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Ascensione del Signore: Dai « Discorsi » di Elredo di Rievaulx.

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TEMPO DI PASQUA – ASCENSIONE DEL SIGNORE

Dai « Discorsi » di Elredo di Rievaulx.

Per qualche tempo abbiamo celebrato l’evento della risurrezione del Signore Gesù, secondo una durata pari a quella che egli trascorse in terra dopo essere risorto. Eccoci a commemorare il giorno in cui mostrò apertamente che tutto quello che aveva fatto e patito in questo mondo l’aveva compiuto per condurci dalla morte in cui eravamo caduti con Adamo, alla vera vita; da questo esilio alla patria, in vista di cui fummo creati; insomma per elevarci al cielo. « Cristo infatti è morto per i nostri peccati », cf Rm 4,25 è risuscitato per la nostra giustificazione, ed è salito al cielo per glorificarci. Grazie ai suoi meriti siamo stati perdonati dalle nostre colpe. A motivo delle nostre trasgressioni quello che noi non potevamo, lui l’ha compiuto. Mediante la fede nella sua risurrezione usciamo giustificati.
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La nostra fede sbocca nella giustificazione, in attesa di una ricompensa vertiginosa, perché noi crediamo quello che non potemmo vedere. Tanto che il Signore disse a Tommaso: « Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno! » Gv 20,29. La beatitudine, a cui aneliamo nella speranza, Cristo volle oggi mostrarla in sé stesso che ascende al cielo; volle così garantirci la certezza che noi, sue membra, saliremo là dove lui, il nostro Capo, è salito. Perciò, fratelli, celebriamo questo evento lasciandoci invadere dalla gioia: oggi si manifesta la glorificazione dell’uomo più grande in assoluto. La nostra natura era talmente degradata e corrotta che il profeta la dipinge con immagini ferine: « L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono ». Sal 48,21. Questa natura umana in Cristo Gesù, nostro Signore, fu talmente esaltata che domina su tutto l’orizzonte creato. Persino i cori angelici convergono a renderle gloria.
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Ebbene, fratelli cari: ci preme contemplare con gli occhi dello spirito Gesù che sale al cielo? Ci urge dentro l’anelito di arrivare con lui e per lui nel paradiso? Allora usciamo da questa terra, dirigendo la mente verso un punto di visuale più alto; applichiamoci a rompere il guscio del basso sentire e a polarizzare il cuore sul volere divino. Non collochiamo il risultato nei bassifondi, ossia in soddisfazioni terra a terra, oppure sulle cime della superbia; altrimenti il Signore ci dirà: « In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. » Mt 6,2. Ma la nostra obbedienza a Dio deve fruttificare su un monte ubertoso, ossia sulle vette della carità, in modo che tutto quello che facciamo proceda portato dall’amore di Dio.
« Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse ». Lc 24,50. Ben fortunati quelli che avevano come compagno il Signore ed ebbero la sorte gratificante di venire benedetti dalle sue mani. Vedete, fratelli, che eredità ci ha lasciato il Signore, quando è passato al Padre? Essa non è legata né all’oro né all’argento né ad altre realtà provvisorie, ma è la sua benedizione.
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Per non sprofondare nella malinconia, visto che Gesù si è allontanato fisicamente, ascoltiamo un altro evangelista raccontare quello che Cristo disse in quel momento: « Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ». Mt 28,20. Come sarà possibile visto che ci ha lasciati?
Certo ormai egli non starà con noi tramite una presenza corporea. Ma lo è secondo la divinità, perché la sua sollecita tenerezza ce lo rende sempre accanto. « Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Dio giustifica. Chi condannerò? Cristo Gesù che è morto, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? » Rm 8,31-33. Carissimi, un compito ci attende: dobbiamo intrecciare la lotta virile contro le potenze demoniache insieme con la pace fondata sulla fiducia in Gesù. Non possono cadere nel vuoto quelli che Cristo sostiene, in favore dei quali mostra al Padre le piaghe che ebbe a subire per noi. Niente e nessuno deve ribaltare la nostra speranza.

Il dito di Dio, Sant’Amedeo di Lausanne nel dodicesimo secolo

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Omelia mariana ; SC 72

Il dito di Dio

 Sant’Amedeo di Lausanne nel dodicesimo secolo

         « Mi venga in aiuto la tua mano ! » (Sal 118, 173). Il Figlio unico del Padre, per mezzo del quale egli ha creato tutte le cose, è chiamato la mano di Dio. Questa mano ha operato quando si è incarnata, non soltanto nel fatto che non ha causato a sua madre nessuna ferita, ma anche, secondo la testimonianza del profeta, addossandosi le nostre malattie, caricandosi delle nostre sofferenze (Is 53, 4).

         Sicuramente, questa mano, piena di rimedi diversi, ha guarito ogni malattia. Ha respinto ogni causa di morte ; ha risuscitato dei morti ; ha frantumato le porte degli inferi ; ha incatenato l’uomo forte e gli ha strappato via l’armatura ; ha aperto il cielo ; ha elargito lo Spirito di amore nei cuori dei suoi. Questa mano libera i prigionieri e dona la vista ai ciechi ; rialza coloro che sono caduti ; ama i giusti e custodisce i forestieri ; accoglie l’orfano e la vedova. Strappa dalla tentazione coloro che sono in pericolo ; ristora, riconfortandoli, coloro che soffrono ; ridà gioia agli afflitti ; ripara sotto la sua ombra coloro che faticano ; scrive per coloro che vogliono meditare la sua Legge ; tocca e benedice il cuore di coloro che pregano ; li rafforza nell’amore, per mezzo del suo contatto ; li fa progredire e perseverare nella sua azione. Infine, li conduce alla patria ; li riporta al Padre.

         Infatti, si è fatta carne per attirare l’uomo attraverso l’Uomo, per riportare, nel suo amore, la pecora smarrita al Padre onnipotente e invisibile. Poiché questa pecora, avendo lasciato Dio, era caduta « nella carne », era necessario che questa mano, fatta uomo, venisse a sollevarla « dalla sua carne » per riportarla al Padre, nello Spirito di amore.

Publié dans:meditazioni, santi scritti |on 13 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Digiuno e penitenza: meditazioni di S. Massimiliano Maria Kolbe

