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IL SANTUARIO DI ROMA: IL DIVINO AMORE

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IL SANTUARIO DI ROMA: IL DIVINO AMORE dans Maria Vergine 06-Madonna-Divino-Amore

(nel testo c’è una clip, metto una immagine)

IL SANTUARIO DI ROMA: IL DIVINO AMORE

Descrizione dell’immagine della Madonna del Divino Amore
secondo la critica fatta nel 1940 quando l’affresco fu strappato dal vecchio muro

del Prof. CARLO DEL VECCHIO

Non sappiamo con certezza quando l’affresco sia stato eseguito, mancandoci a tutt’oggi uno studio ordinato e completo dì esso; comunque, ci sembra chiaro che le sue caratteristiche diano una indicazione abbastanza approssimativa, del periodo di tempo in cui questo dipinto può essere collocato, e cioè verso la fine del 1300 ed i primi anni del secolo seguente. Queste caratteristiche possiamo identificarle sia nella tecnica, sia nel tipo iconografico del soggetto, specie nelle linee che formano la somatica del viso della Madonna.
Si noti a questo proposito, la nobiltà dei lineamenti, i suoi grandi occhi tagliati a mandorla, il naso dritto, la bocca non troppo grande, il segno di graffito che circonda le parti principali delle figure e dei panneggi (graffito che gli antichi facevano con un grosso chiodo acuminato per delimitare, sull’intonaco fresco, i campi principali del disegno), le aureole bacellate che sicuramente erano dorate.
Se l’artista è ignoto, esso però apparteneva con ogni probabilità a quella scuola romana che seguiva fin dai secoli IX e X le linee maestre di una eccellenza della tradizione pittorica che affonda le sue radici nel passato. Questa romanità di origini si faceva notare anche nei mosaici, che pur conservando alcuni residuati di schermi bizantini, in Iacopo Torriti non disdegnò rinunciarsi nei modi stilistici usuali. L’artista a cui vogliamo alludere è Pietro Cavallini, che in quel secolo dominò incontrastato questa scuola. Egli fece più fresca rifluire la nota veristica ed umanitaria, affermandosi nei mosaici e negli affreschi, come il precursore della grande pittura che stava per fiorire in Toscana. L’arte del Cavallini è una ricerca di espressione umana e ideale ad un tempo, che ha già l’individualità del gusto occidentale mediterraneo, preludio della forma plastica di Giotto, del quale la critica moderna lo ritiene oggi suo maestro spirituale. Sebbene i più importanti cicli delle sue pitture murali siano andati perduti, come quello di S. Paolo e di S. Pietro, ci restano ancora oggi i lavori musivi di S. Maria in Trastevere, la Madonna di S. Crisogono ed altri, oltre un grande esempio di pittura in affresco, cioè la parte superiore del Giudizio Universale, che un fortuito caso riportò alla luce ed alla visione ammirata degli scopritori del nostro secolo (meno di 60 anni or sono) nel Coro delle Benedettine Olivetane, posto a ridosso della parete di fondo della Basilica di S. Cecilia.
Nel nostro dipinto della Madonna, sebbene rovinato dal tempo, vi si riscontrano parecchi elementi, come già si è detto, che lo pongono proprio nel ciclo di detta scuola romana. Non sarà stato certo il Cavallini ad eseguirlo, ma certamente uno di quei pittori, se pur più modesto, della sua sequela; anzi possiamo supporre che la figura centrale, la Madonna con il Bambino, sia stata opera di un artista, che fece poi terminare le figure dei due angeli, meno belli del gruppo centrale, da altri più di lui modesti, ma sempre operanti nella scia tracciata dal Cavallini.
L’affresco è molto deteriorato dal tempo perchè, essendo dipinto, come si è detto, sull’ esterno della torre principale del Castello, attraverso i secoli aveva subito tutte le intemperie del tempo ed i raggi distruttori del sole.
Dopo il primo miracolo (1740) fu rimosso dalla torre; come si usava allora fu tagliato o segato direttamente il rettangolo del muro medioevale a tufi, sul quale era l’intonaco affrescato, sorreggendo e legando il tutto con travetti di legno che tutt’ ora sono in loco.
Questa constatazione fu fatta nel 1940, quando il Rettore del Santuario D. Umberto Terenzi, preoccupato dello stato dell’intonaco che in molte parti presentava rigonfianti e sicuri accenni di distacco, minacciandone l’irreparabile caduta con relativa perdita del dipinto, decise provvidenzialmente di farlo completamente staccare, incaricando il prof. Buttinelli del Gabinetto del Restauro del Vaticano, di procedere al detto lavoro.
L’affresco, unitamente al suo intonaco, fu accuratamente strappato; vennero allora alla luce, nel retro di esso, i tufelli medioevali simili a quelli della Torre ed i travetti in legno che legano questo prezioso e storico rettangolo di muro.
Con molta attenzione tolti dal dipinto i vari restauri che per lungo tempo lo avevano deturpato, ultimo, quello eseguito nel 1914, ricomparve l’antica immagine, rovinatasi, ma molto più bella e nobile di quella che eravamo soliti vedere, ed il volto della Madonna si rivelò celestiale con la espressione luminosa dei grandi dolcissimi occhi. Non più il voluminoso cuscino sul quale poggiavano i piedi del Bambino, erroneamente dipinto dai malaccorti restauratori della fine del settecento e seguenti.
Questi lo fecero, quasi sicuramente, per camuffare il tratto d’intonaco che non risulta della medesima qualità dello antico, poi reintegrato perchè caduto. Non più sul braccio destro della Madonna, sul quale è seduto il Bambino Gesù, il panno di stoffa bianca che risulta essere invece parte del manto rosso di questi. La Madonna è in trono – giusta l’iconografia del tempo – ai due lati s’intravedono gli angoli di un cuscino rosso sul quale Essa è seduta; ha la tunica, come il manto del Bambino, di un rosso pompeiano; il manto di Lei è azzurro verdastro con sotto qualche riflesso rosso. La tunichetta che si vede alla spalla e nel braccio destro del Bambino, la cui mano alzata indica con il dito la Sua Mamma Celeste, è di tono scuro grigio verdastro.
Attenendoci agli schemi dell’iconografia antica, al disotto della mano destra della Madonna che sorregge il Bimbo, al posto del pesante cuscino dipinto sul vecchio restauro, dovevano esservi le ginocchia della Vergine, sulle quali poggiavano direttamente i piedini di Gesù. Il tutto risulta ben delineato in una ricostruzione curata dal sottoscritto che aveva seguito nel 1940 le fasi del distacco e dell’ultimo restauro, ricostruzione studiata in tutte le sue parti, compreso lo Spirito Santo, con riferimenti tratti da mosaici e pitture murali del Cavallini, ricostruzione che servì per la stampa delle nuove immagini.
Nel centro del fondo del dipinto vi è una cortina di tono giallo dorè invecchiato, fissata in alto con dei fermagli ad un arco ribassato. Ai lati della Vergine SS.ma due Angeli, con grandi ali in atto di venerazione: uno a sinistra di chi guarda, regge un aspersorio, l’altro a destra, un turibulo; vogliono indicare il primo le benedizioni di Dio sulla Madonna, e, per la Sua intercessione, sugli uomini; il secondo, la preghiera che nella S. Scrittura e nella Liturgia è simboleggiata appunto dall’incenso che sale al trono dell’ Altissimo:« in odore di soavità ». In quanto al colore delle tuniche degli angeli, possiamo osservare, che in quello che ha il turibolo si presenta di tonalità biancastre e fredde e sulla manica a metà del braccio sinistro una fascia azzurra, il manto un giallastro ocra, alquanto chiaro. La tunica dell’altro è meno fredda, con toni bianco giallastri, il manto in giallo ocra scura con qualche ombra brunastra. Le ali, pur indicandoci varietà di toni e di colori sono molto abrasate.
Il fondo generale sul quale si stagliano le figure è di un tono scuro verdastro, qua e là molto incerto e non uniforme, spesso abrasato; in basso all’altezza della mano destra della Madonna, s’intravedono due righe come l’inizio di una zoccolatura più oscura. Le aureole delle figure, come già si è detto, sono bacellate, quella del Bambino oltre alla baccellatura ha la croce greca; esse presentano nel loro fondo un rossastro, quasi fossero passate con bolo armeno per ricevere sopra la doratura che sicuramente in origine avevano; sul petto della Madonna, verso la spalla sinistra fanno capolino i resti di una stella. Per completare la descrizione, diremo ancora che la composizione in alto è chiusa da un arco ribassato che si prolunga ai lati con due spallette; l’ estradosso dell’arco ha tonalità di terra rossa qua e là abrasato facendo trasparire altri toni di fondo scuro.
Con il distacco dell’affresco fu eliminato il periodo di una completa distruzione del simulacro, fu rinforzato con malta su una grossa rete metallica sorretta da un robusto telaio, cosa che permise nei tragici momenti dell’ultima guerra e dei bombardamenti, il trasporto precauzionale della preziosa devota immagine a Roma, nella Chiesa di S. Ignazio, perchè fosse più vicina ai suoi diletti figli.
A questo punto, per dovere di verità storica, dobbiamo dichiarare che l’antico affresco vero e proprio è tutto compreso in quello che abbiamo fin qui descritto. Purtroppo, la parte sovrastante, che riguarda lo Spirito Santo, non è autentica. Infatti essa dopo attente osservazioni risulta opera grossolana, eseguita solo dopo che l’affresco col sottostante muro medioevale fu collocato nella Chiesa eretta nel 1744 nel centro del Castel di Leva: da tutto ciò, se ne può quasi certamente dedurre che l’autentico fosse andato perduto quando il muro fu tagliato dalla torre, e, di conseguenza poi, per non lasciare la figurazione della Madonna senza il suo principale attributo, fu ridipinto molto alla buona, inquadrando la colomba fra quei due drappi verdi che indicano chiaramente il cattivo gusto dell’antico, e forse, improvvisato restauratore. Comunque sia esso è oggi un elemento acquisito dalla iconografia di questo nostro Simulacro e, senza del quale non potremmo immaginarlo, poichè lo Spirito Santo rappresentato dalla colomba simbolica è proprio il Divino Amore che ha dato la sua mirabile qualifica a questa Madonna.
Per completare queste note generali sul dipinto e per essere fedeli alla cronaca, dobbiamo riferire che dopo il distacco del 1940 il Rettore del Santuario invitò ad esaminarlo il prof. Prandi Direttore del Gabinetto dei Restauri e Mons. Giovanni Fallani oggi Presidente della Commissione Pontificia di Arte Sacra, affiancati poi dal pubblicista Guido Guida; tutti furono d’accordo nell’intravvedere, sebbene in un maestro più modesto, l’impronta non spregevole della scuola romana del Cavallini. Essi osservando attentamente il dipinto, dopo aver rilevato le molte osservazioni ed apprezzamenti già sopra descritti, fecero anche attenzione ad una abrasatura che intaccava, sia pur leggermente, oltre il dipinto anche lo stesso intonaco, di andamento ricurvo verso il basso, sotto il ginocchio del Bambino. Tale abrasatura fece supporre provocata da un oggetto appeso dinanzi al dipinto e scendente dall’alto, che, con il vento, poteva facilmente dondolarsi, strusciando sull’affresco, ossia quel lume alimentato dalla pietà dei pastori e dei contadini, lampada di cui si parla in un documento epigrafico del 1741 e che fu certo richiamo al pellegrino, inducendolo a raccomandarsi alla Vergine SS.ma raffigurata in quella effige, per essere liberato dall’ira di un branco di cani pastori che lo circondavano e stavano per assalirlo.

