; e la relazione della ricercatrice mette in rilievo con chiarezza il fatto che i pollini testimoniano che il lenzuolo custodito a Torino aveva una caratteristica ben precisa: era un lenzuolo funerario, utilizzato secondo rituali presenti nell’area del Medio oriente da oltre due millenni.
La Boi nella sua relazione non lo dice; ma noi ci permettiamo di aggiungere che questa constatazione è un forte elemento contro la tesi della falsificazione medievale. Appare infatti piuttosto incredibile (e costituirebbe un reale miracolo scientifico) l’idea di un falsario medievale con le conoscenze degli unguenti e degli olii utilizzati nei riti funerari ebraici del I secolo dopo Cristo, e si fosse messo a ricostituire unguenti e aromi secondo quelle disponibilità e formule in attesa che qualche secolo più tardi strumenti di cui non è a conoscenza potessero rivelarlo.
Scrive nella sua relazione a Valencia Marzia Boi: “I pollini del Sacro Lino, che fino ad ora sono stati messi in relazione con l’origine geografica della reliquia, rivelano inoltre gli oli e gli unguenti applicati sia al cadavere che alla tela. Le scoperte aggiungono un significato etnoculturale in relazione a pratiche funerarie molto antiche. Queste particelle, indistruttibili col passare del tempo, fotografano un rito funebre di 2000 anni fa e grazie alle stesse, si sono rivelate le piante usate nella preparazione del cadavere conservato nella tela.
Le sostanze oleose hanno permesso che i suoi pollini, quali componenti accidentali, si siano fermati, impregnati e nascosti nel tessuto di lino, quali testimoni invisibili di uno straordinario evento storico”. Secondo la tradizionale ebraica i cadaveri e ciò che li copriva erano trattati con olii e unguenti profumati in un rito minuzioso. La ricerca della Boi analizza i lavori pubblicati sui pollini della Sindone. Max Frei, il grande studioso svizzero dei pollini della Sindone, ha lasciato un tesoro documentario.
Un esame con strumenti più avanzati di quelli di oltre trent’anni fa hanno portato la ricercatrice a correggere alcune identificazioni. Fra queste è particolarmente importante una scoperta: “Posso vedere come il polline di Anemone è in realtà di Pistacia. Il polline di Ridolfia lo identifico come un’Asteracea di nome Helichrysum”.
E fa un’altra scoperta: e cioè che il polline finora identificato come quello di “Gundelia Tourneforti” in realtà non lo è. Gundelia Tourneforti è una delle 23.000 specie di Asteracea al mondo, che cresce nei deserti montani di tutta l’Asia Minore.
Nel 1999 due grandi studiosi ebrei, Danin e Baruch nel libro “Flora of the Shroud” nella loro revisione del lavoro di Frei confermano la specie Gundelia come il polline più abbondante nel lino e ipotizzano che la corona di spine sia stata formata da foglie della stessa Gundelia. Marzia Boi non è di questo parere. L’esame al microscopio elettronico della Boi da’ la risposta: il polline non è nè Ridolfia né Gundelia, ma Helichrysum.
E’ il polline più abbondante (29.1%) seguito da Cistaceae con l’8.2%, Apiaceae con il 4.2% e Pistacia con lo 0.6%. “Tutte le piante menzionate sono di pollinizzazione entomofila: i loro pollini si spostano con l’aiuto di insetti e non nell’aria; questo dimostra che ci deve essere stato un contatto diretto o con le piante o con i prodotti di uso funerario…la lista dei pollini rivela la traccia delle piante più usate negli antichi riti funerari. I pollini riconosciuti chiariscono che il Sacro Lino è stato unto con oli e unguenti, così come probabilmente il corpo che ha avvolto”.
Da foglie, frutto e corteccia del genere Pistacia si otteneva un balsamo usato anche come unguento. Ma dall’Helichrysum si produceva un olio di ottima qualità, usato per ungere sia la tela funebre che il cadavere, e proteggerli. “L’uso di questo olio nei rituali funerari antichi è documentato in vari Paesi, dall’Arabia alla Grecia”.
Conclude Marzia Boi: “I pollini dominanti nella Sindone sono l’immagine del rituale funerario secondo gli usi di 2000 anni fa in Asia Minore. Sono i componenti degli unguenti e olii più preziosi dell’epoca che sono rimasti straordinariamente sigillati nella tela… Aver identificato correttamente il polline di Helichrysum, erroneamente chiamato Gundelia, conferma e da autenticità all’importante personalità del corpo avvolto nel lino”.

Publié dans:Sindone (la) |on 6 juin, 2012 |Pas de commentaires »

Card. Schönborn: la Sindone ci parla del silenzio del Sabato Santo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22026?l=italian

Card. Schönborn: la Sindone ci parla del silenzio del Sabato Santo

Meditazione dell’arcivescovo di Vienna nel duomo di Torino

ROMA, lunedì, 12 aprile 2010 (ZENIT.org).- “Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine”: è iniziata con una citazione dall’omelia per “il grande e Santo Sabato, attribuita a Epifanio di Salamina, che si legge nell’Ufficio delle letture del Sabato Santo”, la meditazione che il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ha tenuto lunedì sera nel duomo di Torino in occasione dell’Ostensione della Sindone 2010 sul tema “Passio Christi – Passio hominis. Il mistero del Sabato santo”.

“Quest’omelia – ha affermato Schönborn – parla di un contenuto di fede che confessiamo nella breve frase del Credo: …discese agli inferi (‘discendit ad inferos’)”. Per la redenzione dell’uomo era necessario “anche che Gesù Cristo ‘assaggiasse’ la morte, che sperimentasse davvero lo stato di morte, come vediamo in maniera così sconvolgente nella Sindone”.

