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BONAVENTURA DA BAGNOREGIO – IL MONDO È « VESTIGIO DELLA SAPIENZA DI DIO »

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BONAVENTURA DA BAGNOREGIO – IL MONDO È « VESTIGIO DELLA SAPIENZA DI DIO »

da Collationes in Hexämeron, XII, 14-17 – XIII, 12

Rifacendosi implicitamente alla visione del libro in Ap 5,1 e forse di Ez 2,9, per Bonaventura la natura, ovvero la creatura sensibile, è un libro scritto fuori; le creature razionali, sono un libro scritto dentro, perché posseggono una coscienza; la Sacra Scrittura è un libro scritto sia dentro (significati impliciti da trarre), sia fuori (significati espliciti). Questi sono i tre “aiuti” mediante i quali la ragione e la fede ascendono alla contemplazione delle idee esemplari del Creatore
14. Sia la ragione sia la fede conducono alla considerazione di questi splendori esemplari, ma vi è anche un ulteriore triplice aiuto per raggiungere le ragioni esemplari; ed è l’aiuto della creatura sensibile, l’aiuto della creatura spirituale, e l’aiuto della Scrittura sacramentale, che contiene i misteri. Riguardo al mondo sensibile, tutto il mondo è ombra, via, vestigio; ed è il libro scritto di fuori. Infatti in ogni creatura rifulge l’esemplare divino; ma rifulge permisto alla tenebra; ed è come una certa opacità mista alla luminosità. Inoltre tutto il mondo è anche una viache conduce nell’esemplare. Come tu puoi osservare che un raggio di luce che entra attraverso una finestra viene diversamente colorato a seconda dei diversi colori delle diverse parti; così il raggio divino rifulge in modo diverso nelle singole creature e nelle diverse proprietà. È detto nella Sapienza: Nelle sue vie si manifesta [Sap 6,16]. Ancora, il mondo è vestigio della sapienza di Dio. Onde la creatura non è che un certo simulacro della sapienza di Dio, e quasi una certa scultura. E da tutto questo il mondo risulta come un libro scritto al di fuori.
15. Quando, dunque, l’anima mira queste cose, le sembra che si dovrebbe passare dall’ombra alla luce, dalla via alla meta, dal vestigio alla verità, dal libro alla vera scienza che è in Dio. Leggere questo libro è possibile solo agli uomini di altissima contemplazione; ma non è possibile ai filosofi naturali, che conoscono solo la natura delle cose; ma non la riconoscono come vestigio.
16. Altro aiuto per raggiungere l’esemplare eterno, è offerto dalla creatura spirituale, che è come lume, come specchio, come immagine, come libro scritto all’interno. Infatti, ogni creatura o sostanza spirituale è lume; onde è detto nel Salmo: Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto [Sal 4,7]. Ma assieme a questo, la sostanza spirituale e anche specchio, perché accoglie e rappresenta in se stessa tutte le cose; ha poi anche la natura del lume, affinché giudichi anche intorno alle cose. Infatti tutto il mondo si descrive nell’anima. Inoltre, la sostanza spirituale è anche immagine dell’esemplare eterno; poiché, infatti, è lume e specchio che raccoglie le immagini delle cose, per questo è anche immagine. Infine, come conseguenza di tutto questo, la sostanza spirituale è anche il libro scritto all’interno. Onde nessuno e nessuna cosa può entrare nell’intimità dell’anima, tranne il semplice. Questo poi significa entrare nelle potenze dell’anima; perché, secondo Agostino [De Trinitate, XII, 1, 1], l’intimità dell’anima è la sua sommità; e quanto una potenza è più intima, tanto più è sublime. Questi aiuti li hanno anche i maghi del Faraone.
17, I maghi del Faraone non ebbero però il terzo aiuto, che è quello della Scrittura sacramentale. Ora, tutta la Scrittura è il cuore di Dio, la bocca di Dio, la penna di Dio, il libro scritto fuori e dentro. È detto nel Salmo: Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema. La mia lingua è stilo di scriba veloce [Sal 44,2]. Dove tutto viene indicato: il cuore è di Dio; la bocca è del Padre; la lingua è del Figlio; lo stilo è dello Spirito santo. Infatti, il Padre parla per mezzo del Verbo o della lingua; ma chi porta a compimento e lo affida alla memoria è lo stilo dello scriba. La Scrittura, dunque, è la bocca di Dio; onde Isaia rimprovera: Guai a voi!… Siete partiti per scendere in Egitto [Is 30,1-2]. Cioè, vi dedicate alle scienze mondane, e non avete interrogato la bocca di Dio [Is 30,2], cioè non interrogate la sacra Scrittura. Infatti, non deve taluno rifugiarsi e confidare nelle altre scienze per conoscere la verità con certezza, se non ha la testimonianza a monte; cioè la testimonianza di Cristo, di Elia, di Mosè; la testimonianza cioè del nuovo testamento, dei profeti e della Legge. Inoltre, la Scrittura è la lingua di Dio; onde si dice nel Cantico: C’è miele e latte sotto la tua lingua [Ct 4,11]; e nel Salmo: Quanto sono dolci al mio palato le tue parole; più del miele per la mia bocca [Sal 118,103]. Questa lingua dà sapore ai cibi, onde questa Scrittura è paragonata ai pani, che hanno sapore e ristorano. Ancora, la Scrittura è la penna di Dio, e questi è lo Spirito santo. Poiché, come chi scrive può attualmente scrivere le cose passate, le cose presenti, e le cose future; così sono contenute nella Scrittura le cose passate, le cose presenti e le cose future. Onde la Scrittura è il libro scritto al di fuori, perché contiene belle narrazioni storiche e ammaestramenti sulle proprietà delle cose. Ed è anche il libro scritto all’interno, perché contiene misteri e letture diverse.
È certo che l’uomo non decaduto aveva cognizione delle cose create, e, mediante la loro rappresentazione si portava in Dio per lodarlo, venerarlo, amarlo. Per questo sono appunto le creature, e pertanto così si riconducono in Dio. Ma l’uomo, decadendo a causa del peccato, perdette questa cognizione e non vi era più chi riconducesse le cose in Dio. Onde questo libro, cioè il mondo, era come morto e cancellato. Si rese pertanto necessario un altro libro, mediante il quale il libro del mondo fosse illuminato, e che accogliesse le metafore delle cose. Ora la Scrittura è proprio questo libro che pone le similitudini, le proprietà e le metafore delle cose, scritte nel libro del mondo. Pertanto, il libro della Scrittura è restauratore di tutto il mondo, per conoscere, lodare e amare Dio.

Bonavenutura da Bagnoregio, Collationes in Hexämeron, tr. it.: La sapienza cristiana. Le collationes in Hexaemeron, a cura di V. Cherubino Bigi e I. Biffi, Jaca Book, Milano 1985, pp. 175-177, 183-184

Publié dans:San Bonaventura da Bagnoregio, SCRITTI |on 6 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

IL FIGLIO DI DIO GOVERNA IL MONDO – Clemente Alessandrino

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20030131_clemente-alessandrino_it.html