Publié dans:Maria Vergine, ROMA - varie, SANTUARI |on 29 août, 2013 |Pas de commentaires »

CAMMINO DI SANTIAGO: STORIA E ORIGINE

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(un ricordo a coloro che sono morti ed ai feriti ed ai parenti nell’incidente ferroviario di oggi)

CAMMINO DI SANTIAGO: STORIA E ORIGINE

IL CAMMINO DI SANTIAGO NELLA STORIA E LE SUE ORIGINI

Molti credono che il Cammino di Santiago sia un sentiero che attraversa la Spagna settentrionale e, partendo dai Pirenei conduce fino alla cattedrale di Santiago de Compostela in Galizia e termina sulla Costa da Muerte, sull’Oceano Atlantico, a Finisterrae o Muxia. In realtà è molto di più. Il nome Cammino di Santiago indica non un solo percorso, bensì infinite strade e sentieri che, da ogni parte d’Europa conducono e condussero i pellegrini fino a Santiago de Compostela e alle sponde dell’Oceano. Perché nel Medioevo, come per pochi fortunati tradizionalisti moderni, il Cammino di Santiago inizia a casa propria. L’intero continente europeo è attraversato da mille anni da una rete infinita di percorsi tracciati dai pellegrini medievali che per fede o imposizione hanno camminato ad limina Sancti Jacobi, alla tomba di San Giacomo e che oggi sono riconosciuti e tutelati dall’UNESCO come itinerari storici e culturali e, quindi, Patrimonio dell’Umanità.

