Archive pour la catégorie 'santi scritti'

4 agosto: San Giovanni Maria Vianney Sacerdote

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/233.html

San Giovanni M. Vianney

Sacerdote – Patronato: Patrono dei Parroci

BIOGRAFIA
Nacque presso Lione nel 1786. Superate molte difficoltà, poté essere iniziato al sacerdozio e resse e fece rifiorire mirabilmente la parrocchia affidategli nel villaggio di Ars nella Diocesi di Belley, con l’efficace predicazione, con la mortificazione, la preghiera, la carità. Essendo molto stimato nella direzione spirituale, i fedeli accorrevano a lui da ogni parte e ricevevano santamente i suoi consigli. Morì nel 1859.

MARTIROLOGIO
Memoria di San Giovanni Maria Vianney, sacerdote, che per otre quarant’anni guidò in modo mirabile la parrocchia a lui affidata nel villaggio Ars vicino a Belley in Francia, con l’assidua predicazione, la preghiera e una vita di penitenza. Ogni giorno nella catechesi che impartiva a bambini e adulti, nella riconciliazione che amministrava ai penitenti e nelle opere pervase di quell’ardente carità, che egli attingeva dalla santa Eucaristia come da una fonte, avanzò a tal punto da diffondere in ogni dove il suo consiglio e avvicinare saggiamente tanti a Dio.

DAGLI SCRITTI…
Dal «Catechismo» di san Giovanni Maria Vianney, sacerdote
Fate bene attenzione, miei figliuoli: il tesoro del cristiano non é sulla terra, ma in cielo. Il nostro pensiero perciò deve volgersi dov’é il nostro tesoro. Questo é il bel compito dell’uomo: pregare ed amare. Se voi pregate ed amate, ecco, questa é la felicità dell’uomo sulla terra. La preghiera nient’altro é che l’unione con Dio. Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, é preso da una certa saovità e dolcezza che inebria, é purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, che nessuno piò più separare.
Come é bella questa unione di Dio con la sua piccola creatura! E’ una felicità questa che non si può comprendere. Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però, nella sua bontà, ci ha permesso di parlare con lui. La nostra preghiera é incenso a lui quanto mai gradito. Figliuoli miei, il vostro cuore é piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio. La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che discende a noi dal paradiso. Non ci lascia mai senza dolcezza. Infatti é miele che stilla nell’anima e fa che tutto sia dolce.
Nella preghiera ben fatta i dolori si sciolgono come neve al sole. Anche questo ci dà la preghiera: che il tempo scorra con tanta velocità e tanta felicità dell’uomo che non si avverte più la sua lunghezza. Ascoltate: quando ero parroco di Bresse, dovendo per un certo tempo sostituire i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso a percorrere lunghi tratti di strada; allora pregavo il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva mai lungo.
Ci sono alcune persone che si sprofondano completamente nella preghiera come un pesce nell’onda, perché sono tutte dedite al buon Dio. Non c’é divisione alcuna nel loro cuore. O quanto amo queste anime generose! San Francesco d’Assisi e santa Coletta vedevano nostro Signore e parlavano con lui a quel modo che noi ci parliamo gli uni agli altri.
Noi invece quante volte veniamo in chiesa senza sapere cosa dobbiamo fare o domandare! Tuttavia, ogni qual volta ci rechiamo da qualcuno, sappiamo bene perché ci andiamo. Anzi vi sono alcuni che sembrano dire così al buon Dio: «Ho soltanto due parole da dirti, così mi sbrigherò presto e me ne andrò via da te». Io penso sempre che, quando veniamo ad adoperare il Signore, otterremmo tutto quello che domandiamo, se pregassimo con fede proprio viva e con cuore totalmente puro.

DA VEDERE (links esterni):

Lettera del Santo Padre Benedetto XVI per l’Indizione dell’Anno Sacerdotale in occassione del 150-mo anniversario del “Dies Natalis” di Giovanni Maria Vianney (16.06.2009)

di Madre Teresa di Calcutta: Sorridere a Dio…

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/madre_teresa4.htm

Sorridere a Dio…
 
L’amore comincia nella casa paterna!
 
( MADRE TERESA DI CALCUTTA )

Credo che il mondo oggi sia sconvolto e soffra tanto, perché nei focolari domestici e nella vita familiare c’è veramente poco amore. Non abbiamo tempo per i figli, non abbiamo tempo per rallegrarci a vicenda. Penso che se potessimo semplicemente riportare indietro nelle nostre esistenze la vita che Gesù, Maria e Giuseppe hanno vissuto a Nazaret, se potessimo fare delle nostre case un’altra Nazaret, la pace e la gioia regnerebbero nel mondo.
L’amore comincia nella casa paterna; l’amore vive nelle case: la sua mancanza è il motivo per cui oggi nel mondo c’è tanta sofferenza e tanta infelicità. Se prestassimo ascolto a Gesù, egli ci farebbe sentire quel che ha detto una volta: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi!». Egli ci ha amati soffrendo e morendo sulla croce per noi, e così, se dobbiamo amarci a vicenda, se dobbiamo riportare quell’amore nella vita, dobbiamo cominciare a farlo in seno alle nostre famiglie.
Dobbiamo fare delle nostre case dei centri di compassione e perdonare senza fine. Oggi sembra che tutti siano in preda a una terribile frenesia e si affannino per raggiungere mete sempre più alte e raggranellare ricchezze sempre maggiori e altre cose, cosicché i figli hanno ben poco tempo da dedicare ai genitori, i genitori hanno ben poco tempo da dedicare l’uno all’altro, con la conseguenza che nelle case comincia la dissoluzione della pace del mondo.
Le persone che si amano a vicenda in maniera reale, vera e piena, sono le più felici del mondo e noi lo costatiamo in mezzo alla nostra gente così povera. Amano i figli e amano la loro casa. Possono anche possedere assai poco, forse non hanno nulla, eppure sono felici. L’amore vivo fa male. Gesù, per dimostrare il suo amore per noi, è morto in croce. La madre, per dare alla luce il figlio, deve soffrire; se vi amate per davvero gli uni gli altri, non potete farlo senza sacrificio…  