http://rivoltialsignore.blogspot.com/2008/02/dagli-scritti-di-s.html

Digiuno e penitenza: meditazioni di S. Massimiliano Maria Kolbe

“…Ai nostri giorni molti desidererebbero abolire qualsiasi mortificazione, poiché il degradato mondo d’oggi cerca la felicità nei piaceri passeggeri, sensuali e spesso anche peccaminosi. Nondimeno la penitenza non è soltanto un privilegio esclusivo di san Paolo (1 Cor 9,27), né un “errore” del medioevo, ma un dovere, un preciso dovere di tutti, poiché nessuno è senza peccato. E non hanno incominciato a sbagliare soltanto i secoli del medioevo, poiché fin dai primi secoli della Chiesa i fedeli, obbedienti ai comandi di Cristo, tenevano a freno il proprio corpo. Lo stesso Gesù Cristo nel deserto ha digiunato per quaranta giorni e ha raccomandato di far penitenza sotto la minaccia della perdizione: “Se non farete penitenza perirete tutti insieme” (Lc 13, 5). E san Pietro nel tempio insegnava: “Fate penitenza e convertitevi, affinché siano cancellati i vostri peccati” (Atti 3, 19). Già i primi cristiani facevano delle opere penitenziali, anzi tra di essi era già conosciuto anche il digiuno quaresimale. Lo testimoniano s. Agostino (+ 430), s. Giovanni Crisostomo (+ 407), Origene (+ 253) e s. Ireneo (+ 202). Essi esortavano i fedeli ad osservare fervorosamente il digiuno quaresimale ed ammonivano coloro che non lo osservavano secondo l’austerità del tempo; eppure non si era ancora nei secoli del medioevo. Chiunque vuol salvarsi, perciò, deve far penitenza. La santa Chiesa, benché non possa sopprimere completamente la penitenza, tuttavia, in virtù del potere ricevuto da Cristo, determina il modo di far penitenza a seconda dei tempi e dei luoghi. Uno di tali mezzi di penitenza è anche il digiuno quaresimale che stiamo ora percorrendo. Nei primi secoli esso era più breve, ma in compenso era notevolmente più austero. I Didascalia Apostolorum (del III secolo) prescrivono il digiuno, vale a dire la completa astensione dal cibo e dalle bevande, nel venerdì e nel sabato della settimana santa, e nei quattro giorni precedenti un digiuno a pane, acqua e sale. Agli inizi del IV secolo si digiunava per 40 giorni, sul modello del digiuno di Gesù, mentre il sinodo di Nicea chiama già questo digiuno (nel canone n. 5) con il nome di “Quadragesima”, quaresima. In occidente si digiunava per sei settimane eccetto le domeniche, in oriente invece (ad Antiochia, a Costantinopoli) invalse l’usanza di dispensare dal digiuno anche nei sabati, perciò il digiuno iniziava sette settimane prima di Pasqua. In pratica, dunque, si digiunava 30 giorni. Solo nel secolo VII a Roma il numero dei giorni di digiuno fu arrotondato a 40, poiché il digiuno iniziava con il mercoledì delle ceneri. Agli inizi del medioevo tutto il mondo cattolico aveva accolto questa usanza. Nel sinodo di Benevento Papa Urbano II comandò pure di osservare in tutta la Chiesa l’usanza, già allora antica, di cospargere il capo di cenere, all’inizio del digiuno. Contemporaneamente ebbero origine anche i nomi delle domeniche di quinquagesima, sessagesima, settuagesima. Fin dai tempi di Innocenzo IV (1243-1254) in Polonia l’austero digiuno iniziava dalla settuagesima. Questo digiuno era rigido, poiché non erano escluse né le domeniche né i sabati, ed era permesso mangiare soltanto una volta al giorno, per di più escludendo la carne, le uova e i latticini. Nel secolo XV la Sede Apostolica attenuò i digiuni per i paesi settentrionali, tuttavia i polacchi, nonostante la decisione del sinodo di W oc awek (1248) di iniziare il digiuno dal mercoledì delle ceneri, continuarono a digiunare come in passato. Nell’anno 1505 Erasmo Cio ek, vescovo di Plock, ottenne, dietro richiesta del re Alessandro, la dispensa dal digiuno nei mercoledì di tutto l’anno; ma neppure questo fu accettato. Successivamente Pio X permise (in data 5 aprile 1903) per le diocesi del Regno di Polonia l’uso delle carni in tutti i sabati dell’anno, nelle domeniche di quaresima e di fare uso della carne una volta al giorno nei lunedì, martedì e giovedì (escluso il giovedì santo) di quaresima. Inoltre, l’astensione dai latticini era limitata al venerdì santo. Il recentissimo codice di legislazione ecclesiastica distingue accuratamente digiuno e astinenza dalla carne. Digiuna colui il quale mangia fino a saziarsi una sola volta al giorno, mentre al mattino e alla sera fa uno spuntino leggero, adattandosi alle usanze locali per quel che riguarda la quantità e la qualità (can. 1251), anche se fa uso di carne. L’astinenza dalla carne, invece, comporta l’astensione dagli alimenti e dal brodo di carne; non, però, dalle uova e dai latticini. È permesso, inoltre, condire i cibi con il grasso e mangiare più volte fino a sazietà. In quaresima il digiuno e l’astinenza sono obbligatori il mercoledì delle ceneri, nei venerdì e nei sabati; il digiuno solo, invece, negli altri giorni della quaresima. All’astinenza dalla carne sono tenuti tutti coloro che hanno compiuto il settimo anno di vita, mentre al digiuno sono obbligati solamente coloro che hanno compiuto il ventunesimo anno e non hanno ancora iniziato il sessantesimo. La legge, inoltre, dispensa dal digiuno i malati, i convalescenti e coloro che svolgono un duro lavoro fisico o intellettuale. Ragioni più gravi sono richieste, invece, per la dispensa dall’astinenza dalla carne. Solamente un lavoro molto pesante o l’impossibilità, come ad esempio la vita militare, dispensano da quest’obbligo. Noi, membri della Milizia dell’Immacolata, per quanto ci è possibile dobbiamo osservare questo santo digiuno con un fervore maggiore, poiché la mortificazione è una potenza, la quale, insieme con la preghiera, ottiene le grazie divine, purifica l’anima, la infiamma d’amore verso Dio e verso il prossimo e sottomette amorosamente le anime a Dio attraverso l’Immacolata. »
“Godere, godere, godere”: grida il mondo. Per procurarsi i massimi godimenti possibili si commettono furti, frodi, corruzioni, tradimenti e perfino assassini. E quando non si riesce a godere, oppure quando il cuore, sazio fino alla nausea di sudiciume morale, vede tutto il vuoto e l’inconsistenza di una illusoria felicità dietro alla quale stava correndo, allora, se manca l’umiltà, che lo indirizza verso Dio lungo la strada della penitenza, la vita si abbrutisce e talvolta si conclude con un vile suicidio. Il giorno 11 del mese in corso noi festeggiamo l’anniversario dell’apparizione dell’Immacolata a Lourdes, famosa in tutto il mondo. Che cosa ci raccomanda, Ella? Ecco ciò che la fortunata creatura scelta dall’Immacolata, Bernardetta, raccontò al suo parroco, che aveva chiesto alla Signora dell’apparizione, quale segno della sua provenienza celeste, di far fiorire un roseto in inverno. “Ho visto – ella disse – quella creatura meravigliosa e le ho detto: Il signor parroco esige qualche prova, ad esempio che lei, Signora, faccia sbocciare il roseto che sta sotto i suoi piedi, poiché i sacerdoti non si accontentano della mia parola e non vogliono parlare con me di quella cosa (della costruzione della cappella). In risposta Ella ha sorriso, ma non ha pronunciato alcuna parola; poi mi ha detto di pregare per i peccatori ed ha esclamato per tre volte: Penitenza! penitenza! penitenza!”. La fioritura di un roseto in pieno inverno è una bazzecola, anche se l’Immacolata l’avesse fatto, in confronto alla conversione dei peccatori ottenuta con l’aiuto della penitenza. In questo mese la s. Chiesa ci invita in modo tutto particolare alla penitenza, cospargendo di cenere il nostro capo e dicendoci: “Ricordati, o uomo, che sei polvere e in polvere tornerai” [cf. Gen 3, 19].