IL FIGLIO DI DIO GOVERNA IL MONDO

Clemente Alessandrino, Stromata, 7,2

« Ciò che vi è di più nobile sulla terra è l’uomo, essere religiosissimo. Nel cielo, invece, è l’angelo, partecipe più da presso e con maggior profondità della vita eterna e beata. Ma perfettissima e santissima, di gran lunga superiore, sommamente dominatrice e regale e benefattrice è la natura del Figlio, la più vicina all’unico onnipotente. Egli è l’essere più nobile, ordinatore di tutto secondo la volontà del Padre ed eccellente governatore dell’universo, compiendo instancabilmente, secondo segreti disegni, tutte quante le cose. Il Figlio di Dio, infatti, mai si allontana dalla sua vetta, essendo indiviso e intatto senza passare da un luogo all’altro, sempre presente in ogni dove e non circoscritto in nessun luogo: tutto spirito, tutto luce paterna, tutto occhio, spettatore e ascoltatore e conoscitore d’ogni cosa, potente scrutatore delle potenze. A lui, Verbo paterno e sostenitore della santa economia, sono sottomesse tutte le schiere degli angeli e degli dèi, grazie a colui che gliele ha sottoposte. A lui appartengono perciò tutti gli uomini: alcuni per averlo conosciuto, altri non ancora; alcuni come amici, altri come servitori fedeli, altri, infine, semplicemente come servi. Egli è il maestro che istruisce lo gnostico con i misteri, il fedele con la buona speranza, colui che è duro di cuore con la disciplina correttrice, attraverso una saggia pedagogia. Così agisce la sua provvidenza in privato, pubblicamente e dappertutto.
Che egli sia il Figlio di Dio e che lui sia colui che noi diciamo Salvatore e Signore, l’attestano apertamente le divine profezie. In questo modo colui che è Signore dei greci e dei barbari, persuade coloro che lo desiderano; infatti non costringe nessuno a ricevere la salvezza da lui nella elezione, né a compiere quanto è richiesto per ottenere la speranza.
Il Figlio di Dio è colui che dà la sapienza ai greci attraverso gli angeli inferiori. Infatti, per antico ordine di Dio, sono angeli distribuiti per le genti (Dt 32,8.9). E che esistano dei prediletti del Signore è opinione dei credenti. Infatti, o il Signore non si prende cura di tutti gli uomini perché non lo può (il che è una bestemmia, in quanto significherebbe attribuire a Dio una dimostrazione di debolezza) o perché non lo vuole, pur essendone in grado (il che non rappresenterebbe certo una prova di bontà); oppure egli si prende invece cura di tutti, come è logico, essendo Signore di tutti. Infatti è il Salvatore: non soltanto di costoro, mentre degli altri no. Secondo la natura di ciascuno, egli ha diviso il suo beneficio fra greci e barbari, fra fedeli ed eletti, predestinati tra costoro e chiamati a suo tempo. Né potrebbe essere geloso di qualcuno, colui che ha chiamato ugualmente tutti; a coloro che credettero straordinariamente, attribuì onori straordinari. Né potrebbe mai essere stato impedito, colui che è Signore di tutto e serve soprattutto la volontà del Padre buono e onnipotente. Neppure mai si potrebbe trovare invidia nel Signore incorruttibile e generato senza inizio: d’altronde le cose umane stesse non sono certo tali da poter suscitare l’invidia del Signore. Diverso è colui che è geloso di chi gli sta a cuore. Non è lecito nemmeno affermare che il Signore non vuole dare la salvezza al genere umano per ignoranza, in quanto non conoscerebbe, cioè, il modo come prendersi cura di ciascuno. L’ignoranza, infatti, non tocca il Dio, che prima della creazione del mondo, fu consigliere del Padre: questa era la sapienza della quale Dio onnipotente si dilettava (Pr 8,30). Il Figlio è infatti la potenza di Dio in quanto fu, prima della creazione di tutte le cose, il principale Logos del Padre e la sua sapienza. Propriamente, egli potrebbe chiamarsi maestro di coloro che da lui sono stati plasmati. Non è distratto da alcun piacere, mai si è distolto dalla cura degli uomini, lui che, avendo accolto la carne corruttibile, la perfezionò verso una condizione di incorruttibilità.
Come poi lo si potrebbe definire Salvatore e Signore, se non fosse Signore e Salvatore di tutti? È Salvatore di coloro che credettero, avendo desiderato conoscerlo; ma è Signore anche di coloro che non hanno creduto fino a che, potendo farlo, ricevono da lui benefici appropriati.
Ogni opera del Signore ha relazione con l’onnipotente e il Figlio rappresenta, per così dire, un’opera paterna. Perciò mai il Salvatore ha in odio gli uomini; anzi, per la sua immensa carità verso di loro, non disprezzò la debolezza della carne umana, ma, rivestitosi di essa, venne fra noi per la comune salvezza degli uomini: è questa, infatti, la fede comune di quanti lo hanno scelto. Egli non trascura mai la sua opera: soltanto all’uomo, di tutti gli animali, è stata concessa la conoscenza al momento della creazione di Dio; né sarebbe stato possibile per gli uomini un trattamento migliore e più conveniente da parte di Dio. È sempre conveniente che l’inferiore venga affidato a chi gli è superiore per natura e che la sua custodia sia concessa a chi è in grado di occuparsene convenientemente.
Ciò che veramente governa e presiede è il Logos divino e la sua provvidenza che tutto controlla, nulla trascurando di quanto la riguardi. Coloro i quali si rivolgono a lui e hanno scelto di essergli uniti, sono iniziati per mezzo della fede. Per volontà del Padre onnipotente, questo Figlio è stato costituito causa di tutti i beni, primo suscitatore del moto, potestà incomprensibile ai sensi. Infatti, non apparve nella sua autentica realtà a coloro che non erano in grado di comprenderlo, a causa della debolezza della carne. Avendo egli accolto la carne sensibile, venne sulla terra per mostrare che è possibile all’uomo obbedire ai comandamenti.
Essendo la potenza paterna, il Figlio di Dio facilmente supera tutto ciò che vuole, nulla trascurando di quanto concerne il suo governo. Se ciò accadesse, infatti, non tutto sarebbe da lui compiuto in modo assolutamente corretto. È una dimostrazione della sua grandissima potenza il fatto ch’egli governi con somma cura tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi; egli è il supremo amministratore di tutte le cose e conferisce loro la salvezza, secondo la volontà del Padre, mentre gli altri sono sottoposti ad amministratori subalterni, fino a risalire al grande pontefice. Infatti, da un solo principio iniziale, operante in conformità al volere del Padre, dipendono i principi primi, secondi e terzi.
All’estremo limite del mondo visibile hanno la loro sede gli angeli. Poi discende fino a noi una successione di esseri gerarchicamente ordinati: tutti vengono salvati e salvano attraverso l’intervento e la mediazione di uno solo.

 

OMELIA SULL’UMILTÀ – S. BASILIO DI CESAREA (link ai Padri Cappadoci PDF)

http://www.ortodoxia.it/Omelia%20sull%92umilt%E0.htm

OMELIA SULL’UMILTÀ – S. BASILIO DI CESAREA (link ai Padri Cappadoci PDF)

