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GIOVANNI PAOLO II E LA SCIENZA CONTEMPORANEA

http://www.disf.org/maldame-canonizzazione-giovanni-paolo-ii

GIOVANNI PAOLO II E LA SCIENZA CONTEMPORANEA

Jean-Michel Maldamé

Institut Catholique de Toulouse Membro della Pontificia Accademia delle Scienze

Aprile 2014

Il Beato Giovanni Paolo II, che dal 27 aprile di quest’anno chiameremo San Giovanni Paolo II, è stato un papa particolarmente sensibile al tema della scienza. Vi è una sua iniziativa che mette bene in evidenza lo spirito con il quale egli ha promosso il dialogo tra scienza moderna e fede cattolica. Fin dal Concilio Vaticano II diversi Padri avevano rievocato la condanna di Galileo. Nel XIX secolo la condanna fu messa nuovamente in primo piano da alcune correnti anticlericali, fino a diventare «l’affare Galileo». Per la maggior parte dei contemporanei, il processo subito dallo scienziato pisano del 1633 era ancora l’emblema del rifiuto della modernità da parte della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II ha realizzato il desiderio dei Padri conciliari di riconoscere in modo più aperto che questa condanna era stata un errore. Nacque così l’occasione per riaffermare che la Chiesa cattolica aveva in realtà sempre stimato le scienze naturali, una stima che era stata ribadita dal Concilio Vaticano II e che si è poi sviluppata in piena fedeltà al Concilio. 1. L’atteggiamento di Giovanni Paolo II verso la scienza non fu qualcosa di circostanziale. In effetti, in varie occasioni, egli aveva elogiato il lavoro svolto nelle Università, incitandone lo sviluppo. Nella costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae (15 agosto 1990) indirizzata alle Università Cattoliche, egli precisava: «Un campo che interessa in maniera speciale l’Università cattolica è il dialogo tra pensiero cristiano e scienze moderne» (n. 46). Nei discorsi tenuti in varie università, Giovanni Paolo II si è mostrato attento a questa esigenza: l’unità dei saperi e la loro convergenza nell’amore ad una verità ricercata incessantemente. Questo desiderio di unità riposa su una convinzione teologica: l’opera del Dio unico reca la traccia della sua unità. È per questo che la diversità di saperi deve tendere all’unità. Questo proposito è presente in diversi discorsi pronunciati in ambienti universitari; l’incontro tra scienza e teologia ha una finalità: «quella dell’integrazione del sapere, in una sintesi nella quale l’insieme impressionante di conoscenze scientifiche troverebbe il suo significato nel quadro della visione integrale dell’uomo e dell’universo, dell’Ordo rerum» (Discorso ad intellettuali ed universitari ad Ibadan, Nigeria, 15 febbraio 1982). Quest’ultima espressione, classica in teologia, è il fondamento della stima di Giovanni Paolo II per le scienze naturali, che scaturisce a sua volta dalla fede in Dio creatore. 2. Non è stato compito di Giovanni Paolo II proporre una visione del mondo che unificasse i saperi; egli si rifà alla radice della ricerca scientifica e perciò elogia l’uomo di scienza che cerca la verità, una verità marcata dal sigillo della trascendenza. Lo si vede negli elogi che egli fa delle grandi figure della scienza, in particolare Gregorio Mendel e Georges Lemaître ed, in maniera più ampia, nell’enciclica Fides et ratio. In quest’ultimo documento Giovanni Paolo II non intende offrire una sintesi tra la visione secolare del mondo tracciata dalla scienza e quella della Bibbia o della Tradizione, ma parla della ricerca dell’intelligenza. Il sapiente diventato scienziato, nel senso moderno del termine, se ha rinunciato ad una proposta di saggezza integrale, non ha però rinunciato alla ricerca della verità, perché è abitato da una convinzione fondata, quella dell’intellegibilità del mondo (cfr. Fides et ratio, n. 29). Se lo scienziato gioisce nel svelare i segreti della natura, è perché egli gusta la gioia di conoscere e di custodire in sé un’apertura di spirito che sia pienamente in accordo con la Rivelazione (cfr. n. 30). In effetti «la scienza pura è un bene perché è conoscenza e quindi perfezione dell’uomo nella sua intelligenza» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979). Questo elogio è un corollario di stima per gli uomini di scienza. 3. Giovanni Paolo II ha rivolto vari discorsi agli scienziati – all’Accademia Pontificia delle Scienze, ma anche in diversi luoghi durante i suoi viaggi apostolici. In questo contesto emerge un leitmotiv: l’appello alla responsabilità. La scienza in effetti offre all’uomo dei mezzi per agire con potenza; il Papa invita dunque ad un risveglio morale. Tutti ricordiamo l’appello di Giovanni Paolo II al rispetto per la vita; ma non possiamo dimenticare anche altri punti da lui toccati, come: l’ambiente, il disarmo, in particolare la questione nucleare, le applicazioni della tecnica finalizzate allo sviluppo dei popoli. Tutto ciò fa parte di una dinamica di rispetto della natura e di riconoscimento della grandezza dell’essere umano. Questa responsabilità dello scienziato riposa sull’unità dell’opera di Dio e per questo motivo la dottrina sociale della Chiesa deve essere articolata in dialogo con il sapere moderno, chiarita e giustificata anche dalla conoscenza scientifica. 