[SAN LEONE MAGNO, 2° discorso di Natale] (meditazioni)

dal sito:

http://www.unavox.it/m25.htm

[SAN LEONE MAGNO, 2° discorso di Natale]

MEDITAZIONI

Dilettissimi, esultiamo nel Signore e con spirituale gàudio rallegriamoci, perché è spuntato per noi il giorno che signífica la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna. 
Il mistero della nostra salvezza, promesso all’inizio del mondo, attuato nel tempo stabilito per durare senza fine, si rinnova per noi nel ricorrente ciclo annuale.
In questo giorno è giusto che noi, elevati in alto i cuori, adoriamo il divino mistero, affinché sia celebrato dalla Chiesa con grande letizia quel che si compie per munífica generosità di Dio.

Infatti, Dio onnipotente e clementissimo, la cui natura è bontà, la cui volontà è potenza, la cui azione è misericordia, allorché la malizia del diavolo con il veleno del suo odio ci sottomise alla morte, tosto indicò all’inizio del mondo la medicina che la sua misericordia metteva a disposizione per risollevare il genere umano.
Preannunciò al serpente la futura discendenza della donna che con la propria virtù gli avrebbe schiacciato il capo, sempre altero o pronto a mordere. 
In tal modo preannunciò Cristo, l’Uomo-Dio, che doveva venire nella carne e che, nascendo dalla Vérgine con una nascita immacolata, doveva condannare colui che violò l’integrità del genere umano.

[…] Dilettissimi, appena giunti i tempi prestabiliti per la redenzione degli uomini, Gesú Cristo, Figlio di Dio, fa il suo ingresso nella bassa condizione di questo mondo: discende dalla sede celeste senza, però, allontanarsi dalla gloria del Padre: è generato in un nuovo stato e con novità nella nascita. 
È nuovo il suo stato, perché, pur rimanendo invisibile nella sua natura è diventato visibile nella natura nostra. 
Egli che è l’immenso, ha voluto essere racchiuso nello spazio: pur restando nella sua eternità ha voluto incominciare a esistere nel tempo. 
Il Signore dell’universo, nascosta sotto il velo la gloria della sua maestà, ha assunto la natura di servo. 
Dio, inviolabile, non ha sdegnato di assoggettarsi al dolore; l’immortale non ha rifiutato di sottomettersi alla legge della morte.

[…] Dunque, chiunque tu sia che vuoi gloriarti del nome di cristiano, pòndera con giusto giudizio la grazia di questa riconciliazione. 
A te, una volta prostrato ed escluso dal Paradiso, a te, destinato a morire ininterrottamente durante un lungo esilio e disperso alla stregua della polvere e della cenere, a te, senza speranza di vivere, è stata data con l’incarnazione del Verbo la facoltà di tornare, dal lontano luogo ove eri, al tuo Creatore, di riconoscere il padre tuo, di passare dalla servitú alla libertà, di essere innalzato dalla condizione di forestiero alla dignità di figlio. 
Così a te, nato dalla carne corruttibile, è stata data la facoltà di rinascere dallo Spirito di Dio e di ottenere per grazia ciò che non avevi per natura, in modo che riconoscendoti, mediante lo Spirito di adozione, come figlio di Dio, possa ardire di chiamare Dio tuo Padre. 
Ora che sei sciolto dal reato della cattiva coscienza, aspira al regno celeste; adempi la volontà di Dio, sostenuto dal divino aiuto; ímita gli àngeli sopra la terra; nútriti della virtù di una sostanza immortale; combatti con sicurezza contro le tentazioni ostili in ossequio alla religione di Dio, e se avrai rispettato il giuramento della milizia celeste, sii certo che sarai incoronato per la vittoria nei campi trionfali dell’eterno Re, quando la risurrezione, preparata ai cultori di Dio, ti investirà per innalzarti alla società del regno celeste.

Dilettissimi, fiduciosi in cosí grande aspettativa, rimanete stabili nella fede in cui siete stati fondati. 
Non sia mai che il tentatore, privato da Cristo della dominazione sopra di voi, vi abbia a sedurre di nuovo con insidie e riesca a profanare con la sua raffinata arte di inganni le gioie stesse del giorno presente. 
Non sia mai che riesca a illudere gli uomini piú semplici con la nefanda persuasione di certuni, ai quali questo giorno della nostra solennità pare degno di festa non tanto a motivo della nascita di Cristo, quanto per il natale del nuovo sole. 
Le menti di costoro sono avvolte in dense tenebre e sono ben lontane dal far progressi nella vera luce. 
Si trascinano dietro i pazzeschi errori dei gentili, e perché sono incapaci di sollevare l’attenzione della mente sopra ciò che si vede con sguardo carnale, rendono culto divino agli astri, i quali non sono altro che i servi del mondo.
Sia lontana dagli uomini cristiani tale sacrílega superstizione e mostruosa menzogna. 
Le cose temporali dístano oltre ogni dire da colui che è eterno, le cose corporee da colui che è incorporeo, le creature súddite da colui che le governa: tutte queste cose hanno bensí bellezza, che súscita ammirazione, ma non hanno in sé stesse la divinità che si possa adorare. 
Bisogna, dunque, rendere onore a quella potenza, sapienza, maestà che ha creato dal nulla l’universo e che ha generato con onnipotente parola le cose terrene e le cose celesti in quelle forme e misura che a lui è piaciuto. 
Il sole, la luna, le stelle sono utili a noi, che ce ne serviamo e appaiono leggiadre quando le rimiriamo. 
Di esse si deve rendere grazie al Creatore: si deve adorare Dio che le ha create, non le creature che lo servono.

