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LA SANTITÀ DEI BAMBINI
Parrocchia San Tommaso – Bergamo, 22 ottobre 2009
don Ezio Bolis
Introduzione 1) Anche i bambini possono essere santi? Sembra una domanda con una risposta scontata, ma quello tra infanzia e santità è un binomio che ha suscitato molti dibattiti nella Chiesa del passato. Le cause di molti servi di Dio sono rimaste ferme per molto tempo proprio a causa della giovane età. Quello dei bambini santi è un argomento trascurato: dopo Domenico Savio, canonizzato a 15 anni, c’è stato un lungo silenzio a riguardo, prima della recente beatificazione di Francesco e Giacinta, i pastorelli di Fatima che al momento della morte avevano quasi 11 e 10 anni. 2) Una figura interessante dal punto di vista spirituale, italiana, è quella della serva di Dio Antonietta Meo (detta Nennolina), morta a Roma il 3 luglio del 1937 a soli 6 anni e mezzo. Le letterine che la bimba indirizzava alle singole persone della Santissima Trinità, piene di strafalcioni, testimoniano la sua profonda esperienza di Dio, sono in qualche modo dei «testi mistici». Scritte da lei stessa o dettate alla mamma e alla sorella, le pagine venivano messe sotto la statua del Sacro Cuore, dove “Gesù passava a leggerle”: così diceva la madre alla piccola Antonietta». La sorella maggiore, Margherita, ricorda come la sorella accettasse la malattia: dall’amputazione della gamba a quella di una costola, raggiunta dalle metastasi. Dormendo, si coricava sul fianco della ferita per “stare con Gesù”, affermando che con la sofferenza avrebbe redento il mondo». Questa capacità di accettare il dolore e offrirlo per la fine della guerra in Africa, come il privarsi delle caramelle per i bambini poveri, fanno di Antonietta un esempio alla portata di tutti. Ella ha saputo leggere ogni momento della sua brevissima esistenza nella forma di un dialogo costante con il Signore. In una delle sue numerose Letterine scrive: «Caro Gesù Eucaristia, ti voglio molto bene! Ma molto!… Gesù, io vorrei queste tre grazie: la prima, fammi santa e questa è la cosa più importante; la seconda, dammi delle anime; la terza, fammi camminare bene, veramente questa non è molto importante…». Figure come questa testimoniano che la santità è possibile a ogni età. Forse altri piccoli testimoni sono nascosti oggi nelle corsie d’ospedale o nelle case. Anche nei più piccoli la santità viene riconosciuta nella loro capacità di vivere in modo straordinario ogni attimo della propria vita ordinaria, soprattutto l’esperienza del dolore. 3) Ma che cosa possono capire della fede i bambini? Possono aderirvi consapevolmente e pienamente? Le testimonianze di bambini come Antonietta, i fratellini di Fatima, Francisco e Giacinta, i ragazzi martiri come Tarcisio, Agnese, Maria Goretti e tanti altri sono molto più eloquenti di molte teorie. 4) Del resto, la Chiesa fin dal V secolo celebra la festa dei santi martiri Innocenti, i bambini fatti uccidere da Erode, come racconta il Vangelo di Matteo. Il loro martirio è considerato dalla liturgia anzitutto come una grazia, un dono gratuito del Signore, prima che un omaggio dell’uomo a Dio. 5) Circa un secolo fa San Pio X abbassò l’età per ricevere la Prima Comunione e concesse, in alcuni casi, il Sacramento anche al di sotto dei sette anni. Egli non a caso affermò profeticamente: «Avremo dei santi bambini!». 6) Agli adulti i santi bambini insegnano a ritornare piccoli: non si tratta di regressione psicologica, ma di recuperare quella infanzia spirituale piena di speranza e di gioia nel dare la propria vita.