Ispirazione (su Don Luigi Oriorne)

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SU DON ORIONE

Ispirazione 

San Luigi Orione aveva i quattro grandi amori che l’hanno sempre ispirato nella sua vita: Gesù, Maria, Papa e Anime. Diceva di Gesù che « egli solo è la fonte viva di fede e di carità che può ristorare e rinnovare l’uomo e la società » (Scritti 8, 209). Di Maria diceva che noi la « veneriamo e proclamiamo quale Madre nostra e celeste Fondatrice della Piccola Opera » (Lettere I, 408; II, 17, 351). Invece « il Papa è il Vicario di Gesù Cristo nostro Dio e Redentore, è il ‘dolce Cristo in terra’, come lo chiamò Santa Caterina da Siena; è la nostra guida sicura, è il nostro Maestro infallibile, è il vero nostro Padre » (Scritti 20, 96; Lettere I, 249). Proclamando « Anime e Anime! – diceva – Ecco tutta la nostra vita; ecco il nostro grido, il nostro programma, tutta la nostra anima, tutto il nostro cuore » (Lettere I, 250; cfr. Sui passi, p. 253-254; 265-267).
Questi valori ispiratori spingevano Don Orione a « vivere e diffondere la conoscenza e l’amore di Gesù Cristo, della Chiesa e del Papa, specialmente nel popolo e tra i poveri più lontani da Dio e più abbandonati » (cfr. i testi autografi di San Luigi Orione riportati in Sui passi di Don Orione, 295-298), affinché ogni persona possa trovare la propria dignità e la libertà dei figli di Dio. Per San Luigi Orione, l’amore a Gesù si esprimeva in un enorme amore caritatevole e attivo agli umili e ai poveri, al fine di portarli all’unione col Papa e con la Chiesa, per « Instaurare omnia in Cristo ».
Come conseguenza di un incondizionato amore di Dio, San Luigi Orione ha coltivato un profondo rispetto per la persona umana: « servire negli uomini il Figlio dell’Uomo » (Nel nome della Divina Provvidenza, p.141). Si occupava dell’educazione alla carità universale, con attenzione ai « poveri più poveri »: « fare del bene a tutti, fare del bene sempre, del male mai a nessuno » (Nel nome, p.108; Scritti 61, 170; 46, 116; 62, 99c).
Diffondeva anche un senso profondo di appartenenza alla Chiesa e al Papa: « nessuno ci vinca nell’amare con tutte le nostre forze il Papa e la Chiesa, nessuno ci vinca nell’amore, nella devozione, nella generosità verso la Madre Chiesa e il Papa » (Lettere I, 96-97; cfr. Sui passi, p.207-220). Vedeva anche bisogno di un impegno ecumenico: « è proprio del nostro Istituto di coadiuvare, nella sua piccolezza, l’azione della Divina Provvidenza nel condurre le anime e le umane istituzioni a prendere posto nella Santa Chiesa… consacrandosi con ogni studio e sacrificio di carità, ad ottenere l’unione delle Chiese separate » (Scritti 52, 10; 112, 41). E in tutta la sua vita ha sempre avuto un’enorme fiducia nella Divina Provvidenza, che lo portava a vivere lo spirito di povertà: « La perfetta letizia non può essere che nella perfetta dedizione di sé a Dio e agli uomini » (Sui passi di Don Orione, p. 136). Molto impegno richiedeva molti sforzi, spesso in condizioni difficili in cui si abbandonava totalmente in Dio e nella sua Provvidenza. In tutta la sua devozione Don Orione vedeva anche un ruolo per i santi, tra cui in particolare per la Madonna, per la quale serbava una speciale devozione: « A Gesù, al Santo Padre e alle Anime per la Madonna » (Scritti 103, 112).
L’ispirazione che Don Orione ha ricevuto da Dio, l’ha spinto a cercare prima una santità personale e poi a diffonderla nel mondo. Diceva infatti che occorreva « prima rinnovare noi in Cristo, per poi rinnovare gli altri » (Lettere II, 56). Ed era convinto che questo si doveva fare attraverso una formazione umana, spirituale, dottrinale, missionaria e carismatica. Questa ultima ispirazione ha sbocciato in un senso di dovere-volere fondare una congregazione religiosa.
I valori ispiratori ricevuti da Dio hanno cominciato ad esprimersi in un carisma. Una constatazione che emerge piuttosto evidente dalla lettura degli inizi dell’attività di Don Orione è che la sua esperienza carismatica (carisma di fondazione) fu del tutto congiunta e contemporanea alla coscienza di dovere-volere condividerla con dei discepoli, di dovere-volere fondare una congregazione (carisma di fondatore).
Carisma « di fondazione » e « di fondatore » furono congiunti. Ricordiamo che dopo quella famosa pagina del « Oggi, 21 maggio, non sono più del mondo » testimonianza immediata e personale della « novità spirituale » avvenuta in lui al termine degli esercizi spirituali del 1890 (a 18 anni!), nell’estate seguente raduna un gruppo di « discepoli » a Pontecurone al motto « Anime, Anime! ». Rientrato in seminario manifesta lui uno scatto di santità da tutti osservato e da non pochi seguito. « In un venerdì di quaresima, ai piedi del Crocifisso che grida Sitio » egli più volte disse che « è nata la Congregazione » – e siamo nel 1892 quando cominciava a radunare i primi ragazzi.
Il 3 luglio successivo, fonda un Oratorio che non è solo una attività particolare, ma è un progetto ampio: « Impossessarsi del cuore e dell’affetto del popolo ed illuminare la gioventù: ed effondere in tutti la grande idea della redenzione cattolica col Papa e pel Papa… Anime! Anime! » (5 agosto 1892).
Il 15 ottobre 1893, apre il primo collegio a San Bernardino di Tortona e lo chiama Piccola Casa della Divina Provvidenza. Il 13 aprile 1895, il Vescovo Bandi ordina Luigi Orione sacerdote (compirà 23 anni il 23 giugno!) e, nello stesso giorno, veste dell’abito clericale sei suoi « ragazzi ». Insomma, Don Luigi Orione mette su Famiglia molto precocemente. E’ fondatore non perché condotto dai fatti, ma perché ne aveva chiara coscienza ed esplicita volontà in risposta a una superiore Volontà.
Abbiamo visto come nel trasmettere chiaro e integro il carisma fin dall’inizio (« mediante le opere della carità, unire al Papa e alla Chiesa per Instaurare omnia in Christo ») formo e identificò la Piccola Opera della Divina Providenza attraverso scelte e simboli concreti. Abbiamo parlato del nome e del progetto di fondazione come Famiglia di famiglie (sacerdoti, suore, laici, contemplativi, ecc.), del motto « Instaurare omnia in Christo », dell’ideogramma GPA/M (Gesù Papa Anime / Maria), della bandiera.

(dagli studi di Don Flavio Peloso) 

Publié dans:santi scritti |on 12 mars, 2012 |Pas de commentaires »

Onnipresenza di Dio (S. Ilario di Poitiers, La Trinità,1, 6)

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20000728_ilario_it.html

Onnipresenza di Dio

S. Ilario di Poitiers, La Trinità,1, 6

« Tutta l’immensità del cielo sta nel palmo di Dio e tutta la vastità della terra è racchiusa nel suo pugno. Ma la parola di Dio, se giova certo a formarci un’idea irradiata di religiosità, ha piú significato, per una comprensione profonda, di quanto esteriormente si percepisca. Infatti il cielo, racchiuso nel palmo di Dio, è anche il suo trono; e la terra, contenuta nel suo pugno, è anche lo sgabello dei suoi piedi. Ma né il trono, né lo sgabello si possono interpretare nel senso estensivo del corpo che siede, perché quell’Essere infinito può afferrare e racchiudere nel pugno ciò che gli serve da sgabello e da trono. In tutte queste realtà create ab origine, dentro e fuori, si deve riconoscere Dio ad esse trascendente e insieme intimo, cioè circonfuso e infuso in tutte; infatti il palmo e il pugno che tutto contengono, manifestano il suo dominio esteriore sulla natura, invece il trono e lo sgabello manifestano che tutte le cose sono a lui soggette come ciò che è esterno a chi risiede nell’intimo. Cosí egli, nella sua completezza, tutto contiene in sé e fuori di sé perché, per la sua infinità, egli non è lontano da tutto, eppure tutte le cose sono esterne a lui,che è infinito.
In questi pensieri su Dio, tanto pregni di religiosità, l’animo mio – tutto preso dallo studio della verità – trovò il suo diletto… E questa nostra pia conoscenza fu poi chiaramente raffermata dal profeta che dice: Dove me ne andrò lontano dal tuo spirito, e dove fuggirò dal tuo volto? Se salgo in cielo, tu ci sei; se scendo nel profondo, anche lí sei presente. Se prendo le mie penne prima della luce e mi rifugio all’estremita del mare, anche lí mi conduce la tua mano e la tua destra mi stringe (Sal.138, 7-10). Non vi è luogo senza Dio, né luogo non in Dio. Egli è nei cieli, e nel profondo, è al di là dei mari. E’ presente nel loro intimo, li trascende all’esterno. Perciò egli ha, ed ha avuto; egli non è in qualcuno, ma a nessuno manca. »