Dunque, dilettissimi, lodate Dio in tutte le sue opere e disposizioni. 
Abbiate una fede perfetta nella verginale integrità e nel parto della Vérgine. 
Onorate il sacro e divino mistero della redenzione umana, prestando a Dio un servizio santo e sincero.
Accogliete Cristo che nasce nella nostra carne, affinché meritiate di contemplarlo qual Dio della gloria nel regno della sua maestà: egli che col Padre e lo Spirito Santo persévera nella unità della divinità nei secoli dei secoli. 
Amen.  

[SAN LEONE MAGNO, 2° discorso di Natale]

Meditazioni, Giovanni Taulero: Sermoni, La triplica nascita

dal sito:

http://www.unavox.it/m22.htm

MEDITAZIONI

GIOVANNI TAULERO, Sermoni, La triplica nascita

Si celebra oggi nella santa cristianità una triplice nascita, in cui ogni cristiano dovrebbe trovare cosí grande gaudio e diletto da andare fuori di sé dalla gioia, in giubilo e amore, in gratitudine e allegrezza interiore; e un uomo che non sperimentasse in sé nulla di ciò, dovrebbe spaventarsene.
La prima e piú sublime nascita avviene quando il Padre celeste genera il Figlio unigenito nell’essenza divina e nella distinzione delle Persone. 
La seconda nascita, che oggi si celebra, è la fecondità materna che in assoluta purezza toccò in sorte alla castità della Vergine. 
La terza nascita avviene quando Dio ogni giorno ed ogni ora nasce veramente e spiritualmente in un’anima buona mediante la grazia e l’amore. 

Queste tre nascite si celebrano oggi nelle tre Messe. 
La prima si canta nella buia notte e comincia: Dóminus díxit ad me, fílius meus es tu, ego hódie génui te. Questa Messa si riferisce alla nascita nascosta che avvenne nel segreto della misteriosa, sconosciuta divinità. 
La seconda Messa comincia: Lux fulgébit hódie super nos; essa indica lo splendore della natura umana divinizzata e si celebra parte nell’oscurità e parte durante il giorno: questa nascita infatti fu in parte conosciuta e in parte sconosciuta. 
La terza Messa si canta a giorno pieno e comincia: Puer natus est nobis et fílius datus est nobis, e si riferisce all’amabile nascita che ad ogni giorno e ad ogni istante deve avvenire e avviene in ogni anima buona e santa, se essa vi si rivolge con attenzione e amore; perché, se vuol sperimentare in sé e accorgersi di questa nascita, le sono necessari un raccoglimento e una conversione di tutte le sue potenze. […]

Per giungere al punto che questa nobile nascita avvenga in noi nobilmente e fruttuosamente, dobbiamo apprendere la proprietà della prima nascita paterna, quando il Padre genera il suo Figlio nell’eternità. … Il Padre nel suo modo di essere si rivolge in sé stesso con la sua divina intelligenza: penetra in sé stesso, in chiara comprensione, il fondo essenziale del suo essere eterno e per la nuda comprensione di sé stesso si esprime totalmente; e questa parola è il Figlio suo, e la conoscenza di sé stesso è la generazione del suo Figlio nell’eternità. Egli resta in sé stesso in unità essenziale e si effonde in distinzione personale. Cosí egli entra in sé stesso e si conosce, esce poi da sé stesso nella generazione della sua immagine che in sé ha riconosciuto e compreso, e rientra infine in sé in una perfetta compiacenza di sé stesso. Questa compiacenza si effonde in un amore ineffabile che è lo Spirito Santo: cosí Dio resta in sé stesso, esce da sé e vi rientra.
Ora la proprietà che il Padre ha di rientrare in sé e di uscirne, la deve avere in sé anche l’uomo che vuol diventare una madre spirituale di questa nascita divina: egli deve entrare completamente in sé e poi uscirne. […] 
In verità ci vuole necessariamente un ritorno in sé perché questa nascita avvenga; deve avvenire un energico rientro, un raccoglimento interiore di tutte le facoltà, le superiori e le inferiori, e deve esserci una concentrazione da ogni dispersione, cosí come tutte le cose unite sono piú forti, come un tiratore che vuol colpire precisamente il suo bersaglio chiude un occhio affinché l’altro veda meglio … questo è il ritorno in sé.

Se dev’esserci allora un’uscita, un’elevazione al di fuori e al di sopra di sé stessi, noi dobbiamo rinunciare ad ogni nostro volere, desiderio ed agire, non deve restarci che una nuda e pura intenzione di Dio e assolutamente nulla del nostro essere, divenire, desiderare, ma solamente un appartenergli, un fargli posto nella parte piú elevata e piú intima, affinché egli possa realizzare la sua opera e la sua nascita e non venga ostacolato. … Sant’Agostino in proposito diceva: … «O tu, nobile anima, o nobile creatura, perché vai a cercare fuori di te Colui che è interamente, in tutta verità e nudamente in te; e dal momento che sei partecipe della natura divina, cosa ti importa di tutte le creature o cosa hai da fare con esse?».