1. Qualche spunto dalla Sacra Scrittura La Bibbia ci consegna la storia di alcuni ragazzi che hanno avuto un ruolo importante nella storia della salvezza: Mosè, Samuele, Davide e Daniele. Malgrado i racconti delle loro vicende siano diverse, hanno un elemento in comune: la struttura della «inversione». Tutte queste carriere all’inizio sono segnate dalla debolezza e soltanto per un intervento diretto di Dio, esse cambiano di segno. Comunque tale iniziativa divina non implica affatto la passività umana. 1) Mosè. La storia di Mosè salvato dalle acque (Es 2,1-10) è l’unico elemento che la Bibbia ci dà sulla sua giovinezza. Mosè è un bambino «bello», in tutti i sensi. Quando non può più restare nascosto, la madre lo pone in una cesta, analoga all’arca di Noè, spalmata di bitume, e lo affida alle acque del Nilo. Grazie alla mediazione della sorella, che si presenta alla figlia del faraone per procurare una nutrice a piccolo, egli non soltanto viene salvato dalla morte, ma è elevato a una situazione di privilegio. Trasgredendo l’ordine del padre, la figlia del faraone fa allattare Mosè, lo adotta e in seguito lo introduce a palazzo, imponendogli il nome. Dal libro degli Atti apprendiamo che Mosè fu istruito in tutti gli aspetti della sapienza egiziana (At 7,20-22). Come si vede, la realizzazione dei disegni di Dio ha inizio in modo fragile, si basa su un bimbo debole, minacciato di morte da un monarca onnipotente, sballottato sull’acqua di un fiume immenso, adagiato in una cesta di paglia. E però il disegno salvifico si realizza, nonostante queste premesse lo facciano sembrare impossibile. Il futuro «salvatore» di Israele, colui che guiderà il popolo verso la libertà, è anzitutto un «salvato». Questo racconto offrirà spunti importanti all’evangelista Matteo, per narrare la strage dei bambini Innocenti. Erode prende il posto del faraone; come il re d’Egitto è stato beffato dalle donne, Erode lo è da parte dei Magi. Come Mosè, anche Gesù sfugge alla morte. La storia di Mosè indica che la debolezza di un bimbo non costituisce un ostacolo all’azione di Dio, che anzi se ne serve per compiere il suo piano salvifico. 2) Samuele. Il personaggio di Samuele è molto complesso. Il libro che posta il suo nome ce lo presenta piccolo servo del santuario e, più tardi, sacerdote che sacrifica in diversi luoghi. Egli però è anche designato come giudice e custode del diritto divino, tanto da costituire e deporre i re in nome del Signore. Infine è anche un veggente, consultato per i suoi oracoli sicuri, un profeta conosciuto da Dan a Bersabea. Questa pluralità segna anche gli inizi della sua vita e la sua infanzia. Nel quadro dei primi tre capitoli di 1Sam, si narra la nascita di Samuele e la prima comunicazione che egli riceve da Dio, nel tempio, di notte, mentre assiste il sacerdote Eli. Il racconto della sua nascita contiene tre elementi: la sterilità di Anna, sua madre; il soccorso da parte di Dio, in seguito alla preghiera e al voto di Anna; la nascita e la gratitudine per la grazia della nascita di Samuele. Emerge l’azione di Dio che nel compimento dei suoi disegni supera tutti gli ostacoli naturali. Il racconto della chiamata di Samuele è modellato sul genere delle vocazioni profetiche. Samuele per tre volte sente la voce di Dio e non la riconosce: deve imparare a distinguerla da quella degli uomini. Egli si pone in atteggiamento di ascolto, cioè di obbedienza. Il racconto rimane sullo sfondo di Luca, quando narra la sterilità di Elisabetta; l’annuncio a Zaccaria della nascita di Giovanni Battista avviene anche qui nel tempio. Il tempio è la cornice dentro la quale anche Gesù è presentato per due volte, per il rito dell’offerta e per il pellegrinaggio. Come Samuele, anche Gesù «cresceva gradito a Dio e agli uomini». La vicenda di Samuele dimostra che non è mai troppo presto per ascoltare e imparare a riconoscere la voce del Signore e per rispondere alla sua chiamata. 3) Davide. I racconti che narrano gli inizi di Davide trascurano la nascita e cominciano dall’età della adolescenza. Fin dall’inizio è Dio che conduce il gioco e che ordina a Samuele di ungere come re Davide, preferendolo a tutti i suoi fratelli più grandi e più forti. Egli non ha la loro statura né la loro abilità, ma il Signore «guarda il cuore». Egli viene unto, con un rito che assicura la protezione del Signore. Tra gli altri episodi, certamente importante è la vittoria di Davide contro Golia, riportata senza l’aiuto della pesante corazza, ma con la sola astuzia della fionda, un gioco da ragazzi, cioè con l’aiuto di Dio. Certo, se è il Signore a condurre il corso della storia, si serve però di un uomo che non è strumento passivo, ma vero credente. Dio si serve della debolezza umana, che però non è pura passività. 4) Daniele. La storia richiama le vicende di Davide, ma il contesto è assai più solenne: qui siamo alla corte del potente Nabucodonosor, che ha sconfitto il Regno di Giuda, ha distrutto il tempio e ha deportato i suoi abitanti a Babilonia. Egli si sceglie tra i prigionieri alcuni ragazzi di nobile stirpe per servirsene a corte. Daniele è tra questi. Essi devono superare varie prove, tra le quali quella alimentare. Per non contravvenire alle leggi patrie, Daniele e i suoi compagni mangiano soltanto legumi, senza per questo risentire danni nel fisico, anzi. Altre prove mettono in evidenza l’intelligenza e la sapienza di Daniele. La conclusione è questa: lungi dal nuocere chi la pratica, la fedeltà alla Legge assicura l’aiuto divino che innalza ai più alti incarichi. In tutti questi personaggi, l’infanzia non è un periodo a parte, ma inaugura già la futura missione. Ciò che avviene per Mosè, Samuele, Davide e Daniele, è vero anche per Gesù. È un errore separare e isolare la sua infanzia dal seguito della sua esistenza, quasi avesse un senso autonomo. La Scrittura vede nel bambino anzitutto il futuro adulto. Gesù non fa eccezione: benché passi, come tutti, attraverso le varie fasi dello sviluppo fisico e intellettuale, pratica le virtù dell’infanzia restando sottomesso ai suoi genitori. Ma lo si comprende davvero per l’atto di indipendenza a loro riguardo, quando sceglie già di abitare fuori dalla famiglia, sotto l’autorità del Padre che guiderà la sua intera esistenza e la sua opera.