http://www.culturamariana.com/pdf/08-01-2011.pdf

L’uomo doveva restare nella gloria che è presso Dio e avrebbe una grandezza non apparente, ma reale: l’avrebbe fatto grande la potenza di Dio, risplenderebbe per la sapienza divina, gioirebbe per la vita e per i beni eterni. Ma poiché sostituì la brama della gloria divina, e ambì e aspirò a realtà più grandi che non era in grado di afferrare, perse proprio ciò che poteva avere. Per lui, la via di salvezza e la terapia più efficace dell’infermità e per il ritorno alla condizione originale, è l’umiltà e il non far sfoggio di una propria gloria, ma cercare quella che viene da Dio. Così rimedierà alla caduta, così curerà la malattia, così ritornerà al santo comandamento che aveva abbandonato.
Ma il diavolo, che fece cadere l’uomo con la speranza di una falsa gloria, non cessa di provocarlo con gli stessi stimoli e di inventare a tale scopo artifici senza numero.
Gli fa apparire come gran cosa il possesso delle ricchezze, per vantarsene e porvi ogni sollecitudine. Ciò non vale niente per giungere alla gloria, ma tanto per il pericolo in cui si incorre. Il procurarsi ricchezze, infatti, è occasione di avidità, e il possederle non reca alcun prestigio, ma produce un inutile accecamento, una vana esaltazione, e nell’anima una malattia simile a un gonfiore. Non è sano, né benefico il tumore che provoca il gonfiore dei corpi, ma è malsano, nocivo, principio di pericolo e causa di rovina. Tale è anche l’orgoglio per l’anima.
E non solo ci si monta la testa per le ricchezze, e gli uomini non si esaltano unicamente per il tenore di vita e per l’abbigliamento che le ricchezze consentono: allestendo banchetti sontuosi, smodatamente ricchi; indossando abiti eccessivi; edificando enormi palazzi, ornati con ogni ricercatezza; con una moltitudine di servi al seguito e accompagnati da una frotta di parassiti senza numero, ma si esaltano anche, oltre natura, per le cariche a cui sono eletti. Se un popolo conferisce una carica; se stima uno degno di una qualche preminenza e gli affida per decreto la carica del comando supremo, a questo punto, coloro che hanno ottenuto tale dignità, come balzando al di sopra della natura umana, si considerano, come le nubi, al di sopra di tutti e stimano i loro sudditi come polvere da calpestare e si esaltano nei confronti di quelli che hanno loro conferito la dignità e si mostrano arroganti verso coloro mediante i quali pensano di essere qualcuno.
Continuando ad esercitare un potere con ogni follia, la loro gloria è più inconsistente di un sogno e lo splendore che li avvolge è più vano di una fantasia notturna: a un cenno del popolo è sorta, e ad un cenno è svanita.
Così era quel folle del figlio di Salomone, giovane di età, ma ancor più giovane di senno. Al popolo che gli chiedeva di governare con più moderazione, egli minacciò una durezza ancora maggiore, e con la minaccia mandò in rovina il regno; per essa si aspettò di venire considerato un re ancora più grande, per essa fu distrutta la dignità che aveva.
Infondono un’eccessiva fiducia nell’uomo anche la forza delle mani, la velocità dei piedi, la bellezza del corpo: cose che sono divorate dalle malattie e consunte dal tempo. L’uomo non percepisce che ogni carne è come l’erba e ogni gloria umana è come il fiore dell’erba; l’erba si è seccata e il fiore è inaridito.
Tali furono le arroganze dei giganti a causa della loro forza, e la convinzione dello stolto Golia di poter combattere contro Dio. Tale fu Adonia, orgoglioso della sua bellezza; tale fu Assalonne, superbo per la sua straordinaria capigliatura.
2. Ciò che sembra essere poi il più grande e il più sicuro fra tutti i beni che gli uomini possiedono, cioè la sapienza e l’intelligenza, anche questo è vana esaltazione e conferisce una grandezza non vera.
Se si esclude la sapienza che viene da Dio, tutte queste cose non servono a nulla.
Persino al diavolo, infatti, non gli riuscì il sofisma che ideò contro l’uomo, e non si accorse di aver ordito contro se stesso ciò che aveva escogitato contro l’uomo. Non recò nessun grave danno a colui che egli sperava di allontanare da Dio e dalla vita eterna. Tradì solo se stesso, poiché si ribellò a Dio e fu condannato a una morte eterna. E poiché tese un laccio al Signore, a questo laccio fu preso: fu crocifisso proprio quando era intento a crocifiggere, e fu ucciso nell’istante in cui sperò di mettere a morte il Signore.
Ma se il principe del mondo, il primo, supremo e invisibile sofista della sapienza mondana è preso dai suoi sofismi e finisce nell’estrema stoltezza, quanto più i suoi discepoli e seguaci: anche se comprendono un’infinità di cose, dichiarandosi sapienti, sono diventati stolti. Il Faraone ordì con astuzia la distruzione di Israele, ma non si accorse che la sua scaltra macchinazione era stata vanificata là dove non avrebbe mai imma-ginato. Un fanciullo, abbandonato a causa del suo editto di morte, fu alle-vato di nascosto nella casa del re e, dopo aver distrutto la sua potenza e quella di tutto il popolo, condusse Israele alla salvezza. E quell’omicida di Abimelech, figlio illegittimo di Gedeone, che uccise i settanta figli legittimi: egli pensando che fosse un atto sapiente, per rendere più sicuro il dominio sul regno, annientare coloro che lo avevano aiutato nell’omicidio, fu annientato da loro, e finì per mano di una donna e il lancio di una pietra .
Con astuzia, anche tutti i Giudei presero la decisione di uccidere il Signore, dicendosi gli uni gli altri: Se lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i romani e distruggeranno il nostro Luogo e la nostra nazione. Da questa decisione giunsero all’uccisione del Cristo. Con l’intento di salvare essi la nazione e il paese, lo portarono alla rovina me-diante ciò che avevano deliberato; e furono scacciati dal paese e privati delle leggi e del culto.
Da una miriade di esempi si può apprendere perfettamente che è inconsistente la brama della sapienza umana: è piccola e infima, e non gran-de e sublime.
3. Così, nessuno che ragioni bene, sarà orgoglioso, né della propria sapienza, né delle altre realtà di cui abbiamo parlato prima; ma ubbidirà al-le bellissime esortazioni della beata Anna e del profeta Geremia: Non si vanti il sapiente nella sua sapienza, non si vanti il forte nella sua forza, non si vanti il ricco nella sua ricchezza.
Qual è allora il vero vanto? In che cosa l’uomo è grande? In questo – dice – si vanti chi si vanta, di comprendere e di conoscere che io sono il Signore. Questa è la grandezza dell’uomo, questa la sua gloria e magnificenza: conoscere ciò che è veramente grande, aggrapparsi ad esso e cercare la gloria che viene dal Signore della gloria.
Dice poi l’Apostolo: Chi si vanta, si vanti nel Signore; e afferma:
Cristo è diventato per noi sapienza da parte di Dio, giustizia, santificazio-ne e redenzione, perché – come sta scritto – chi si vanta, si vanti nel Si-gnore.
Il perfetto e pieno vanto in Dio, infatti, si ha quando uno non si esalta per la propria giustizia, ma riconosce di essere privo di vera giustizia, e di essere stato giustificato dalla sola fede in Cristo. Anche Paolo si vanta di non tenere in alcun conto la propria giustizia, per cercare invece quella che è mediante il Cristo, la giustizia che è da Dio, basata sulla fede, per conoscere lui e la potenza della sua risurrezione, e la comunione dei suoi pati-menti, conformandomi alla morte di lui, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti.
Qui viene meno ogni orgogliosa grandezza. Nulla ti è rimasto per esibire la tua arroganza, o uomo, che hai il vanto e la speranza nel mortificare tutto ciò che ti appartiene e nel cercare in Cristo la vita futura: di essa possediamo le primizie, già siamo in queste realtà, viviamo totalmente nella grazia e nel dono di Dio.
Ed è Dio che opera in noi il volere e l’operare secondo il suo beneplacito.
E’ Dio che mediante il suo Spirito rivela che la sua sapienza è stata predestinata per la nostra gloria.
E’ Dio che concede la forza nelle fatiche: Ho faticato più di tutti – dice Paolo – non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
E’ Dio che libera dai pericoli al di là di ogni speranza umana: Noi – dice – abbiamo avuto in noi stessi la sentenza della morte, perché non mettiamo la nostra fiducia in noi stessi, ma in Dio che ha risuscitato i morti. E’ lui che ci ha liberati da una tale morte e ci libererà: abbiamo in lui questa speranza che egli ci libererà ancora.
4. Allora dimmi, perché ti esalti per i beni che hai come se fossero tuoi, invece di rendere grazie per i doni a Colui che li ha elargiti? Che hai tu, infatti, che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se non l’avessi ricevuto?
Non tu hai conosciuto Dio con la tua giustizia, ma Dio ha conosciuto te per la sua bontà: Avendo conosciuto Dio – dice – anzi, essendo stati piuttosto conosciuti da Dio.
Non tu hai afferrato il Cristo con la tua virtù, ma il Cristo ha afferrato te con la sua venuta: Perseguo lo scopo – dice – se mai io possa afferrare come sono stato afferrato dal Cristo.
Non voi avete scelto me – dice il Signore – ma io ho scelto voi.
E tu, poiché sei stato onorato, monti in superbia e accogli la misericordia come motivo d’orgoglio?
Allora sappi quello che sei!
Sei come Adamo, cacciato dal paradiso; sei come Saul, abbandona-to dallo Spirito di Dio; sei come Israele, tagliato dalla radice santa : Per la fede – dice – tu resti nella radice; non insuperbirti, ma temi!