Se l’uomo preparasse cosí il posto, il fondo, non c’è alcun dubbio che Dio dovrebbe riempirlo completamente, pure se dovesse rompersi il cielo per ricolmare il vuoto. E tanto meno Dio lascia le cose vuote, sarebbe contrario a tutta la sua natura e alla sua giustizia. 
Perciò devi tacere: cosí il verbo di questa nascita potrà parlare in te ed essere sentito in te. Ma sii certo che se tu vuoi parlare, egli deve tacere. Non si può servire meglio il Verbo che tacendo e ascoltando. […]
Quando nel mezzo di questo silenzio tutte le cose tacciono profondamente e c’è un vero silenzio, allora si sente veramente il Verbo: perché, se Dio deve parlare, tu devi tacere; se Dio deve entrare, tutte le cose devono uscire. …
Che tutti possiamo preparare un posto in noi per questa nobile nascita, cosí da diventare una vera madre spirituale. In ciò Dio ci aiuti. Amen. 
 

[GIOVANNI TAULERO, Sermoni, La triplica nascita, tratto dalla raccolta Il fondo dell'anima, ed. Piemme, Casale Monferrato, 1997. ]

(12/98)

14 dicembre : San Giovanni della Croce, sacerdote e Dottore della Chiesa

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/298.html

San Giovanni della Croce, sacerdote e Dottore della Chiesa

BIOGRAFIA
E’ nato nel 1542 in Castiglia, rimase presto orfano di padre per cui ancora bambino imparò a fare il tessitore per aiutare la madre. A quindici anni diventa servo tutto fare all’ospedale di Medina, mai rassegnato alla mediocrità a all’ignoranza, alla sera ascoltava le lezioni di un Gesuita. A ventuno anni entrò nei Carmelitani. I superiori lo inviarono nella prestigiosa università di Salamanca, si prepara al Sacerdozio pur mostrando una certa insoddisfazione per come veniva vissuta allora la regola del Carmelo, tanto che vorrebbe farsi certosino. In occasione della sua prima messa a Medina incontrò la grande Teresa D’Avila, che percepisce immediatamente il grande slancio di fervore che anima il Sacerdote novello e lo invita a riformare il suo Ordine. Collaborerà a lungo con Santa Teresa. Momenti difficili e prove di ogni genere attendono Giovanni: molti suoi confratelli non gradiscono il suo rigore e non accettano le sue riforme: viene percosso, umiliato, incarcerato a Toledo dove subisce maltrattamenti di ogni genere. Riesce a fuggire e trova rifugio tra le monache di quella città. Gode un periodo di relativa pace, occupa posti di responsabilità in diversi Carmelo riformati, ma poi ancora dure prove lo attendono da parte dei suoi nemici mai domi; essi ottengono da un Capitolo Generale che si celebra a Madrid nel 1591 che Giovanni sia esiliato, lo scopo e quello di farlo scomparire dalla scena del mondo religioso di allora; il Santo vivrà momenti terribili di quasi totale abbandono. Si spegnerà, ricco di virtù e di meriti il 14 Dicembre 1591.

DAGLI SCRITTI…
Dalla “Imitazione di Cristo”
Non fare gran caso se uno è per te o contro di te, ma preoccupati piuttosto che Dio sia con te in tutto quel che fai. Abbi buona coscienza e Dio saprà ben difenderti. Nessuna perversità umana potrà nuocere a colui che Dio vorrà aiutare. Se tu sai tacere e sopportare, sperimenterai senza dubbio l’aiuto del Signore. Egli conosce bene il tempo e il modo di liberarti, e perciò deve rassegnarti alla sua volontà. Spetta a Dio aiutare e liberare da ogni situazione difficile. Spesso giova assai, per meglio conservare l’umiltà, che gli altri conoscano i nostri difetti e li riprendano. Quando uno si umilia per i suoi difetti, placa facilmente gli altri e dà soddisfazione a coloro che gli sono ostili. Dio protegge e libera l’umile, lo ama e lo consola; egli si chiama verso l’umile, gli elargisce grazia abbondante e dopo l’umiliazione lo innalza alla gloria. Egli rivela all’umile i suoi segreti e dolcemente lo attrae e l’invita a sé. L’umile, quando ha ricevuta un’umiliazione, rimane bene in pace, perché sta fisso in Dio e non nel mondo. Non credere di aver fatto alcun progresso se non ti ritieni inferiore a tutti. Mantieni anzitutto in pace te stesso e così potrai pacificare gli altri. L’uomo operatore di pace giova più dell’uomo dotto. L’uomo passionale trae al male anche il bene e facilmente crede al male. L’uomo buono e sereno volge tutto a bene. Chi è veramente in pace non sospetta di nessuno; chi invece è malcontento e inquieto è agitato da molti sospetti: né lui è in pace, né lascia in pace gli altri. Spesso dice quel che non dovrebbe a omette quel che gli converrebbe fare. Egli bada a quel che gli altri devono fare e trascura invece quel ch’è suo dovere. Sii dunque zelante prima con te stesso e così potrai essere zelante anche con il tuo prossimo. Tu sai bene scusare e colorire le tue azioni, ma non vuoi accettare le scuse degli altri. Sarebbe più giusto che tu accusassi te stesso e scusassi il tuo fratello. Se vuoi essere sopportato, sopporta anche tu gli altri. (Lib. 2, capp. 2-3).