4. L’appello alla responsabilità riposa su uno degli assi maggiori del pensiero di Giovanni Paolo II: la grandezza dell’uomo fondata sulla sua creazione ad immagine e somiglianza di Dio e sull’incarnazione del Verbo. Questa grandezza dell’essere umano è uno dei temi più ricorrenti. Al CERN di Ginevra (15 giugno 1982), luogo simbolico della scienza di base, dopo aver messo in rilievo il valore del lavoro scientifico, Giovanni Paolo II insiste sulla dignità dell’uomo di cui la scienza manifesta «la grandezza e il mistero». Egli spiega: la “grandezza” della ragione di cui la scienza è una realizzazione evidente ed il “mistero” della ricerca di una verità sempre più grande rispetto alla nostra esperienza. Questa stessa stima per la scienza appare nel celebre testo indirizzato nel 1996 all’Accademia Pontificia delle Scienze, in cui si riconosce il valore della teoria scientifica dell’evoluzione. La stima per la scienza è intimamente legata all’appello a riconoscere la trascendenza dell’essere umano. Sebbene l’essere umano sia parte egli stesso nel movimento delle speciazioni, con lui si varca una soglia. Il luogo del dialogo tra scienza e fede è, per Giovanni Paolo II, soprattutto la questione antropologica, piuttosto che la cosmologia. 5. Le parole di Giovanni Paolo II sulle scienze rivelano una preoccupazione assai diffusa. Il Vangelo è per lui il fermento di un’umanità nuova, secondo il cuore di Dio. Durante la sua attività pastorale in Polonia, sia come cappellano dei giovani che come vescovo, Giovanni Paolo II ha messo in luce che la scienza stimola le energie umane; ha notato che le idee scientifiche conferivano un certo dinamismo al progetto di società che affascinava gli Europei ed ha saputo discernere tra le opzioni materialiste e l’umanesimo che è invece alla base della scienza moderna. La sua azione evangelizzatrice e le sue direttive pastorali si sono iscritte nella preoccupazione di promuovere una cultura in cui la scienza sarebbe stata non solo rispettata, ma sviluppata al servizio dell’uomo. Nel dinamismo di questa visione, in cui la fede salva la ragione quando quest’ultima tenta di trasformarsi in un assoluto, l’attenzione di Giovanni Paolo II verso la scienza non ha riguardato solo aspetti  specializzati, ma egli ha parlato volentieri di “cultura scientifica” – la nozione di cultura era per lui l’espressione della grandezza dell’uomo responsabile del suo avvenire, dell’educazione e della preoccupazione per il bene comune dell’umanità. Questo orizzonte, presente nel noto discorso del 1980 all’Unesco, è stato poi sviluppato durante gli orientamenti da lui dati ai lavori della Pontificia Accademia delle Scienze. 6. Il valore della scienza si basa sul posto privilegiato che l’uomo occupa nel panorama della natura. Questa è un’opzione metafisica. Secondo Giovanni Paolo II, la stima per la conoscenza scientifica non discende solo da una impostazione teocentrica, come accadeva ad esempio nella teologia scolastica; essa discende soprattutto da una visione antropocentrica. È nell’uomo che si trova la chiave dell’intelligibilità di tutto l’universo. Così Giovanni Paolo II inserisce il suo apprezzamento per la cultura scientifica in una prospettiva cristologica, in quella prospettiva che è stata presente fin dalla sua prima enciclica Redemptor hominis (1979). 7. Giovanni Paolo II, infine, ha voluto vedere nella scienza una dimensione cara alla tradizione cristiana: il senso della preghiera e della contemplazione. Per Giovanni Paolo II la scienza non è solamente un sapere teorico, né un’attività pratica finalizzata a generare benessere, né solo una forte spinta verso un umanesimo integrale. La conoscenza scientifica deve condurre alla contemplazione, il cui primo passo è la meraviglia di fronte all’esistenza. Questo atteggiamento è la fonte della vita di preghiera e si poggia sulla prospettiva escatologica che i cristiani celebrano al termine dell’anno liturgico, con la solennità di Cristo Re dell’universo. I sette punti elencati riposano su una visione strutturata. Innanzitutto la consapevolezza che la crisi attuale della società civile richiede un risveglio dell’intelligenza credente. Questo risveglio deve poggiarsi su convinzioni forti, che si possono esplicitare secondo un ordine che identifica sette pilastri sui quali riposa una visione cristiana del mondo. Essi sono: la verità come motore della ricerca; l’unità come orizzonte della ricerca; la cultura, fondata sull’apertura al lavoro degli altri; il rispetto per tutto ciò che è stato donato dal Creatore; il posto dell’uomo nella natura; la responsabilità umana e la preoccupazione per l’avvenire ed infine il mistero, come presenza dell’eternità nel tempo attraverso la resurrezione di Cristo.