Un giudizio si accompagna ad una grazia e il giudice ti chiederà conto di come hai usato i doni ricevuti.
Se però, nonostante questo, non capisci che hai trovato grazia, ma al culmine dell’incoscienza consideri la grazia come una tua personale opera buona, non credere di valere di più del beato apostolo Pietro. Infatti non puoi superare nell’amore verso il Signore colui che lo amava così intensa-mente che desiderava morire per lui. Ma poiché con grande orgoglio disse: Se anche tutti saranno scandalizzati a causa tua, io però non sarò mai scandalizzato, fu tradito dalla paura per gli uomini e cadde nel rinnegamento. Poi rimediò alla caduta con l’umiltà, e imparò ad avere compassione dei deboli scoprendo la propria debolezza; e conobbe chiaramente, che come quando stava per essere sommerso nel mare fu la destra del Cristo a sollevarlo, così quando rischiò di perire nei flutti dello scandalo a causa della mancanza di fede, fu custodito dalla potenza del Cristo, il quale gli predisse ciò che sarebbe accaduto, dicendo: Simone, Simone, ecco che Satana vi ha reclamati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli.
Con questo avvertimento, Pietro fu aiutato nel modo giusto: poiché gli fu insegnato a deporre l’arroganza e a usare misericordia verso i deboli.
Quel fariseo, invece, duro e orgoglioso oltre misura, che non solo confidava in se stesso, ma disprezzava anche il pubblicano davanti a Dio, perse la gloria della giustizia per l’accusa dell’orgoglio. E il pubblicano se ne andò giustificato a differenza di quello, poiché glorificò il Dio santo e non osò sollevare lo sguardo; ma cercò soltanto il perdono, facendosi accusatore di se stesso nell’atteggiamento, nel battersi il petto e nell’esclusiva ricerca del perdono.
Guarda dunque e fa attenzione all’avvertimento del grave danno che procura l’orgoglio. Insuperbendosi, il fariseo subì la perdita della giustizia; confidando in sé, perse la ricompensa. Fu inferiore all’umile e al peccatore, poiché si considerò superiore a lui; e non attese il giudizio di Dio, ma emise il proprio.
Ma tu non esaltarti mai contro nessuno, neppure contro i grandi peccatori. Spesso l’umiltà salva chi ha commesso molti e gravi peccati. Non ti considerare dunque più giusto di un altro perché, giustificato dal tuo giudzio, tu non sia condannato dal giudizio di Dio. Dice Paolo: Non giudico me stesso; non ho infatti coscienza di nessuna colpa; ma non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore.
5. Vuoi comportarti bene? Ringrazia Dio e non esaltarti contro il prossimo: Ciascuno – dice – esamini il proprio operato e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in un altro. Infatti, che vantaggio hai recato al prossimo per aver testimoniato la fede, o per aver sofferto l’esilio per il nome del Cristo, o per aver perseverato nelle fatiche del di-giuno? Non è di altri il guadagno, ma tuo.
Temi di cadere come cadde il diavolo. Egli si innalzò contro l’uomo e cadde per mano di un uomo; e fu calpestato da colui che era stato calpestato.
Fu simile anche la caduta degli Israeliti. Si esaltarono infatti contro le genti, considerandole impure; e proprio loro divennero impuri, mentre le genti furono purificate. La loro giustizia divenne come panno di donna che ha le mestruazioni, mentre l’iniquità e l’empietà delle genti furono cancellate in virtù della fede.
Ricorda sempre la verità del proverbio che dice: Dio resiste agli or-gogliosi, ma agli umili dà grazia.
Sempre tieni in mente la parola del Signore: Chi si umilia sarà innalzato, e chi si innalza sarà umiliato.
Non essere un giudice parziale di te stesso e non stimarti in modo lusinghiero; ciò avviene se pensi di avere qualcosa di buono e lo calcoli con precisione, mentre di proposito dimentichi i tuoi peccati. Non esaltarti per le opere buone di oggi, approvando te stesso per il male fatto di recente e in passato; ma quando il presente ti innalza, il passato ti spinga al ricordo e plachi l’insensato orgoglio.
E se ti capita di vedere da vicino chi commette un peccato, non gua-dare solo questo di lui, ma considera anche quanto ha fatto o fa di bene, e, esaminando ogni aspetto e non soffermandoti sui dettagli, spesso scoprirai che egli è migliore di te. Neanche Dio, infatti, esamina l’uomo in modo parziale: Io infatti – dice – vengo a riunire le loro opere e i loro pensieri; e un giorno, rimproverando Giosafat per il peccato appena commesso, gli ricordò anche le opere buone, dicendo: Tuttavia in te si sono trovate cose buone.
6. In ogni momento cantiamo a noi stessi queste e simili cose riguardo all’orgoglio, abbassando noi stessi per essere innalzati, imitando il Signore che è disceso dal cielo fino all’estrema umiltà, per essere dall’umiltà elevati alla giusta altezza.
Troviamo, infatti, nella vita del Signore ogni insegnamento sull’umiltà. Da bambino, subito, è in una grotta; e non in un letto, ma deposto in una mangiatoia; abita nella casa di un carpentiere e di una madre povera, sottomesso alla madre e al suo promesso sposo; impara, ascoltando ciò che non aveva bisogno di apprendere, e per le domande che pone e per le risposte che dà, stupisce per la sua sapienza. Si sottomette a Giovanni, e il Sovrano riceve il battesimo dal servo. A nessuno si oppone di quanti insorgono contro di lui; e non ricorre al suo ineffabile potere, ma cede come se fossero più forti di lui e fornisce a un potere limitato la forza ad esso proporzionata. Sta di fronte ai sommi sacerdoti come uno che è giudicato; è condotto al cospetto del governatore, sostiene il giudizio, e potendo accusare chi gli muoveva false accuse, sopporta in silenzio i calunniatori. Servi e schiavi vilissimi gli sputano addosso; è messo a morte, e al-la morte più infame presso gli uomini.
Così, tutto mostrò all’uomo, dall’inizio alla fine; e da ultimo, dopo una così grande umiltà, manifesta la gloria, glorificando assieme a sé coloro che hanno avuto parte al suo disonore.
I primi di essi furono i beati discepoli, che percorsero la terra poveri e nudi, non con sapienza di linguaggio, non con una moltitudine di seguaci; soli, erranti, solitari, attraversarono la terra e il mare; furono flagellati, lapidati, perseguitati e infine uccisi.
Questi sono per noi i paterni e divini insegnamenti. Imitiamo costoro, per giungere noi dall’umiltà alla gloria eterna, che è il dono perfetto e vero del Cristo.
7. Come giungeremo dunque alla salutare umiltà, dopo aver abbandonato il tumore distruttivo dell’orgoglio?
Se la eserciteremo in tutto, e in nulla la trascureremo, per non subirne un danno. L’anima, infatti, assomiglia alle opere e riceve l’impronta e la forma di ciò che fa. Esercita dunque in tutto la povertà: nell’abito, nel vestito, nel camminare e nello star fermo, nella preparazione dei cibi, nella preparazione del letto, nella casa e negli arredi della casa. Anche nella parola, nel canto, e nel rapporto con il prossimo, guarda che tutto si realizzi nell’umiltà piuttosto che nella superbia.
Che io non senta, nei discorsi, millanterie da sofista, né voci eccessivamente voluttuose nei canti, e neppure discussioni sprezzanti e violenti; ma in tutto e per tutto elimina la superbia.
Sii buono con l’amico, dolce con i familiari, paziente con gli sfrontati, amante dei poveri; consolatore degli afflitti, attento a quelli che soffr-no; mai indifferente con nessuno; dolce nel rivolgere la parola, garbato nel rispondere, generoso, affabile con tutti.
Non elogiarti e non permettere che altri ti elogino, non prestare fede a una parola di adulazione, e nascondi per quanto possibile i tuoi successi.
Accusa te stesso dei tuoi peccati e non attendere che siano gli altri a rimproverarti; per assomigliare a quel giusto, che avendo in tribunale il di-ritto a parlare per primo, accusò se stesso; per essere come Giobbe che non ebbe timore di confessare il proprio peccato davanti all’intera città.
Non essere severo nelle minacce, né impulsivo; non rimproverare mosso da passionalità – questo infatti è un comportamento arrogante ; non condannare per cose da nulla come se tu stesso fossi giusto sotto ogni aspetto.
Accogli i peccatori e rafforzali spiritualmente, come ammonisce l’Apostolo: guardando su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione.
Metti tanto impegno per non essere glorificato dagli uomini, quanto gli altri per essere glorificati, se ti ricordi del Cristo che ha detto che la deliberata ostentazione davanti agli uomini e il bene fatto per essere da loro ammirati comporta la perdita della ricompensa di Dio; dice, infatti: Hanno già ricevuto la loro ricompensa. Non rovinare dunque te stesso per voler figurare davanti agli uomini. Poiché Dio è acuto osservatore, tu ama la gloria che viene da Dio: egli, infatti, concede la splendida ricompensa.
E se hai ricevuto l’onore del primo posto e gli uomini ti rispettano e ti lodano?
Comportati come coloro che stanno sottomessi, non dominando sulle porzioni del gregge – dice – né secondo i principi del mondo, poiché il Signore ha comandato che chi vuole essere primo, sia servo di tutti.
Insomma, insegui l’umiltà come se fosse proprio la tua amante: Diventa suo amante, e ti glorificherà.
Così procederai sicuro verso la gloria, quella vera, quella che è fra gli angeli, quella che è accanto a Dio. E il Cristo ti riconoscerà come suo discepolo davanti agli angeli e ti glorificherà se diverrai imitatore della sua umiltà, di lui, che ha detto: Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre.
A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli.