Publié dans:Santi, santi scritti |on 13 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

Orazione dell’anima innamorata di Juan de la Cruz

dal sito:

http://www.carmelovocazioni.it/giovanni/testi.html

Orazione dell’anima innamorata di Juan de la Cruz

Mio Signore, mio amato, se non compi quello che io ti chiedo perché ancora ti ricordi dei miei peccati, fai pure, o Dio mio, riguardo ad essi la tua volontà, che è quanto io cerco di più; usa la tua bontà e misericordia e sarai conosciuto in essi. E se tu attendi le mie opere per concedermi ciò di cui ti prego, concedimele e compile tu e vengano pure le pene che tu desideri accettare da me, ma se tu non aspetti le mie opere, che cosa aspetti, o clementissimo mio Signore? Perché tardi? Se infine deve essere grazia e misericordia quella che ti chiedo nel tuo Figlio, accetta il mio piccolo contributo perché lo vuoi e concedimi questo bene, poiché vuoi anche questo.
Chi potrà mai liberarsi dal suo modo di agire e dalla sua condizione imperfetta, se tu, o Dio mio, non lo sollevi a te in purezza di amore?
Come si innalzerà a te l’uomo generato e cresciuto in bassezza, se tu o Signore, non lo sollevi con la mano con cui lo creasti?
Non mi toglierai, Dio mio, quanto una volta mi hai dato nel tuo unico Figlio Gesù Cristo, nel quale mi hai concesso tutto ciò che io desidero; perciò io mi rallegrerò pensando che tu non tarderai, se io attendo.
Perché indugi a lungo, potendo tu subito amare Dio dentro il tuo cuore?
Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie. Lo stesso Dio è mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto per me.
Che cosa chiedi dunque e che cosa cerchi, anima mia? Tutto ciò è tuo e tutto per te.
Non ti fermare in cose meno importanti e non contentarti delle briciole che cadono dalla mensa del Padre tuo.
Esci fuori e vai superba della tua gloria. Nasconditi in essa e gustala e otterrai quanto chiede il tuo cuore.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 14 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

14 dicembre, San Giovanni della Croce: Credere e amare anche se è notte

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/11-Dicembre/04-S_Giovanni_della_Croce.html

14 dicembre, San Giovanni della Croce: Dottore della Chiesa (1542-1591)

CREDERE E AMARE ANCHE SE E’ NOTTE

Nell’immaginario collettivo la grandezza di un uomo viene misurata e ammirata non solo per come ha saputo vivere la propria avventura umana, ma anche per il modo in cui ha affrontato le ore del supremo transito dagli affanni della vita mortale “all’altra riva” quella di Dio.
Il momento della propria morte: quello delle scelte definitive, cioè della “crisi” finale, che fa paura a tutti. Giovanni della Croce sul letto di morte, ai suoi confratelli che gli leggevano le preghiere dei moribondi, chiese qualcosa di più “allegro”: domandò espressamente qualche versetto del Cantico dei Cantici, un bellissimo e travolgente poema d’amore dell’Antico Testamento (che lui ben conosceva). Non andava forse incontro all’Amore?
Allora ci voleva qualcosa di più appropriato. Dopo la lettura Giovanni finì il cammino terreno pregando le parole “Nelle tue mani, Signore, affido, il mio spirito”. Cioè nelle mani di Dio Amore, per il quale era vissuto, aveva lavorato e sofferto, per quel Dio che lui aveva amato, predicato e cantato. Alcuni anni prima aveva scritto la poesia “Rompi la tela ormai al dolce incontro”. Ecco che cosa era la morte per lui: un “dolce incontro” con Dio Amore. Aveva 49 anni tutti spesi per Dio.
Numerosi sono i riconoscimenti avuti dai posteri. Prima cosa, e non è poco, è un Santo. Ma non solo: è Dottore della Chiesa (Dottore Mistico), cioè Maestro riconosciuto nelle cose di Dio. È un grande maestro di spiritualità valido ancora oggi. Ha anche il merito di essere stato un valido collaboratore di Teresa d’Avila (anch’essa Santa e Dottore della Chiesa) nella Riforma Carmelitana. Ma non basta. Per le sue poesie si è guadagnato un posto nella letteratura spagnola. È stato riconosciuto come “il più santo dei poeti spagnoli, e il più poeta dei Santi”.
Giovanni nacque a Fontiveros non lontano da Avila nel 1542 in una famiglia ricca di amore ma povera di mezzi materiali. È interessante notare il perché di tutto questo. Il padre, Gonzalo de Yepes, apparteneva ad una nobile e ricca famiglia di Toledo. Nei suoi viaggi d’affari incontrò Caterina, una tessitrice, orfana, povera e bella. Innamoratosi di lei, la sposò, per amore e contro la dura volontà dei parenti, ricchi, che per questo lo diseredarono. Gonzalo così diventò poverissimo, tanto che è Caterina stessa ad accoglierlo nella sua casetta, e ad insegnargli il mestiere di tessitore. Il loro matrimonio d’amore fu allietato dalla nascita di tre figli.
L’amore tra loro era grande, ma anche la povertà. Giovanni, il terzogenito, rimase presto orfano: Caterina dopo aver ricevuto uno sdegnoso rifiuto di aiuto dai parenti del marito, cercò lavoro a Medina del Campo, importante centro commerciale. Qui Giovanni fece i suoi primi studi e nello stesso tempo accettò di fare dei piccoli lavori: fu così apprendista sarto, falegname, intagliatore e pittore. Fece anche l’infermiere, sempre amorevole con i malati: in questo modo si pagava gli studi che contemporaneamente faceva nel collegio dei Gesuiti. Terminati brillantemente questi, nel 1563 entrò nell’Ordine Carmelitano: era ormai Fra Giovanni di San Mattia.

L’incontro con Teresa
Proprio per la sua intelligenza e la serietà di vita, i superiori lo inviarono a Salamanca, nella famosa Università. Qui Giovanni non solo crebbe nella conoscenza della filosofia e teologia, ma intensificò anche la propria vita spirituale, fatta di preghiera, di lunghe ore di contemplazione davanti al tabernacolo e di ascesi pratica. Si sentiva portato alla vita contemplativa ed è per questo che stava meditando di cambiare Ordine ed entrare tra i Certosini.
Ma poco prima di essere ordinato sacerdote, ecco l’incontro provvidenziale con una affascinante monaca carmelitana di nome Teresa di Gesù, di quasi trent’anni più di lui. Questa era una donna dalla forte personalità arrivata ormai alla piena maturità spirituale. Vi era giunta attraverso un lungo travaglio vocazionale e spirituale e proprio in quegli anni stava lavorando con successo alla riforma delle Carmelitane. In quel periodo stava anche pensando di estendere la riforma al ramo maschile dell’Ordine. Questo era molto importante per Teresa, perché gli uomini potevano legare la contemplazione del mistero di Dio alla missione. Potevano lavorare cioè non solo alla propria santificazione nel chiuso del convento ma anche per quella degli altri. Teresa espose a Giovanni il proprio progetto di riforma e gli chiese nello stesso tempo di soprassedere alla decisione di cambiare ordine. E questi accettò.
Nel 1568, Teresa finalmente riuscì a fondare il primo convento maschile, a Duruelo, presso Avila. Giovanni (che da questo momento si chiamerà Giovanni della Croce) iniziava così una forma di vita religiosa, condividendo con Teresa l’ideale di riforma della vita carmelitana. Anzi fu lei stessa a cucirgli il primo saio di lana grezza. Nascevano così i Carmelitani Scalzi.