“Non risulta facile oggi – ha commentato l’arcivescovo di Vienna – comprendere questo articolo di fede. La verità di fede vi è formulata in concetti provenienti da un immaginario che ci è estraneo. L’idea di un ‘regno della morte’, di un ‘mondo inferiore’ al di sotto del mondo in cui viviamo, di un ‘inferno’ che contiene le anime dei morti, sembra totalmente lontana dalla nostra moderna coscienza razionale”.

“Non sarebbe quindi meglio rinunciarci?”, ha chiesto ai numerosi presenti lo stesso cardinale. Ma “la Chiesa dai tempi più antichi ha tenuto ferma questa confessione. Non dovrebbe essere questo, per noi, uno stimolo a sforzarci di capire, proprio quando la questione appare difficile ed oscura? Proprio in considerazione degli eventi del ventesimo secolo, occuparsi del Sabato Santo, del giorno in cui Dio tace, sembra oggi più attuale che mai”.

“Regno della morte”, “mondo inferiore” ed “inferno”, ha spiegato Schönborn “non indicano il luogo di eterna condanna, bensì la dimora dei morti, chiamata in ebreo lo Sheol, in greco l’Ade (At 2,31). È il luogo dove le anime dei defunti si trovano imprigioniate dopo la morte”.

“Le testimonianze bibliche – ha proseguito Schönborn, citando Giovanni Paolo II – confermano la discesa di Cristo ai morti come vera esperienza di morte, come l’espressione di più profonda solidarietà con gli uomini. Durante quei tre giorni, dalla sua morte fino alla resurrezione, Gesù ha sperimentato ‘lo stato di morte’, cioè la separazione dell’anima dal corpo, nello stato e condizione di tutti gli uomini”.

D’altra parte “Gesù stesso lo aveva preannunciato, paragonando il proprio cammino con la storia del profeta Giona: ‘Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra (Mt 12, 40)’”.

“Teresia Benedita a Cruce, Edith Stein, la filosofa e carmelitana uccisa ad Auschwitz – ha ricordato l’arcivescovo di Vienna -, ha descritto questa scena a modo di visione, in un piccolo pezzo teatrale dal titolo ‘Dialogo notturno’. Lo scrisse nel giugno del 1941 per l’onomastico della sua priora, Madre Antonia a Spiritu Sancto, nel convento olandese di Echt”.

La meditazione del cardinale nel duomo di Torino, che è stata inframmezzata da intervalli musicali, ha quindi lasciato spazio alla citazione dei versi composti dalla Stein.

“Il silenzio del Sabato Santo, di cui la Sindone ci parla in maniera così imponente – ha ripreso Schönborn -, è l’atteggiamento di attesa di tutta la terra. Esso ricorda il silenzio che precede la creazione del mondo (Gen 1,2), quando tutto attende che Dio agisca con potenza”.

“Ed è così anche qui – ha affermato il cardinale -. Cristo è venuto nel mondo e la sua opera terrena, la vita fra gli uomini e la morte per il peccato, è compiuta. Egli si è inserito nella genealogia del genere umano peccatore, per redimere tutti, fino ad Adamo, il progenitore di tutti gli uomini. Ora, il Sabato Santo, nella morte, fattosi solidale anche con i morti, egli va come in trionfo nel mondo degli inferi, per chiamare fuori tutti coloro che la morte tiene ancora prigionieri”.

L’arcivescovo di Vienna ha, quindi ricordato la visione sostenuta dal teologo Hans Urs von Balthasar che “mette in evidenza un aspetto che nei Padri fu poco sviluppato. Il Sabato Santo, la morte di Cristo non reca in sé, in un primo momento, nessun trionfalismo. Uno sguardo alla Sindone ce lo conferma, lo sperimentiamo nella liturgia del Sabato Santo che è estremamente semplice, senza alcuna celebrazione eucaristica”.

Questa visione ricorda che “la morte di Cristo lascia in un primo momento i suoi discepoli e la Chiesa tutta nello sgomento, nell’afflizione e nel timore. Il credente è invitato al silenzio, al raccoglimento e all’adorazione. La salvezza che si realizza nella discesa agli inferi nel Sabato Santo è ancora nascosta, la morte ha ancora il suo potere, che poi le verrà tolto”.

Da un lato c’è “l’abbassamento di Gesù Cristo, la sua solidarietà con noi fino alla prova della più profonda amarezza della morte” ma dall’altro “la gloria; Gesù Cristo è morto veramente, ma in questa morte egli è già il Beato che chiama alla beata comunione tutti i giusti che sono morti con lui. Dio si reca nell’abbassamento per strappare gli uomini alla morte e condurli in alto”.

“Disceso agli inferi – ha proseguito l’arcivescovo di Vienna citando le ‘Meditazioni sulla Settimana Santa’ scritte dall’allora cardinale Ratzinger – significa che Cristo ha varcato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo insuperabile, irraggiungibile del nostro essere abbandonati”.

Significa, ha concluso, che “anche nell’ultima notte nella quale nessuna parola penetra, nella quale noi tutti siamo come bambini che piangono, abbandonati, c’è una voce che ci chiama, c’è una mano che ci prende e che ci guida. La solitudine insuperabile dell’uomo è superata da quando Lui vi è entrato”.

Publié dans:Cardinali, Pasqua, Sindone (la) |on 13 avril, 2010 |Pas de commentaires »

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