Origini del culto jacopeo
Il moderno percorso noto come “Camino Francés” o Cammino Francese, che conduce i pellegrini dal versante francese dei Pirenei, attraverso tutta la Spagna settentrionale fino alla cattedrale di Santiago de Compostela e poi a Finisterrae o Muxia, ricalca il viaggio narrato nel quinto libro del Codex Calixtinus, scritto, secondo la tradizione, da Aiméry Picaud nel XII secolo (la redazione del Codice in sé viene però datata attorno al 1260). Tale volume è dedicato alla gloria di San Giacomo Maggiore e al suo culto in Santiago de Compostela ed è una fonte imprescindibile per studiare le origini del Cammino di Santiago. La paternità e la committenza del Codice sono oggetto di dibattito, in quanto esso venne corredato, per anticiparne artificiosamente la data di realizzazione, da una bolla di papa Callisto II, morto nel 1124. Probabilmente, esso venne realizzato nello scriptorium della cattedrale di Santiago ed ora è conservato a Barcellona.

San Giacomo apostolo
Nel terzo libro del Codice, si narra come avvenne la traslazione del corpo di San Giacomo da Gerusalemme fino in Galizia. Ricordiamo che l’Apostolo la cui tomba è venerata e conservata nel cuore della Cattedrale di Santiago de Compostela è San Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo, nonché, secondo la versione compostellana, primo vescovo della Chiesa di Gerusalemme dopo la morte di Gesù. L’Apostolo, dopo l’Ascensione di Gesu, lasciò la Palestina per evangelizzare la penisola iberica, ma ebbe un ben misero successo, riuscendo a convertire e raccogliere attorno a sé solo una manciata di discepoli.
Dopo diverse disavventure, Giacomo tornò a Gerusalemme, dove divenne capo della comunità cristiana. A Gerusalemme incontrò la morte per decapitazione fra il 41 e il 44 d.C., per ordine di Erode Agrippa I. I pochi discepoli ispanici che l’avevano seguito a Gerusalemme, trafugarono il corpo e lo caricarono su una barca senza equipaggio che, guidata dagli angeli, li condusse alla foce del fiume Ulla, presso il capo di Finisterre in Galizia. Anche lì, però, i cristiani erano perseguitati e i discepoli dovettero difendere le spoglie del loro maestro dalle persecuzioni della Regina Lupa e da Re Duyo. Miracolosamente, la Regina Lupa si convertì alla fede cristiana e l’Apostolo trovò sepoltura nella piana in cui sorgerà secoli dopo la città di Santiago. Dopo tali avvenimenti, il luogo di sepoltura fu dimenticato.
Un alone di leggenda tinge anche la memoria degli eventi che condussero alla riscoperta del sepolcro di San Giacomo. Nel IX secolo, nella diocesi di Iria Flavia, un eremita chiamato Pelagio ebbe una visione in cui gli apparvero delle luminarie nel cuore di una selva, mentre udiva cantare gli angeli. L’eremita avvertì dell’accaduto il vescovo Teodomiro, il quale, accorso sul posto, scoprì una tomba che conservava i resti di tre individui, dei quali uno aveva il capo mozzato ed era identificato dalla scritta “Qui giace Jacobus, figlio di Zebedeo e Salomé”. Sul luogo della tomba venne costruita, per ordine di Alfonso II re delle Asturie, la prima cattedrale, dove nell’893 presero dimora i primi monaci benedettini, e attorno ad essa sorse la città di Santiago de Compostela. Al di là della tradizione, gli scavi archeologici effettuati nel XX secolo, hanno mostrato come sotto la cattedrale jacopea si trovi una necropoli cristiana, romana e germanica, databile ai secoli I-VII d.C..
La città di Santiago prese così il nome dall’Apostolo e tradizionalmente dal “Campo di stelle” della visione di Pelagio e iniziò fin dai primi secoli ad accogliere i primi pellegrini.

Santiago, la Reconquista e la nascita del pellegrinaggio
Nel X e XI secolo, ricordiamo che la situazione politica della penisola iberica era piuttosto burrascosa: la Spagna centrale e meridionale erano sotto l’occupazione araba e la riscoperta del sepolcro di San Giacomo divenne uno stimolo per il nascente movimento della Reconquista. Il culto dell’Apostolo si configurò come un simbolo della riappropriazione dei territori perduti e sono numerosi i miti legati alla partecipazione di San Giacomo alle battaglie fra i principi cristiani e i Mori: in particolare, ricordiamo la battaglia di Clavijo, combattuta il 23 maggio 844, alla quale Santiago avrebbe preso parte in sella a un cavallo bianco per sostenere l’esercito asturiano messo in difficoltà dai nemici. Da questo episodio discende la diffusissima rappresentazione di Santiago “Matamoros”, ossia “ammazza mori”, in cui il santo compare in sella ad un destriero bianco, con la spada sguainata nella mano destra, mentre il cavallo schiaccia un Moro disarmato, caduto a terra.