Amen.

A cura di Giorgio Sgargi

 

MARTIN LUTHER KING – L’ISTINTO DEL TAMBURO MAGGIORE

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MARTIN LUTHER KING – L’ISTINTO DEL TAMBURO MAGGIORE

Discorso pronunciato il 4 febbraio 1968, alla Ebenezer Baptist Church, ad Atlanta.

« …Perciò vi dico, cercate Dio e scopritelo, fatelo diventare un potere nella vostra vita. Senza di Lui tutti i nostri sforzi si trasformano in cenere e le nostre albe nelle notti più buie. Senza di Lui la vita è un dramma senza significato in cui mancano le scene più importanti. Ma con Lui possiamo innalzarci dalla fatica dello sconforto alla forza ascensionale dell’amore. Con Lui possiamo ergerci dalla notte della disperazione all’alba della gioia. Sant’Agostino aveva ragione: siamo stati fatti per Dio e non avremo requie finché non troveremo requie in Lui.

Ama te stesso, se questo significa un razionale, sano e morale interesse di sé. Ti è stato comandato di farlo. Questa è la lunghezza della vita. Ama il prossimo tuo come te stesso. Ti è stato comandato di farlo. Questa è la larghezza della vita. Ma non dimenticare che c’è un primo e ancor più grande comandamento: « Ama il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente ». Questa è l’altezza della vita. E quando lo fai, vivi la vita per intero ». Questa mattina vorrei prendere come argomento del sermone «l’istinto del tamburo maggiore». Il nostro passo di questa mattina è tratto da un episodio assai familiare del decimo capitolo del Vangelo di Marco, che incomincia col versetto 35. Leggiamo queste parole: «E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: « Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo ». Egli disse loro: « Cosa volete che io faccia per voi? » Gli risposero: « Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra ». Gesù disse loro: « Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, e ricevere il battesimo che io ricevo, anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali e stato preparato »». E poi verso la fine di questo brano, Gesù continua: «Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore». La situazione è chiara. Giacomo e Giovanni stanno facendo una ben precisa richiesta al maestro. Essi avevano sognato, come la maggior parte degli ebrei, la venuta di un re di Israele che rendesse libera Gerusalemme, che stabilisse il suo regno sul Monte Sion, e che comandasse al mondo con giustizia. Ed essi pensavano che Gesù fosse quella sorta di re, e stavano pensando al giorno in cui Gesù avrebbe regnato supremo, come nuovo re di Israele. E quindi gli stavano dicendo: «Quando stabilirai il tuo regno, permetti a noi di sedere l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del tuo trono». Ora, senza pensarci due volte, condanneremmo automaticamente Giacomo e Giovanni, e diremmo di loro che erano egoisti. Perché hanno fatto una richiesta così egoista? Ma prima di condannarli con troppa fretta, guardiamo con calma ed onestà a noi stessi, e scopriremo che anche noi abbiamo quegli stessi bassi desideri di ricevere riconoscimenti e gratificazioni, quello stesso desiderio di essere al centro dell’attenzione, quello stesso desiderio di essere primi. Naturalmente gli altri discepoli si infuriarono con Giacomo e Giovanni, e voi potete comprendere il perché. Ma dobbiamo renderci conto che tutti noi abbiamo qualcuna di queste «qualità» di Giacomo e Giovanni. C’è, nel profondo di ognuno di noi, un certo istinto. E’ una sorta di istinto ad essere tamburi maggiori, un certo desiderio di essere davanti a tutti, un certo desiderio di aprire noi la parata, un desiderio di essere noi i primi. Ed è qualcosa che tocca ogni aspetto della nostra vita. Perciò, prima di condannarli, ricordiamoci che abbiamo tutti questo istinto del tamburo maggiore. Noi tutti desideriamo essere importanti, superare gli altri, distinguerci, aprire la parata. Alfred Adler, il grande psicanalista, sostiene che questo è l’impulso dominante. Sigmund Freud sosteneva che era il sesso l’impulso dominante, e Adler gli rispose con un nuovo argomento e disse che questa ricerca del riconoscimento, questo desiderio di essere al centro dell’attenzione, questo desiderio di distinguersi è l’impulso più importante, la molla più importante della vita umana, ed è l’istinto del tamburo maggiore. E voi lo sapete, cominciamo presto a chiedere alla vita di renderci primi. Il nostro primo pianto di bambini era un tentativo di attirare l’attenzione. E per tutta l’infanzia l’impulso o istinto del tamburo maggiore è un’ossessione ancora più grande. I bambini chiedono alla vita di essere primi. Sono un fagottino di egoismo. E’ in loro innato l’impulso o istinto del tamburo maggiore. Ebbene, nella vita adulta ce l’abbiamo sempre questo istinto, e non ce ne liberiamo mai del tutto. Ci piace fare qualcosa di buono. E, sapete, ci piace essere lodati per questo. Se non ci credete aspettate e scoprirete molto presto che vi piace essere elogiati. Piace a tutti, a dire il vero. E a volte questo calore che sentiamo quando siamo lodati, o quando viene pubblicato il nostro nome, ha l’effetto della vitamina A per il nostro ego. Nessuno è infelice quando viene elogiato, anche se sa di non meritarlo, e anche se non ci crede. I soli ad essere infelici di fronte all’elogio, lo sono quando l’elogio va a qualcun altro. Ma a tutti piace essere elogiati, per questo concretissimo istinto del tamburo maggiore. Ora, questo istinto del tamburo maggiore spiega perché così tanti si aggregano un po’ a tutto. Ci si aggrega a qualunque cosa. Ed in realtà si cerca attenzione, riconoscimento, importanza. Si cercano nomi che danno l’impressione di ricevere queste cose. Così si scelgono le associazioni, e queste diventano il protettore importante, e il poveretto che in casa sia sottomesso ha bisogno di avere l’opportunità di essere il meglio del meglio da qualche altra parte. E’ l’impulso e l’aspirazione del tamburo maggiore che ci accompagna in tutte le cose della vita. E così la vediamo dovunque, questa ricerca di preminenza. E ci aggreghiamo alle cose, ci aggreghiamo un po’ troppo, a dire il vero, perché speriamo di trovarvi soddisfazione. La presenza di questo istinto spiega perché così facilmente cadiamo vittime dei signori della pubblicità. Conoscete, no?, quei signori dalla grande capacità di persuasione verbale. Hanno un certo modo di dirti le cose che sei convinto a comprare. Se vuoi essere un vero uomo devi bere questo whisky. Se vuoi l’invidia dei tuoi vicini, devi guidare questo modello di auto. Se vuoi essere più bella devi usare questo rossetto o questo profumo. E lo sai, no?, prima ancora che te ne renda conto, stai già comprando proprio quello che vogliono loro. Così operano i signori della pubblicità. L’altro giorno ho ricevuto una lettera. Si trattava di una nuova rivista che stava per essere pubblicata. E cominciava così: «Caro dott. King, come lei certo sa, il suo nome si trova nell’indirizzario di molti giornali e istituzioni. Lei è descritto come profondamente intelligente, progressista, amante delle arti e delle scienze, e sono certo che vorrà leggere