L’infanzia di Gesù 1) «Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui. […] Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,39-40.51-52). Queste poche frasi dell’evangelista Luca sono le uniche, preziose indicazioni che abbiamo per intuire qualcosa della vita di Gesù, bambino e ragazzo, nei lunghi anni di Nazaret. Esse riflettono la storia di Samuele («E il bambino cresceva davanti al Signore… Il fanciullo cresceva ed era buono presso il Signore e presso gli uomini», 1Sam 2,21.26). 2) La sapienza di Gesù viene sottolineata per due volte e, insieme alla grazia, contraddistingue la sua crescita. Tale sapienza consiste nella visione della realtà secondo la prospettiva di Dio. Il fatto che Gesù cresca e si fortifichi in sapienza, facendo l’esperienza della grazia, significa che, mediante una crescente percezione dell’amore divino, si va compiendo in lui quel processo di configurazione della persona che lo rende sempre più sapiente. Egli è «riempito» di sapienza tramite l’esperienza della grazia: l’allusione è all’azione dello Spirito Santo. È lui che plasma la personalità vivente del Figlio di Dio divenuto uomo. 3) Dobbiamo pensare a Gesù come un bambino molto sensibile e recettivo nei confronti di un ambiente che, pur con i limiti di ogni contesto umano, gli offre un tesoro di spiritualità e di fede. A iniziare da Maria e Giuseppe, persone e istituzioni svolgono nei suoi confronti una vera azione educativa, come avviene per qualsiasi bambino nei primi anni di vita. Tutto questo però custodisce il segreto di una umanità singolare nella quale i processi umani dello sviluppo non sono annullati ma vanno considerati a partire dal fatto che questo bambino è fin dall’inizio il «Santo di Dio». 4) Riferendoci al brano di Gesù che sale al tempio e vi rimane per tre giorni insegnando, rileviamo tre cose che intervengono a plasmare la fede di ogni persona, fin dai primi anni della sua vita: la comunità con le sue tradizioni, il santuario con la preghiera e la liturgia, le Scritture che consentono l’incontro con la Parola di Dio.
2. Com’è la vita spirituale dei bambini? Dio non è per nulla un estraneo nell’esperienza normale dei bambini, che anzi possiedono uno spiccato senso religioso e un vivo interesse per la conoscenza di lui. Essi pongono spesso domande del tipo: chi è? dov’è? cosa fa? Certo, la conoscenza di Dio in questa età avviene non tanto per via intellettiva, quanto per via affettiva. Gli studi di pedagogia e psicologia infantile affermano che la religiosità di un bambino possiede alcuni tratti caratteristici, con i quali l’educazione religiosa deve fare i conti, senza esasperarli né ignorarli. Ecco una presentazione schematica, abbastanza condivisa da chi ha studiato questi temi. 1) L’antropomorfismo: si vedono in Dio gli attributi umani e si concepisce il suo agire secondo le modalità delle attività umane. La rappresentazione di Dio si rapporta in un certo senso all’autorità e al prestigio degli adulti; il bambino immagina Dio secondo un modello umano strutturato sulla base dell’esperienza dei rapporti interpersonali che vive. Questo, per un verso dà la possibilità di fare leva su figure positive e, attraverso le loro vicende, aiuta il bambino a comprendere la figura di Dio; dall’altra c’è il rischio di rimandare a un’idea scadente e banale di Dio. La catechesi deve usare un linguaggio semplice ed essenziale per evitare che il bambino traduca in termini di realismo quello che nella fede ha un valore simbolico. Va evitato sia un insegnamento astratto. 2) L’animismo. Si manifesta sia in forma protettiva che punitiva, attribuendo a fatti, persone, eventi delle funzioni di protezione o di castigo che essi non hanno. Per esempio, una malattia, un incidente, una calamità naturale sono considerati una punizione di Dio. Al contrario, una vincita o un successo sono visti come una sua benedizione. 3) Il magismo. Si guarda a Dio come a un essere dotato di poteri straordinari, in grado di risolvere ogni problema, soprattutto i nostri. Una specie di grande mago o di genio. Certo, è importante pensare a Dio come a colui che ci è accanto per aiutarci, ma è altrettanto necessario non ridurlo alla funzione di rispondere ai nostri bisogni.