Santiago Matamoros
Il ruolo della città di Santiago nelle vicende della Reconquista assume un ulteriore peso simbolico quando, nell’anno 997, l’esercito musulmano di Al-Manzor distrusse la città e danneggiò gravemente la cattedrale, lasciando però intatta la tomba dell’Apostolo. Nel 1075 fu iniziata la nuova basilica, voluta dal vescovo Diego Pelàez con il sostegno della casa reale di Castilla y Leon. Mentre i lavori erano ancora in corso, il vescovo successivo, Diego Gelmirez, ottenne da papa Callisto II che Santiago diventasse sede arcivescovile e la dotò del prestigioso palazzo vescovile. Sotto la sua direzione, la cattedrale venne dotata dell’apparato decorativo più noto anche ai giorni nostri: il Portico de la Gloria di Mastro Matèo, completato nel 1188. Nel 1211 la nuova cattedrale venne finalmente consacrata.
Il culto jacopeo, in quanto propulsore e simbolo della Reconquista, divenne anche oggetto di grande attenzione da parte dell’ordine cluniacense, che lo sostenne mettendo a disposizione dei pellegrini e dei viandanti sulle rotte principali verso Santiago de Compostela alcuni dei più grandi e meglio organizzati rifugi e ospitali (l’Ospitale di Santa Cristina lungo il Cammino Aragonese, nella regione pirenaica è il più grande e famoso, una vera oasi nel deserto per i pellegrini che affrontavano la montagna). A partire dall’XI secolo, il Cammino di Santiago divenne un fenomeno di portata europea, grazie soprattutto al sostegno dei regni di Navarra e di Leon, in particolare re Sancho el Mayor di Navarra e Alfonso VI di Leon diedero un grande contributo alla tracciatura del tracciato di massima di quello che ancora oggi è noto come Camino Francés.

Il Cammino di Santiago come fenomeno europeo
Il Cammino Francese divenne una vera e propria direttrice per i pellegrini di tutta Europa: esso sfruttava vie di comunicazione preesistenti, soprattutto antiche vie romane, e venne munito di infrastrutture preziose, quali ponti, ostelli, ospitali, chiese, abbazie e monasteri che prestavano soccorso e accoglienza ai viandanti. Lungo l’itinerario sorsero anche numerosissimi centri abitati, che sfruttavano e assistevano i pellegrini (il pellegrino, come oggi il turista, aveva necessità di trovare alloggio e di comprare del cibo, divenendo perciò una fonte di ricchezza in regioni spesso desolate e quasi disabitate, come le Mesetas fra le città di Burgos e di Leon).
Oltre ai monaci cluniacensi, dopo l’inizio delle Crociate e la fondazione degli ordini militari (Cavalieri del Tempio, Cavalieri di San Giovanni, Cavalieri Teutonici, …), nell’accudire i pellegrini si aggiunsero proprio questi originali ordini monastici, che avevano fra i propri scopi la protezione dei fedeli che si recavano per motivi di fede nei luoghi della Terra Santa e presso gli altri grandi santuari della Cristianità. In effetti, uno degli aspetti più problematici che doveva affrontare un uomo dell’Anno Mille che decideva di mettersi in viaggio per centinaia di chilometri attraverso l’Europa, era quello della propria sicurezza ed integrità fisica: oltre alle intemperie e alle fatiche del viaggio, nei boschi, sulle montagne e nelle lande desolate erano spesso in agguato gruppi di banditi, pronti a rapinare ed uccidere. Il ruolo dei monaci cavalieri era spesso proprio quello di proteggere i pellegrini e mantenere la sicurezza sulle strade.
Come già si è detto, però, accanto al Cammino Francese, oggetto del quinto libro del Codex Calixtinus, si sviluppò una fitta rete di strade e percorsi che attraversavano l’Europa diretti a Santiago de Compostela. Quello più frequentemente percorso dai pellegrini provenienti dall’Italia era noto come Via Tolosana, che risaliva la valle del Rodano, facendo tappa nella città di Arles, poi a Narbonne e Tolosa, per valicare infine i Pirenei al Passo di Somport, dove il pellegrino avrebbe potuto trovare rifugio nell’Ospitale di Santa Cristina.
I pellegrini che provenivano dalla Renania e dalla Borgogna, invece, attraversavano la Francia percorrendo la Via Podense, passando per i santuari di Le-Puy-en-Vélay, Moissac e Conques. La Via Lemovicense era percorsa dai pellegrini tedeschi, loreni e della Champagne, che passavano da Vezelay. Infine, il quarto itinerario francese principale era la Via Turonense, che conduceva i pellegrini della regione di Parigi della Francia centro-settentrionale da Tours a Poitiers, di qui a Bordeaux e ad Ostabat, luogo di congiunzione di tutti i Cammini francesi verso la Spagna. In linea generale, una volta giunti alle pendici dei Pirenei, i viandanti si trovavano davanti due possibilità: valicare le montagne dai Porti d’Aspe (Somport) ed entrare in Aragona, oppure attraversare i Paesi Baschi, entrando in territorio spagnolo da Roncisvalle, luogo di memorie carolinge, munito della preziosa Real Collegiata di Nostra Signora e di un grande ospitale, ancora oggi attivo.
In territorio spagnolo, il pellegrino si trovava ad attraversare – e si trova ancora oggi ad attraversare – i regni di Navarra, la Rioja, Castilla y Leon e infine la Galizia, transitando per grandi città e piccoli villaggi, dove la memoria del Cammino e il culto jacopeo era ed è impressa nelle opere d’arte e nei monumenti. Le tappe più importanti lungo il Cammino Francese sono Roncisvalle, Pamplona, Burgos, Carriòn de los Condes Leon, Astorga alle pendici del Monte Irago, oggi coronato dalla Cruz de Hierro, poi Ponferrada, Villafranca del Bierzo e Sarria.

Santiago de Compostela
Dopo la creazione di percorsi protetti e ben attrezzati, un ulteriore fattore che favorì l’aumento dei pellegrini diretti a Santiago de Compostela fu l’istituzione da parte di Papa Callisto II nel 1122 dell’Anno Santo Jacobeo, che si celebra ogni anno in cui il 25 luglio, festa di San Giacomo Maggiore, cade di domenica (il più recente è stato il 2010); il pontefice successivo, Alessandro III, invece, concesse l’Indulgenza Plenaria a chi visitasse la cattedrale di Santiago de Compostela durante gli Anni Santi Jacobei. Di conseguenza, i pellegrini iniziarono a compiere il Cammino non solo spinti dal desiderio di ricevere grazie o miracoli, ma anche dalla certezza del perdono dei peccati. In seguito a questi eventi, il pellegrinaggio ad limina Sancti Jacobi riscontrò un grandissimo successo per tutto il XII e il XIII secolo, diventando una dei tre grandi pellegrinaggi della Cristianità, con Gerusalemme e Roma.