ciò che ho da dirle». Certo che volevo. Dopo tutto quello che la lettera diceva di me e dopo avermi descritto così precisamente, certo che volevo leggere. Ma, seriamente, ci accompagna per tutta la vita questo istinto del tamburo maggiore, è una cosa reale. E sapete cos’altro provoca? Spesso ci fa vivere al di sopra delle nostre possibilità. Non è nient’altro se non questo istinto del tamburo maggiore. Non vi succede mai di vedere gente che si compra automobili che con il suo stipendio non potrebbe permettersi? Si vedono persone che girano in Cadillac e Chrysler e che non guadagnano neanche per permettersi un Modello T della Ford. Ma lo fanno per alimentare un ego represso. Sapete cosa ci dicono gli economisti: le automobili che compriamo non ci dovrebbero costare più della metà del reddito annuale. Perciò se abbiamo un reddito di cinquemila dollari, la nostra macchina non ci dovrebbe costare più di duemilacinquecento dollari. Questa sarebbe buona amministrazione. E se la famiglia è composta da due persone, ed entrambi i membri hanno un reddito di diecimila dollari, dovrebbero accontentarsi di una sola automobile. Questa sarebbe buona amministrazione, anche se spesso implica qualche disagio. Ma spesso… avete mai visto persone che guadagnano cinquemila dollari all’anno e che guidano un’auto da seimila dollari? E si chiedono perché non riescono mai a far quadrare il bilancio. E’ quanto accade. Ora gli economisti ci dicono anche che, se comperi una casa, questa non dovrebbe costare più del doppio del tuo reddito. Questo poggia sui principi di una buona amministrazione e su come far quadrare il bilancio. Quindi, se hai un reddito di cinquemila dollari, la vita non sarà proprio semplice in questa società. Ma facciamo l’esempio di una famiglia con un reddito di diecimila dollari: allora la casa non dovrebbe costare più di ventimila dollari. Ma io ho visto gente che mette insieme deicimila dollari e che vive in case da quarante, cinquantamila dollari. E capite benissimo che ce la fanno a malapena. Ogni mese ricevono da una qualche fonte un assegno, ma lo hanno già speso prima ancora di incassarlo; non gli rimane mai nulla da mettere via per un’emergenza. Ora, appunto, il problema è questo: l’istinto del tamburo maggiore. E come sapete, vediamo continuamente che la gente viene presa da quest’istinto di essere tutti dei tamburi maggiori. E che vive cercando continuamente di far schiattare d’invidia i vicini. Debbono comprarsi questo cappotto perché questo cappotto qui è un po’ più bello, è un po’ più elegante di quello che ha il vicino. E debbo farmi questa macchina perché c’è qualcosa in questa macchina che la fa migliore di quella dei vicini. Conosco uno che abitava in una casa da trentacinquemila dollari. Poi altri hanno incominciato a costruire case da trentacinquemila dollari, e allora lui se ne è costruita una da settantamila dollari, e poi un’altra da centomila dollari. E non so proprio dove andrà a finire se continuerà a cercare di stare al passo con i vicini. Viene poi un tempo quando quest’istinto di essere tamburi maggiori diventa un istinto di distruzione. Ed è di questo che vi voglio ora parlare. Voglio dirvi che se questo istinto non viene imbrigliato, diventa pericolosissimo e mortale. Per esempio, se non viene imbrigliato, fa sì che la tua stessa personalità si faccia distorta. Credo che questo sia l’aspetto più pericoloso: l’effetto che esso ha sulla personalità della gente. Se non viene imbrigliato, finirai un giorno sì e un giorno no a dover far fronte ai problemi del tuo io, diventando uno spaccone. Avete mai sentito parlare quelli – sono sicuro che li avete incontrati – che vi fanno venire la nausea, perché passano tutto il tempo a parlare di se stessi. E fanno gli spacconi, e non la smettono un momento: sono quelli che non hanno imbrigliato il loro istinto di tamburi maggiori. E poi ha altri effetti sulla personalità. Porta a mentire, a volte sulle persone importanti che si conoscono. Ci sono quelli che di conoscenze influenti ne hanno da vendere. E nell’amministrare il loro istinto di tamburo maggiore, non possono fare a meno di identificarsi con quelle persone che sono dette importanti. E se non state attenti vi faranno credere di conoscere chi non conoscono affatto. Conoscono questa persona benissimo, prendono il tè insieme. E poi fanno… questo e quell’altro. Ecco cosa succede. L’altro effetto, poi, è che fa sì che ci si impegni in attività che servono esclusivamente ad attrarre l’attenzione. I criminologi ci dicono che ci sono persone spinte al crimine proprio dall’istinto del tamburo maggiore. Non sembra loro di attrarre abbastanza attenzione attraverso i normali canali del comportamento sociale, e assumono un comportamento antisociale per attirare attenzione, per sentirsi importanti. Ed è così che arrivano a prendere la pistola. E prima di rendersene conto rapinano una banca in questa loro ricerca di riconoscimento, in questo loro voler essere importanti. E poi l’ultima grande tragedia della personalità distorta è il fatto che quando non si riesce a imbrigliare questo istinto, si finisce col cercare di schiacciare gli altri per elevare se stessi. E ogni volta che lo si fa ci si invischia in azioni tra le più immorali. Con la volontà di far male si diffonde il male, dicendo male degli altri, perché si cerca di schiacciarli per elevare se stessi. Ed è il grande compito della nostra vita imbrigliare l’istinto del tamburo maggiore. Ora, l’altro problema è che, quando non si imbriglia l’istinto del tamburo maggiore, questo suo aspetto incontrollato, allora si cerca di essere esclusivi e snob. Ora sappiamo tutti che questo è il pericolo dei club e delle conventicole. Io faccio parte di questa, faccio parte di questa e quell’altra. Io non dico che non ci debbano essere, dico solo che rappresentano un pericolo. Il pericolo è che possono diventare forze di classismo ed esclusivismo, per le quali talvolta si riceve una misura di gratificazione per il fatto che si tratti di cose esclusive, e ci si sente realizzati. Io faccio parte di questo club, ed è il migliore del mondo e non tutti vi sono ammessi. Così si finisce nello snobismo bello e buono. E sappiamo bene che può accadere all’interno della chiesa. So di chiese a cui è successo di trovarsi in questa situazione. Sono stato a visitare chiese dove mi hanno detto: «Abbiamo tanti dottori e tanti insegnanti, e tanti avvocati, e tanti uomini di affari nella nostra chiesa». E questo va bene, perché i dottori devono andare in chiesa, e così gli avvocati, gli uomini d’affari, gli insegnanti dovrebbero frequentare la chiesa. Ma lo dicono, eh sì, lo dicono a volte anche i predicatori, come se le altre persone non contassero. E la chiesa è il luogo in cui un dottore dovrebbe dimenticarsi di essere un dottore. La chiesa è quel luogo in cui un super­laureato dovrebbe dimenticarsi di essere un super-laureato. La chiesa è quel luogo in cui un insegnante dovrebbe dimenticarsi del titolo che ha davanti al nome. La chiesa è quel luogo in cui un avvocato dovrebbe dimenticarsi di essere un avvocato. Ed ogni chiesa che