In prigione a pane e acqua
Nel 1572, Teresa venne nominata priora del grande convento di Avila (non riformato), con 130 monache, alcune delle quali erano poco sante e molto turbolente. E volle accanto a sé per la loro rieducazione spirituale proprio Giovanni della Croce: confessore e direttore spirituale delle monache. I risultati spirituali furono brillanti grazie all’opera congiunta dei due santi riformatori. Ma nello stesso tempo, erano cresciuti anche i rancori e l’opposizione di alcuni carmelitani non riformati. C’era chi con il diavolo, molto interessato al naufragio del progetto, remava contro questa riforma. E ben presto si fecero sentire. Duramente e dolorosamente. Per un tragico intreccio fatto di incomprensioni, di giochi di potere, di dispute sulla giurisdizione religiosa, di ambizioni personali mascherate da argomenti teologici e difficoltà di comunicazione (lettere in ritardo).
Ma mentre Teresa (che aveva protettori molto in alto, addirittura in Filippo II) non venne toccata, la cattiveria umana si scatenò contro il povero Giovanni. Per ordine superiore, sotto l’accusa di essere un frate ribelle e disobbediente, fu arrestato e incarcerato in un convento a Toledo. Gli lasciarono in mano solo il breviario. Fu maltrattato, umiliato e segregato in un’angusta prigione, con poca luce e molto freddo. Nove mesi di prigione: a pane e acqua (e qualche sardina), con una sola tonaca che gli marciva addosso, con il supplemento di sofferenza (flagellazione) ogni venerdì nel refettorio davanti a tutti.
Divorato dalla fame e dai pidocchi, consumato dalla febbre e dalla debolezza, dimenticato da tutti. Ma non da Teresa (che protestò vigorosamente anche in alto, ma invano) e tanto meno da Dio. Sì Dio non solo non lo aveva dimenticato, anzi era sempre stato con lui, con la sua grazia. Giovanni sapeva che anche nella notte della prigione Dio era nel suo cuore, presentissimo in ogni istante.
E il miracolo avvenne. In una situazione che per molti versi e per molte persone poteva essere di collasso psico fisico e di naufragio spirituale, Giovanni della Croce (possiamo immaginare per un “input” dall’alto) compose, con materiale biblico, le più calde e trascinanti poesie d’amore, ricche di sentimenti, di immagini e di simboli. Vivendo in Dio e di Dio anche in quelle circostanze, egli attingeva così a Lui, fonte perenne di ogni novità e creatività, “anche se attorno era notte”.

Maestro di vita spirituale
Alla vigilia dell’Assunta del 1578, fuggì coraggiosamente dal carcere, rischiando seriamente la vita, qualora fosse stato preso.
Le sofferenze inaudite di 9 mesi di carcere non furono vane. Infatti, due anni dopo, i Carmelitani Scalzi ottennero il riconoscimento da Roma, che significava autonomia. Giovanni della Croce era finalmente libero di espletare il suo ministero con tutte le sue qualità di cui era dotato, influendo positivamente tutti: confratelli e monache Carmelitane (e molti laici) che lo conobbero o che lo ebbero come superiore o come confessore e direttore spirituale, negli anni seguenti fino alla morte.
Fu inviato anche al sud della Spagna, in Andalusia, dove il clima, la natura, l’assenza di contrasti e il successo della riforma di Teresa di Gesù (e sua) gli diedero il tempo e l’ispirazione per comporre la maggior parte delle opere di spiritualità, tanto da farne uno dei grandi maestri nella Chiesa.
Tra i suoi scritti ricordiamo, oltre il già citato Cantico Spirituale in poesia, la Salita al Monte Carmelo e la Notte Oscura. Pur avendo una solida formazione filosofica e teologica (il che lo aiutava certamente), ciò che Giovanni ha scritto non è tanto il risultato di sistematiche ricerche in biblioteca quanto il frutto della propria esperienza ascetica e spirituale.

Due tappe per crescere
È stato ed è un maestro di mistica perché fu lui stesso, nelle vicende gioiose e tristi della sua vita, un mistico. La fatica della salita del monte del Signore e la notte oscura delle difficoltà spirituali in questa aspra ascesa Giovanni le conosceva per esperienza. Ora, da essa arricchito e maturato, la proponeva agli altri, a noi.
Per Giovanni della Croce l’uomo è essenzialmente un essere in cammino, in perenne ricerca: di Dio naturalmente, essendo stato fatto da Lui e per Lui. Questo ritorno verso Dio egli lo immagina come la salita di una montagna, il Monte Carmelo, che rappresenta simbolicamente la vetta mistica, cioè Dio stesso nel suo amore e nella sua gloria. Per arrivare alla meta che è l’unione d’amore trasformante con Dio (o santità cristiana) l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza le due fasi o tappe, della educazione dei sensi (notte dei sensi) e del rinnovamento del proprio spirito (notte dello spirito) ambedue esperienze misteriose e dolorose di spoliazione interiore.
Con la notte dei sensi (attraverso un duro ed esigente impegno ascetico) l’anima si libera dall’attaccamento disordinato catturante e spiritualmente paralizzante delle cose sensibili, dal modo di giudicare e di scegliere basati sul proprio egoismo e sul proprio interesse immediato, sull’utilitarismo quotidiano nei rapporti interpersonali, sulle comodità di ogni genere e sull’abbondanza superba e gaudente. L’uomo dei sensi e quello totalmente prigioniero di un’unica prospettiva, quella terrena, difficilmente capirà le esigenze di Dio e del Vangelo.
Con la notte dello spirito invece ci si affranca dalle false certezze e dai falsi assoluti della propria intelligenza, affidandosi così totalmente e liberamente a Dio, attraverso l’esercizio delle virtù teologali, quali la fede e la speranza in Cristo, e la carità verso Dio e il prossimo. Si tratta del passaggio doloroso e lungo tanto che può durare tutta la vita dall’uomo “vecchio” all’uomo “nuovo”, da quello “terreno” a quello “spirituale”, da quello mosso dall’egoismo (la carne) a quello sospinto e motivato dallo Spirito, di cui parla San Paolo: un morire per rinascere in Cristo.
Farsi nulla per Dio per essere tutto in Lui
Giovanni della Croce parla di rinunce, di lasciare tutto, di nulla (quali sono le cose rispetto a Dio), di salita, di notte oscura, tutta una terminologia che caratterizza la vita spirituale secondo lui come un lavoro (di auto correzione e autocontrollo nelle proprie azioni e decisioni), un impegno serio, una fatica dura, una ascesi costosa, graduale e continua… che non si può realizzare dall’oggi al domani. Giovanni della Croce non comprende (e scoraggia) quelli che “scalpitano tanto… che vorrebbero essere santi in un giorno”. Non è possibile. Allora come oggi. Egli afferma che se l’anima vuole il Tutto (Dio), deve impegnarsi a lasciare tutto e a voler essere niente:
“Per giungere dove non sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.
Naturalmente per Giovanni la parola più importante in questo discorso spirituale non è rinuncia ma amore. Per lui non si tratta tanto di lasciare o rinunciare a qualcosa ma di amare Qualcuno. Egli invita a lasciare amori piccoli per un amore più grande anzi per l’Amore Totale che è Dio Trinità. Amore è la parola decisiva: amore di Dio per noi, amore della creatura per Dio, visto come risposta alla nostra ricerca di amore, fino a consumarsi nel Dio Amore (unione sponsale o mistica). E Giovanni della Croce si è consumato nell’amore per Dio Amore fino alla fine che arrivò il 14 dicembre 1591 in Andalusia, a Ubeda.
Ad una monaca che gli aveva scritto accennando alle difficoltà che egli aveva sofferto rispose:
“Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore”.
 Un consiglio decisamente valido ancora oggi, per tutti.