2014 Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede

IL CORAGGIO E LA PAURA: LE EMOZIONI DELL’ANIMA

http://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=230:il-coraggio-e-la-paura-le-emozioni-dellanima&catid=52:educare-lanima

IL CORAGGIO E LA PAURA: LE EMOZIONI DELL’ANIMA

Educare l’anima /5

Raffaele Mantegazza

Perché non è un scherzo

sapere continuare

Francesco Guccini

C’è una scienza delle emozioni: sembrerà strano e forse inaccettabile a chi fa delle emozioni il fulcro del suo discorso pseudo-pedagogico, trattandole come misteriosi moti metafisici che sfuggono a qualsiasi classificazione e quantificazione, utilizzandole per vendere l’ultimo prodotto a base di storie commoventi e affetti strappati all’intimità, ma le emozioni sono state per almeno un secolo oggetto di studio scientifico e di analisi precisa e verificabile. Non vogliamo dire che la scienza abbia detto la parola definitiva a proposito delle emozioni, né che tutto nel campo affettivo ed emotivo sia riducibile al numero e alla misura; ma oggi non sappiamo quale posizione costituisca il pericolo più grave per il pensiero pedagogico e per le pratiche educative, se il positivismo estremista e totalizzante che vuole quantificare tutti i moti dell’animo, o lo spontaneismo da apprendisti stregoni che gioca sulle emozioni umane senza avere una minima competenza, con il risultato di scatenare gravi crisi nei soggetti in formazione e di lasciarli senza nessuna arma per risolverle. Partire dalle emozioni non significa fermarsi alle emozioni: altrimenti chiunque sapesse emozionarci potrebbe essere il nostro educatore. La psicoanalisi ci ha insegnato la lunghezza e la fatica del lavoro sulle emozioni, e lo stesso Freud aveva ben chiaro come non ci si dovesse emozionare quando si lavorava sulle emozioni, anzi come un distacco apparentemente freddo costituisse lo schermo difensivo non solo per l’analista ma anche e soprattutto per il paziente
Le emozioni sono un terreno minato: se non si è in grado di trattarle in modo rigoroso e serio, se non si possiedono gli strumenti per un reale trattamento pedagogico delle emozioni, tanto meglio lasciar perdere: perché è facile far piangere i partecipanti a un corso, facendo loro disegnare la madre o il padre, facendo loro rivivere i traumi dell’infanzia, infilando il coltello nei loro conflitti edipici o nelle loro pene matrimoniali, facendo loro raccontare il momento più brutto della loro vita: e poi? Dopo questo pastiche tra narrazione e psicoterapia, che cosa ce ne facciamo di questo diluvio emozionale? Una volta che siamo stati bene/male insieme, che abbiamo riso e pianto sulle nostre vite narrate e rievocate, che cosa ci resta? Qual è il guadagno formativo: un metodo, un concetto, una forma di analisi riproducibile sui nostri allievi, una tecnica?
Lavorare pedagogicamente sulle emozioni dell’anima significa allora portarle in una dimensione che è quella del concetto e della parola: l’educatore o l’educatrice hanno il compito di una alfabetizzazione affettiva che significa insegnare che le emozioni hanno un nome, che in quel nome è implicito il trattamento educativo delle stesse, e che imparare a distinguerle e nominarle è operazione quanto mai utile, addirittura fondamentale per una buona crescita.