violi il precetto del «chiunque sia, fatelo entrare» è una chiesa morta, fredda, nient’altro che un piccolo club con una sottile apparenza di religiosità: quando la chiesa è fedele alla sua natura, dice «Chiunque sia, lasciatelo entrare». E non si propone affatto di soddisfare le perversioni dell’istinto del tamburo maggiore. E’ il luogo in cui ognuno dovrebbe essere uguale davanti a un comune maestro e salvatore. E da questo nasce una consapevolezza: che tutti gli uomini sono fratelli perché sono figli dello stesso padre. L’istinto del tamburo maggiore può condurre allo snobismo nel pensiero, e può condurre uno a convincersi che se ha un po’ piu di istruzione è anche un po’ meglio di coloro che non ce l’hanno, oppure se ha un po’ più di sicurezza economica è anche un po’ meglio di altre persone che non ce l’hanno. E questa è una perversione dell’istinto del tamburo maggiore. Ora l’altra cosa – e l’abbiamo sperimentato – è che porta al tragico pregiudizio razziale. Molti hanno scritto su questo problema; Lillian Smith ne ha scritto benissimo in alcuni dei suoi libri. E ne scriveva in modo tale da indurre uomini e donne a vedere quale fosse la vera origine del problema. Lo sapevate che gran parte dei problemi razziali deriva dall’istinto del tamburo maggiore? Questo bisogno che alcuni hanno di sentirsi superiori. Questo bisogno che alcuni hanno di essere primi e di sentire che la loro pelle bianca li ha destinati ad essere primi. E questo, loro lo dicono ripetutamente, in modi che abbiamo sotto gli occhi. Ed è successo che non molto tempo fa uno del Mississippi abbia detto che Dio era membro fondatore del Consiglio dei Cittadini Bianchi. E perciò essendo Dio membro fondatore significa che chiunque ne faccia parte ha una sorta di natura divina, una sorta di superiorità. E pensate che cosa ha comportato nella storia questa perversione dell’istinto del tamburo maggiore. Ha portato al più tragico pregiudizio, alle più tragiche espressioni di disumanità dell’uomo contro un altro uomo. Cerco sempre di operare un po’ di conversione quando sono in prigione. E quando eravamo in prigione l’altro giorno, i secondini bianchi erano tutti felici di venire intorno alla cella a parlare dei problemi razziali. E ci dimostravano come sbagliavamo nella nostra protesta. E ci dimostravano come la segregazione fosse giusta. E ci dimostravano come i matrimoni misti fossero sbagliati. E allora mi mettevo a predicare, e ci mettevamo a parlare: tranquillamente, perché erano loro che ne volevano parlare. E un giorno – era il secondo o il terzo – arrivammo a parlare di dove loro abitavano, e di quanto guadagnavano. E quando questi fratelli mi dissero quanto guadagnavano, io risposi: «Ma lo sapete? Dovreste scendere per le strade con noi. Siete poveri esattamente come i negri». E dissi ancora: «Siete stati messi nella condizione di dare il vostro sostegno al vostro stesso oppressore. Perché, per pregiudizio e cecità, non riuscite a vedere che le stesse forze che opprimono i negri nella società americana opprimono anche i bianchi poveri. E tutto quello che vi rimane è la soddisfazione di avere la pelle bianca, è l’istinto che hanno i tamburi maggiori di pensare di essere qualcuno perché siete bianchi. Ma siete così poveri che non riuscite nemmeno a mandare a scuola i vostri figli. Dovreste essere fuori per le strade con tutti noi, ogni volta che noi siamo fuori per le strade». Così infatti stanno le cose: che i bianchi poveri sono stati messi in questa condizione: che, per cecità e pregiudizio, sono costretti a dare il loro sostegno ai loro stessi oppressori e che la sola cosa che rimane loro è la falsa convinzione di essere superiori per la loro pelle bianca. Ma non riescono quasi a sfamarsi e a far quadrare il bilancio da una settimana all’altra. E questo lo si ritrova non soltanto nel contrasto razziale, lo si ritrova anche nel contrasto tra le nazioni. E vorrei sottoporre alla vostra attenzione, questa mattina, questo pensiero, che ciò che è ingiusto oggi nel mondo è che le nazioni del mondo sono impegnate in una contesa colossale e crudele per la supremazia. E che, se non accade qualcosa per porre fine a questa tendenza, temo seriamente che non saremo qui a parlare di Gesù Cristo e di Dio e della fratellanza tra gli uomini per molti anni. Se qualcuno non mette fine a questo impulso suicida che vediamo oggi all’opera nel mondo, nessuno di noi sarà vivo, perché qualcuno farà l’errore, in questo nostro insensato persistere nell’errore, di lasciar cadere da qualche parte una bomba nucleare, e allora ne cadranno altre. E non lasciatevi prendere in giro: non ci vogliono che secondi perché accada. In questo momento in Russia hanno bombe da venti megaton, in grado di distruggere in tre secondi una città delle dimensioni di New York, cancellando ogni persona e persino gli edifici. E noi possiamo fare la stessa cosa alla Russia e alla Cina. Ma questa è la china lungo la quale stiamo scivolando, e stiamo scivolando per la china perché i paesi sono infettati da questo istinto di tamburi maggiori. Debbo essere io il primo. Debbo avere io la supremazia. Il nostro paese deve dominare il mondo. E mi rattrista dire che il paese nel quale noi viviamo è il colpevole supremo. E continuerò a dirlo all’America, perché io l’amo troppo per vederla scivolare lungo questa china. Dio non disse all’America di fare quello che l’America sta ora facendo. Dio non disse all’America di impegnarsi in questa guerra del Vietnam. E in questa guerra noi siamo criminali. Abbiamo commesso quasi più crimini di guerra di ogni altro paese al mondo, e continuerò a dirlo all’America. E non mettiamo termine a questa guerra a causa del nostro orgoglio e dell’arroganza della nostra nazione. Dio però ha un suo modo di mettere al passo anche le nazioni. Il Dio che io prego dice: «Non scherzare con me». Dice, come diceva il Dio dell’Antico Testamento agli ebrei: «Israele, non scherzare con me. Babilonia, non scherzare con me. Fermatevi e riconoscete che io sono Dio. E se non vi fermate in questa vostra folle corsa, io mi leverò e manderò in frantumi la vostra forza». E questo può succedere anche all’America. Di tanto in tanto vado a rileggere il libro di Edward Gibbon, « Declino e caduta dell’Impero Romano ». E quando guardo l’America mi dico che la somiglianza è tremenda. Ed è così che abbiamo travisato il principio del tamburo maggiore. Permettetemi però di affrettarmi alla conclusione, perché voglio che voi comprendiate ciò che Gesù disse davvero, quale fu la risposta che Gesù diede a questi uomini: è molto interessante. Ci si sarebbe aspettati che Gesù dicesse: «Siete fuori strada. Siete egoisti. Perché mi fate questa domanda?». Ma non è questo che Gesù disse. Disse qualcosa di piuttosto diverso. Disse, in sostanza: «Ah, ho capito, volete essere i primi, volete essere grandi. Volete essere importanti. Volete avere peso. Giustissimo. Se volete essere miei discepoli, lo sarete». Lui però diede un nuovo ordine alle priorità. E disse: «Certo, non buttate via questo istinto. E’ un istinto buono, se usato bene. E’ un istinto buono, se non