Publié dans:Santi, santi scritti, santi: biografia |on 14 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

Dalle «Istituzioni» di san Colombano, abate: Luce perenne nel tempio del pontefice eterno

 MARTEDÌ 13 OTTOBRE 2009

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura

Dalle «Istituzioni» di san Colombano, abate
(Istr. sulla compunzione, 12, 2-3; Opera, Dublino 1957, pp. 112-114)
 
Luce perenne nel tempio del pontefice eterno


Quanto sono beati, quanto sono felici «quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli»! (Lc 12, 37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell’universo, che tutto riempie e tutto trascende! Volesse il cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me, meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità e accendermi talmente della sua divina carità da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle, sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse! Volesse il cielo che i miei meriti fossero così grandi che la mia lucerna risplendesse continuamente di notte nel tempio del mio Dio, sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore! O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo, donami quella carità che non viene mai meno, perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri.
Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di accendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna; siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo.
Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne.
Fa’ che io guardi, contempli e desideri solo te; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio.
Nella visione dell’amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli ed arda.
Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo da te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo continuamente, e meditiamo giorno e notte le tue parole. Dégnati di infonderci un amore così grande, quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all’infuori di te, che sei eterno, e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare, come sta scritto: «Le grandi acque non possono spegnere l’amore» (Ct 8, 7).
Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi, o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Publié dans:liturgia, meditazioni, Santi, santi scritti |on 19 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Santi Angeli Cusodi, San Bernardo Abate: Ti custodiscano in tutti i tuoi passi

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/127.html

2 OTTOBRE, SANTI ANGELI CUSTODI

UFFICIO DELLE LETTURE

Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate

Ti custodiscano in tutti i tuoi passi

«Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi» (Sal 90, 11). Ringrazino il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi verso i figli degli uomini. Ringrazino e dicano tra le genti: grandi cose ha fatto il Signore per loro. O Signore, che cos’é l’uomo, per curarti di lui o perché ti dai pensiero per lui? Ti dai pensiero di lui, di lui sei sollecito, di lui hai cura. Infine gli mandi il tuo Unigenito, fai scendere in lui il tuo Spirito, gli prometti anche la visione del tuo volto. E per dimostrare che il cielo non trascura nulla che ci possa giovare, ci metti a fianco quegli spiriti celesti, perché ci proteggano, e ci istruiscano e ci guidino. «Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi». Queste parole quanta riverenza devono suscitare in te, quanta devozione recarti, quanta fiducia infonderti! Riverenza per la presenza, devozione per la benevolenza, fiducia per la custodia. Sono presenti, dunque, e sono presenti a te, non solo con te, ma anche per te. Sono presenti per proteggerti, sono presenti per giovarti.
Anche se gli angeli sono semplici esecutori di comandi divini, si deve essere grati anche a loro perché ubbidiscono a Dio per il nostro bene. Siamo dunque devoti, siamo grati a protettori così grandi, riamiamoli, onoriamoli quanto possiamo e quanto dobbiamo. Tutto l’amore e tutto l’onore vada a Dio, dal quale deriva interamente quanto é degli angeli e quanto é nostro. Da lui viene la capacità di amare e di onorare, da lui ciò che ci rende degni di amore e di onore. Amiamo affettuosamente gli angeli di Dio, come quelli che saranno un giorno i nostri coeredi, mentre nel frattempo sono nostre guide e tutori, costituiti e prepositit a noi dal Padre. Ora, infatti, siamo figli di Dio.
Lo siamo, anche se questo attualmente non lo comprendiamo chiaramente, perché siamo ancora bambini sotto amministratori e tutori e, conseguentemente, non differiamo per nulla dai servi. Del resto, anche se siamo ancora bambini e ci resta un cammino tanto luogo e anche tanto pericoloso, che cosa dobbiamo temere sotto protettori così grandi? Non possono essere sconfitti né sedotti e tanto meno sedurre, essi che ci custodiscono in tutte le nostre vie. Sono fedeli, sono prudenti, sono potenti. Perché trepidare? Soltanto seguiamoli, stiamo loro vicini e restiamo nella protezione del Dio del cielo.

(Disc. 12 sul salmo 90: Tu che abiti, 3, 6-8; Opera omnia, ed. Cisterc. 4 [1966] 458-462).

Publié dans:santi scritti |on 1 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

San Tommaso d’Aquino: Commento sulla lettera ai Galati, 6

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090926

Sabato della XXV settimana del Tempo Ordinario : Lc 9,43-45
Meditazione del giorno
San Tommaso d’Aquino (1225-1274), teologo domenicano, dottore della Chiesa
Il nostro vanto : il Figlio dell’uomo consegnato alle mani degli uomini

Commento sulla lettera ai Galati, 6

« Quanto a me invece, dice san Paolo, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo » (Gal 6,14). Vedi, osserva sant’Agostino, là dove il saggio secondo questo mondo ha creduto di trovare la vergogna, l’apostolo Paolo scopre un tesoro ; ciò che quegli riteneva una stoltezza, per lui è divenuto sapienza (1 Cor 1,17s) e vanto.

Ognuno infatti considera motivo di gloria ciò che lo rende grande ai propri occhi. Se si crede un uomo grande perché è ricco, si gloria dei suoi beni. Chi non concepisce per sé nessuna grandezza se non in Gesù Cristo, mette la propria gloria solo in Gesù ; così faceva l’apostolo Paolo : « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » diceva (Gal 2,20). Per questo si gloria soltanto in Gesù Cristo e, innanzi tutto, nella croce di Cristo. In essa infatti sono riuniti tutti i possibili motivi di gloria.