A questo proposito proviamo ad applicare la ragione a due emozioni dell’anima: il coraggio e la paura, parole che portano con sé il concetto di eroismo ma che rimangono spesso in una incompiutezza semantica che permette di applicarle a tutto e al contrario di tutto. Morire da eroi, per esempio, sembra la massima espressione di coraggio: ma l’eroe muore perché si colloca su un ponte, un luogo di passaggio da un’epoca all’altra. La morte eroica rischia di essere la peggiore delle morti, quasi la morte di un ponte più che di un soggetto: non è allora l’eroe a scegliere la morte ma piuttosto la morte a scegliere l’eroe come passaggio, come apertura di nuove ere. Dunque l’eroe è paradossalmente poco individuo, poco soggetto, poco anima: «Come potrebbe divenire anima? Anima vuol dire uscire dalla chiusura di se stessi, ma come potrebbe il ‘sé’ uscire? Chi potrebbe chiamarlo? Egli è sordo. Che cosa potrebbe attrarlo fuori? Egli è cieco. Che cosa potrebbe intraprendere là fuori? Egli è muto. Vive totalmente rivolto all’interno».[1] Per l’eroe scegliere la morte non significa né fare della propria vita un testo da interpretare per le future generazioni né gettarsi oltre l’ostacolo con cuore da leone: significa soltanto non avere alternativa che, in solitudine, scegliere il proprio destino. L’eroe è ben poco coraggioso, nel senso che non sceglie: è la morte a scegliere, sono i tempi cupi ad avere bisogno di eroi: e non è detto che soprattutto oggi la morte tragica dell’eroe apra veramente a nuove epoche. Potrebbe essere una morte tragicamente inutile, una morte comicamente inutile. Per questo motivo, con buona pace della pedagogia delle Forze Armate, l’eroe non è e non può essere una figura educativa positiva, e il suo rapporto con la sua propria morte non può certo essere un paradigma utile per una educazione al morire. L’enfasi sulla morte tragica dell’eroe ci ricorda soltanto che morire da eroi significa non morire realmente la propria morte: ci ricorda soltanto che il nostro compito non è creare nuovi eroi che affrontino morti non scelte da loro, ma apprestare il terreno per l’avvento di un tempo che non avrà più bisogno di eroi.
Ma allora forse occorre educare alla paura: non educare con la paura, ma proprio educare ad avere paura, a fare in modo di non scandalizzarsi delle proprie paure, a reinterpretare la paura come dimensione tipica del mondo animale e della cultura umana. Il che significa anche educare alla resa e alla fuga, parole che l’eroismo malato degli eroi «machi» considerano disonorevoli ma che nel mondo animale rappresentano strategie di resistenza anche superiori rispetto all’attacco e all’aggressione. Il vero coraggioso oggi è allora colui o colei che non hanno paura di avere paura; il coraggio è ancora e sempre quello della conoscenza: «L’essenza dell’universo, in un primo tempo celata e chiusa, non ha forza da resistere al coraggio di chi vuol conoscerla: deve schiuderglisi dinanzi agli occhi, e mostrargli e fargli godere la sua ricchezza e profondità».[2] Ancora oggi queste parole sono un programma per ogni pedagogia che voglia avere a che fare con le emozioni e in particolare con le dimensioni del coraggio e della paura: perchè il vero coraggio oggi è saper continuare, fare i conti con le proprie paure; se riesce a portare il soggetto a un recupero del proprio senso di normalità e di equilibrio, se riesce ad educare la parte sana, ad educare l’Io dei soggetti in formazione, se riesce a insegnare a guardare in faccia la paura senza paura, l’educazione dell’anima ha segnato il primo punto contro le forze della barbarie che hanno bisogno di burattini patetici travestiti da improbabili eroi.