I secoli della decadenza e la riscoperta del XX secolo
Il XIV secolo, tuttavia, portò a una crisi dei pellegrinaggi in tutta Europa, a causa delle avverse condizioni sociali, politiche e religiose: la diffusione di pestilenze e la crisi economica che coinvolsero tutto il continente, mentre le guerre provocarono una crisi della stabilità politica, mettendo a rischio la sicurezza di chi si avventurava a compiere lunghi viaggi. Il 1492, invece, segnò un momento positivo per la Spagna in generale e per Compostela in particolare: la presa di Granada segna la fine vittoriosa della Reconquista mentre, nello stesso anno, venne eletto papa Alessandro VI, di origine valenciana, che concederà ai monarchi di Spagna Isabella di Castiglia e Fernando di Aragona il titolo di Re Cattolici. Essi erigeranno per i pellegrini l’imponente Hospital de los Reyes Catolicos sulla piazza della Cattedrale di Santiago, in memoria della compiuta Reconquista e della restituzione alla Cattedrale del portale e delle campane saccheggiati da Al-Manzor nel 997.
La decadenza riprese e si aggravò nel XVI secolo; la Riforma Protestante condannò i pellegrinaggi e in particolare il pellegrinaggio a Compostela, equiparata da Lutero ad un atto di idolatria. Le guerre di religione che seguirono la Riforma Luterana misero in crisi le comunicazioni civili fra gli Stati e, per aggravare la situazione, nel XVI secolo l’arcivesco Don Juan Sanclemente per mettere le reliquie dell’Apostolo al riparo dai saccheggi dei corsari guidati da Sir Francis Drake, si vide costretto a trasferirne una parte a Ourense. Nel XVIII secolo, infine, il movimento illuminista e la Rivoluzione Francese gettarono ulteriore discredito sulla pratica dei pellegrinaggi, tanto che, nel XIX secolo ci fu una riduzione quasi totale dell’afflusso dei pellegrini alla Cattedrale, anche se esso non cessò mai completamente. Le fonti ricordano le cronache della Cattedrale che il 25 luglio 1867, a celebrare la festa dell’Apostolo, nella Cattedrale erano presenti solo quaranta pellegrini.
Il processo di recupero del culto jacopeo poté iniziare soltanto in seguito agli scavi sotto l’altare maggiore, voluti a fine Ottocento dal card. Miguel de Payà y Rico, che portarono alla scoperta delle reliquie occultate nel XVI secolo: in seguito ad una indagine scientifica, nel 1884 papa Leone XIII confermò nella bolla “Deus Omnipotens” l’autenticità dei resti di San Giacomo. Nel corso del XX secolo, la tradizione del pellegrinaggio a Compostela ritrovò lentamente vigore, anche grazie all’impegno del card. Quiroga Palacios, che lottò per ridonare lustro alla peregrinazione, e al lavoro del famoso curato di O Cebreiro, don Elias Valina, che dedicò al Cammino diversi studi storici e spirituali e inventò le prime frecce gialle, che aiutarono i pellegrini a risalire i crinali nebbiosi che dal Bierzo conducono al Cebreiro.
Un momento chiave nella ripresa del pellegrinaggio a Santiago de Compostela fu sicuramente la visita di papa Giovanni Paolo II nel 1982 proprio nella capitale della Galizia, seguita nel 1989 dalla Giornata Mondiale della Gioventù. Nel 1987 il Consiglio d’Europa proclamò il Cammino Francese “Primo Itinerario Culturale d’Europa”, mentre esso diventò Patrimonio Culturale dell’Umanità nel 1993. Con l’Anno Santo Jacobeo del 2004 l’afflusso di pellegrini, in crescita costante dal 1985 (quando furono 2491 i pellegrini giunti a piedi a Compostela), raggiunse i 179.994 e negli anni successivi si è mantenuto sempre attorno alle 100.000 unità.

Publié dans:SANTUARI |on 25 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

Il Santuario Mariano di « Nostra Signora del Libano »

dal sito:

http://www.mariadinazareth.it/www2005/Santuari%20mariani%20nel%20mondo/Nostra%20Signora%20del%20Libano.htm

Il Santuario Mariano di « Nostra Signora del Libano »

La gigantesca statua della Vergine, bianca figura a braccia aperte e rivolta verso il mare che troneggia dall’alto della collina di Harissa, è l’emblema della devozione alla Madonna del biblico Paese mediorientale.
Il Libano, Paese di antica cristianità il cui nome è reso sacro dalla Bibbia, copre e manifesta ricchezze inesauribili di cui tutti i Libanesi, nella diversità delle loro Comunità religiose e civili, vanno fieri. Terra biblica dei Cedri, la cui figura campeggia in mezzo della bandiera nazionale, il Libano è anche terra di antica civiltà, le cui coste e alte montagne hanno visto avvicendarsi Sumeri, Babilonesi, Egizi, Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Crociati, Ottomani e Francesi. Il Libano si vanta di essere stato non solo terra di elezione del popolo navigatore dei Fenici che solcarono i mari con le loro potenti navi, ma anche teatro di eventi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento.
La parola Libano possiede numerose risonanze storiche: basti qui segnalare che il nome ricorre nella Bibbia esplicitamente non meno di 72 volte, e più di cento volte per segno e allusione. L’origine del vocabolo e il senso che contiene ha però ancora un che di misterioso.
Nelle lingue semitiche libano significa genericamente bianco, e in questo caso il nome è suggerito dalla presenza, sulle alte montagne del Paese, di neve che ne corona la sommità in modo quasi permanente. Il nome significa anche incenso, quello stesso portato al divin Bambino dai Re Magi, il quale è bianco ed emana volute di fumo dello stesso colore. Attualmente c’è chi suggerisce di ricercare il senso del termine nel latte, prodotto noto per il suo colore bianco: del resto il nome arabo del latte ancora oggi è laban, che indica insieme il latte ed i suoi derivati, fra cui lo yogurt.
Culto dei Libanesi alla Madre di Dio
La venerazione di Maria è molto viva nel cuore di tutti i Libanesi e suscita l’ammirazione di tutti coloro che, in un modo o in un altro, hanno potuto avvicinare i fedeli del Libano. Nella sua Mission en Phénicie, Renan ha potuto scrivere: « Il culto della Vergine è profondissimo presso le genti del Libano e costituisce il grande ostacolo agli sforzi dei Protestanti presso quei popoli. Essi cedono su tutti i punti, ma quando si tratta di rinunziare al culto della Vergine, un legame più forte di loro li trattiene ».
Isolati fin dai tempi più remoti nella montagna libanese, i Cristiani, specie i Maroniti, hanno trovato nella Madre di Dio consolazione e aiuto nelle molte prove che hanno dovuto affrontare e superare lungo i secoli. Essi amano associare la figura di Maria alle reminiscenze bibliche legate al Monte Libano e all’albero del Cedro, che tanta parte hanno nelle composizioni poetiche veterotestamentarie e che spesso dalla tradizione patristica sono applicate alla Vergine Maria.
Per loro la Vergine Maria è la prediletta da Dio del « Cantico dei Cantici », che viene dal Libano: « Veni de Libano… »; essa s’innalza « come il cedro del Libano »; l’odore profumato delle sue vesti è « come il profumo del Libano » [Cant. 4, 11]. Nelle « Litanie Lauretane », che sempre i Maroniti recitano volentieri, dopo l’invocazione « Rosa mystica », inseriscono l’invocazione: « Cedro del Libano, prega per noi ».
I Maroniti osservano un rito particolare, quello della benedizione con l’immagine mariana, sul modello della benedizione eucaristica. Il sacerdote in cotta e stola la incensa, sale i gradini dell’altare, prende l’immagine della Vergine e si volge verso i fedeli, pronunciando ad alta voce questa formula di benedizione: « Per l’intercessione della Madre di Dio, la Vergine Maria, vi benedica la SS.ma Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo ». I fedeli rispondono: « Amen, perché ogni bene viene dalla Santa Vergine ».
I Maroniti riservano a questa e ad altre occasioni molti canti popolari in onore di Maria, suggestivi per la spontaneità dei testi e per la loro semplicità melodica. Ne traduciamo uno per esemplificare:

« O Madre di Dio, o misericordiosa
Madre di pietà e soccorso,
tu sei il nostro rifugio
e la nostra speranza.
Proteggici, o Vergine,
e abbi pietà dei nostri defunti.
O Vergine Madre, anche se
il tuo corpo è lontano da noi,
la tua intercessione ci accompagna
e ci protegge.
Da colui che ti ha esaltata
sopra ogni creatura
nel prendere da te un corpo,
ottieni ai peccatori il perdono,
continuamente.
Tu sei nostra madre e nostra speranza,
nostro vanto e nostro rifugio,
intercedi per noi presso il tuo Figlio
ché perdoni i nostri peccati
per sua misericordia.
Non ci abbandonare,
buona e piena di ogni grazia.
Salva i tuoi servitori,
ché ti possiamo ringraziare
nei secoli dei secoli ».

Il Libano, terra di Santuari mariani
Il Libano, terra di rifugio per tutti gli abitanti della regione, è stato chiamato « Paese di Maria » per la proverbiale devozione dei Libanesi per la loro Regina. Per questo il Paese è costellato di Chiese e di Santuari mariani. Infatti, gran parte delle Chiese è dedicata alla Vergine; e c’è sempre, nelle altre, un Altare consacrato a lei che è invocata con i titoli più belli e singolari: « Nostra Signora dell’Annunciazione », « Nostra Signora della Luce », « Nostra Signora dei Doni », ecc. Grandi statue sono erette in cima ai monti, e sono tantissimi i Santuari mariani frequentati da folle di pellegrini provenienti da ogni angolo del Paese.
I Santuari mariani non si contano e appartengono a tutte le Comunità cristiane. Fra questi vanno citati: quelli di Bkerké, Dimane, Qannoubine nella valle della Qadisha, il villaggio biblico di Cana, Bikfaya, Jbeil, Balamand, Ehden, Harissa, Zahlé, Mannara a Magdouché, Deir al-Kamar, Ksara, Bzommar, ecc.
Presenteremo ai nostri Lettori solo alcuni di questi, iniziando con quello più visitato, che porta il nome di « Notre-Dame du Liban », ad Harissa, la cui costruzione risale al 1904, in occasione del cinquantesimo anniversario della definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione.
Il Santuario di « Nostra Signora del Libano » ad Harissa
Il Santuario dista 25 kilometri da Beirut, la capitale del Libano, su una collina che sovrasta a 600 metri di altezza la cittadina costiera di Jounieh. Lì si erge la gigantesca statua della Vergine, bianca figura che troneggia dall’alto della collina: con le braccia aperte e rivolta verso il mare, dà un effetto di grande suggestione. Questo luogo costituisce un centro focale delle Comunità cattoliche del Libano. In effetti, sul fianco della collina si vede la Sede patriarcale maronita di Bkerké; sulla cima vi è il Convento dei Padri Missionari di San Paolo, appartenenti alla Chiesa Greco Melkita Cattolica; un po’ più in alto, a qualche centinaio di metri, si trova la Sede della Nunziatura Apostolica in Libano, e nelle vicinanze il Convento dei Francescani. Più in là, il Convento di Charfé, Sede del Patriarcato Siro-cattolico, e sulla collina di Bzoummar, il Patriarcato Armeno-cattolico.
Il luogo fu scelto nel 1904 come Sede del Santuario dal Patriarca Maronita Elias Hoyek (1899-1931), e da Monsignor Charles Duval, Delegato Apostolico in Libano, per commemorare il cinquantesimo anniversario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione. La statua prende a modello l’immagine della Santa Vergine apparsa nel 1830 a Caterina Labouré alla Rue du Bac a Parigi. L’artista Durenne la confezionò in dodici pezzi il cui peso totale ammontava a 14 tonnellate. Verso la fine di luglio 1906 fu trasportata ad Harissa e fu posta su un piedistallo a spirale composto da un centinaio di gradini. L’inaugurazione fu presieduta da Monsignor Hoyek, il 3 maggio 1908, anno del Giubileo sacerdotale di Papa Pio X e delle Apparizioni della Vergine a Lourdes. Da allora si celebra la festa della Madonna del Libano ogni anno il 1° Maggio, all’inizio del mese mariano.
Da un anno all’altro, il piccolo Santuario si è ingrandito ed è diventato il primo centro di Pellegrinaggi mariani provenienti da ogni parte: dal Libano, dal Medio Oriente e dai Paesi arabi. Il loro numero è andato ingrandendosi giorno dopo giorno, in ogni stagione e ad ogni occasione: familiare, religiosa, sociale, come a segnare da qui sempre nuova ripartenza nella vita cristiana.
Anche Non-Cristiani e Non-credenti vengono a questo Santuario, come turisti o con intento religioso di venerazione per Colei che il Corano chiama « la più nobile delle donne dell’universo », e dal popolo è detta « Sittina Mariam », vale a dire: « Nostra Signora Maria ». Tutti e ciascuno vogliono salutare la Vergine, « Nostra Signora del Libano », contemplare il suo volto, averne una benedizione, ammirare questo luogo unico al mondo, e ripartire con nuovo slancio per una vita migliore. Davvero, in questo luogo si avvera ogni giorno la parola profetica della stessa Madonna: « Tutte le generazioni mi proclameranno beata » (Lc 1, 48).