Ci sono persone che considerano motivo di gloria l’amicizia dei grandi e dei potenti ; Paolo ha bisogno soltanto della croce di Cristo, per scoprirvi il segno più evidente dell’amicizia di Dio. « Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,8). Nulla manifesta maggiormente l’amore di Dio per noi se non la morte di Cristo. « O testimonianza inestimabile dell’amore – esclama san Gregorio – per riscattare lo schiavo, hai consegnato il Figlio! »

Publié dans:San Paolo, Santi, santi scritti |on 26 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

John H. Newman: “la carità è l’unica cosa necessaria”. 21 febbraio 2006: il 205° anniversario della nascita di John Henry Newman:

dal sito:

http://www.newmanfriendsinternational.org/bibliography/?p=1477

GEISSLER H., John H. Newman: “la carità è l’unica cosa necessaria”. L’Osservatore Romano CXLVI 42 (19 febbraio 2006) 9.

21 febbraio: il 205° anniversario della nascita di John Henry Newman:

Il Santo Padre Benedetto XVI con la sua prima Enciclica Deus caritas est ha invitato i fedeli a riscoprire il dono unico e fondamentale della carità. In occasione della nascita del Venerabile Cardinale John Henry Newman (21 febbraio 1801) pare opportuno richiamare alcuni pensieri della sua predicazione sulla carità, una predicazione che non ha perso niente della sua freschezza e attualità.

Fede e amore
Newman ripete spesso che siamo stati creati per amare: “In fondo amiamo perché è la nostra natura, e appartiene alla nostra natura l’amare perché Dio l’ha fatta così”. Egli sottolinea che solo l’amore può dare vero senso e pienezza alla vita. “La nostra reale e vera felicità non è conoscere, influenzare o cercare, ma amare, sperare, gioire, ammirare, venerare, adorare. La nostra reale e vera felicità sta nel possesso di quegli oggetti nei quali il nostro cuore può riposare ed essere appagato”.

Anche se Newman è cosciente della preminenza dell’amore, egli predica più frequentemente sulla fede che sull’amore. È convinto che la fede sia la strada per maturare l’amore cristiano. Fede e speranza sono due “bastoni” che ci aiutano a trovare la strada per amare e avanzare nell’amore. “La prima grazia è la fede, l’ultima l’amore; prima viene lo zelo, poi segue la tenerezza… Che possiamo imparare a portare a compimento tutte le grazie in noi; con timore e tremore, vigilanti e in continua conversione, perché Cristo viene; con gioia, gratitudine, senza timore del futuro, perché egli è venuto”.

Nel contempo l’amore è il più nobile dei doni di Dio in quanto non finisce mai. Sotto questo aspetto, come Newman dimostra nell’omelia “Fede e amore”, l’amore supera la fede e la speranza. “La fede e la speranza sono virtù proprie di uno stato imperfetto, e quando questo cessa di essere, cessano anch’esse. Ma l’amore è più grande, perché esso è perfezione. La fede e la speranza sono grazie donateci fin quando apparteniamo a questo mondo, cioè per un tempo limitato; ma l’amore è una grazia che ci viene data in quanto figli di Dio, in questo mondo o altrove, e partecipi di una redenzione che durerà per sempre. La fede non ci sarà più quando verrà la visione; la speranza scomparirà quando ci sarà la gioia del possesso; ma l’amore (così noi crediamo) crescerà sempre più per tutta l’eternità”. L’amore non avrà fine.

L’amore forma l’anima e la forza trascinante per tutte le altre virtù. “Noi crediamo alla parola di Dio perché l’amiamo; e speriamo nel paradiso ancora perché lo amiamo. Non avremmo speranza o interesse per esso se non l’amassimo; e non avremmo alcuna fiducia e confidenza nel Dio del cielo, se non avessimo alcun amore per lui”. La fede e la speranza devono pertanto essere sigillate e permeate dall’amore. Vivere di fede nel quotidiano non è sempre facile, spesso ci vuole il coraggio di essere controcorrente. Talvolta proviamo un certo disgusto per un tale impegno. A chi si domanda il perché di tutto ciò, Newman – nel discorso “Carità, l’unica cosa necessaria” – dà questa semplice risposta: “Chiaramente perché non abbiamo l’amore”.

Infine l’amore conduce alla meta del nostro pellegrinaggio terreno. Newman proclama, “che la fede può farci superare l’attrazione del mondo, l’amore ci porta dinanzi al trono di Dio; la fede ci può rendere sereni, ma l’amore ci rende felici”. L’amore genuino porta all’unità. “È l’eterna carità il vincolo di unione di tutte le cose in cielo e in terra; nella carità il Padre e il Figlio sono uno nell’unità dello Spirito Santo; per la carità gli angeli sono una sola cosa in cielo, i santi sono una sola cosa con Dio, la Chiesa è una sulla terra”. L’unità è il frutto dell’amore.

Amore per il prossimo
Il Cardinale Newman fu sempre critico nei confronti di un concetto dell’amore che rimanesse troppo teoretico e vago. Nell’omelia “Amore dei parenti e degli amici” biasima quanti parlano molto di amore ma trascurano il prossimo nei doveri di ogni giorno. Egli chiama “follia” quella di alcuni che “dichiarano con magniloquenza di amare tutta quanta la razza umana con un affetto onnicomprensivo, di esser amici di tutta l’umanità e cose simili. A che cosa pervengono queste vanagloriose professioni? Che questi tali hanno certi sentimenti di benevolenza verso il mondo – sentimenti e niente più – niente più che sentimenti instabili, la mera prole di una immaginazione assecondata, i quali vengono alla luce soltanto quando le loro menti sono sovreccitate e, senza fallo, vengono loro meno nell’ora del bisogno. Questo non è amare gli uomini, non è altro che cianciare di amore”.