[1] Franz Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Genova, Marietti, 1985, pag. 81.
[2] G.W.F. Hegel, Discorso inaugurale tenuto a Heidelberg il 28 ottobre 1816.

Publié dans:pastorale, scienza e fede |on 8 mai, 2014 |Pas de commentaires »

“L’universo ci è affidato e dobbiamo comprenderlo e curarlo”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25146?l=italian

“L’universo ci è affidato e dobbiamo comprenderlo e curarlo”

L’astrofisica Luisa Puppi spiega il rapporto tra verità, scienza e fede

di Francesca Pannuti

ROMA, lunedì, 10 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Tempo fa incontrai una persona, che, in prossimità del Natale, mi manifestò con semplicità quanto considerava naturale il desiderio di confessarsi per coloro che si preparano a tale solennità. Si presentava con una sobria e luminosa bellezza, unita a semplice eleganza. Dal volto emanava una dolcezza unita a serena gaiezza. Poco dopo scoprii che si trattava di un’astrofisica, Luisa Puppi.

Pertanto, ben sapendo che è convinzione diffusa che la fede sia un ostacolo per la ragione e per la scienza, le quali potrebbero benissimo svilupparsi senza la prima, mi è sorto il desiderio di farle alcune domande.

Come è giunta alla persuasione dell’importanza della confessione, quindi della fede e della sua pratica nella nostra vita? Ciò è avvenuto, nel suo cammino spirituale e umano, nonostante o grazie alla sua preparazione scientifica?

Luisa Puppi: Direi che convinzioni religiose e amore per la scienza sono sempre andate d’accordo nella mia vita. Mi sono laureata in fisica a Roma negli anni della contestazione con una tesi in astrofisica e quindi ho continuato gli studi in questo ambito entrando nel ruolo come docente di spettroscopia stellare all’università di Bologna. Mi sono poi dimessa per occuparmi di scuola secondaria, non solo di insegnamento ma soprattutto di orientamento e formazione, di sostegno alla famiglia. Questa è stata per me come una seconda vocazione professionale, ma non ho mai perso i contatti con il mondo della ricerca.

Nella sua impostazione di studio, che ruolo gioca la razionalità nella sua vita di donna e di insegnante?