  MARIO SCUDU sdb

 Anche se è notte
Quella eterna fonte sta nascosta, ma so ben dove sgorga anche se è notte.
La sua origine non so, poiché non l’ha, ma so che ogni origine da lei viene, anche se è notte.
So che non può esserci cosa tanto bella e che in cielo e terra bevono di quella, anche se è notte.

Ben so che in lei il suolo non si trova e che nessuno la può attraversare, anche se è notte.
Quella eterna fonte sta nascosta in questo vivo pane per darci vita, anche se è notte.

Qui si sta, chiamando le creature, perché di quest’acqua si sazino, in forma oscura, anche se è notte.
Questa viva fonte che io desidero in questo pane di vita la vedo, anche se è notte.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 14 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

Fate penitenza (San Clemente I papa)

dal sito:

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010228_clemente-i_it.html

SAN CLEMENTE PAPA

Fate penitenza

« Teniamo fissi gli occhi sul sangue di Cristo, per comprendere quanto sia prezioso davanti a Dio suo Padre: fu versato per la nostra salvezza e portò al mondo intero la grazia della penitenza.
Passiamo in rassegna tutte le epoche del mondo e constateremo come in ogni generazione il Signore abbia concesso modo e tempo di pentirsi a tutti coloro che furono disposti a ritornare a lui.
Noè fu l’araldo della penitenza e coloro che lo ascoltarono furono salvi.
Giona predicò la rovina ai Niniviti e questi, espiando i loro peccati, placarono Dio con le preghiere e conseguirono la salvezza. Eppure non appartenevano al popolo di Dio.
Non mancarono mai ministri della grazia divina che, ispirati dallo Spirito Santo, predicassero la penitenza. Lo stesso Signore di tutte le cose parlò della penitenza impegnandosi con giuramento: Com’è vero ch’io vivo – oracolo del Signore – non godo della morte del peccatore, ma piuttosto della sua penitenza.
Aggiunse ancora parole piene di bontà: Allontànati, o casa di Israele, dai tuoi peccati. Di’ ai figli del mio popolo: Anche se i vostri peccati dalla terra arrivassero a toccare il cielo, fossero più rossi dello scarlatto e più neri del silicio, basta che vi convertiate di tutto cuore e mi chiamiate « Padre », ed io vi tratterò come un popolo santo ed esaudirò la vostra preghiera (cfr. Ez 33, 11; Os 14, 2; Is 1, 18, ecc.).
Volendo far godere i beni della conversione a quelli che ama, pose la sua volontà onnipotente a  sigillo della sua parola.
Obbediamo perciò alla sua magnifica e gloriosa volontà. Prostriamoci davanti al signore supplicandolo di essere misericordioso e benigno. Convertiamoci sinceramente al suo amore. Ripudiamo ogni opera di male, ogni specie di discordia e gelosia, causa di morte. Siamo dunque umili di spirito, o fratelli. Rigettiamo ogni sciocca vanteria, la superbia, il folle orgoglio e la collera. Mettiamo in pratica ciò che sta scritto. Dice, infatti, lo Spirito Santo: Non si vanti il saggio della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco delle sue ricchezze, ma chi vuol gloriarsi si vanti nel Signore, ricercandolo e praticando il diritto e la giustizia (cfr. Ger 9, 23-24; 1 Cor 1, 31, ecc.).
Ricordiamo soprattutto le parole del Signore Gesù quando esortava alla mitezza e alla pazienza: Siate misericordiosi per ottenere misericordia; perdonate, perché anche a voi sia perdonato; come trattate gli altri, così sarete trattati anche voi; donate e sarete ricambiati; non giudicate, e non sarete giudicati; siate benevoli, e sperimenterete la benevolenza; con la medesima misura con cui avrete misurato gli altri, sarete misurati anche voi (cfr. Mt 5, 7; 6, 14; 7, 1. 2. 12, ecc.).
Stiamo saldi in questa linea e aderiamo a questi comandamenti. Camminiamo sempre con tutta umiltà nell’obbedienza alle sante parole. Dice infatti un testo sacro: Su chi si posa il mio sguardo se non su chi è umile e pacifico e teme le mie parole? (cfr. Is 66, 2).
Perciò avendo vissuto grandi e illustri eventi corriamo verso la meta della pace, preparata per noi fin da principio. Fissiamo fermamente lo sguardo sul Padre e Creatore di tutto il mondo, e aspiriamo vivamente ai suoi doni meravigliosi e ai suoi benefici incomparabili. »

Dalla « Lettera ai Corinzi » di san Clemente I, papa (Cap. 7, 4-8, 3; 8, 5-9, 1; 13, 1-4; 19, 2; Funk 1, 71-73. 77-78, 87)

Publié dans:Papi, santi scritti |on 22 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

San Francesco d’Assisi : Saluto alle Virtù

dal sito:

http://www.webalice.it/paolorodelli/Francescochiara/laud000.htm#virtu

San Francesco d’Assisi

Saluto alle Virtù

256 1 Ave, regina sapienza,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa e pura semplicità.
2 Signora santa povertà,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa umiltà.
3 Signora santa carità,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa obbedienza.
4 Santissime virtù,
voi tutte salvi il Signore
dal quale venite e procedete.

257 5 Non c’é assolutamente uomo nel mondo intero,
che possa avere una sola di voi,
se prima non muore [a se stesso].
6 Chi ne ha una e le altre non offende,
tutte le possiede,
7 e chi anche una sola ne offende
non ne possiede nessuna e le offende tutte (Cfr. Gc 2,10).
8 e ognuna confonde i vizi e i peccati.

258 9 La santa sapienza
confonde Satana e tutte le sue insidie.
10 La pura santa semplicità
confonde ogni sapienza (Cfr. 1Cor 2,6; 3,19) di questo mondo
e la sapienza della carne.
11 La santa povertà
confonde la cupidigia, l’avarizia
e le preoccupazioni del secolo presente (Cfr. Mt 13,22).
12 La santa umiltà
confonde la superbia
e tutti gli uomini che sono nel mondo
e similmente tutte le cose che sono nel mondo.
13 La santa carità
confonde tutte le diaboliche e carnali tentazioni
e tutti i timori carnali.
14 La santa obbedienza
confonde tutte le volontà corporali e carnali
e ogni volontà propria,
15 e tiene il suo corpo mortificato per l’obbedienza
allo spirito e per l’obbedienza al proprio fratello;
16 e allora l’uomo é suddito e sottomesso
a tutti gli uomini che sono nel mondo,
17 e non soltanto ai soli uomini,
ma anche a tutte le bestie e alle fiere,
18 così che possano fare di lui quello che vogliono
per quanto sarà
loro concesso dall’alto del Signore (Cfr. Gv 19,11).