lo distorcete e non lo travisate. Non buttatelo via. Continuate ad avere questo bisogno di sentirvi importanti. Continuate ad avere questo bisogno di essere primi. Ma io voglio che voi siate primi nell’amore. Io voglio che voi siate primi nella perfezione morale. Io voglio che voi siate primi nella generosità. Ecco quello che voglio per voi». E Gesù trasformò la situazione dando una nuova definizione di grandezza. E sapete cosa disse? Disse: «Fratelli, io non vi posso dare la grandezza. E a dire il vero io non posso rendervi primi». Questo è ciò che Gesù disse a Giacomo e Giovanni. Vi dovete meritare queste cose. La vera grandezza non viene dai favoritismi, ma dall’essere pronti per la grandezza. E la destra e la sinistra non mi appartengono, appartengono a coloro che sono pronti. Quindi Gesù ci diede una nuova norma di grandezza. Volete essere importanti… magnifico. Volete essere riconosciuti… magnifico. Volete essere grandi… magnifico. Però riconoscete che colui che è più grande tra tutti voi sarà colui che vi serve. E’ questa la nostra nuova definizione della grandezza. E questa mattina, quello che mi piace di questa definizione… di questa definizione di grandezza è che questa implica che tutti possono essere grandi. Perché tutti possono servire. Non è necessario avere una laurea per servire. Non è necessario non fare errori di grammatica per servire. Non è necessario conoscere Platone e Aristotele per servire. Non è necessario conoscere la teoria della relatività di Einstein per servire. Non è necessario conoscere il secondo principio della termo­dinamica per servire. Basta un cuore ricolmo di grazia. Un’anima rigenerata dall’amore. E si può servire. Conosco un uomo, e voglio parlare di lui soltanto per un minuto, e forse voi scoprirete a poco a poco di chi sto parlando, perché quest’uomo fu un grande. E la sola cosa che fece fu servire. Nacque in un oscuro villaggio, figlio di una povera contadina. Poi crebbe in un altro oscuro villaggio, dove lavorò come falegname fino ai trent’anni. Poi per tre anni si mise in marcia e fu predicatore itinerante. E allora si mise a fare delle cose. Non possedeva molto. Non scrisse mai un libro. Non ricoprì mai un incarico. Non ebbe mai famiglia. Non possedette mai una casa. Non frequentò mai l’università. Non andò mai a visitare le grandi città. Non si allontanò mai più di 200 miglia da dove era nato. Non fece mai quelle cose solite che il mondo associa alla grandezza. Non aveva altre credenziali che se stesso. Aveva trentatrè anni quando l’opinione pubblica gli si rivoltò contro. Lo chiamarono mestatore. Lo chiamarono sobillatore. Lo chiamarono istigatore di folle. Praticava la disobbedienza civile; eludeva le ingiunzioni. Fu quindi consegnato ai suoi nemici e dovette affrontare la derisione di un processo. E l’ironia di tutto ciò fu che tutti i suoi amici lo consegnarono ai suoi nemici. Uno dei suoi amici più intimi lo rinnegò. Un altro dei suoi amici lo consegnò (letteralmente) ai suoi nemici. E mentre lui moriva, quelli che lo uccidevano tiravano a sorte i suoi vestiti, la sola cosa che possedesse al mondo. Dopo la sua morte fu sepolto in una tomba presa a prestito, per l’atto di pietà di un amico. Sono passati diciannove secoli, e oggi è lui la figura più influente che sia mai entrata nella storia dell’uomo. Tutti gli eserciti, tutte le flotte, tutti i parlamenti e tutti i re messi insieme non hanno influito sulla vita dell’uomo su questa terra quanto la sua vita solitaria. Il nome di quest’uomo vi è forse familiare. Oggi però, io sento che parlano di lui; ogni tanto uno dice: «E’ lui il re dei re». E poi sento uno che dice: «E’ lui il principe dei principi». Altrove uno dice: «In Cristo non c’è Oriente né Occidente». E continuano a parlare di lui… «In lui non c’è né Nord né Sud, ma una sola grande comunione nell’amore da un capo all’altro del mondo». Non possedeva nulla. Semplicemente andava per il mondo a servire, a fare del bene. Questa mattina potete essere voi alla sua destra e alla sua sinistra, se servite. E’ l’unico modo. Di tanto in tanto immagino che tutti noi pensiamo realisticamente a quel giorno in cui saremo vittime di quello che è il comune denominatore conclusivo della vita: quella cosa che chiamiamo morte. Tutti ci pensiamo. E a volte penso alla mia morte e penso al mio funerale. Ma non ci penso in modo morboso. Di tanto in tanto mi chiedo: «Che cosa vorrei fosse detto?». E lascio a voi, questa mattina, la parola. Se qualcuno di voi sarà in circolazione quando arriverò al mio ultimo giorno, non voglio un lungo funerale. E se troverete qualcuno che farà l’elogio funebre, ditegli di non parlare troppo a lungo. Di tanto in tanto mi chiedo che cosa vorrei che dicessero. Ditegli che non facciano menzione del fatto che ho ricevuto il premio Nobel per la pace: questo non ha alcuna importanza. Ditegli di non fare menzione del fatto che ho ricevuto tre o quattrocento altri premi: questo non ha alcuna importanza. Ditegli di non fare menzione della scuola che ho frequentato. Vorrei, quel giorno, che qualcuno facesse menzione del fatto che M. L. King ha cercato di dare la sua vita nel servizio degli altri. Vorrei che quel giorno qualcuno dicesse che M. L. King ha cercato di amare i suoi simili. Voglio che diciate quel giorno che ho cercato di essere obiettivo su questo problema della guerra. Voglio che quel giorno diciate che ho davvero cercato di dare da mangiare agli affamati. E voglio che quel giorno siate in grado di dire che ho davvero cercato, nella mia vita, di vestire coloro che girano nudi. Voglio che quel giorno diciate che ho davvero cercato, nella mia vita, di visitare i carcerati. Voglio che diciate che ho cercato di amare e di servire l’umanità. Sì, se volete dire che ero un tamburo maggiore, dite che ero un tamburo maggiore per la causa della giustizia, dite che ero un tamburo maggiore per la pace; che ero un tamburo maggiore per l’onestà. E tutte quelle altre cose senza spessore non importeranno. Non avrò denaro da lasciare dietro di me. Non avrò cose belle e lussuose da lasciare dietro di me. Voglio lasciare dietro di me soltanto una vita di impegno. Ed ecco tutto quello che voglio dire… se sono in grado di aiutare qualcuno al mio passaggio, se sono in grado di rallegrare qualcuno con una parola o un canto, se sono in grado di mostrare a qualcuno che non è sulla retta via, allora non sarò vissuto invano. Se sarò in grado di fare il mio dovere come lo deve fare un cristiano, se sarò in grado di portare la salvezza a qualcuno nel mondo, se sarò in grado di diffondere il messaggio insegnato dal Maestro, allora non sarò vissuto invano. Sì, Gesù, voglio essere seduto alla tua destra o alla tua sinistra, ma non per egoismo. Voglio sedere alla tua destra o dove tu collochi i migliori, non per motivi o ambizioni politiche; voglio sedere là per l’amore e la giustizia e la verità e l’impegno verso gli altri, così che sia possibile fare di questo mondo un mondo nuovo.

 

Publié dans:MARTIN LUTHER KING, SCRITTI |on 23 février, 2016 |Pas de commentaires »

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