L’amore genuino per l’umanità si dimostra nel compimento di atti concreti, cominciando col prossimo, di cui conosciamo bene i doni e i limiti, i meriti e gli errori. “Il vero amore per l’uomo deve provenire dalla pratica, e pertanto, deve cominciare con l’esercitarsi verso gli amici che ci stanno intorno, altrimenti non avrà alcuna esistenza. Cercando di amare i nostri congiunti ed amici, sottomettendoci ai loro desideri, anche se contrari ai nostri, sopportando le loro infermità, vincendo la loro occasionale riottosità con la gentilezza, soffermandoci sui loro meriti principali e cercando di imitarli; è così che si forma nel nostro cuore la radice della carità, la quale, anche se piccola dapprincipio, può, come il seme di senape, alla fine perfino coprire la terra con la sua ombra”. Newman è convinto che “il culto degli affetti domestici”, cioè l’amore degli amici e dei parenti, è “la fonte di un amore cristiano più esteso”. Gli “affetti domestici”, vissuti in una comunità concreta insieme con altri, sono una scuola che richiede atti di donazione e di abnegazione, rendendo l’amore forte e perseverante.

Newman prende l’Apostolo Giovanni, che più di qualsiasi altro mise l’amore al centro della sua vita e del suo lavoro, come esempio di carità matura. “Ora cominciò egli con qualche gran fatica ad amare su vasta scala? Non direi; egli ebbe l’indicibile privilegio di essere l’amico di Cristo. Fu così che imparò ad amare gli altri; dapprima il suo affetto fu concentrato, poi si espanse. In seguito ebbe l’incarico solenne e consolante di prendersi cura della Madre del nostro Signore, la Beata Vergine, dopo la sua dipartita. Non possiamo scorgere qui, le fonti segrete del suo amore eccezionale per i suoi fratelli? Poteva egli, che prima fu favorito con l’affetto del suo Salvatore, poi cui fu affidato il compito di figlio verso Sua Madre, poteva egli essere qualcosa di diverso di un ricordo perenne e un campione (per quanto lo possa essere un uomo) di amore, profondo, contemplativo, fervido, sereno, smisurato?”.

Newman criticò duramente quelle tendenze religiose in cui predominavano i sentimenti. Ciò non vuol dire, tuttavia, che egli proclamasse o coltivasse un amore arido, al contrario. Nel discorso “Il dono della simpatia di San Paolo” presenta la maniera con cui l’Apostolo era pieno di un sincero e appassionato amore per la gente e come proprio attraverso l’amore poteva conquistare i loro cuori.

Paolo, che viveva in intima unione con Cristo, era anche pieno di un amore profondo e umano per i suoi amici e collaboratori. Egli sospirava di vederli, soffriva con loro, era profondamente addolorato per l’infedeltà di alcuni. Si distingueva per una delicata empatia che traspirava da lui attraverso la sincerità dei suoi rapporti. “In una parola, è il predicatore particolarissimo della grazia divina, ed è insieme l’amico singolare e intimo della natura umana. Rivela a noi i misteri dei decreti supremi di Dio, e al tempo stesso manifesta l’interesse più sviscerato per le singole anime”.

In una lettera al suo amico anglicano John Keble, Newman scrisse: “Il primo dovere della carità è cercare di entrare nella mente e nei sentimenti degli altri”. Questo, naturalmente, è possibile solo quando i nostri rapporti verso gli altri sono pervasi di rispetto e riverenza. “Nessuno ama veramente un altro, se non sente una certa riverenza verso di lui. Quando gli amici trasgrediscono questa sobrietà di affetto, è possibile che continuino a stare insieme per un poco, ma essi hanno rotto il vincolo dell’unione. È il rispetto reciproco che rende durevole l’amicizia”. Il rispetto appartiene all’essenza dell’amore.

Amore e verità
Newman spiega la distorsione del concetto dell’amore attraverso il liberalismo religioso, ad esempio nel suo discorso “Tolleranza e errore religioso”. In tale intervento parte dalla massima universale che quando poniamo noi stessi e non Dio al centro, facilmente tendiamo ad avere atteggiamenti unilaterali. “Anche se la nostra mente fosse la più celeste possibile, amorosa, santa, zelante, energica, pacifica, tuttavia se allontaniamo per un momento lo sguardo da Lui, e guardiamo verso noi stessi, immediatamente queste eccellenti disposizioni sono soggette a estremismi e a errori. La carità diventa indifferenza, la santità viene inquinata da orgoglio spirituale, lo zelo degenera in fierezza, l’attività assorbe lo spirito di preghiera, la speranza si erge a presunzione”.

Secondo Newman, è relativamente semplice coltivare alcune virtù, particolarmente quando esse sono incanalate nello spirito del tempo. Una virtù che viene facilmente esercitata è la tolleranza nei confronti di altre persone. Molti hanno grande stima di questo nobile atteggiamento, indispensabile per la convivenza pacifica tra gli uomini, ma dimenticano le virtù riguardanti la fermezza nei principi, tendendo così a tollerare non soltanto la persona che erra, ma anche lo stesso errore. Nell’Apostolo Giovanni, l’amore rispettoso per l’uomo e il fervore per la verità sono uniti in maniera esemplare e questo è il motivo per cui Newman lo pone davanti agli occhi dei cristiani come traccia e modello. “Così il suo fervore e l’esuberanza della carità erano tanto lungi dall’interferire con il suo zelo per Dio che anzi più amava gli uomini, più desiderava di portare davanti a loro le grandi e immutabili verità a cui potevano sottomettersi, così che potessero vedere la vita, su cui una piccola debolezza li costringe a chiudere gli occhi. Egli amava i fratelli, ma li amava ‘nella verità’ (3 Gv 1). Li amava per amore della verità vivente che li aveva redenti, per la verità che era in loro, per la verità che era la misura dei loro traguardi spirituali. Amava la Chiesa con tanta onestà da esser duro con quanti le causavano disturbi. Amava il mondo con tanta saggezza da predicargli la verità; eppure, se gli uomini la rifiutavano, non li amava tanto disordinatamente da dimenticare la supremazia della verità, parola di Colui che è al di sopra di ogni cosa”. L’amore e la verità non si oppongono, ma – al contrario – si richiedono vicendevolmente: la verità senza l’amore sarebbe fredda e dura, l’amore senza verità finirebbe in un cieco sentimentalismo.