Teresa d’Avila: solo Dio basta

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=127726

Teresa d’Avila: solo Dio basta

“Mi sembrava che Gesù mi camminasse sempre a fianco… Sentivo chiaramente che mi stava sempre al lato destro”. Le esperienze soprannaturali di cui Cristo la fece partecipe, sono state anche la fonte e l’ispirazione costante e originale delle opere che scrisse. Fu il confessore, saggiamente, ad ordinarglielo. Non senza resistenza ella obbedì. Disse infatti: “Perché vogliono che io scriva? Lo facciano i dotti, io sono ignorante…”.
          Uno degli stereotipi antifemminili più conosciuti e più duri a morire è quello della chiacchiera come caratteristica peculiare della donna. Lo scrittore Oscar Wilde, con il suo fine umorismo, disse che queste chiacchiere sono anche vuote: “Le donne non hanno niente da dire, ma lo sanno dire molto bene”.
          Ma una donna che ha ancora tanto da dire e molto bene a tutta la Chiesa è Santa Teresa d’Avila, vissuta nel 1500 ma oggi viva più che mai in primo luogo attraverso la sua santità così originale e coinvolgente, poi come Riformatrice del Carmelo e come scrittrice di opere di vita spirituale. Era stata canonizzata già nel 1622 insieme a Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Filippo Neri (come si vede in buona e santa compagnia!) ma il titolo di Dottore della Chiesa, prima donna nella storia, le arrivò solo nel 1970 quando Paolo VI la dichiarava “Maestra” per tutti i cristiani. È una donna che bisogna lasciar parlare e che bisogna ascoltare con attenzione: nel nostro rapporto con Dio e nel nostro cammino verso di Lui (orazione) Teresa è una vera maestra, esperta e credibile perché parla per esperienza vissuta.
Un grande riconoscimento le è venuto anche da Giovanni Paolo II nella sua famosa Lettera alle Donne (1995).
          Andando al di là di ogni stereotipo antifemminile il Papa ha scritto: “La storia della Chiesa, in questi due millenni, nonostante tanti condizionamenti, ha conosciuto «il genio della donna», avendo visto emergere nel suo seno donne di prima grandezza (…)” e cita Santa Caterina da Siena e Santa Teresa d’Avila. E Teresa è stata veramente oltre che una grande santa, una donna geniale per quello che ha fatto e per come e quando lo ha fatto.

Io desidero tutto con passione
          Teresa de Ahumada y Cepeda nacque ad Avila nel 1515 in una famiglia numerosa, ricca di fede cristiana e di mezzi materiali. La sua infanzia fu pia e felice (“ero la più amata da mio padre”) piena di buoni esempi e di pie letture. Ancora bambina, insieme al fratello Rodrigo, era affascinata dall’idea di eternità del Paradiso (e dell’inferno) e i due amavano ripetere, quasi come un gioco: “C’è una vita che è per sempre, per sempre, per sempre”. Quel brivido di eternità che dava loro la ripetizione della parola “sempre” fece venire a Teresa l’idea della rapida conquista del Paradiso eterno attraverso il martirio, fino a convincere il fratellino a “fuggire” di casa per andare nella “la terra dei Mori”.
          La prospettiva del Paradiso durò solo pochi chilometri perché uno zio li riconobbe per strada e ricondusse a casa i due giovanissimi aspiranti martiri. La “scusa” (e quasi la sfida) di Teresa davanti ai genitori fu: “Io volevo andare a vedere Dio”. Già questo piccolo episodio ci fa capire un po’ della sua personalità: agirà sempre in tutto con profonda convinzione (“Quello che io desidero lo desidero con passione”) e nella vita avrà sempre un grande ascendente sugli altri fino ad essere una vera trascinatrice di persone. Oggi si direbbe che era una vera “leader”. A 12 anni perse la sua cara mamma terrena, Beatrice, e cercò rifugio e conforto, come lei scrisse, nella mamma celeste, la Madonna.
          Teresa adolescente era una ragazza carina e affascinante, dotata, come lei stessa confessò, della grazia di piacere alla gente. Andava matta per i bei vestiti (oggi si direbbe gli abiti firmati), i gioielli, i profumi, le letture di romanzi cavallereschi ed il contorno di amici adoranti. Coltivò insomma le normali frivolezze e vanità adolescenziali, condite con una buona dose di romanticismo.
          Arrivata a 20 anni, diede una prima grande svolta alla propria vita: dopo grave malattia e lungo travaglio spirituale decise di entrare nel convento dell’Incarnazione ad Avila. Il padre si oppose al progetto ed allora Teresa decise di scappare di casa (1535). Nel convento carmelitano dell’Incarnazione le monache conducevano una vita religiosa piuttosto tranquilla e rilassante: le parole come disciplina, penitenza, rinuncia non godevano molta fortuna, anche perché ciascuna in convento conservava lo stato sociale che aveva fuori, per cui se una era ricca… E le monache di famiglie nobili e ricche erano più di una. Anche Teresa visse in una relativa comodità questa prima esperienza religiosa.

Superare la depressione
          Poco dopo dovette affrontare un altro lungo periodo di malattia che la portò ad una forma di paralisi grave. Durante questo tempo lesse uno libro famoso dal titolo “La terza parte dell’alfabeto spirituale”. Fu per lei una vera introduzione e una guida alla preghiera mentale e contemplativa.
Superata la lunga malattia, Teresa ritornò gradualmente alla vita di prima comoda, rilassata, un po’ mondana e piena di distrazioni. Arrivò anche ad abbandonare la pratica della preghiera mentale. Motivo? Si sentiva indegna davanti a Dio, e poi avvertiva un certo senso di frustrazione.
In seguito, dietro consiglio del confessore, riprese la pratica della preghiera, anche se per alcuni anni rimase per lei ancora difficile e pesante. Ecco le sue parole:
          “Avrei fatto più volentieri una qualsiasi pur dura penitenza (…) piuttosto che praticare il raccoglimento come atto preliminare della preghiera (…). Mi sentivo così depressa che dovevo raccogliere tutto il mio coraggio per costringermi a pregare”.
          Teresa questa volta perseverò, nonostante gli apparenti insuccessi.
Fu un altro confessore (la maggior parte però non la capirono) a suggerirle, nell’esame di coscienza, a puntare più che sui peccati o sulle distrazioni avute, sul bene che questa sua resistenza alle grazie di Dio le impediva di fare. Teresa aveva cominciato a capire che Dio le chiedeva tutto, non il primo posto nei suoi affetti e interessi ma l’unico, (“con tutto il cuore” dice il Vangelo).