L’Atto di Affidamento del Papa nel nuovo grande Santuario
Nell’ultimo decennio degli Anni Novanta, la statua è stata affiancata da una grande Basilica che ha accolto il 10 e 11 Maggio 1997 il Papa Giovanni Paolo II in mezzo ad una grande folla, di giovani soprattutto. Dopo la recita del Regina coeli ai piedi della Patrona del Libano, il Papa pronunciò il seguente « Atto di affidamento »:
« Al termine di questa celebrazione, nell’ora della preghiera mariana, invochiamo anche i Santi che sono fioriti in questa terra […]
Insieme con voi, affido a Nostra Signora del Libano tutti i figli e le figlie del Paese. La Madre del Signore, presente ai piedi della Croce e nel Cenacolo della Pentecoste, raccolga nella fede, nella speranza e nell’amore i suoi figli che vivono in questo Paese o sparsi nel mondo! Assista i Pastori nel loro ministero! Sostenga la fedeltà orante e il servizio caritativo dei monaci e delle monache, dei religiosi e delle religiose! Accompagni i laici nella loro vita ecclesiale e nel servizio alla società! Irrobustisca le famiglie nell’unità dell’amore e nella dedizione alla loro missione educativa! Guidi i giovani sulle strade della vita!
Nella sua materna tenerezza, Maria dia conforto ai poveri, a quanti soffrono nel corpo o nello spirito, ai prigionieri e ai rifugiati!
Nostra Signora del Libano, veglia sull’intero popolo di questa terra così provata! A te lo affida il Successore di Pietro, qui giunto per portare a tutti un messaggio di fiducia e di speranza. Possa avverarsi, sulla soglia del nuovo millennio cristiano, il messaggio profetico di Isaia: « Ancora un poco e il Libano si cambierà in un frutteto e il frutteto sarà considerato una selva » [Is 29, 17].
Concedi, o Vergine Santissima, a questo popolo antico e pur sempre giovane di mantenersi degno erede della sua illustre storia, costruendo con dinamismo il suo avvenire nel dialogo con tutti, nel rispetto reciproco dei diversi gruppi, nella concordia fraterna!

Regina della pace, proteggi il Libano! ».

di George Gharib; rivista « Madre di Dio », maggio 2005 

Publié dans:Maria Vergine, SANTUARI |on 23 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Mont Saint-Michel: Tra sabbia e mare…

dal sito:

http://www.instoria.it/home/mont_saint_michel.htm

MONT SAINT MICHEL

Tra sabbia e mare…

di Matteo Liberti
 

Il piccolo isolotto granitico di Mont Saint Michel sorge sulla costa nord della Francia, appena oltre il confine che dalla Bretagna porta in Normandia, in una radura sabbiosa che si allunga per oltre un chilometro verso l’oceano.
è questa l’unica formazione rocciosa all’interno dell’ampia baia di Saint Malo.
 
Qui venne eretta, in onore di San Michele Arcangelo, un’abbazia oggi simbolo dell’intera isola e meta prediletta del turismo internazionale. La sua bellezza architettonica, unita alla suggestione della baia e delle sue maree quotidiane (tra le più estese d’Europa), fanno infatti di Mont Saint Michel il luogo maggiormente frequentato della Normandia e della Francia.
 
Fu il vescovo di Avranches, sant’Aubert che consacrò la prima chiesa di Mont Saint Michel.
Era il 709 d.C., e tradizione vuole che la decisione fu figlia di tre sogni che il vescovo fece, e nei quali ebbe chiare direttive da parte dell’arcangelo Michele: costruire una chiesa su quella specie di monte marino.
 
A corroborar la legenda di Mont Saint Michel, va sottolineato che la suggestione estetica delle sue maree, la distesa immensa di acqua e sabbia che la contorna, sono anche elementi, da sempre, di forte difficoltà per qualsiasi opera d’ingegneria.

Furono in tanti, nei secoli, che tentarono di raggiungere l’isola rocciosa durante i periodi di bassa marea, ma spesso senza altro risultato che non fosse la morte, causata dall’arrivo di improvvise ondate o, più semplicemente dall’impasto di sabbie mobili che caratterizzano la zona.
 
In ogni caso, tre secoli dopo l’iniziativa del vescovo, nel 966, giungerà a Mont Saint Michel una comunità di benedettini che inizieranno la costruzione dell’abbazia.
 
I lavori si protrarranno per quasi otto secoli, con continuo perfezionamento (ed ingrandimento) di quella che venne, già nel XIII secolo, considerata una vera e propria Meraviglia, La Merveille, riassumente in se più stili contemporaneamente, dall’arte romana a quella gotica.
 
La chiesa preromanica di Mont Saint Michel risale all’anno mille, mentre nel XII secolo furono ampliati gli edifici conventuali posti ad ovest e a sud. Infine, sempre nel XII secolo, un’importante donazione del re francese Filippo Augusto diede il via alla costruzione del complesso in stile gotico.

La rocca divenne in epoca medievale un importante centro spirituale e tra i principali luoghi di pellegrinaggio d’Occidente.
 
La guerra dei Cent’Anni (XIV e XV secolo) rese poi urgente la protezione dell’abbazia. Ciò avvenne attraverso la costruzione di un complesso di edifici militari.
 