3. Quale ricchezza porta con sé l’infanzia? 1) L’età dell’infanzia è un grande dono anche per la comunità cristiana che, sull’esempio di Gesù, non solo accoglie i bambini, ma è chiamata ad alimentare lo stile della piccolezza evangelica: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non vi entrerà» (Lc 18,15-17). Lo stesso Figlio di Dio, venendo nel mondo, si è fatto bambino ed è cresciuto in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini. 2) L’infanzia spirituale può diventare una caricatura quando è confusa con l’infantilismo, l’immaturità del cuore, l’incapacità di padroneggiare gli istinti: essere bambini non significa fare i bambini! San Paolo lo spiega con parole chiare: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi, siate come i bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto a giudizi» (1Cor 14,20). Ci vogliono molti anni per diventare bambini: l’infanzia secondo lo Spirito non è altro che la piena maturità cristiana. 3) Il Battesimo ci rende figli di Dio e l’esistenza cristiana, dall’inizio alla fine, è una vita battesimale, una realizzazione progressiva di questa condizione filiale. Ogni cristiano è chiamato a stare davanti a Dio come un bambino. L’infanzia è l’età in cui ci si affida fiduciosamente. Come non ricordare la proposta forte e convincente di santa Teresa di Gesù Bambino: «Gesù si compiace di mostrarmi l’unica strada che conduce alla fornace divina: questo cammino è l’abbandono del bambino piccolo che si addormenta senza timore tra le braccia di suo padre… Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l’abbandono e la riconoscenza». Come bambini. Con la stessa povertà, umiltà e fiducia. Così l’uomo deve guardare a Dio, che è Padre tenero ed esigente. 4) La via della piccolezza si configura come un itinerario di abbandono e di affidamento, nutrito dalla fede verso la Provvidenza; comporta una continua accoglienza della vita come dono; accetta di imparare senza sosta, di aprirsi agli orizzonti della novità e del cambiamento con la forza dell’incanto e dell’entusiasmo. 5) Occorre molto tempo per diventare bambini. L’infanzia spirituale non è altro che la piena maturità cristiana. Lungi dall’essere un ritardo o una regressione, essa è il culmine della vita battesimale, una sapienza limpida e forte che corona la crescita nella fede.
4. Come favorire la crescita spirituale dei bambini?
Educare alla preghiera
1) La facilità con cui il bambino, ancor prima dei quattro anni, si pone in atteggiamento di preghiera, non è solo dovuta all’apprendimento o all’imitazione, ma è indice di una predisposizione alla fiducia, quasi di un bisogno istintivo di affidarsi a un altro, che è proprio l’anima della preghiera cristiana. 2) Se è vero che la preghiera è esperienza possibile a partire dalla più tenera età, è altrettanto vero che essa va accompagnata. Non si tratta soltanto di insegnare a «dire le preghiere», ma di introdurre il bambino nella relazione con il Signore, offrirgli strumenti per compiere questo atto del tutto personale e intimo, che implica il coinvolgimento della vita. 3) Prima ancora delle formule, occorre creare un «contesto» adatto alla preghiera, un ambiente dove la preghiera non è percepita come qualcosa di raro, ma di familiare. 4) La preghiera del bambino si nutre di gesti semplici, di parole tratte dalla vita quotidiana, di esempi limpidi e costanti. 5) Per scongiurare un accostamento soltanto «mentale» alla preghiera, è bene che essa sia trovi anche espressioni corporee, sia fatta di gesti. 6) La preghiera dei bambini va poi ancorata ai percorsi di «iniziazione cristiana» attraverso una graduale introduzione alla preghiera liturgica, alla partecipazione ai sacramenti e all’Eucaristia in modo particolare. 7) Molto importante è anche l’accostamento alle figure di alcuni santi, pregati come intercessori ma assunti anche come modelli di vita cristiana, amici e compagni di viaggio che hanno cose da dire.