Donna di contemplazione e di azione
          L’episodio decisivo per la sua seconda e definitiva conversione fu davanti ad un Crocifisso piagato. Ecco Teresa stessa: “Appena lo guardai… fu così grande il dolore che provai, la pena dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore che mi parve che il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime e lo supplicai di farmi la grazia di non offenderlo più”. Era la svolta decisiva e definitiva, profonda e duratura: Cristo al centro di tutto, dei suoi affetti e pensieri, del suo tempo di preghiera e di azione, del suo vivere e morire. Teresa aveva allora 39 anni (1554). Conquistata da Lui, come Maria Maddalena, come San Paolo e Sant’Agostino, santi che le erano molto cari.
          Proprio in questi anni (e in seguito) Teresa cominciò ad avere numerose visioni, esperienze soprannaturali, voci, estasi e fenomeni mistici esaltanti e travolgenti, che la resero celebre già in vita, e che furono la sorgente della sua forza indistruttibile dispiegata negli anni seguenti durante la grande impresa della riforma del Carmelo (primo convento riformato nel 1562). Questa riforma ella l’attuò con coraggio e con intelligenza, con molto buon senso e con tanta santa furbizia, nonostante innumerevoli difficoltà frapposte dalle monache che doveva riformare, dai Carmelitani Calzati che non ne volevano sapere (farsi riformare da una donna!), dai superiori dell’Ordine (fu definita “donna inquieta e vagabonda”) e da parte della gerarchia ecclesiastica.
          Inutile ricordare e nessuno si meraviglia che anche il diavolo, come suo mestiere, ha sempre remato contro di lei e la sua opera. Soffrì tantissimo (non solo per le proprie malattie) per questa sua opera di fondatrice o riformatrice del Carmelo, ma in tutto era sostenuta dal Cristo, che era la sua guida e il suo conforto, la sua forza e la sua garanzia. Quando le tolsero alcuni libri di devozione (si percepiva l’ombra lunga e minacciosa dell’Inquisizione) Cristo stesso le disse: “Non aver paura, Teresa. Io sarò il tuo libro vivente”. Gesù le era sempre presente, in ogni azione e pensiero, in convento e durante i viaggi, sempre e dovunque. Gesù era tutta la sua vita, la riempiva completamente: con Lui aveva un rapporto di dialogo totale, di amicizia profonda, di comunione d’amore fino allo stato di unione mistica (1572) o sponsale. Ancora Teresa:
          “Mi sembrava che Gesù mi camminasse sempre a fianco… Sentivo chiaramente che mi stava sempre al lato destro, testimone di ciò che facevo e mai potevo dimenticare, se appena mi raccoglievo un pochino o non ero molto distratta, che Lui era accanto a me”.

Teresa Maestra di preghiera
          Queste esperienze soprannaturali di cui Cristo la fece partecipe, sono state anche la fonte e l’ispirazione costante e originale delle opere che scrisse. Ma a differenza di Giovanni della Croce, (anch’egli Dottore della Chiesa, amico, confessore, direttore spirituale e suo sostenitore nella riforma dei Carmelitani, dal 1567 in poi) che aveva studiato filosofia e teologia all’Università di Salamanca, Teresa non voleva scrivere, perché non si sentiva all’altezza.
          Fu il confessore, saggiamente, ad ordinarglielo. Non senza resistenza ella obbedì. Disse infatti: “Perché vogliono che io scriva? Lo facciano i dotti, quelli che hanno studiato: io sono ignorante…”. Quindi il suo è un magistero frutto non di studi universitari o di approfondite e faticose ricerche in biblioteca, ma è di chiara provenienza trascendente, grazie ai lunghi e continui “input” dall’alto attraverso le esperienze soprannaturali. Scrivendo metteva in pratica il Contemplata aliis tradere della tradizione medievale: aveva contemplato in profondità il mistero di Dio ora ne faceva dono agli altri.
          Abbiamo così un trittico di opere teresiane ancora oggi di assoluto valore spirituale: la Vita (o Autobiografia, la cui lettura aiutò Edith Stein nella sua conversione al Cattolicesimo e a diventare monaca carmelitana), il Cammino di perfezione e il Castello interiore, oltre a molte Lettere.
Teresa è conosciuta non come Maestra di Teologia (vedi Tommaso d’Aquino) ma come Maestra di preghiera.
          “Dov’è Teresa il discorso sulla preghiera è inevitabile. La preghiera in lei diventa storia, narrativa, racconto, esperienza. Ed è questa la caratteristica più tipica del suo magistero” (Card. Anastasio Ballestrero, carmelitano).
          La prima caratteristica della orazione, secondo Teresa, è di essere una realtà dinamica: pregare è iniziare una lunga avventura alla ricerca di Dio, un lungo cammino di comprensione dell’amore inesauribile del Cristo per ciascuno di noi (l’accettare di essere amati da Lui e di sentirlo al nostro fianco giorno e notte) e di amore al Cristo nei fratelli e nelle sorelle della Chiesa. Per cui pregare seriamente ogni giorno equivale a incominciare e a progredire nel cammino della santità, alla sequela di Cristo per la salvezza della Chiesa e del mondo.
La preghiera, inoltre, deve essere affettiva: più che di pensiero deve essere sostanziata di amore, più che da idee partorite dall’intelletto deve essere vivificata da mozioni zampillanti dal cuore. È questo il significato della più famosa definizione della preghiera che lei ci ha lasciato: è un dialogo “un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo di essere amati”.
          Nella prospettiva di Teresa la preghiera poi deve essere bibliocentrica, cristocentrica ed ecclesiocentrica. Per nutrire il tempo della nostra orazione non c’è pane più nutriente che quello dalla Parola di Dio specialmente dei Vangeli dove il protagonista è Cristo, sospiro e desiderio dell’anima. Secondo lei non si può conoscere e amare Cristo (prospettiva cristocentrica) senza amare la Chiesa, che è il suo corpo (prospettiva apostolica ecclesiale). Una delle sue frasi celebri recita: “L’amore vuole le opere”. Teresa non fu estranea al grande movimento di riforma della Chiesa del 1500 (ricordiamo Lutero e Calvino). A spronare la sua azione fu il Concilio di Trento e l’aver conosciuto ben tre santi: il gesuita Francesco Borgia, il riformatore francescano Pietro d’Alcantara che la consigliò e diresse nella riforma del Carmelo, e Giovanni della Croce.
          E questo amore che riempiva il cuore di Teresa le fece intraprendere la grande impresa riformatrice di una parte della Chiesa che era l’Ordine Carmelitano (16 nuovi monasteri riformati grazie a lei) che la impegnarono, tra tante difficoltà, fino alla fine della vita. Questa arrivò verso le nove di sera del 4 ottobre del 1582: il suo volto diventò luminosissimo, Teresa mentre stringeva forte il Crocifisso, mormorò “Signore, mio Amore, è giunta l’ora che ho tanto desiderato. È ormai tempo che ci vediamo”, così finì il suo cammino terreno parlando e sorridendo a Qualcuno che lei aveva sentito accanto a sé per tanti anni: Gesù Cristo, il suo Amore.                                                                               
——————————————————————————–
10 pensieri di Teresa
 1 L’amore vuole le opere.
 2 Non abbandonate mai la preghiera.
 3 Quando desidero qualcosa lo desidero con passione.
 4 Tutto è perduto se non permettiamo a Dio di agire in noi. Non siamo noi che andiamo verso Dio, è Lui che ci porta nel suo cuore.
 5 Una suora malinconica contamina tutto il convento.
 6 Dio è presente anche in mezzo alle pentole.
 7 Tutto ci può mancare, ma Tu, Signore di tutto, non ci mancherai mai.
 8 Dio non vizia le anime, più le ama e più fa loro percorrere la via della Croce.
 9 Sulla preghiera: “Chi ha cominciato a fare orazione non pensi più di tralasciarla, malgrado i peccati in cui avvenga di cadere. Con l’orazione potrà presto rialzarsi, ma senza di essa sarà molto difficile. Non si faccia tentare dal demonio a lasciarla per umiltà, come ho fatto io, e si persuada che la parola di Dio non può mancare”.
10 Nel coraggio non siate donne ma uomini forti… anzi da far paura agli stessi uomini (…). Qui rinchiuse lottiamo per Cristo… Siamo venute a morire per lui (Teresa alle sue monache).

(Teologo Borèl) Luglio 2011 – autore: Mario Scudu

Publié dans:meditazioni, Santi, santi scritti |on 4 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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