Durante la Rivoluzione francese e poi ancora sotto Napoleone, l’abbazia venne convertita a prigione, per essere poi, nel 1874, affidata alla Soprintendenza alla Belle Arti.
Nell’occasione del suo millenario, una comunità monastica tornò sull’isola a rinsaldare la sua storia di centro spirituale.

In questo stesso periodo Mont Saint Michel fu oggetto di importanti interventi di restauro (iniziati già nel XIX secolo).
 
Oltre all’abbazia sono innumerevoli le strutture presenti nell’isola classificate come rilevanti monumenti storici, mentre l’intero sito fa parte, dal 1979, del Patrimonio mondiale dell’umanità dell’UNESCO.
 
Nel 1987 l’ultimo intervento di rilievo: la posa di una gigantesca statua di San Michele sulla guglia del campanile, ennesimo sforzo di costruzione verticale laddove lo spazio è limitato dal mare.
 
Il villaggio che è sorto intorno all’abbazia coltiva oggi una vocazione prettamente turistica, divenuto nel tempo uno dei simboli dell’intera nazione francese, forse simbolo anche (al pari della Tour Eiffel) eccessivamente sfruttato, particolarmente dal lato commerciale.

Tutto ciò è stato anche facilitato dalla costruzione, avvenuta alla metà del XIX secolo, di un diga che permette all’unica strada di accesso alla rocca di non venire invasa dalla marea (che però si ferma solo a pochi centimetri da questa, ben coprendo tutta la zona attorno alla strada, parcheggi compresi).
 
La Piramide dell’arcangelo, come viene chiamata dagli autoctoni, resta in ogni caso, ancora oggi, una meravigliosa fusione tra opera umana e opera della natura.

Publié dans:SANTUARI, storia della Chiesa |on 20 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Mont Saint Michel : Tra sabbia e mare…

dal sito:

http://www.instoria.it/home/mont_saint_michel.htm

MONT SAINT MICHEL

Tra sabbia e mare…

di Matteo Liberti

Il piccolo isolotto granitico di Mont Saint Michel sorge sulla costa nord della Francia, appena oltre il confine che dalla Bretagna porta in Normandia, in una radura sabbiosa che si allunga per oltre un chilometro verso l’oceano.
è questa l’unica formazione rocciosa all’interno dell’ampia baia di Saint Malo.
 
Qui venne eretta, in onore di San Michele Arcangelo, un’abbazia oggi simbolo dell’intera isola e meta prediletta del turismo internazionale. La sua bellezza architettonica, unita alla suggestione della baia e delle sue maree quotidiane (tra le più estese d’Europa), fanno infatti di Mont Saint Michel il luogo maggiormente frequentato della Normandia e della Francia.
 
Fu il vescovo di Avranches, sant’Aubert che consacrò la prima chiesa di Mont Saint Michel.
Era il 709 d.C., e tradizione vuole che la decisione fu figlia di tre sogni che il vescovo fece, e nei quali ebbe chiare direttive da parte dell’arcangelo Michele: costruire una chiesa su quella specie di monte marino.
 
A corroborar la legenda di Mont Saint Michel, va sottolineato che la suggestione estetica delle sue maree, la distesa immensa di acqua e sabbia che la contorna, sono anche elementi, da sempre, di forte difficoltà per qualsiasi opera d’ingegneria.

Furono in tanti, nei secoli, che tentarono di raggiungere l’isola rocciosa durante i periodi di bassa marea, ma spesso senza altro risultato che non fosse la morte, causata dall’arrivo di improvvise ondate o, più semplicemente dall’impasto di sabbie mobili che caratterizzano la zona.
 
In ogni caso, tre secoli dopo l’iniziativa del vescovo, nel 966, giungerà a Mont Saint Michel una comunità di benedettini che inizieranno la costruzione dell’abbazia.
 
I lavori si protrarranno per quasi otto secoli, con continuo perfezionamento (ed ingrandimento) di quella che venne, già nel XIII secolo, considerata una vera e propria Meraviglia, La Merveille, riassumente in se più stili contemporaneamente, dall’arte romana a quella gotica.
 
La chiesa preromanica di Mont Saint Michel risale all’anno mille, mentre nel XII secolo furono ampliati gli edifici conventuali posti ad ovest e a sud. Infine, sempre nel XII secolo, un’importante donazione del re francese Filippo Augusto diede il via alla costruzione del complesso in stile gotico.

La rocca divenne in epoca medievale un importante centro spirituale e tra i principali luoghi di pellegrinaggio d’Occidente.
 
La guerra dei Cent’Anni (XIV e XV secolo) rese poi urgente la protezione dell’abbazia. Ciò avvenne attraverso la costruzione di un complesso di edifici militari.
 
Durante la Rivoluzione francese e poi ancora sotto Napoleone, l’abbazia venne convertita a prigione, per essere poi, nel 1874, affidata alla Soprintendenza alla Belle Arti.
Nell’occasione del suo millenario, una comunità monastica tornò sull’isola a rinsaldare la sua storia di centro spirituale.

In questo stesso periodo Mont Saint Michel fu oggetto di importanti interventi di restauro (iniziati già nel XIX secolo).
 
Oltre all’abbazia sono innumerevoli le strutture presenti nell’isola classificate come rilevanti monumenti storici, mentre l’intero sito fa parte, dal 1979, del Patrimonio mondiale dell’umanità dell’UNESCO.
 
Nel 1987 l’ultimo intervento di rilievo: la posa di una gigantesca statua di San Michele sulla guglia del campanile, ennesimo sforzo di costruzione verticale laddove lo spazio è limitato dal mare.
 
Il villaggio che è sorto intorno all’abbazia coltiva oggi una vocazione prettamente turistica, divenuto nel tempo uno dei simboli dell’intera nazione francese, forse simbolo anche (al pari della Tour Eiffel) eccessivamente sfruttato, particolarmente dal lato commerciale.

Tutto ciò è stato anche facilitato dalla costruzione, avvenuta alla metà del XIX secolo, di un diga che permette all’unica strada di accesso alla rocca di non venire invasa dalla marea (che però si ferma solo a pochi centimetri da questa, ben coprendo tutta la zona attorno alla strada, parcheggi compresi).
 
La Piramide dell’arcangelo, come viene chiamata dagli autoctoni, resta in ogni caso, ancora oggi, una meravigliosa fusione tra opera umana e opera della natura.

Publié dans:SANTUARI |on 15 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

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