Luisa Puppi: Già gli antichi dicevano che la ragione è ciò che ci distingue dagli animali. La ragione, la capacità di comprendere è, insieme alla volontà, ciò che ci rende liberi; senza possibilità di ragionare non potremmo in definitiva scegliere, quindi chi sa di più è più libero; l’ignoranza è il più grande nemico della libertà. Le emozioni sono una ricchezza, sia per l’uomo che per la donna, ma a patto che siano abitate dal « lógos », dalla riflessione.

La sua indagine scientifica quali orizzonti ha aperto davanti a lei? Come si colloca il discorso su Dio?

Luisa Puppi: Il mondo è bellissimo e Dio ci ha regalato la ragione che è in grado di comprenderlo; quindi l’uomo che fa scienza glorifica Dio. Questa è la scoperta fondamentale. Mi sembra però anche importante notare che scienza e fede non si oppongono ma neppure coincidono. Come ben ci ha insegnato Galileo (e la Chiesa ha fatto proprio) nella Bibbia è scritto come andare in Cielo, non come è fatto il cielo. D’altra parte ricordo che all’epoca in cui studiavo alla Sapienza mi imbattei nel manuale di un celebre astronomo sovietico, Ambarstumian: nella prefazione sosteneva che i suoi studi avevano dimostrato la non esistenza di Dio; non solo io, credente, ma anche i miei colleghi marxisti provarono un senso di pena: qualunque fossero le nostre opinioni religiose era per noi evidente che, per scrivere una cosa simile, l’autore era stato sottoposto a una violenza, perché faceva un’affermazione che nulla aveva a che spartire con la scienza.

Che cosa dice ai giovani, cui è abituata a parlare, sull’origine e il valore dell’universo in rapporto all’uomo che vi abita e a Dio?

Luisa Puppi: Quanto già detto: che l’universo ci è affidato e dobbiamo comprenderlo e curarlo; che non siamo buttati a caso in un mondo incomprensibile, né la nostra vita è insignificante. Di più: la nostra felicità la troveremo nel metterci in una relazione d’amore con gli altri e con Dio. Tutto questo lo troviamo nel racconto della Genesi, che non è certo un testo scientifico, ma di livello esistenziale assolutamente sorprendente, se lo paragoniamo ad altra letteratura dell’epoca. C’è tutta una teologia della creazione da sviluppare e in questo senso per me è stato particolarmente importante l’incontro con la spiritualità dell’Opus Dei e la sua rivalutazione del lavoro come partecipazione all’opera creatrice di Dio.

A suo avviso, tra le scoperte scientifiche, in particolare quelle più recenti, può individuarne qualcuna che offuschi o smentisca la consapevolezza dell’esistenza di Dio?

Luisa Puppi: Nessuna scoperta scientifica potrà mai smentire o offuscare la consapevolezza dell’esistenza di Dio, ma neppure potrà confermarla: la ragione dell’uomo comune (non c’è bisogno di essere un astrofisico per questo), se lavora onestamente, non forzata da emozioni e passioni, è in grado di arrivare a Dio a partire dalle cose create. La stragrande maggioranza degli scienziati di tutti i tempi è stata credente e molti sono stati anche devoti e praticanti; nell’età moderna mi vengono in mente per esempio Volta e Maxwell, ma lo stesso Galileo è morto (serenamente nel suo letto) assistito dalla figlia suora e con il nome di Gesù sulle labbra. Secchi, padre dell’astrofisica italiana, e Lemaître, che per primo formulò l’ipotesi del Big Bang, erano sacerdoti cattolici. Se c’è qualche scienziato che non crede merita rispetto, ma certo non è per motivi scientifici. Ho anzi notato che talora, per sostenere le proprie convinzioni atee, si arrivano a dire cose scientificamente prive di senso: per esempio Hawking è passato dal sostenere che il mondo si è autoprodotto dalle fluttuazioni quantistiche del nulla (confondendo il nulla – concetto filosofico – col vuoto – concetto fisico, che nello spazio interstellare è grosso modo pari a 1 elettrone al m3) all’affermazione ancora più incredibile che certamente non uno ma tanti universi si sono prodotti dal nulla perché una simile operazione è a costo energetico zero!