Nel suo tempo, Newman vide realisticamente che che c’erano molti che seguivano Giovanni nel suo essere amabile, ma pochi che portavano dentro di sé il suo zelo per la fede. Si lamentava che numerosi cristiani tendono ad avere idee ambigue su Dio e sulla Chiesa. Questo è il motivo – così Newman continua – per cui “essi si slacciano i fianchi e diventano effeminati; nessuna meraviglia che la loro nozione ideale di una Chiesa perfetta, è una Chiesa che lascia ognuno andare per la sua strada e rinunzia a ogni diritto di pronunciarsi su un’opinione invece che infliggere una censura contro un errore di fede”.

Questo concetto di carità, infetto dal liberalismo religioso, non può, secondo Newman, andare d’accordo con la Rivelazione. Pertanto egli afferma: “Qui si trova la nostra debolezza oggi, per questo dobbiamo pregare, che venga una riforma nello spirito e la potenza di Elia. Dobbiamo pregare Dio in modo ‘da ravvivare il suo lavoro in mezzo agli anni’; di mandarci una severa disciplina, dell’ordine di San Paolo e San Giovanni proclamando ‘la verità nell’amore’ e ‘amando nella verità’… Solo allora i cristiani avranno successo nella lotta quando … saranno amorevoli nella fermezza, nel rigore, nella santità”.

Carità e grazia
Newman fu contrario ad ogni discorso superficiale sull’amore. Disse spesso che solo coloro che pregano con fervore e si impegnano con sincerità possono crescere e maturare nel vero amore di Dio e del prossimo, perché solo con l’aiuto della grazia, infusa nei nostri cuori come seme nel battesimo, è possibile realizzare a fondo la carità.

Per questo Newman prega: “Mio Dio, tu sai più di me quanto poco io ti ami. La tua grazia permise agli occhi del mio spirito di vederti. Fu la tua grazia che rese il mio cuore sensibile alle attrattive della tua bellezza. Chi potrà far cessare l’amore ch’io porto a te, o mio Signore? O mio Dio, tutto quello che mi è più vicino di te, le cose della terra, quelle verso cui naturalmente io mi sento portato, tutto questo m’impedirà di contemplarti, se tu non mi soccorri con la tua grazia. Preserva i miei occhi, il mio cuore, da una così terribile tirannia. Spezza i lacci che tengono avvinta l’anima mia. I miei occhi siano sempre rivolti a te, e la tua adorabile visione accresca il mio ardente amore”.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 31 août, 2009 |Pas de commentaires »

Dai «Discorsi sul Cantico dei Cantici» di san Bernardo, abate

dal sito:

http://www.maranatha.it/Ore/santi/0820letPage.htm

Seconda Lettura, Ufficio delle letture giovedì 20 agosto

Dai «Discorsi sul Cantico dei Cantici» di san Bernardo, abate
(Disc. 83,4-6; Opera omnia, ed. Cisterc. 2 [1958] 300-302)

Amo perché amo, amo per amare
L’amore è sufficiente per se stesso, piace per se stesso e in ragione di sé. È a se stesso merito e premio. L’amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi all’infuori di sé. Il suo vantaggio sta nell’esistere. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere. L’amore è il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se non alla pari; l’unico con il quale possa contraccambiare il prossimo e, in questo caso, certo alla pari. Quando Dio ama, altro non desidera che essere amato. Non per altro ama, se non per essere amato, sapendo che coloro che l’ameranno si beeranno di questo stesso amore. L’amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore cerca soltanto il ricambio dell’amore e la fedeltà. Sia perciò lecito all’amata di riamare. Perché la sposa, e la sposa dell’Amore non dovrebbe amare? Perché non dovrebbe essere amato l’Amore?
Giustamente, rinunziando a tutti gli altri suoi affetti, attende tutta e solo all’Amore, ella che nel ricambiare l’amore mira a uguagliarlo. Si obietterà, però, che, anche se la sposa si sarà tutta trasformata nell’Amore, non potrà mai raggiungere il livello della fonte perenne dell’amore. È certo che non potranno mai essere equiparati l’amante e l’Amore, l’anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura. La sorgente, infatti, da sempre molto più di quanto basti all’assetato.
Ma che importa tutto questo? Cesserà forse e svanirà del tutto il desiderio della sposa che attende il momento delle nozze, cesserà la brama di chi sospira, l’ardore di chi ama, la fiducia di chi pregusta, perché non è capace di correre alla pari con un gigante, gareggiare in dolcezza col miele, in mitezza con l’agnello, in candore con il giglio, in splendore con il sole, in carità con colui che è l’Amore? No certo. Sebbene infatti la creatura ami meno, perché è inferiore, se tuttavia ama con tutta se stessa, non le resta nulla da aggiungere. Nulla manca dove c’è tutto. Perciò per lei amare così è aver celebrato le nozze, poiché non può amare così ed essere poco amata. Il matrimonio completo e perfetto sta nel consenso dei due, a meno che uno dubiti che l’anima sia amata dal Verbo, e prima e di più.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 20 août, 2009 |Pas de commentaires »
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