In accordo con le osservazioni sperimentali e la loro possibile interpretazione, per l’evoluzione dell’universo si fa tuttora riferimento al cosiddetto “modello standard”, basato sulla teoria della relatività generale. Attualmente l’unico modello non contraddetto da qualche osservazione è quello del “Big Bang” (il suo concorrente, quello dello”Stato Stazionario”, è crollato alla fine degli anni ’60 dopo la scoperta della radiazione cosmica di fondo). A partire dagli anni ’80 si è però ritenuto opportuno trattare la fisica dei primi istanti del nostro universo, a causa delle particolari condizioni di densità e di pressione, non con la meccanica classica ma con la meccanica quantistica. Questo ha dato luogo al cosiddetto “modello inflazionario” (Big Bang + relatività generale + meccanica quantistica). La meccanica quantistica (o ondulatoria) tratta tutto ciò che esiste come pacchetti d’onda, onde di probabilità. (Esempio noto: nel modello dell’atomo di idrogeno non si parla più di un’orbita che percorre l’elettrone intorno al nucleo, ma di probabilità di trovare l’elettrone in un certo luogo dello spazio; gli orbitali non sono altro che sovrapposizione di stati di probabilità). Nel caso dell’universo questo vuol dire che il nostro mondo non è che uno dei possibili stati, forse il più probabile, di un ipercosmo; esisterebbero quindi altri mondi paralleli possibili, chiamati multiversi.

Questa chiaramente è una supersintesi e, come è ovvio, non ha nulla a che fare con la fede. C’è poi il problema, dando per certo il Big Bang, del prima e del poi: come finirà l’universo? (varie ipotesi, che non sto a dire); è per caso il nostro un universo oscillante? grandi esplosioni e quindi grandi implosioni che si alternano? Come si vede la scienza ha molte risposte ancora da dare, ma, come detto ripetutamente, Dio ci ha dato la ragione per porci domande e cercare risposte!

Per concludere, parafrasando Galileo, direi che né la teoria del Big Bang né quella dei multiversi ci dicono come andare in Cielo, cioè non rispondono alla profonda domanda di senso che si pone la creatura umana, ma questi interrogativi possono avere risposta e il metodo scientifico ci aiuta ad avere un’umile fiducia nella capacità della ragione di attingere la verità.

Publié dans:scienza e fede |on 11 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Tutti gli infiniti del mondo

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126268

Tutti gli infiniti del mondo

Quanto i concetti della matematica possono aiutarci a interpretare le idee e le vicissitudini della vita? E quanto le nostre sensazioni e i nostri pensieri possono influire sullo sviluppo di una scienza rigorosa? La scienza incontra l’infinito in varie occasioni.

          La scienza e la vita ci parlano dell’infinito come certezza e come speranza . Il matematico Roberto Natalini testimonia che buona parte della scienza moderna si fonda non solo sull’idea ma sull’uso dell’infinito. Lo scrittore Erri De Luca chiama in causa il concetto opposto, quello di « finito », e afferma che neanche in carcere, dove stai spalle al muro e faccia alle sbarre, devi darti per « finito ». Recentemente, di fronte a un’assemblea di detenuti, ha detto: «Nessuno consideri la prigione come una « fine in cui finire »».

          Insomma ci si accorge che non solo la conoscenza scientifica ma la stessa vita è potenzialmente ricca di infinito: in tutte le condizioni, anche in quelle che appaiono disperate, è possibile un « nuovo inizio ». Ma «come lettore di scrittura sacra – rileva De Luca – posso dire che l’infinito è caratteristica esclusiva della divinità». Il matematico Roberto Natalini e lo scrittore Erri De Luca partecipano oggi, alle 17 presso la Biblioteca G. Marconi del Cnr (piazzale Aldo Moro, 7 a Roma), all’incontro dal titolo « L’infinito e il limite », che ha luogo nel quadro del progetto « I dialoghi ». E l’infinito è certamente uno dei temi che più reclamano un ritorno a più stretti rapporti tra sapere scientifico e sapere umanistico.

          Quanto i concetti della matematica possono aiutarci a interpretare le idee e le vicissitudini della vita? E quanto le nostre sensazioni e i nostri pensieri possono influire sullo sviluppo di una scienza rigorosa? La scienza incontra l’infinito in varie occasioni. Basta una moltiplicazione appena più complessa di quelle che si fanno a scuola, e i cosiddetti numeri naturali non bastano più. Per non parlare della teoria della relatività e della fisica quantistica, osserva Natalini, che è dirigente di ricerca presso l’Istituto per le applicazioni del calcolo del Cnr. E non esiste soltanto un tipo di infinito: «Bisogna fare i conti con infiniti tipi di infinito».

          C’è una circostanza straordinaria in cui si afferra l’infinito. Quando avvertiamo il tempo, il fluire degli avvenimenti e noi stessi, «precipitiamo dentro di noi in momenti di infinita intensità. Segue una sorta di infinita concentrazione che ci fa presumere di poter avere una percezione infinita e un’anima immortale». E qui Natalini ricorda il film Miracolo a Milano, quando l’indovino ripete a ogni barbone:«Lei non finisce qui. No, no. Chissà dove finirà lei. Diventerà una grande persona. Lei non finisce qui». Ma nella vita c’è una « speranza di infinito »? Nel caso di chi ha fede, risponde De Luca, «è come un tentativo di sporgersi oltre, di guardare un po’più lontano». Nella fotografia, si chiama messa a fuoco all’infinito. «L’idea di infinito spunta quando guardiamo l’orizzonte. Che cosa c’è, dopo? Il credente lo sa. Il non credente si ferma lì».

          De Luca segue l’evoluzione di un ragazzo che era entrato in carcere da mafioso, poi ha studiato e ora è diventato ingegnere informatico. «Ma solo un’esigua minoranza si riscatta. Per gli altri, il tempo della pena resta un carico da buttare a fine percorso». E invece non bisogna rassegnarsi a «dare il tempo per perduto». La salvezza è alla portata di tutti: dipende dalla capacità della persona, dalla spinta che parte da dentro; sta nelle nostre fibre». La parola ora a un fisico insigne, che ha presieduto il Cern di Ginevra e ora è presidente del Cnr: il professor Luciano Maiani. La conoscenza scientifica richiede investimenti, premette.

          La ricerca italiana è in difficoltà per tanti motivi. Sono diminuiti gli investimenti in infrastrutture, in personale umano e in cervelli. «Questo è il problema. Molta attenzione è stata posta in questi anni sulle regole, che devono essere buone, e sul merito che va riconosciuto. Ma senza investimenti non si va avanti. Gli anni Sessanta videro una fioritura senza precedenti della ricerca italiana, fenomeno dovuto proprio alla presenza di notevoli investimenti. Nascevano allora il nucleare, le imprese spaziali, la fisica delle particelle elementari e le nuove tecnologie della medicina. Occorre riprendere questa strada sapendo che la ricerca è la base dello sviluppo». Al rilancio sarà molto utile un dialogo tra i due saperi, scientifico e umanistico. «Ho sempre pensato che siano due facce della stessa medaglia – osserva Maiani –. La cultura è cultura scientifica e filosofica.

          Al Cnr in questi giorni stiamo lanciando un programma che dovrà coniugare gli sviluppi delle neuroscienze e della genetica con il sapere giuridico, per stabilire in che modo le nuove conoscenze possano essere inglobate nella nostra cultura giuridica. Una questione di vastissime dimensioni e molto attuale che ci fa toccare con mano la necessità di gettare un ponte tra i due saperi e di mantenerlo ben aperto».

(Quaderni Cannibali) Maggio 2010 – autore: Luigi Dell’Aglio

Publié dans:scienza e fede |on 30 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

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